Gli interessi periferici del Cremlino nel continente africano iniziarono durante la Guerra Fredda. A partire dalla seconda metà degli anni ‘50, l’Unione Sovietica si è impegnata attivamente nel rimodellare il panorama politico del continente, concedendo generosi programmi di assistenza economica e militare a numerosi gruppi locali marxisti, anti-coloniali e/o anti-occidentali. Dopo il crollo dell’URSS, nel 1991, questi legami si indebolirono, per poi riprendere vigore col progressivo deteriorarsi dei rapporti tra Russia ed Occidente.
Oggi, l’impegno militare di Mosca in Africa non si misura sulle relazioni bilaterali ufficiali (per esempio, gli export di armamenti), bensì attraverso la cooperazione militare informale con i Paesi più ricchi, instabili e strategicamente contesi del continente: i Paesi del Sahel.
Sahel, una polveriera nel deserto
Per “Sahel” si intende la vasta fascia del Sahara meridionale che unisce l’oceano Atlantico al Mar Rosso, attraversando 12 Paesi: la sua “regione politica”, così come è stata definita dalle Nazioni Unite, comprende 10 Stati: Senegal, Gambia, Mauritania, Guinea, Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad, Camerun e Nigeria (1) .
Nel 2023, secondo quanto riportato dall’Institute for Economics and Peace (IEP) nel Global Terrorism Index 2024, il Sahel ha registrato il 47% delle morti per terrorismo a livello globale. Il Burkina Faso è stato il paese più colpito al mondo, registrando quasi 2.000 morti a seguito di 258 attentati. Si tratta di un quarto delle morti totali per terrorismo, in un solo Paese. Nell’intera regione, si stima che il terrorismo sia incrementato di più del 2.000% in poco più di quindici anni. Basti pensare che tra i 20 attentati più letali del 2023, 13 sono avvenuti nel Sahel: 7 in Burkina Faso, 2 in Mali, 2 Niger e 2 in Nigeria, tutti ad opera dello Stato Islamico (IS/ISWA) o del gruppo jihadista affiliato ad al-Qaeda “Jamaat Nusrat Al-Islam wal Muslimeen” (JNIM).