Chernobyl: Oltre le Radiazioni

Per l’anniversario della catastrofe nucleare del 26 aprile si è voluto organizzare questo incontro con l’intento di informare e ricostruire, non solo a livello scientifico e storico gli avvenimenti di Chernobyl, o meglio Čornobyl’, in ucraino, ma anche quello di dare spazio alla voce di chi ha vissuto nella regione.

Mettendo in risalto le conseguenze che l’incidente ha avuto a livello biologico e culturale sull’intera regione. Grazie agli interventi di: Francesca Gorzanelli, fotoreporter ed autrice del progetto “Diario di un viaggio a Chernobyl”, Olena Pareniuk, ricercatrice esperta delle conseguenze sulla biologia del territorio, Luca Romano, divulgatore scientifico che ci spiegherà gli aspetti più tecnici di come sia potuto accadere tale disastro facendo chiarezza su alcune percezioni socialmente diffuse e, infine, Anna Mosiychuk ed Anna Pavliv che ci parleranno degli effetti che questo evento ha avuto sulla cultura e sull’arte Ucraina, approfondiremo vari aspetti di una vicenda che ha segnato la storia.


Intervento Francesca Gorzanelli

La centrale nucleare chiamata Čornobyl’, in riferimento alla cittadina storica esistente già dal 1200, il cui vero nome in realtà era centrale nucleare di Vladimir Il’ič Lenin, in onore di Lenin, fu collocata nella città di Pryp’’jat’, costruita appositamente per ospitare i lavoratori della centrale insieme alle loro famiglie, con l’obiettivo di dare vita alla città dell’atomo che poi sarebbe servita ad ospitare le centrali nucleari più grandi d’Europa tra cui appunto quella che esplose la sera fra il 25 e il 26 aprile durante un test di controllo. 

La cittadina di Pryp’’jat’ era abitata da circa 25.000 persone, tutte, più o meno, addestrate ad un possibile problema nucleare: gli stessi bambini imparavano a scuola come proteggersi, a dimostrazione che il fatto di vivere a 3 km da una centrale nucleare non veniva preso sotto gamba.  Il punto sta nel fatto che il partito a capo dell’Unione Sovietica decise di non dichiarare cosa fosse accaduto nella centrale e non venne dato nessun allarme specifico alla popolazione.

L’Europa e gli Stati Uniti lo scoprirono attraverso altre vie, grazie a diversi controlli satellitari, inoltre i TG in Italia lasciarono supporre che il problema alla centrale nucleare fosse stato causato dall’esplosione di un missile, insomma il periodo storico in cui avvenne l’incidente (1986), ovvero in piena Guerra Fredda, creò molte tensioni. 

Tornando alla ricostruzione degli avvenimenti, la mattina post incidente le persone continuarono a fare ciò che avevano sempre fatto, si andò a scuola ed a lavoro anche se in alcune persone il sospetto che fosse successo qualcosa era presente, al punto che alcuni si misero in sicurezza autonomamente.

Passò un giorno e mezzo dopodichè fu dato l’ordine di evacuazione, nel mentre le persone furono esposte alle radiazioni, ed il 27 aprile furono avviate le misure di sicurezza senza, però, specificare la gravità della situazione. L’ordine di evacuazione prevedeva che le persone dovevano preparare il minimo indispensabile per stare via 2-3 giorni, portare dietro documenti, chiudere il gas nelle case e lasciare gli animali domestici all’interno e chiusi a chiave. Da quel giorno, invece, nessuno tornò mai più a casa. 

Le persone furono caricate su autobus per poi essere dislocate in tutta l’Ucraina. Dal punto di vista umano, questo evento non ha precedenti: dover lasciare la propria dimora per sempre a causa di un evento catastrofico non visibile all’occhio umano fu molto difficile da accettare, in quanto, un conto è dover evacuare dopo un terremoto o dopo un’alluvione in cui sia visibile la distruzione ed il pericolo sia distintamente percepito e ci si renda conto di come si debba mettersi in salvo, un altro quanto manifesto alla popolazione di Pryp’’jat’, che non vide nulla, non percepì nulla. Erano solo a conoscenza di come ci fosse stato un incendio, ma compresero il perché dell’evacuazione. Per le persone fu un evento traumatico, furono strappate improvvisamente dalle loro vite, senza possibilità di ritorno.

Come ti sei avvicinata a questo tema e che cos’è il progetto di cui ti occupi?
Sono arrivata in Ucraina per la prima volta nel 2015 senza un progetto specifico: mi occupavo di fotografia di luoghi abbandonati raccontando, contemporaneamente, sul mio blog le storie dei luoghi sia in Italia che in Europa. Quando scoprii che fosse possibile visitare Pryp’’jat’, non esitai. Arrivai in Ucraina con un bagaglio di preconcetti che furono smentiti: tutto quello che conoscevo dell’Ucraina e della sua cultura era sbagliato. L’obiettivo era quello di raccontare le storie di abbandono ma era una prospettiva molto limitante perché c’era un’intera cultura da spiegare. 

C’erano storie di persone che avevano dovuto ricominciare completamente la loro vita altrove o di persone tornate a vivere in quei luoghi abbandonati, nonostante il divieto del governo motivato dai relativi pericoli sanitari, piuttosto che accettare di vivere in altre città dove spesso venivano stigmatizzati come appestati od emarginati.

La storia di questo disastro si porta dietro tanta ignoranza, nel senso che tante cose all’epoca non si sapevano e abbiamo dovuto impararle con il tempo: dato che Chernobyl è un museo a cielo aperto e un luogo di studio sugli effetti delle radiazioni tante cose si sono scoperte con il passare del tempo. Per esempio, in quel periodo si pensava che le persone evacuate potessero portare malattie e venivano di conseguenza isolate.

Il progetto “Diario di un Viaggio a Chernobyl” nasce appunto da questa esigenza, raccontare e divulgare. Per esempio, il 26 aprile è anche l’anniversario del matrimonio di Irina e Sergey, gli ultimi sposi di Pryp’’jat’ che riuscirono a celebrarlo seppur in un contesto di tensione: molti degli invitati erano preoccupati perché qualcuno che lavorava nella centrale preannunciava l’evacuazione e che il disastro fosse più grave di quanto ammesso dalle autorità. La particolarità del matrimonio deriva dal fatto che doveva essere una cerimonia analcolica per aderire all’idea propagandistica del nuovo uomo sovietico, libero dall’alcol (piaga sociale dell’epoca), ma alla fine non fu così: si trasformò invece in un matrimonio alcolico per colpa della grande e diffusa preoccupazione riguardo alla centrale nucleare. 

Purtroppo, con la guerra è ovviamente tutto fermo e chiuso ma l’idea è quella di espandere il progetto di divulgazione a tutta l’Ucraina ed alla sua cultura. Un fatto simbolicamente importante recente è la rimozione della statua di Lenin dalla zona di esclusione, zona in cui non era mai stato toccato nulla in quanto area soggetta al disastro nucleare ma, in conseguenza dell’invasione Russa, anche gli ultimi simboli dell’Unione Sovietica nell’area sono stati rimossi.

Foto di Francesca Gorzanelli

Intervento Olena Pareniuk

Che effetti ha avuto la catastrofe di Čornobyl’ su animali, piante, microbi e funghi della zona?
Sembrerà strano, ma gli effetti sono stati meno gravi di quello che ci si potrebbe aspettare: all’inizio si attendevano cambiamenti drastici negli ecosistemi, ma di fatto non fu così, pur essendoci alterazioni genetiche nelle popolazioni di piante, animali e microrganismi nella zona di alienazione. 

L’effetto maggiore è stato causato dall’allontanamento dell’uomo da queste zone, le piante e gli animali stanno meglio rispetto ad altre parti: è stato infatti creato il parco naturale di Čornobyl’, di cui ne esiste uno analogo anche in Bielorussia; entrambi prima della guerra erano considerati i parchi con la biosfera già grande d’Europa.

Com’è cambiata la zona di alienazione in 38 anni?
È stata trasformata in un parco naturale, diviso in due parti. Una di esse, con un nucleo di 10km, è il cuore della zona, ma che non fa parte del parco, dove è sito l’impianto di stoccaggio centralizzato del combustibile nucleare esaurito di tutte le centrali nucleari ucraine, esclusa la centrale di Zaporižžja che ha un proprio sito di stoccaggio. 

Oltre a questa funzione la zona di alienazione ci ha dimostrato come la natura abbia una capacità incredibile di adattamento; parafrasando un comico americano “a soffrire sono le persone, la natura sta bene”.

É vero che a Čornobyl’ esistono i mutanti?
I mutanti esistono ovunque perché le mutazioni genetiche sono un normale processo biologico, ne esistono sia di positive che di negative ed avvengono per il 90% nelle cellule, senza che noi ce ne possiamo accorgere macroscopicamente. Sicuramente, in quella zona le mutazioni biologiche di alcune specie sono più frequenti, ma non vi si troveranno né lupi a due teste, né i “controllori” come nel videogioco “S.T.A.L.K.E.R.”.

Dell’anomalia si diviene consapevoli solo quando si osservi la mappa dell’inquinamento da radionuclidi oppure portando con sé un dosimetro.

Com’è lavorare nell’area di Čornobyl’?
Io ho 37 anni e lavoro nella zona da circa 20 anni perché prima dei miei 18 anni l’ingresso era ancora vietato. La prima volta fu quando studiavo per il dottorato e ho iniziato ad analizzare la microflora nel territorio più inquinato della zona di alienazione: nel corso della carriera ho aumentato sempre di più il livello di radioattività con cui ho avuto che fare. 

All’inizio ho lavorato nella cosiddetta “Foresta Rossa”, uno dei territori più inquinati; poi è avvenuto l’incidente a Fukushima e ho lavorato lì per due anni per tornare infine a Čornobyl’ dove, prima della guerra, stavamo lavorando con i materiali combustibili all’interno del sarcofago.
Il 94% del combustibile è rimasto nel sarcofago trasformandosi in una sorta di lava, in una formazione che assomiglia al vetro, nata dalla fusione del combustibile con il cemento e la sabbia ed altri elementi fusi per via delle alte temperature e della pressione. In questo contesto, stiamo studiando i microrganismi che vivono in questa lava ed il modo in cui la stanno decomponendo.

Potrebbe parlare di più di questi organismi?
C’è in essere un progetto con l’”Agenzia Giapponese per l’energia nucleare” per questa lava, che si chiama korium, perché la sua presenza non è una cosa positiva e bisogna trovare un modo per utilizzarla. 

Il tema di studio è unico e per questo l’Ucraina è strettamente legata al Giappone che dopo Fukushima si trova a trattare grandi quantità di questo materiale. L’obiettivo è quello di analizzare la composizione del microbioma, che è un insieme di microorganismi.

L’ipotesi è che le elevate dosi di radiazioni stimolino un’evoluzione direzionata verso l’aumento della resistenza all’esposizione delle radiazioni ed altre condizioni estreme e verso l’utilizzo dei composti di uranio nel suo metabolismo; purtroppo, però, le ricerche sono state interrotte dalla guerra con il rischio, oltre ovviamente all’incolumità dei lavoratori, di perdere i campioni utili per la ricerca che, per fortuna, sono ancora intatti.

L’occupazione russa ha influito sulla zona?
Si, ha influenzato tanto la zona e le ricerche stesse: tutte le ricerche sono state sospese. Nella zona di alienazione c’era un sistema di controllo automatico delle radiazioni (S.K.R.O.) che è stato quasi totalmente distrutto dai soldati russi: probabilmente servirà l’aiuto dei partner internazionali per ricostruire questo sistema di controllo, ma per ora ci stiamo solo riflettendo non avendone soprattutto le forze mentali.

Potrebbe darci più informazioni sul microbioma che stava studiando?
I dati che abbiamo raccolto non sono ancora stati pubblicati, però questi microrganismi esistono: micromiceti o batteri che includono nel loro metabolismo l’uranio. Nel nostro laboratorio abbiamo 14 piccoli frammenti di korium grandi quanto granelli di sabbia, il materiale è unico ed è estremamente radioattivo perché contiene uranio, americio, plutonio, insomma, tutto lo spettro di materiali prodotti in un incidente simile. 

Per estrarre questi granelli sono stati coinvolti i cecchini che sparavano con i fucili su questa specie di vetro. Con la corrosione chimica e biologica l’acqua ed i microorganismi lo consumano trasformando la superficie in polvere estremamente radioattiva: per questo motivo sopra il sarcofago è stato costruito uno strato aggiuntivo di protezione molto utile dato che il precedente sarcofago venne costruito velocemente tra il 1986-87 e le cui travi si reggono solo grazie alla forza di gravità. 

Senza l’involucro esterno, la probabilità di crollo delle strutture interne sarebbe più alta di quanto già non sia attualmente. Se crollasse ora, la polvere rimarrebbe intrappolata, mentre senza involucro esterno, la polvere si diffonderebbe creando una nuova Čornobyl’. Per fortuna l’Ucraina ed i suoi partner hanno costruito la struttura mobile più grande al mondo, estremamente sicura. 

Il problema è che bisogna monitorare quello che avviene dentro alla struttura, cosa che i russi hanno impedito quando sono entrati nella zona di alienazione non considerando che l’uranio non ferma il suo decadimento con la guerra.

Che impatto ha avuto la situazione attuale sui ricercatori?
Tornare nei laboratori saccheggiati è stato umanamente molto difficile: il Capo dipartimento della Riserva Naturale aveva una biblioteca, dove invitava gli autori, che era piena di volumi autografati: un vero amante dei libri. Ma quando è tornato, dopo la liberazione della zona da parte ucraina, ha trovato i suoi libri gettati per strada: per lui è stato un duro colpo. 

Il vostro istituto è l’unico che lavora direttamente a Čornobyl’?
Si, siamo l’unico istituto che lavora direttamente a Čornobyl’: ci sono però rappresentanti di altre nazioni, ma come istituto di ricerca nel campo della sicurezza nucleare, siamo gli unici. Solo noi abbiamo accesso alla parte interna dell’involucro al mondo.

Chi sono gli scienziati che lavorano per l’Istituto?
Il nostro team è composto da 4 ricercatori, ma abbiamo anche studenti e dottorandi che ci aiutano.  Tre dei quattro ricercatori sono biologi altamente qualificati. Il gruppo è impegnato in due progetti internazionali ed uno ucraino, ma fuori dal laboratorio, dato che con la guerra non sia possibile raggiungerlo.

In conclusione, esistono delle differenze tra l’ecosistema della zona di Čornobyl’ ed altri ecosistemi simili?
La domanda è difficile e la scienza non ha ancora trovato una risposta: bisognerebbe fare un esperimento sulla base dei modelli su una durata di 50 anni, mettendo a confronto una zona inquinata ed una non inquinata; per ora, i vari studi analizzano aspetti specifici per via della difficile situazione economica ucraina e del flusso incostante dei finanziamenti; non c’è un istituto che si occupa solo dello studio dei problemi dell’ecosistema. 

Al momento operano solo gruppi di appassionati che lavorano solo quando ci sono fondi disponibili: per fare uno studio sistematico bisognerebbe essere finanziati per 50 anni. Il problema non è solo ucraino, giacché anche i giapponesi non riescono in tale intento: solo in questo periodo hanno avviato un progetto per analizzare e valutare il loro territorio inquinato per capire cosa stia succedendo. Il progetto è molto ambizioso e può permetterselo solo un’economia stabile.

Intervento Luca Romano

Un altro disastro come quello di  Čornobyl’ non potrebbe succedere perché le centrali di oggi sono sicure. Čornobyl’ non lo era, nessuno lo pensava. L’Unione Sovietica voleva un reattore semplice, cioè con bassi costi di progettazione e costruzione, doveva operare con uranio debolmente arricchito (perché arricchire l’uranio costa); inoltre, volevano un reattore che fosse in grado di produrre  plutonio per scopi militari e che fosse facilmente scalabile, ovvero, una volta progettato, il modello doveva essere facilmente replicabile in dimensioni più grandi. 

Sotto questo punto di vista gli ingegneri nucleari fecero un ottimo lavoro creando il modello RBMK di Čornobyl’, ma la sicurezza non rientrava nelle priorità del governo sovietico. 

Il reattore aveva dei difetti noti ai progettisti, ma non agli operatori, dato che non si considerava necessaria questa trasparenza nell’Unione Sovietica. Oggi in Occidente qualunque operatore di una centrale nucleare può recitare a memoria le specifiche millimetriche di ogni componente dell’isola nucleare, cioè della parte che comprende il nocciolo.

In quel periodo storico, gli operatori della control room non sapevano che le barre di controllo erano in boro ed in grafite. Mentre il boro, che è un assorbitore di neutroni, rallenta il processo di fissione, la grafite lo accelera: le barre di controllo erano strutturate in modo tale che la punta della barra fosse in grafite ed il boro nella parte superiore. Insomma, quel meccanismo che di solito permette di rallentare in questo caso serviva anche per accelerare il processo di fissione, creando un po’ di problemi. 

Il perché di tale struttura sta nel fatto che si doveva operare con uranio poco arricchito, circa all’1,8%, mentre quelle moderne operano con un arricchimento del 3,5-5%, quindi avevano bisogno di facilitare il processo di fissione tramite la grafite. Nonostante queste caratteristiche conosciute, il reattore RBMK di Chernobyl fu costruito per fornire 1 GW di potenza ed era già stato pensato di costruirne uno da 3,6 GW.

Negli Stati Uniti ed in Europa, insieme a tutti i Paesi in cui si considerava la sicurezza una priorità, questo modello venne scartato.

Entrando più nel dettaglio, i principali difetti di questo reattore sono tre:

  • Il coefficiente di vuoto positivo: in un reattore in cui il ruolo di moderatore viene affidato alla grafite e non all’acqua, che non facilita la fissione, fa sì che si possa innescare un circolo vizioso in cui la produzione di vapore, dovuta al processo di fissione, faccia aumentare la potenza perché, essendoci meno acqua liquida nel reattore, le fissioni vengono ulteriormente facilitate, ma se aumenta la potenza, aumenta anche la temperatura che di conseguenza produce ancora più vapore e quindi produce un ulteriore aumento di  potenza innescando, appunto, un circolo vizioso. Per evitare tale dinamica, nei reattori occidentali, il coefficiente di vuoto è negativo. 
  • I russi volevano un reattore che producesse plutonio ma, per produrlo, bisognava cambiare il combustibile molto frequentemente poiché, se permane troppo a lungo nel core, il plutonio si sporca diventando plutonio 240 invece che 239, quindi le barre di grafite dovevano essere sostituite ogni 2 settimane (in un reattore moderno ogni 18 mesi). Queste barre dovevano essere sostituite tramite una gru che, operando dall’alto, doveva essere molto alta per via della grandezza del reattore e, di conseguenza, dell’edificio di contenimento. Quindi, per semplificare le operazioni, dato che la sicurezza non era una priorità mentre il plutonio sì,  decisero di non costruire un edificio di contenimento. Tutti i reattori occidentali oggi hanno un edificio di contenimento spesso diversi metri e realizzato in cemento armato in grado di resistere persino ad un attacco missilistico. 
  • la grafite presente nel nocciolo è infiammabile. Tutto questo però non sarebbe bastato per l’incidente se gli operatori della Control Room ed i direttori della centrale avessero avuto chiaro il funzionamento del reattore.

L’incidente avvenne durante un test in cui bisognava simulare un blackout per vedere se le turbine, per inerzia, nel mentre che i generatori diesel si attivassero, avrebbero potuto mantenere stabile la temperatura del nocciolo. Per effettuare il test bisognava portare le turbine al massimo dei giri, nonostante la potenza al minimo del reattore: per farlo bisognava aumentare la pressione dell’acqua e del vapore, ovvero nel sistema doveva essere inserita una maggior quantità di acqua.

I problemi nacquero perché, per tutta la giornata prima del test, il reattore venne tenuto a metà potenza dato che serviva elettricità per via di un guasto in una vicina centrale a carbone. Facendo così però produssero iodio che, dopo 11 ore, decade in Xeno 135 (assorbitore di neutroni), il test lo effettuarono durante il picco di produzione di Xeno 135 che, essendo assorbitore di neutroni, fa calare la potenza e combinato al fatto che le barre di controllo vennero inserite troppo in profondità la potenza, del reattore, invece di scendere al 20% scese all’1%. Ovviamente questi processi erano noti se non fosse che nel frattempo venne effettuato il cambio di turno e quelli che erano arrivati non avessero idea che il reattore fosse stato a metà potenza per così tanto tempo, loro sapevano solo che avrebbero dovuto compiere il test.

Non avevano ricevuto nessun tipo di informazione: lo stesso direttore della centrale nucleare non era ingegnere nucleare e, prima di allora, non aveva mai visto un reattore, aveva solo avuto esperienza su reattori nucleari usati per i sommergibili, molto diversi dalle centrali nucleari, tra cui non affetti dall’accumulo di xeno. 

Quando la potenza scese all’1%, anziché al 20%, iniziarono a togliere le barre di controllo, fatte anche di boro (assorbitore di neutroni), al fine di aumentare la potenza; nel mentre, però, veniva inserita acqua per portare a regime le turbine, ma l'acqua, per sua natura, è un assorbitore di neutroni e fece calare nuovamente la potenza. Per compensare, tolsero altre barre di controllo proseguendo per circa 20 minuti fino ad arrivare a 205 barre controllo su 211, in violazione di ogni tipo di manuale, ma nessuno ebbe percezione del pericolo. 

Quando finalmente decisero di fare il test, senza che il reattore fosse nelle corrette condizioni di potenza erogata, staccarono il circuito del vapore che permetteva la continua sostituzione dell'acqua. Di conseguenza, l’acqua presente iniziò ad evaporare e, per via del coefficiente di vuoto positivo, quando si crea più vapore, la potenza aumenta e si crea ancora più vapore innescando il circolo vizioso. Quando provarono a reinserire le barre di controllo per limitare l’aumento di potenza, grazie al boro, la prima parte ad entrare però, per via della struttura delle barre di controllo, fu la grafite già surriscaldata, che a contatto con il vapore si espanse fino a provocare la rottura delle canaline, bloccando di fatto le barre di controllo a quel punto impossibilitate a scendere. La potenza ed il vapore aumentarono fino a quando il coperchio del reattore saltò via, determinando un parziale scoperchiamento, lasciando in tal modo entrare aria, cioè ossigeno, che a contatto con la grafite surriscaldata fece prende fuoco in maniera esplosiva alle barre di controllo, causando in tal modo la produzione della nube radioattiva.

La dinamica dell’incidente non è dovuta a chi ha progettato il reattore, la colpa è di un sistema che ha permesso a gente, che non conosceva appieno le caratteristiche del reattore, di lavorare nella control room.

Impatto umano dell’incidente nucleare
La mortalità diretta accertata è di 54 persone anche se la Russia ne riconosce solo 23, cioè quelle morte direttamente da avvelenamento da radiazioni, mentre l’ONU riconosce anche le vittime morte nelle settimane successive. 

Per quanto riguarda la nube radioattiva, le stime sulla mortalità sono molto complicate da fare perché un tumore indotto da radiazioni è indistinguibile da un tumore insorto per cause naturali. L’unico modo per capire realmente la mortalità è andare a vedere se ci sia un eccesso di mortalità rispetto alle statistiche nazionali. 

L’aumento è stato dimostrato per il tumore alla tiroide causato dall’isotopo iodio 131 che ha fortunatamente un alto tasso di sopravvivenza. Per altri tipi di tumori non è stato possibile stabilire una correlazione diretta, anche nei casi in cui si sia osservato un aumento del rischio. 

Nel Čornobyl’ forum tenutosi nel 2003, dove parteciparono diverse agenzie internazionali e nazionali tra cui quella Ucraina, Russa e Bielorussa, insieme al comitato scientifico delle Nazioni Unite, l’OMS e l’agenzia internazionale dell’energia atomica, stabilirono un limite massimo di 4.000 decessi, nell’arco di 70 anni. Al momento, l’andamento è più basso: siamo sull’ordine delle migliaia di casi di tumore alla tiroide, che è uno dei più curabili, secondo Geralfine Thomas, massima esperta del settore (35 anni di studi su  Čornobyl’); i morti sarebbero tra i 200 e i 500. 

Queste stime vengono contestate puntualmente dalle organizzazioni contrarie al nucleare, quali GreenPeace oppure i Verdi europei che, secondo uno dei loro report, Čornobyl’ ha causato circa 20.000 morti: ovviamente il report presenta errori metodologici che ne invalidano completamente il contenuto. GreenPeace invece stima oltre 94.000 vittime prendendo l’eccesso di mortalità in Ucraina dovuto a tutte le cause dopo il 1986, decidendo come ciò fosse sempre imputabile a Čornobyl’. 

Se però da un punto di vista scientifico questi dati possano far ridere, di fatto, sull’opinione pubblica hanno un notevole impatto, in conseguenza dell’influenza esercitata anche dalla narrazione giornalistica e non solo: in un libro di testo di scuola media si parla di milioni di morti.

Čornobyl’ ha lasciato sicuramente una cicatrice: pur essendo un evento grave, però non è sicuramente il più grave di tutti, disastri estremamente più gravi ce ne sono stati tanti. Ad esempio, il crollo della diga di Machu, in India, nel 1970 che causò 30.000 morti, oppure, nel 2010, il disastro deepwater Horizon in conseguenza del quale, in un'area estesa quanto il Piemonte, non cresce più neanche un’alga dato che il fondale è stato coperto di petrolio.

Di quel periodo però si ricorda Fukushima (2011) che non ha praticamente fatto danni, ma è ricordato come un disastro. Probabilmente Čornobyl’ è così importante nella memoria collettiva poiché è stato l’unico incidente nucleare a produrre vittime, un evento unico nella storia in mezzo ad eventi molto più drammatici ma più frequenti e che, di conseguenza, non fanno più notizia. In ogni caso, è giusto parlare di Čornobyl’ e dei danni che ha fatto, ma è anche giusto ricordare come il nucleare sia l’industria più sicura mai sviluppata dall’uomo.

 

Intervento Anna Mosiychuk

Sono nata in Ucraina nella città di Varash, città satellite della centrale nucleare di Rivne.

Caratteristica peculiare è che sono considerata una cittadina ucraina che ha sofferto per le radiazioni dato che Varash è stata colpita dalla pioggia radioattiva, tuttora in corso. Sostanzialmente, le città vicine a Čornobyl’ sono considerate come vittime. Esistono 4 categorie di cittadini che hanno sofferto per  Čornobyl’:

1- Persone con disabilità tra i partecipanti alla mitigazione della catastrofe e le dirette vittime come malati di sindrome da radiazione acuta;

2 e 3- partecipanti alla bonifica che hanno lavorato nella zona di esclusione (nei 30 km intorno alla centrale). In queste due categorie rientrano anche le persone che si sono ammalate a causa delle radiazioni;

4- Persone che vivono, lavorano e studiano continuamente nel territorio della zona a controllo radio ecologico rafforzato;

Quando ci fu il disastro, mia madre mi  raccontava che loro sapessero poco di quanto fosse accaduto, a parte il fatto che, ad un certo punto sul posto di lavoro, reclutassero gente per andare a Čornobyl’ senza dire di che cosa si trattasse, ma offrendo il triplo dello stipendio normale. I volontari facevano parte dei Liquidator. Mio padre mi raccontava che nel suo blocco non sapevano come comportarsi e l'unica cosa che fecero, nella sua unità, fu quella di stendere a terra uno straccio bagnato: le autorità non dicevano quasi niente, ma la gente era molto spaventata. La mia famiglia decise di inviare le mie sorelle di 4 e 1 anno dalla nonna sul mar d’Azov. 

Solo qualche anno dopo, a questi territori ed ai loro abitanti fu dato uno status specifico attraverso un documento che garantiva viaggi gratis, pasti gratis a scuola e 5 rubli in più sullo stipendio, su cui tutti scherzavano chiamandoli soldi per la bara perché erano veramente pochi. 

Infatti, nella popolazione, il pensiero e la paura di essere stati danneggiati dalle radiazioni, era forte. Si viveva nell’ombra di Čornobyl’, se ne parlava sempre a scuola, all’asilo, anche attraverso prove di evacuazione nel caso potesse riaccadere. Inoltre, a scuola si studiava come in conseguenza dell’incidente ci fossero state moltissime vittime ed era viva la sensazione che ogni tumore scoperto in quelle zone fosse colpa di Čornobyl’. Anche Varash ha una centrale nucleare, ma di un modello completamente diverso e sicuro: ma la paura c’era e mio padre mi raccontava come la colpa dell’incidente fosse imputabile all’Unione Sovietica, alla dittatura, alla censura, all’ignoranza del personale, ma soprattutto all’ignoranza di chi era al vertice, e, quindi all’intero sistema che non ha mai pensato e considerato i suoi cittadini come esseri umani bensì solo come ingranaggi di una grande macchina, avente lo scopo di mostrarsi grande. 

Čornobyl’ è stato un crimine dell’Unione Sovietica come lo è l’invasione Russa di oggi. La guerra di oggi ha riacceso vecchi timori e traumi nella popolazione perché i Russi avevano preso il controllo di Čornobyl’e della centrale di Zaporižžja usandole come forme di ricatto, non curanti dei possibili danni, sia per l’Ucraina ma anche per l’intera Europa.


Intervento di Anna Pavliv, Studentessa di storia dell’arte

In Occidente si fa molta fatica a vedere la produzione culturale ucraina senza che sia filtrata dalle lenti sovietiche: ad esempio, di molti artisti sovietici non abbiamo mai saputo che fossero, in realtà ucraini. Con lo scioglimento dell’URSS, l’Ucraina è rinata e quindi anche l’arte; dopo vari tentativi, ha ritrovato la sua strada. Lo stesso Erodoto parla dell’Ucraina: parla della Crimea come una terra di confine, dato che oltre a quelle terre, i greci non sapevano che cosa ci fosse. In Crimea sono stati ritrovati reperti e gioielli dell’epoca Greca e Bizantina. Con l’impero Russo, poi, non c’è stata una vera e propria evoluzione libera ed autonoma, e per molto tempo è stata considerata una terra lontana. 

La cultura ucraina è praticamente sconosciuta: fino a Čornobyl’ non si conosceva neanche dove fosse sulla mappa geografica e dopo Čornobyl’ è sempre stata raffigurata tramite paesaggi distopici utilizzati in vari videogiochi famosi quali S.T.A.L.K.E.R o Call of Duty. Le uniche opere d’arte di epoca sovietica erano mosaici o decorazioni per edifici che hanno la caratteristica di avere solo colori accesi ed allegri, in linea con la propaganda di un regime che si voleva dimostrare perfetto.

Oggi il museo locale di Ivankiv che esponeva al suo interno le opere dell’artista Maria Prymachenko è stato oggetto di bombardamento mirato, un attacco alla cultura volto a cancellare l’identità Ucraina. Nelle opere di Prymachenko i soggetti principali sono sempre animali od elementi floreali e legati alla tradizione, a dimostrazione del legame profondo con il territorio: un’arte considerata folkloristica dal regime sovietico e che per questo è riuscita a resistere alle appropriazioni russe dell’avanguardia Ucraina. Produsse anche una lunga serie di opere riguardo a Čornobyl’ come “Madre seduta vicino a casa”, “Quarto blocco” o “I fiori cresciuti vicino al quarto blocco”. Ci fu anche una mostra nel 1987 (rara durante quel periodo), intitolata “Sguardo”, in cui vari artisti di numerose correnti, riuscirono a porre in mostra loro dipinti e la loro percezione dell’evento di Čornobyl’; citandone alcuni: “Atomic Eva” di Oleksandr, “Il giardino della mamma” Anatoly Haydamaka e le opere di Ivan Marchuk.

La mostra fu anche una forma di protesta contro l’arte di propaganda del periodo: gli artisti si sentirono liberi di mostrarsi. Esiste anche una lunga serie di “Madonne di Chernobyl’”. 

Ci fu anche un tentativo di creare un movimento che seguisse le opere di Čornobyl’ ma non si sviluppò per vari motivi: nel 1992 però venne fondato il museo di Čornobyl’. Adesso che è sotto attacco Russo, la popolazione si sente in dovere di raccontare questa storia: ogni giorno ci sono eventi e progetti. 

Čornobyl’ ha avuto e sta avendo un’enorme influenza sull’arte e sulla cultura ucraina.

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