Mettendo in risalto le conseguenze che l’incidente ha avuto a livello biologico e culturale sull’intera regione. Grazie agli interventi di: Francesca Gorzanelli, fotoreporter ed autrice del progetto “Diario di un viaggio a Chernobyl”, Olena Pareniuk, ricercatrice esperta delle conseguenze sulla biologia del territorio, Luca Romano, divulgatore scientifico che ci spiegherà gli aspetti più tecnici di come sia potuto accadere tale disastro facendo chiarezza su alcune percezioni socialmente diffuse e, infine, Anna Mosiychuk ed Anna Pavliv che ci parleranno degli effetti che questo evento ha avuto sulla cultura e sull’arte Ucraina, approfondiremo vari aspetti di una vicenda che ha segnato la storia.
Intervento Francesca Gorzanelli
La centrale nucleare chiamata Čornobyl’, in riferimento alla cittadina storica esistente già dal 1200, il cui vero nome in realtà era centrale nucleare di Vladimir Il’ič Lenin, in onore di Lenin, fu collocata nella città di Pryp’’jat’, costruita appositamente per ospitare i lavoratori della centrale insieme alle loro famiglie, con l’obiettivo di dare vita alla città dell’atomo che poi sarebbe servita ad ospitare le centrali nucleari più grandi d’Europa tra cui appunto quella che esplose la sera fra il 25 e il 26 aprile durante un test di controllo.
La cittadina di Pryp’’jat’ era abitata da circa 25.000 persone, tutte, più o meno, addestrate ad un possibile problema nucleare: gli stessi bambini imparavano a scuola come proteggersi, a dimostrazione che il fatto di vivere a 3 km da una centrale nucleare non veniva preso sotto gamba. Il punto sta nel fatto che il partito a capo dell’Unione Sovietica decise di non dichiarare cosa fosse accaduto nella centrale e non venne dato nessun allarme specifico alla popolazione.
L’Europa e gli Stati Uniti lo scoprirono attraverso altre vie, grazie a diversi controlli satellitari, inoltre i TG in Italia lasciarono supporre che il problema alla centrale nucleare fosse stato causato dall’esplosione di un missile, insomma il periodo storico in cui avvenne l’incidente (1986), ovvero in piena Guerra Fredda, creò molte tensioni.
Tornando alla ricostruzione degli avvenimenti, la mattina post incidente le persone continuarono a fare ciò che avevano sempre fatto, si andò a scuola ed a lavoro anche se in alcune persone il sospetto che fosse successo qualcosa era presente, al punto che alcuni si misero in sicurezza autonomamente.
Passò un giorno e mezzo dopodichè fu dato l’ordine di evacuazione, nel mentre le persone furono esposte alle radiazioni, ed il 27 aprile furono avviate le misure di sicurezza senza, però, specificare la gravità della situazione. L’ordine di evacuazione prevedeva che le persone dovevano preparare il minimo indispensabile per stare via 2-3 giorni, portare dietro documenti, chiudere il gas nelle case e lasciare gli animali domestici all’interno e chiusi a chiave. Da quel giorno, invece, nessuno tornò mai più a casa.
Le persone furono caricate su autobus per poi essere dislocate in tutta l’Ucraina. Dal punto di vista umano, questo evento non ha precedenti: dover lasciare la propria dimora per sempre a causa di un evento catastrofico non visibile all’occhio umano fu molto difficile da accettare, in quanto, un conto è dover evacuare dopo un terremoto o dopo un’alluvione in cui sia visibile la distruzione ed il pericolo sia distintamente percepito e ci si renda conto di come si debba mettersi in salvo, un altro quanto manifesto alla popolazione di Pryp’’jat’, che non vide nulla, non percepì nulla. Erano solo a conoscenza di come ci fosse stato un incendio, ma compresero il perché dell’evacuazione. Per le persone fu un evento traumatico, furono strappate improvvisamente dalle loro vite, senza possibilità di ritorno.
Come ti sei avvicinata a questo tema e che cos’è il progetto di cui ti occupi?
Sono arrivata in Ucraina per la prima volta nel 2015 senza un progetto specifico: mi occupavo di fotografia di luoghi abbandonati raccontando, contemporaneamente, sul mio blog le storie dei luoghi sia in Italia che in Europa. Quando scoprii che fosse possibile visitare Pryp’’jat’, non esitai. Arrivai in Ucraina con un bagaglio di preconcetti che furono smentiti: tutto quello che conoscevo dell’Ucraina e della sua cultura era sbagliato. L’obiettivo era quello di raccontare le storie di abbandono ma era una prospettiva molto limitante perché c’era un’intera cultura da spiegare.
C’erano storie di persone che avevano dovuto ricominciare completamente la loro vita altrove o di persone tornate a vivere in quei luoghi abbandonati, nonostante il divieto del governo motivato dai relativi pericoli sanitari, piuttosto che accettare di vivere in altre città dove spesso venivano stigmatizzati come appestati od emarginati.
La storia di questo disastro si porta dietro tanta ignoranza, nel senso che tante cose all’epoca non si sapevano e abbiamo dovuto impararle con il tempo: dato che Chernobyl è un museo a cielo aperto e un luogo di studio sugli effetti delle radiazioni tante cose si sono scoperte con il passare del tempo. Per esempio, in quel periodo si pensava che le persone evacuate potessero portare malattie e venivano di conseguenza isolate.
Il progetto “Diario di un Viaggio a Chernobyl” nasce appunto da questa esigenza, raccontare e divulgare. Per esempio, il 26 aprile è anche l’anniversario del matrimonio di Irina e Sergey, gli ultimi sposi di Pryp’’jat’ che riuscirono a celebrarlo seppur in un contesto di tensione: molti degli invitati erano preoccupati perché qualcuno che lavorava nella centrale preannunciava l’evacuazione e che il disastro fosse più grave di quanto ammesso dalle autorità. La particolarità del matrimonio deriva dal fatto che doveva essere una cerimonia analcolica per aderire all’idea propagandistica del nuovo uomo sovietico, libero dall’alcol (piaga sociale dell’epoca), ma alla fine non fu così: si trasformò invece in un matrimonio alcolico per colpa della grande e diffusa preoccupazione riguardo alla centrale nucleare.
Purtroppo, con la guerra è ovviamente tutto fermo e chiuso ma l’idea è quella di espandere il progetto di divulgazione a tutta l’Ucraina ed alla sua cultura. Un fatto simbolicamente importante recente è la rimozione della statua di Lenin dalla zona di esclusione, zona in cui non era mai stato toccato nulla in quanto area soggetta al disastro nucleare ma, in conseguenza dell’invasione Russa, anche gli ultimi simboli dell’Unione Sovietica nell’area sono stati rimossi.
Foto di Francesca Gorzanelli
Intervento Luca Romano
Un altro disastro come quello di Čornobyl’ non potrebbe succedere perché le centrali di oggi sono sicure. Čornobyl’ non lo era, nessuno lo pensava. L’Unione Sovietica voleva un reattore semplice, cioè con bassi costi di progettazione e costruzione, doveva operare con uranio debolmente arricchito (perché arricchire l’uranio costa); inoltre, volevano un reattore che fosse in grado di produrre plutonio per scopi militari e che fosse facilmente scalabile, ovvero, una volta progettato, il modello doveva essere facilmente replicabile in dimensioni più grandi.
Sotto questo punto di vista gli ingegneri nucleari fecero un ottimo lavoro creando il modello RBMK di Čornobyl’, ma la sicurezza non rientrava nelle priorità del governo sovietico.
Il reattore aveva dei difetti noti ai progettisti, ma non agli operatori, dato che non si considerava necessaria questa trasparenza nell’Unione Sovietica. Oggi in Occidente qualunque operatore di una centrale nucleare può recitare a memoria le specifiche millimetriche di ogni componente dell’isola nucleare, cioè della parte che comprende il nocciolo.
In quel periodo storico, gli operatori della control room non sapevano che le barre di controllo erano in boro ed in grafite. Mentre il boro, che è un assorbitore di neutroni, rallenta il processo di fissione, la grafite lo accelera: le barre di controllo erano strutturate in modo tale che la punta della barra fosse in grafite ed il boro nella parte superiore. Insomma, quel meccanismo che di solito permette di rallentare in questo caso serviva anche per accelerare il processo di fissione, creando un po’ di problemi.
Il perché di tale struttura sta nel fatto che si doveva operare con uranio poco arricchito, circa all’1,8%, mentre quelle moderne operano con un arricchimento del 3,5-5%, quindi avevano bisogno di facilitare il processo di fissione tramite la grafite. Nonostante queste caratteristiche conosciute, il reattore RBMK di Chernobyl fu costruito per fornire 1 GW di potenza ed era già stato pensato di costruirne uno da 3,6 GW.
Negli Stati Uniti ed in Europa, insieme a tutti i Paesi in cui si considerava la sicurezza una priorità, questo modello venne scartato.
Entrando più nel dettaglio, i principali difetti di questo reattore sono tre:
- Il coefficiente di vuoto positivo: in un reattore in cui il ruolo di moderatore viene affidato alla grafite e non all’acqua, che non facilita la fissione, fa sì che si possa innescare un circolo vizioso in cui la produzione di vapore, dovuta al processo di fissione, faccia aumentare la potenza perché, essendoci meno acqua liquida nel reattore, le fissioni vengono ulteriormente facilitate, ma se aumenta la potenza, aumenta anche la temperatura che di conseguenza produce ancora più vapore e quindi produce un ulteriore aumento di potenza innescando, appunto, un circolo vizioso. Per evitare tale dinamica, nei reattori occidentali, il coefficiente di vuoto è negativo.
- I russi volevano un reattore che producesse plutonio ma, per produrlo, bisognava cambiare il combustibile molto frequentemente poiché, se permane troppo a lungo nel core, il plutonio si sporca diventando plutonio 240 invece che 239, quindi le barre di grafite dovevano essere sostituite ogni 2 settimane (in un reattore moderno ogni 18 mesi). Queste barre dovevano essere sostituite tramite una gru che, operando dall’alto, doveva essere molto alta per via della grandezza del reattore e, di conseguenza, dell’edificio di contenimento. Quindi, per semplificare le operazioni, dato che la sicurezza non era una priorità mentre il plutonio sì, decisero di non costruire un edificio di contenimento. Tutti i reattori occidentali oggi hanno un edificio di contenimento spesso diversi metri e realizzato in cemento armato in grado di resistere persino ad un attacco missilistico.
- la grafite presente nel nocciolo è infiammabile. Tutto questo però non sarebbe bastato per l’incidente se gli operatori della Control Room ed i direttori della centrale avessero avuto chiaro il funzionamento del reattore.
L’incidente avvenne durante un test in cui bisognava simulare un blackout per vedere se le turbine, per inerzia, nel mentre che i generatori diesel si attivassero, avrebbero potuto mantenere stabile la temperatura del nocciolo. Per effettuare il test bisognava portare le turbine al massimo dei giri, nonostante la potenza al minimo del reattore: per farlo bisognava aumentare la pressione dell’acqua e del vapore, ovvero nel sistema doveva essere inserita una maggior quantità di acqua.
I problemi nacquero perché, per tutta la giornata prima del test, il reattore venne tenuto a metà potenza dato che serviva elettricità per via di un guasto in una vicina centrale a carbone. Facendo così però produssero iodio che, dopo 11 ore, decade in Xeno 135 (assorbitore di neutroni), il test lo effettuarono durante il picco di produzione di Xeno 135 che, essendo assorbitore di neutroni, fa calare la potenza e combinato al fatto che le barre di controllo vennero inserite troppo in profondità la potenza, del reattore, invece di scendere al 20% scese all’1%. Ovviamente questi processi erano noti se non fosse che nel frattempo venne effettuato il cambio di turno e quelli che erano arrivati non avessero idea che il reattore fosse stato a metà potenza per così tanto tempo, loro sapevano solo che avrebbero dovuto compiere il test.
Non avevano ricevuto nessun tipo di informazione: lo stesso direttore della centrale nucleare non era ingegnere nucleare e, prima di allora, non aveva mai visto un reattore, aveva solo avuto esperienza su reattori nucleari usati per i sommergibili, molto diversi dalle centrali nucleari, tra cui non affetti dall’accumulo di xeno.
Quando la potenza scese all’1%, anziché al 20%, iniziarono a togliere le barre di controllo, fatte anche di boro (assorbitore di neutroni), al fine di aumentare la potenza; nel mentre, però, veniva inserita acqua per portare a regime le turbine, ma l'acqua, per sua natura, è un assorbitore di neutroni e fece calare nuovamente la potenza. Per compensare, tolsero altre barre di controllo proseguendo per circa 20 minuti fino ad arrivare a 205 barre controllo su 211, in violazione di ogni tipo di manuale, ma nessuno ebbe percezione del pericolo.
Quando finalmente decisero di fare il test, senza che il reattore fosse nelle corrette condizioni di potenza erogata, staccarono il circuito del vapore che permetteva la continua sostituzione dell'acqua. Di conseguenza, l’acqua presente iniziò ad evaporare e, per via del coefficiente di vuoto positivo, quando si crea più vapore, la potenza aumenta e si crea ancora più vapore innescando il circolo vizioso. Quando provarono a reinserire le barre di controllo per limitare l’aumento di potenza, grazie al boro, la prima parte ad entrare però, per via della struttura delle barre di controllo, fu la grafite già surriscaldata, che a contatto con il vapore si espanse fino a provocare la rottura delle canaline, bloccando di fatto le barre di controllo a quel punto impossibilitate a scendere. La potenza ed il vapore aumentarono fino a quando il coperchio del reattore saltò via, determinando un parziale scoperchiamento, lasciando in tal modo entrare aria, cioè ossigeno, che a contatto con la grafite surriscaldata fece prende fuoco in maniera esplosiva alle barre di controllo, causando in tal modo la produzione della nube radioattiva.
La dinamica dell’incidente non è dovuta a chi ha progettato il reattore, la colpa è di un sistema che ha permesso a gente, che non conosceva appieno le caratteristiche del reattore, di lavorare nella control room.
Impatto umano dell’incidente nucleare
La mortalità diretta accertata è di 54 persone anche se la Russia ne riconosce solo 23, cioè quelle morte direttamente da avvelenamento da radiazioni, mentre l’ONU riconosce anche le vittime morte nelle settimane successive.
Per quanto riguarda la nube radioattiva, le stime sulla mortalità sono molto complicate da fare perché un tumore indotto da radiazioni è indistinguibile da un tumore insorto per cause naturali. L’unico modo per capire realmente la mortalità è andare a vedere se ci sia un eccesso di mortalità rispetto alle statistiche nazionali.
L’aumento è stato dimostrato per il tumore alla tiroide causato dall’isotopo iodio 131 che ha fortunatamente un alto tasso di sopravvivenza. Per altri tipi di tumori non è stato possibile stabilire una correlazione diretta, anche nei casi in cui si sia osservato un aumento del rischio.
Nel Čornobyl’ forum tenutosi nel 2003, dove parteciparono diverse agenzie internazionali e nazionali tra cui quella Ucraina, Russa e Bielorussa, insieme al comitato scientifico delle Nazioni Unite, l’OMS e l’agenzia internazionale dell’energia atomica, stabilirono un limite massimo di 4.000 decessi, nell’arco di 70 anni. Al momento, l’andamento è più basso: siamo sull’ordine delle migliaia di casi di tumore alla tiroide, che è uno dei più curabili, secondo Geralfine Thomas, massima esperta del settore (35 anni di studi su Čornobyl’); i morti sarebbero tra i 200 e i 500.
Queste stime vengono contestate puntualmente dalle organizzazioni contrarie al nucleare, quali GreenPeace oppure i Verdi europei che, secondo uno dei loro report, Čornobyl’ ha causato circa 20.000 morti: ovviamente il report presenta errori metodologici che ne invalidano completamente il contenuto. GreenPeace invece stima oltre 94.000 vittime prendendo l’eccesso di mortalità in Ucraina dovuto a tutte le cause dopo il 1986, decidendo come ciò fosse sempre imputabile a Čornobyl’.
Se però da un punto di vista scientifico questi dati possano far ridere, di fatto, sull’opinione pubblica hanno un notevole impatto, in conseguenza dell’influenza esercitata anche dalla narrazione giornalistica e non solo: in un libro di testo di scuola media si parla di milioni di morti.
Čornobyl’ ha lasciato sicuramente una cicatrice: pur essendo un evento grave, però non è sicuramente il più grave di tutti, disastri estremamente più gravi ce ne sono stati tanti. Ad esempio, il crollo della diga di Machu, in India, nel 1970 che causò 30.000 morti, oppure, nel 2010, il disastro deepwater Horizon in conseguenza del quale, in un'area estesa quanto il Piemonte, non cresce più neanche un’alga dato che il fondale è stato coperto di petrolio.
Di quel periodo però si ricorda Fukushima (2011) che non ha praticamente fatto danni, ma è ricordato come un disastro. Probabilmente Čornobyl’ è così importante nella memoria collettiva poiché è stato l’unico incidente nucleare a produrre vittime, un evento unico nella storia in mezzo ad eventi molto più drammatici ma più frequenti e che, di conseguenza, non fanno più notizia. In ogni caso, è giusto parlare di Čornobyl’ e dei danni che ha fatto, ma è anche giusto ricordare come il nucleare sia l’industria più sicura mai sviluppata dall’uomo.
Intervento Anna Mosiychuk
Sono nata in Ucraina nella città di Varash, città satellite della centrale nucleare di Rivne.
Caratteristica peculiare è che sono considerata una cittadina ucraina che ha sofferto per le radiazioni dato che Varash è stata colpita dalla pioggia radioattiva, tuttora in corso. Sostanzialmente, le città vicine a Čornobyl’ sono considerate come vittime. Esistono 4 categorie di cittadini che hanno sofferto per Čornobyl’:
1- Persone con disabilità tra i partecipanti alla mitigazione della catastrofe e le dirette vittime come malati di sindrome da radiazione acuta;
2 e 3- partecipanti alla bonifica che hanno lavorato nella zona di esclusione (nei 30 km intorno alla centrale). In queste due categorie rientrano anche le persone che si sono ammalate a causa delle radiazioni;
4- Persone che vivono, lavorano e studiano continuamente nel territorio della zona a controllo radio ecologico rafforzato;
Quando ci fu il disastro, mia madre mi raccontava che loro sapessero poco di quanto fosse accaduto, a parte il fatto che, ad un certo punto sul posto di lavoro, reclutassero gente per andare a Čornobyl’ senza dire di che cosa si trattasse, ma offrendo il triplo dello stipendio normale. I volontari facevano parte dei Liquidator. Mio padre mi raccontava che nel suo blocco non sapevano come comportarsi e l'unica cosa che fecero, nella sua unità, fu quella di stendere a terra uno straccio bagnato: le autorità non dicevano quasi niente, ma la gente era molto spaventata. La mia famiglia decise di inviare le mie sorelle di 4 e 1 anno dalla nonna sul mar d’Azov.
Solo qualche anno dopo, a questi territori ed ai loro abitanti fu dato uno status specifico attraverso un documento che garantiva viaggi gratis, pasti gratis a scuola e 5 rubli in più sullo stipendio, su cui tutti scherzavano chiamandoli soldi per la bara perché erano veramente pochi.
Infatti, nella popolazione, il pensiero e la paura di essere stati danneggiati dalle radiazioni, era forte. Si viveva nell’ombra di Čornobyl’, se ne parlava sempre a scuola, all’asilo, anche attraverso prove di evacuazione nel caso potesse riaccadere. Inoltre, a scuola si studiava come in conseguenza dell’incidente ci fossero state moltissime vittime ed era viva la sensazione che ogni tumore scoperto in quelle zone fosse colpa di Čornobyl’. Anche Varash ha una centrale nucleare, ma di un modello completamente diverso e sicuro: ma la paura c’era e mio padre mi raccontava come la colpa dell’incidente fosse imputabile all’Unione Sovietica, alla dittatura, alla censura, all’ignoranza del personale, ma soprattutto all’ignoranza di chi era al vertice, e, quindi all’intero sistema che non ha mai pensato e considerato i suoi cittadini come esseri umani bensì solo come ingranaggi di una grande macchina, avente lo scopo di mostrarsi grande.
Čornobyl’ è stato un crimine dell’Unione Sovietica come lo è l’invasione Russa di oggi. La guerra di oggi ha riacceso vecchi timori e traumi nella popolazione perché i Russi avevano preso il controllo di Čornobyl’e della centrale di Zaporižžja usandole come forme di ricatto, non curanti dei possibili danni, sia per l’Ucraina ma anche per l’intera Europa.
Intervento di Anna Pavliv, Studentessa di storia dell’arte
In Occidente si fa molta fatica a vedere la produzione culturale ucraina senza che sia filtrata dalle lenti sovietiche: ad esempio, di molti artisti sovietici non abbiamo mai saputo che fossero, in realtà ucraini. Con lo scioglimento dell’URSS, l’Ucraina è rinata e quindi anche l’arte; dopo vari tentativi, ha ritrovato la sua strada. Lo stesso Erodoto parla dell’Ucraina: parla della Crimea come una terra di confine, dato che oltre a quelle terre, i greci non sapevano che cosa ci fosse. In Crimea sono stati ritrovati reperti e gioielli dell’epoca Greca e Bizantina. Con l’impero Russo, poi, non c’è stata una vera e propria evoluzione libera ed autonoma, e per molto tempo è stata considerata una terra lontana.
La cultura ucraina è praticamente sconosciuta: fino a Čornobyl’ non si conosceva neanche dove fosse sulla mappa geografica e dopo Čornobyl’ è sempre stata raffigurata tramite paesaggi distopici utilizzati in vari videogiochi famosi quali S.T.A.L.K.E.R o Call of Duty. Le uniche opere d’arte di epoca sovietica erano mosaici o decorazioni per edifici che hanno la caratteristica di avere solo colori accesi ed allegri, in linea con la propaganda di un regime che si voleva dimostrare perfetto.
Oggi il museo locale di Ivankiv che esponeva al suo interno le opere dell’artista Maria Prymachenko è stato oggetto di bombardamento mirato, un attacco alla cultura volto a cancellare l’identità Ucraina. Nelle opere di Prymachenko i soggetti principali sono sempre animali od elementi floreali e legati alla tradizione, a dimostrazione del legame profondo con il territorio: un’arte considerata folkloristica dal regime sovietico e che per questo è riuscita a resistere alle appropriazioni russe dell’avanguardia Ucraina. Produsse anche una lunga serie di opere riguardo a Čornobyl’ come “Madre seduta vicino a casa”, “Quarto blocco” o “I fiori cresciuti vicino al quarto blocco”. Ci fu anche una mostra nel 1987 (rara durante quel periodo), intitolata “Sguardo”, in cui vari artisti di numerose correnti, riuscirono a porre in mostra loro dipinti e la loro percezione dell’evento di Čornobyl’; citandone alcuni: “Atomic Eva” di Oleksandr, “Il giardino della mamma” Anatoly Haydamaka e le opere di Ivan Marchuk.
La mostra fu anche una forma di protesta contro l’arte di propaganda del periodo: gli artisti si sentirono liberi di mostrarsi. Esiste anche una lunga serie di “Madonne di Chernobyl’”.
Ci fu anche un tentativo di creare un movimento che seguisse le opere di Čornobyl’ ma non si sviluppò per vari motivi: nel 1992 però venne fondato il museo di Čornobyl’. Adesso che è sotto attacco Russo, la popolazione si sente in dovere di raccontare questa storia: ogni giorno ci sono eventi e progetti.
Čornobyl’ ha avuto e sta avendo un’enorme influenza sull’arte e sulla cultura ucraina.