Nell’Indo-Pacifico gli Stati Uniti hanno inaugurato la co-everything policy

Negli ultimi anni gli Stati Uniti ci hanno ricordato a più riprese che ritengono l'Indo-Pacifico una regione cruciale per gli equilibri strategici del 21° secolo. Ciononostante nel corso del tempo la forza di Washington è andata scemando, trasformando la natura dell’impegno americano nell’area.

L’ha raccontato bene il giornalista americano Damien Cave, in un articolo uscito all’inizio di giugno sul New York Times.

Gli Stati Uniti non si presentano più come gli unici garanti della sicurezza della regione. L’Indo-Pacifico è infatti un’area troppo grande, e la crescita economico-militare della Cina si è fatta sempre più minacciosa. Così Washington ha deciso di cambiare approccio, mostrandosi non più come il potente guardiano della regione ma come un partner chiave per lo sviluppo tecnologico e militare dei suoi alleati locali.

Negli ultimi anni, infatti, molti di questi paesi si sono lanciati nello sviluppo delle proprie risorse tecnologiche e militari, o di propria iniziativa o con l’aiuto decisivo degli Stati Uniti. L’Australia sta costruendo insieme agli americani dei nuovi sottomarini a propulsione nucleare; la Corea del Sud è stata coinvolta da Washington nella pianificazione di nuove armi nucleari; l’India sta collaborando alla produzione di nuovi motori per gli aerei da caccia; e anche il Giappone sta lavorando insieme agli Stati Uniti per aumentare le proprie capacità offensive. In questo quadro si inserisce infine lo sforzo statunitense di sorveglianza e pattugliamento dei mari della regione, uno sforzo sempre più costoso e quindi condiviso anche con alcuni piccoli stati delle isole del Pacifico.

Oltre alla produzione di nuovi armamenti, gli Stati Uniti stanno lavorando con i loro alleati alla messa in sicurezza dei sistemi di comunicazione, garantendo inoltre la continua offerta di sangue nei diversi ospedali della regione. Anche questi, d'altronde, sono asset fondamentali in caso di un conflitto.

Tutto ciò mostra chiaramente come la preoccupazione per la costante crescita militare cinese sia condivisa. Pechino infatti negli ultimi anni si è dimostrata sempre più aggressiva, specialmente nelle sue minacce nei confronti di Taiwan e nelle sue rivendicazioni territoriali sulla maggior parte del Mar Cinese Meridionale. La Cina ha anche riacceso la disputa decennale con l’India sulla linea di confine tra i due paesi. Infine, la crisi economica da post-pandemia che ha colpito la Cina ha contribuito a danneggiarne l’attrattività economica, spingendo i paesi della regione a ripensare all’importanza di Pechino come partner commerciale.

I paesi dell’Indo-Pacifico sono inoltre consapevoli del fatto che gli Stati Uniti non sono più quelli di un tempo. Washington è infatti uscita indebolita dalle guerre in Iraq e Afghanistan, e ora si trova ad affrontare profonde divisioni politiche al suo interno. A ciò si unisce il cambiamento del sistema internazionale, un sistema che vede oggi più nazioni in grado di influenzare lo scacchiere globale. La leadership americana sta insomma cercando di adattarsi a un nuovo mondo multipolare, consapevole della crisi della propria supremazia e conscia delle opportunità offerte da una maggiore sinergia con gli alleati regionali.

E anche quest’ultimi hanno compreso il cambiamento dello scenario internazionale, e vedono nella nuova postura americana un’occasione per emergere nel prossimo sistema multipolare globale. La consapevolezza che gli Stati Uniti non possano più garantire la loro protezione si trasforma in una spinta all’avvio di propri progetti di sviluppo militare e civile, progetti che vedono il supporto e il sostegno di Washington.

Il Giappone ne è l’esempio più evidente. Il governo nipponico sta infatti man mano superando i vincoli di decenni di politiche pacifiste, aumentando il budget militare e firmando specifici accordi con alcuni paesi alleati, tra cui l’Australia. Con queste mosse Tokyo ha chiarito la sua volontà di diventare uno stato guida nella protezione della stabilità regionale. Ma il risveglio militare del Giappone, per quanto ben accolto dagli Stati Uniti, non nasce su pressione americana. Anzi il governo nipponico ha deciso di investire nello sviluppo militare proprio per rispondere alla crisi dell’influenza statunitense nella regione. "Gli Stati Uniti non sono più gli stessi di 20 o 30 anni fa, e questo è un fatto che non si può ignorare. Non importa chi sarà il prossimo presidente. L’influenza americana sullo scacchiere internazionale continuerà a diminuire" ha spiegato in ofrma anonima al New York Timesun alto ufficiale dell'intelligence giapponese.

Anche alcuni ufficiali americani hanno iniziato a rendersi conto della portata del declino statunitense, e il Pentagono si è reso disponibile a seguire questa nuova politicadico-everything: un’aperta e franca collaborazione multisettoriale con i diversi partner regionali. Lo stesso Antony Blinken, segretario di stato americano, lo scorso settembre ha richiamato il bisogno di una politica estera più umile, che riconosca le difficoltà delle sfide del nuovo ordine internazionale, sfide che non possono più essere affrontate da soli.

Oggi nell’Indo-Pacifico gli Stati Uniti hanno imparato a delegare molti dei loro precedenti compiti di controllo e protezione agli altri paesi della regione. Quegli sforzi che prima venivano considerati di esclusiva americana, ora si racchiudono in grandi operazioni dal carattere multinazionale. Ne è un esempio il Pacific Fusion Center, un data hub che si occupa di analizzare le minacce marittime portate avanti dalla Cina. Questo centro era gestito inizialmente dagli Stati Uniti, che hanno deciso poi di condividere con i partner regionali il controllo di tutte le operazioni.

Sempre in quest’ottica, Washington ha deciso di approfondire i legami con l’India, nonostante le preoccupazioni per le politiche autoritarie attuate dal primo ministro indiano Narendra Modi. Un riavvicinamento, quello tra Washington e Nuova Delhi, che si è reso ancora più evidente dopo la ritirata americana dall’Afghanistan. Infatti, in un contesto che vede il declino della potenza americana, l’ex colonia britannica diventa un partner imprescindibile per gli Stati Uniti: d’altronde l’India non è solo un enorme mercato per le merci americane, ma rappresenta un’opportunità come moltiplicatore di risorse e innovazione.

Nuova Delhi può infatti offrire a Washington milioni di giovani talenti, capaci di affrontare la spaventosa crescita cinese nel mondo dei veicoli elettrici, dei missili, dei computer quantistici e di molte altre tecnologie avanzate. “Una politica estera più umile non è per forza simbolo di debolezza. Noi non possiamo fare tutto e non dovremmo fare tutto. Abbiamo costruito queste alleanze, ora diamo ad ognuno i propri compiti”, ha dichiarato Ryan Crocker, un ex diplomatico americano, al New York Times.

Nonostante tutto, ancora oggi gli Stati Uniti rimangono un attore indispensabile per l’ordine internazionale. Attualmente nessun’altro paese è in grado di sostituire/minacciare gli sforzi americani diretti alla protezione del sistema politico ed economico globale. Quella che però è cambiata è la consapevolezza dei politici e degli ufficiali americani, consci del fatto che Washington non è più in grado di sopportare questi sforzi senza l’assistenza dei suoi alleati. La guerra in Palestina, l’invasione russa dell’Ucraina, la rivalità con la Cina, il cambiamento climatico e l’intelligenza artificiale sono solo alcune delle sfide che richiedono politiche e impegni comuni a tutti gli alleati.

A prescindere da chi sarà il prossimo presidente, gli Stati Uniti devono convincere i propri alleati della necessità di contribuire tutti insieme alla gestione degli affari internazionali.    

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