A cosa “ci serve” occuparci della condizione dei diritti umani e politici in Iran?
Lasciamo da parte per un momento la dimensione etica e valoriale che pure è il “brodo di coltura” in cui – faticosamente – l’Europa da tre secoli si sforza di allevare i suoi cittadini. Se anche non volessimo privarci di questo argomento, va detto per onestà, non possiamo dimenticare che etica e valori non ci hanno impedito di lasciare al loro destino milioni di afgani - e soprattutto di afgane – i cui medesimi diritti sono non solo violati ma direttamente rimossi da talebani a cui facemmo finta di credere nell’estate del 2021. Come che sia, proviamo a spostare il ragionamento su altri piani, politici, economici, di sicurezza.
La compressione del diritto all’autodeterminazione delle donne in Iran è la più vistosa dimensione coercitiva che il regime applica sull’intera società iraniana, sostanzialmente sottoposta ad un soffocante “statalismo per bande”. L’intreccio tra potere religioso, militare ed economico all’ombra di un PIL dominato dal petrolio ricorda abbastanza da vicino il modello della Russia putiniana; non tanto diversamente da quella - e dall’Unione Sovietica - sono gli apparati (Fondazioni religiose, Pasdaran, Guardie della Rivoluzione, tecnocrazia statale) a spartirsi la polpa del Paese.
Se la potenza economica di una nazione non cresce per vie interne, cosa che avviene storicamente quando agiscono quail driver principali la ricerca e l’innovazione tecnologica, l’esistenza di mercati decorosamente funzionanti e certi, la libera iniziativa imprenditoriale e una struttura statale non debordante, è quasi inevitabile che si tenda a cercare una crescita per vie esterne, il che si traduce in aggressività commerciale o, più spesso, in aggressività tout court. Non è evidentemente un caso che l’Iran sia ormai da decenni l’esempio di uno Stato dove alla compressione delle libertà interne si affianca un crescente “attivismo”, diciamo così, sul piano regionale e non solo. Per inciso, non sembra un percorso molto diverso da quello che sta percorrendo la Turchia, laddove si assiste, pur con marcate differenze, alla presenza dei medesimi fenomeni.
La “liberazione” della società iraniana – lato sensu – è quindi una condizione necessaria per depotenziare i rischi nell’area. Certo non spetta a noi decidere quale libertà va costruita in Iran, e almeno due decenni di “esportazione della democrazia” con relativo arretramento della medesima non solo nei luoghi di esportazione ma anche in madre patria dovrebbero insegnarci qualcosa.
L’Iran è un Paese con coorti giovanili numerose, un buon sistema di istruzione, centri urbani piuttosto diffusi, una importante diaspora – qualitativamente significativa – che ha portato alla formazione di influenti comunità emigrate. Ciò comporta, nell’era della connessione globale, una costante infiltrazione proveniente da modelli esteri . Se aggiungiamo, oltre alle rigidità del regime e dell’economia sopra descritte, una progressiva perdita di appeal – in prospettiva – dell’asset petrolio, vi sono le premesse perchè la pressione nella pentola Iran produca prima non solo un cambio di regime ma soprattutto un cambio di modello.
Attrarre quel potenziale verso un modello “occidentale” non è e non può essere solo un affare lasciato alla casualità degli eventi. Essere o tentare di diventare un riferimento culturale oltrechè economico per quel popolo – e magari, a cascata, per altre comunità umane del mondo islamico, è uno stretto interesse europeo e, in particolare, per chiarissime ragioni demografiche e di crescita, italiane.
Purtroppo nel nostro Paese il pendolo delle politiche governative, della credulità popolare e del servilismo giornalistico si muove verso una strategia “push” di affermazione del Made in Italy, di quanto siamo belli, bravi e intelligenti, anzichè – come dovrebbe essere evidente a tutti – verso politiche “pull” di attrazione del valore aggiunto proveniente dall’estero.
Tornando al tema, l’Italia - che dal Mar Rosso vede transitare una notevole fetta del suo commercio estero – ha tutto l’interesse affinchè l’Iran trovi la strada dello sviluppo per vie interne; ciò nei fatti è possibile solo se il potenziale giovanile, femminile e – possiamo dirlo ? – liberale, di quel Paese riuscirà a dispiegarsi. Libertà politica ed economica, connessione culturale e, mi viene da dire, empatia tra due aree del mondo che hanno nelle loro radici i due più grandi imperi dell’antichità, sono ingredienti di una diminuzione dei rischi globali e regionali causati attualmente da un Iran teocratico, statalista, ispiratore del terrorismo internazionale, agente destabilizzatore dal Pakistan alla Mauritania e, last but not least, non lontanissimo dal diventare una potenza nucleare.
Per questa via arriviamo dunque a comprendere, mi pare, che la lotta per I diritti umani, civili e politici a Teheran non è una questione che, anche ammettendo di essere campioni del mondo di cinismo, non ci riguarda. Al contrario, ci tocca molto e molto più da vicino di quanto possiamo pensare; e tocca – o dovrebbe farlo – chi nel Paese intende difendere e rafforzare la democrazia liberale e l’europeismo politico. Ci tocca e ci interroga: perchè, proprio come l’invasione russa dell’Ucraina, se pensiamo all’impiccagione di studenti che protestano pacificamente, alla morte per percosse di ragazze senza hijab, a torture nelle carceri, a stupri punitivi e così via, capiamo che sono prove a cui vengono sottoposti non solo iraniani e ucraini, ma anche italiani ed europei, noi stessi per primi. Veniamo ancora dall’Illuminismo o siamo ormai ex cittadini ed ex persone buone solo per superbonus e fast food?