Un punto sull'attualità della politica italiana e sul post-fascismo a partire da Panfilo Gentile.
Secondo un ripetuto canovaccio, alla ristampa per Ponte alle Grazie del libro Democrazie mafiose di Panfilo Gentile, il Secolo d’Italia e la destra post-fascista provarono ad arruolare l’editorialista abruzzese tra i padrini di Alleanza Nazionale; all’indebita appropriazione – siamo nel 1997 – rispose Giovanni Russo sul Corriere della Sera, con un corsivo intitolato “Amici di AN, giù le mani da Panfilo Gentile”.
L’editorialista osservava come, nonostante lo spostamento «a destra» degli ultimi tempi, Panfilo Gentile fosse «sempre rimasto fedele alle sue idee liberali e al suo antifascismo» e, dobbiamo aggiungere, come avesse sempre tacciato la destra post-fascista del Movimento Sociale Italiano d’essere una «destra patologica», a differenza della destra «fisiologica» liberale e conservatrice (P. Gentile, Le due destre, “Corriere della Sera”, 14 maggio 1953). Oltre che per un certo sadismo nei confronti del partito di maggioranza relativa, Fratelli d’Italia, ancora indaffarato nel tentativo di combattere l’«egemonia culturale» della sinistra spartendo poltrone e arraffando intellettuali qua e là, ci siamo dilungati in questo cappello introduttivo per fugare il lettore di ogni possibile dubbio: Panfilo Gentile non era un pensatore anti-democratico, e Democrazie mafiose non è un libro contro la democrazia. Si tratta al contrario di un libro in difesa della democrazia, della democrazia autentica, un testo che delle moderne democrazie denuncia le degenerazioni e che permette di coglierne gli eventuali sviluppi autoritari. È questa la più grande differenza tra Gentile e i post-fascisti: Gentile viviseziona le democrazie per curarle, i post-fascisti per abbatterle.
La scelta delle parole è importante. E chiarire i termini che usiamo è fondamentale. Cosa intende perciò l’autore quando definisce «mafioso» un governo democratico?
Panfilo Gentile non era un magistrato, non era un PM, né tanto meno un Marco Travaglio; il riferimento alla mafia non denuncia quindi infiltrazioni criminali, presunte trattative Stato-mafia o traffici di soldi sporchi. Panfilo Gentile era un filosofo del diritto, un attentissimo osservatore politico e anche un superbo articolista, e quando adopera la fortunata espressione giornalistica «democrazie mafiose» si riferisce a democrazie inceppate, tetraplegiche, a sistemi corrotti e autoreferenziali che strozzano la circolazione dell’élite consentendo a caste di governanti di autoperpetuarsi ad infinitum al governo di una nazione attraverso un privilegiato utilizzo del potere. La definizione è per certi versi affratellata a quella di «democratura». Una democrazia mafiosa è una democrazia morente, una bambola rotta che s’avvia a smettere di essere democratica. E difendere le nostre istituzioni vuol dire proprio questo: rintracciarne le patologiche forme di malcostume e le decennali caratteristiche “mafiose”, così da rendere possibile un progressivo percorso di guarigione.
La differenza tra un governo democratico e i governi che vengono di volta in volta definiti autoritari, dispotici, fascisti, eccetera, scrive Gentile, è pressocché la seguente: all’interno di un sistema democratico i cittadini sono periodicamente chiamati a scegliere i propri rappresentanti politici. In una democrazia rappresentativa come quella italiana, ad esempio, l’elettore delega ad alcuni soggetti – i parlamentari – l’autorità di gestire a suo nome la cosa pubblica, i quali a loro volta la delegano ad un governo espressione della maggioranza parlamentare. Quando la democrazia è sana, i governanti sono responsabili di fronte ai governati, i quali a determinate cadenze temporali possono sostituirli con altri governanti. La democrazia diretta o compiuta – una democrazia in cui la classe dei governanti dovesse coincidere con quella dei governati – resterà sempre, secondo la lezione di Mosca e Pareto, un miraggio e una pericolosa utopia, ma una benefica circolazione delle élite permetterà ai diversi interessi, economici e sociali, di poter arrivare un giorno, potenzialmente, nella «stanza dei bottoni». Una democrazia in salute è, quindi, innanzitutto una democrazia che garantisce il ricambio delle élite.
La presenza di elezioni non basta però, da sola, a rendere un paese democratico. Come in molti regimi autoritari, le tornate elettorali possono essere controllate e dirette, e in tal caso rappresentano un palese tentativo di camuffamento; si tratta di un vero e proprio Tale e Quale Show attraverso cui il despota cerca di darsi una parvenza di legittimità popolare. Cosa occorre quindi ad un’elezione per essere libera?
Al cittadino deve essere garantita, chiaramente, l’incolumità fisica qualunque sia la sua scelta politica. L’elettore deve infatti avere il coraggio di affrontare le schede elettorali e non, per citare Matteotti, la bocca delle rivoltelle. Così come l’incolumità fisica deve essere garantita ai partiti, ai militanti e a chiunque svolga attività politica. Il voto deve poi essere segreto – così da preservare il cittadino da eventuali ripercussioni – e gli scrutini devono essere svolti correttamente e senza l’interpolazione, ad esempio, di schede fasulle. Il sistema deve inoltre garantire che i partiti concorrano lealmente, difendendo quindi «libertà di pensiero, di parola, di stampa, di riunione, di associazione». È evidente che un partito che disponesse di mezzi esorbitanti rispetto ai suoi competitorgareggerebbe da una posizione di immeritato vantaggio, costringendo gli avversari ad una ingiustificabile disfatta.
Se queste basilari precauzioni non sono rispettate, scrive Gentile, «il suffragio è controllato e diretto» e la democrazia va a farsi benedire.
Capita, talvolta, che anche all’interno dei paesi democratici determinate forza politiche decidano di adoperare una serie di pratiche volte a strozzare la circolazione delle élite. L’esempio che utilizza l’autore è quello della Democrazia Cristiana degli anni Sessanta.
È un fatto abbastanza noto che, per una serie di fattori – primi fra tutti la presenza, sulla penisola, di un gigantesco Partito Comunista legato a doppio filo con l’URSS e il contesto internazionale della Guerra Fredda – il partito dello scudo crociato ha potuto godere del monopolio pressocché esclusivo del potere per l’intera durata della cosiddetta Prima Repubblica. Questa prossimità con il potere avrebbe posto, secondo Gentile, la DC in una posizione asimmetrica rispetto a tutti gli altri partiti (eccezion fatta, forse, per il PCI), consentendole di ancorarsi comodamente alle stanze del Governo e di diventare campione di malcostume democratico. Tre pratiche avrebbero contribuito ad assicurare il governo democristiano:
I grandi partiti di massa riescono ad assicurarsi una percentuale stabile di preferenze irreggimentando un pezzo dell’elettorato. Come lo fanno? Queste truppe elettorali non sono composte dai soli tesserati del partito. Al contrario, costoro rappresentano una minuscola parte del sostegno democristiano. Il grosso dell’irreggimentazione è quella compiuta «col concorso di associazioni amiche». Ad ogni tornata elettorale la DC riceveva, per esempio, il sostegno della Chiesa. Le Conferenze Episcopali irrompevano nella campagna elettorale con «ordini categorici» per mobilitare i cattolici in sostegno della DC; lo stesso facevano i Vescovi e il clero regolare, l’Azione Cattolica, i Comitati Civici e gli altri innumerevoli enti religiosi, assistenziali e ricreativi. La DC poteva inoltre godere del supporto dei sindacati bianchi e delle due associazioni bonomiane, Coltivatori diretti e Federconsorzi, un supporto acquistato soddisfacendo determinate richieste di parte e specifici interessi sezionali, a tutto danno dell’interesse generale.
Alcuni dei metodi propagandistici «elaborati dai regimi totalitari» ancora persistono all’interno della democrazie liberali. Ogni aspetto della vita umana deve essere politicizzato. La politica e l’ideologia devono essere ovunque. I cervelli imbevuti di monoideismo. L’arte, la scienza e la filosofia perdono il loro carattere neutrale e libero e diventano veicoli di propaganda. Ogni aspetto della vita umana deve essere filtrato dalle lenti della faziosità partitica. Il 3 gennaio 1954 erano cominciate le prime trasmissioni televisive RAI. Nel 1969, anno di pubblicazione del libro, Gentile aveva quindi potuto osservare l’influenza esercitata sul dibattito pubblico dalla TV di Stato e la sua trasformazione in organo di propaganda del nuovo progetto di centro-sinistra. Scrive infatti:
«La televisione supera tutti: ad opera delle cellule clerico-comuniste che vi sono annidate intossica con veleni nascosti le informazioni, le inchieste, i documentari, le trasmissioni didattiche e scientifiche. Se si occupa dei poliomielitici, dei subnormali, degli illegittimi o dei sordomuti con l’aria di un interessamento caritatevole, non trascura di insinuare che la responsabilità di tutte queste sventure risale alla società capitalistica. Se si occupa del duro lavoro dei minatori o dei pescatori con l’apparente intenzione di segnalare i disagi di queste categorie, non manca di arrangiare le cose in modo che se ne attribuisca la colpa agli intraprenditori. Se viene un’alluvione, un terremoto, un’epidemia, si trova sempre la maniera di seminare il sospetto che ciò sia avvenuto per l’ingordigia dei capitalisti, che avrebbero costruito le dighe con la ricotta, le case con la sabbia e le condutture d’acqua col fango.»
[1] P
3. Il sottogoverno
«Sottogoverno» è un’espressione coniata da Gentile per descrivere l’arte di sottomettere gli organi dell’amministrazione dello Stato ai diktatdi un preciso gruppo politico, l’arte di accasare fedelissimi, arrivisti e smidollati – i «peggiori» di cui parla Hayek nel classico La via della schiavitù– ai vertici di enti statali e parastatali, l’arte del «pubblico mecenatismo», dello scambio di favori, delle sovvenzioni e dei versamenti a una schiera di riviste, settimanali e quotidiani funzionali alla propria narrazione del mondo. È evidente quanto questa pratica dipenda dalla possibilità di spendere soldi (quindi da ingenti quantità di fondi a disposizione) e da quella di usare gli strumenti dello Stato a proprio uso e consumo. E un partito ininterrottamente al governo per quasi mezzo secolo parte ovviamente da una posizione privilegiata.
L’Italia di oggi non è paragonabile all’Italia dei Sessanta. Nell’arco di tempo che ci separa da allora il paese ha compiuto notevoli passi avanti. Freedom House, il think tankstatunitense che monitora lo stato della libertà politica nel mondo, registra l’Italia come un paese sostanzialmente libero, caratterizzato da regolari elezioni democratiche oltre che da una buona dose di pluralismo politico e libertà di espressione. Il quadro non è di certo idilliaco: motivo di preoccupazione restano i diritti della comunità LGBTQI+ e dei migranti, le persistenti disparità territoriali e soprattutto lo stato della libertà economica. L’Index of Economic Freedom dell'Heritage Foundation posiziona ad esempio l’Italia all’ottantanovesimo posto in una classifica di 176 paesi, soltanto un gradino sopra gli stati registrati come mostly unfree.
L’Italia non lesina poi esempi di malcostume.
Dai balneari ai tassisti, passando per gli agricoltori – limitandoci ai casi che coinvolgono l’attuale esecutivo – non crediamo che il lettore debba faticare troppo per rintracciare contemporanee forme di prevaricazione di interessi sezionali sull’interesse generale. Altrettanto preoccupante è lo stato di salute della televisione pubblica. Un articolo del The Economist evidenzia come l’attuale maggioranza di Governo cerchi di occupare la RAI, non a caso ribattezzata TeleMeloni dagli avversari politici, con un’ingordigia ancora maggiore dei Governi precedenti. E tuttavia, anche qui, l’influenza della televisione di Stato sulla società italiana di oggi è largamente ridimensionata rispetto agli anni descritti da Gentile. La pluralità dell’informazione e la moltiplicazione delle fonti, dalla grande stampa a internet ai social network, ci fa ritenere anacronistico e utopistico, oltre che illiberale, l’obiettivo dell’egemonia; il Governo sembra un bambino che vuole mettere il mare in un secchiello, e non s’accorge di quanto è grande il mare, né di come gli manchi il secchiello.
Sono tutti segnali, questi, della strada che ancora c’è da fare. Ma segnali che non devono farci perdere di vista la strada già percorsa.
La nascita della cosiddetta Seconda Repubblica ha instaurato un proficuo bipolarismo che, per quanto imperfetto e viziato da una classe politica spesso inadeguata, ha permesso un certo ricambio delle élite di governo. Anche la recente ascesa di Fratelli d’Italia, piaccia o meno il partito, testimonia però del corretto funzionamento della democrazia italiana, una democrazia che permette ad una forza politica al 4% di arrivare, poi, al governo del paese e di esprimere la presidente del Consiglio. Persino il dibattito pubblico e politico – per quanto scadente, per quanto monopolizzato da talk showe da giornalisti di bassa lega – sembra mantenere la conflittualità nei limiti dell’accettabile e del civile, e ciò è tanto più considerevole in tempi in cui l’Occidente intero è attraversato dal fantasma della violenza, e in cui democrazie storicamente più solide di quella italiana appaiono a molti sull’orlo della guerra civile.
Recuperare oggi le analisi sulle democrazie mafiose di Gentile serve quindi, oltre che a darci un’idea più precisa di dove eravamo e di dove siamo adesso, anche a mettere in chiaro un concetto ancora più importante: dov’è che non vogliamo assolutamente ritornare. Perché dalla Polonia di Diritto e Giustizia all’Ungheria di Viktor Orbán, le democrazie mafiose sono ancora arzille, tanto quanto le forze politiche e i leader a cui un certo sapore di Sicilia, Corleonesi e capi mafia non dispiacerebbe affatto.