Proponiamo questa intervista a Matteo Muzio, giornalista con un background da storico. Ha scritto per il Corriere della Sera, Linkiesta, Domani e Il Foglio. Ha ideato e dirige il portale www.letteretj.it dedicato all'attualità e alla politica statunitense. Proprio su quest'ultima tematica ha gentilmente messo a disposizione le sue conoscenze in una lunga chiacchierata in vista del voto di Novembre.
Crescenzo: Buongiorno, Matteo. Innanzitutto volevo ringraziarti pubblicamente per aver accettato l'intervista. Francamente mi sarebbe piaciuto aprire questo approfondimento sugli Stati Uniti con una nota leggera, però osservando la situazione sembra ci sia ben poco per cui restare sereni. La schiacciante vittoria di Donald Trump alle primarie repubblicane a dispetto dei suoi numerosi processi penali (di Febbraio la condanna a 450 milioni per frode) e l'ombra dell'assalto a Capitol Hill [l'intervista è avvenuta prima della pubblicazione della notizia della condanna di Trump N.d.R.], la lunga trattativa nel Congresso per l’approvazione degli aiuti militari al governo ucraino e le violente occupazioni nelle università americane contro la guerra di Israele in Gaza sono tutti elementi che sembrano riaffermare la profonda polarizzazione politica che sta attraversando il paese, sublimata in “Civil War” di Alex Garland attualmente nei cinema italiani. Ti sentiresti di fornirci un excursus sulle cause e lo sviluppo di un tale processo di radicalizzazione?
Matteo: Credo che sia un processo che ha radici lontane, fino alla Conservative Revolution di Goldwater e Reagan degli anni '60 che ha trasformato gradualmente il partito repubblicano in un partito di destra neoliberista. All'atto pratico però, le cause del fenomeno attuale sono da trovarsi nell'affermazione contemporanea di Fox News e del moderno repubblicanesimo tutto focalizzato sulle culture wars ideato da Newt Gingrich e dai suoi seguaci nel 1994. Per anni, candidati repubblicani tradizionali come BushJr., McCain e Romney hanno tentato con successo di cavalcare questo fenomeno tenendolo nell'alveo di una dialettica democratica. Con la vittoria da parte di Trump quest'argine è caduto e si è affermato quello che fino a poco tempo prima era un fenomeno minoritario, ovvero l'affermazione di un conservatorismo "della rabbia" che invece ha un'altra radice. Mi riferisco a George Wallace, governatore segregazionista dell'Alabama che nel 1968 si candidò da indipendente alle presidenziali di quell'anno. Per molto tempo questo filone è stato estremamente minoritario, ma ora è esploso e non è un caso che uno dei primi supporter istituzionali del trumpismo sia stato proprio un politico dell'Alabama, l'allora senatore Jeff Sessions. Anche in ambito democratico anni di moderatismo di matrice clintoniana hanno mostrato la corda ma rispetto ai repubblicani lì l'argine ha tenuto ed è curioso che nonostante i litigi su Gaza e su altri temi anche il fronte progressista al Congresso rimanga dalla parte di Biden quasi interamente, con micro-eccezioni come la deputata palestinese Rashida Tlaib. In questo la struttura partitica democratica ha saputo meglio reggere l'opa ostile proveniente dalla sua sinistra.
C: Esiste anche una parte di ex-repubblicani che, in maniera simile ai famosi "ReaganDemocrats" degli anni '80, ha scelto di offrire il suo supporto anche finanziario a Joe Biden fin dalle primarie del 2020. Quanto ritieni abbia pesato e stia pesando quel supporto a livello elettorale per l'attuale inquilino della Casa Bianca? Non dimentichiamo che anche all'interno del Congresso c'è una parte non così piccola dell'opposizione che non condivide determinate politiche di Trump, soprattutto il suo isolazionismo in politica internazionale. Però sembra restare totalmente succube dell'ala radicale capeggiata dai vari Boebert, Gaetz e Greene. Inoltre in questo scenario che valutazione daresti dello Speaker repubblicano Mike Johnson che ha negoziato con l'amministrazione il supporto militare all'Ucraina e ad Israele, inimicandosi proprio quella fazione ultra-trumpiana che ne ha permesso l'ascesa?
M: C'è un pezzo di ex repubblicani che potremmo a buon diritto chiamare "BidenRepublicans". Dubito però che potrebbero tornare nel campo repubblicano, ormai sono diventati una corrente moderata dei democratici e lo saranno anche nel prossimo futuro. Johnson dopo un inizio incerto è riuscito a trovare un suo equilibrio crescendo istituzionalmente nel ruolo di figura di grande mediazione.
C: Lo si è visto anche dalla recente mozione di sfiducia promossa dalla parte radicale del suo partito e bocciata con una grande maggioranza. Tornando ai processi di Trump, fino a questo momento sembra dominare l'incertezza. La Corte Suprema ha bocciato all'unanimità la decisione di alcuni stati come il Colorado di impedire la candidatura del tycoon in base all'interpretazione di un emendamento americano che proibiva la nomina di persone coinvolte in atti insurrezionali. Inoltre sono stati appena rinviati a dopo le elezioni presidenziali i processi per i fatti del 6 gennaio e i documenti top secret ritrovati nella villa di Mar-a-Lago. Dall'altra parte l'ex-presidente è stato condannato a pagare svariate milioni di dollari per bancarotta e diffamazione a cui si stanno sommando le varie sanzioni penali per i ripetuti attacchi alla corte perpetrati sui social. Che impatto finanziario e propagandistico stanno avendo queste vicende sulla campagna elettorale?
M: Un impatto limitato sugli umori dei militanti, non interamente misurabile sugli indipendenti. I segnali nei sondaggi sono fuorvianti perché non è ancora chiara all'elettorato la possibilità che Trump possa effettivamente tornare. Le difficoltà di Trump rispetto a Biden sono tuttora un fattore, non va però dimenticato il fatto che il cospicuo vantaggio economico di Hillary non salvò la campagna dei dem nel 2016.
C: Il vantaggio economico non sembra stia salvando molto neanche Biden. Nonostante la disoccupazione sia crollata sotto il 4% grazie al suo piano infrastrutturale ed anche la povertà ed il crimine stiano attraverso una fase di declino impressionante dopo l'uscita dalla pandemia, il tasso di approvazione del Presidente continua ad essere sotto il 40% e molti americani, anche tra gli elettori democratici, sostengono nei sondaggi che con Trump la situazione economica fosse migliore. Si può spiegare questo apparente scollamento dalla realtà semplicemente con lo scarso carisma e le continue gaffes di “SleepyJoe” (nomignolo affibbiatogli dal suo predecessore) o ci sono ragioni più profonde dietro?
M: I dem sono un partito in salute con un candidato debole, se prevarrà il voto alle idee e ai provvedimenti, abbinato al rischio di un Trump più radicale di quello del 2017-2021, dovrebbe prevalere il presidente in carica.
C: Quindi ritieni improbabile una vittoria di Trump senza questi fattori? Non dobbiamo dimenticare che in entrambe le ultime presidenziali è sempre andato meglio rispetto alle previsioni.
M: Sì ma non può contare su un vasto cuscino di indipendenti su cui ha potuto costruire la sua vittoria nel 2016 e il suo buon risultato nel 2020.
C: Quanto ritieni conti il voto degli indipendenti oggi in un paese così profondamente diviso? Guardandola in superficie mi pare si possano notare alcune similitudini con i turbolenti anni '70: le contestazioni giovanili, l'impeachment presidenziale mancato, il disastroso ritiro del Vietnam... Ovviamente ci sono anche distinzioni macroscopiche, ma in prospettiva ritieni che sia possibile definire un parallelo tra i due periodi?
M: Ci sono delle similitudini ma sono solo in superficie. Se allora c'era un disincanto quasi "primario", perché per la prima volta la maggioranza dell'opinione pubblica perdeva la fiducia nell'eccezionalismo americano, in questo caso siamo nella coda lunga della fine del consenso neoliberista cominciato negli anni '90, dove si pensava che o in senso solidaristico o in senso conservatore si potesse riporre una fiducia quasi completa nelle virtù salvifiche dell'ampliamento graduale del libero scambio fino alla scala globale. Dopo Trump c'è stato un riassestamento anche del campo progressista anche se oggi entrambi gli schieramenti hanno un deficit di leadership. Non dimentichiamo nemmeno che oggi abbiamo due candidati quasi ottantenni mentre allora sia Nixon che McGovern erano due cinquantenni, quindi due leader relativamente giovani. Riguardo agli indipendenti: sono nettamente il gruppo maggioritario della politica americana ma sono anche un magma che alla fine cade da una parte o dall'altra. Mi spiego: il gruppo intero è troppo eterogeneo e composito per costituire una forza autonoma che possa superare la forza degli schieramenti tradizionali. Certo però non vengono conquistati dagli atteggiamenti polarizzanti e questo vale principalmente per il campo trumpiano.
C: Questo lo si può notare anche da come Nikki Hailey, la principale sfidante interna di The Donald, continui a raccogliere un buon numero di consensi nelle primarie ancora in corso pur essendosi ufficialmente ritirata da oltre due mesi, tanto che alcuni consiglieri di Trump gli starebbero suggerendo di sceglierla come sua vice per raccogliere quel consenso moderato del vecchio GOP istituzionale. Per quanto riguarda l’elettorato di Trump, è interessante notare come già da qualche anno il suo partito stia registrando un crescente e storico appoggio tra gli elettori non bianchi, in particolare i latinos. Un altro tema su cui tu ed il tuo staff avete scritto, se non ricordo male.
M: Sì, le minoranze etniche stanno cominciando ad allinearsi ai bianchi: si vota per convinzione ideologica e non più per appartenenza o gratitudine per quanto fatto dai dem durante l'epoca dei diritti civili.
C: Ironico visto quanto le élite progressiste cresciute nei grandi centri si siano focalizzate nel periodo recente proprio sui problemi delle minoranze. Tanti analisti hanno puntato il dito proprio sull’impianto esclusivo ed autoreferenziale delle università statunitensi. Come si sarebbe creata questa bolla?
M: Una questione molto complessa difficile da liquidare in poche battute. Si può dire però che la polarizzazione politica ha prodotto un'erosione del centro che come conseguenza ha provocato l'aumento delle pulsioni illiberali. A differenza che nella società, nell'accademia sono i radicali di sinistra a esercitare le maggiori pulsioni censorie.
C: Questa erosione è destinata a proseguire o ci sono ancora possibili riduzioni? Non si potrebbe proporre ad esempio la riduzione dei fondi statali nei campus per creare un sistema competitivo che allarghi il bacino sociale degli iscritti? Tra l’altro già diversi investitori privati hanno ritirato i loro finanziamenti in segno di dissenso verso gli accampamenti degli studenti pro-Intifada.
M: La situazione probabilmente si calmerà in qualche modo. Non credo che il taglio dei fondi statali possa essere un incentivo per allargare il ceto degli iscritti. Di sicuro porterebbe a decisioni draconiane da parte della dirigenza dei campus per recuperare quei sospirati finanziamenti. Ad ogni modo questa sarebbe una soluzione temporanea e non una riforma radicale che però non può essere costituita da un taglio lineare dei fondi.
C: Quali possono essere possibili soluzioni per deradicalizzare il popolo conservatore? Inutile girarci intorno, nel caso dei repubblicani sono stati gli elettori la ragione del ritorno di Trump quando il suo partito sembrava in procinto di scaricarlo. Persino "Fox News", la principale emittente televisiva della destra americana, aveva cercato dapprincipio di promuovere la scalata di Ron DeSantis, il quale aveva comunque fatto sua buona parte della retorica e dei programmi MAGA. Il trumpismo è divenuto ormai inscidibile dal Partito Repubblicano?
M: Ormai c'è una classe politica nuova, incarnata da alcuni giovani senatori come Josh Hawley del Missouri e J.D. Vance dell'Ohio, che si potrebbe definire non solo nazional-conservatrice, ma anche post-democratica per il livello di disprezzo per il liberalismo che prescinde dal loro sostegno per Trump. I tempi di McCain e Romney ormai sono andati e l'attuale partito repubblicano è molto più simile a quello che erano i dem conservatori del Profondo Sud negli anni '60 rispetto al partito di Reagan.
C: Una delle problematiche su cui i due partiti tendono ad accapigliarsi maggiormente è quella legata all'immigrazione che ha raggiunto nel 2023 un record di oltre 2 milioni di arrivi. Il risultato di questo gran spostamento di persone è che da un lato le imprese americane possono disporre di molta manodopera a basso costo, ma ciò va a discapito nel breve periodo della classe operaia bianca (e non solo), che infatti costituisce uno dei bastioni del Partito Repubblicano. C'è poi la questione legata alla sicurezza pesantemente cavalcata dalla destra. Su questo fenomeno quanto è stato sostanzialmente differente l'approccio di Biden rispetto a Trump? Dove hanno fallito e dove hanno avuto ragione le ultime due amministrazioni?
M: Non ci sono torti e ragioni, ma soltanto la necessità di risolvere un problema con radici profonde che però indispettisce le ali militanti dei due partiti: i progressisti dem non ammettono che ci vogliano dei respingimenti per parte degli arrivi così come i repubblicani conservatori non ammettono che i percorsi per ottenere la cittadinanza risultano lunghi e farraginosi. Ci vorrebbe un ampio lavoro bipartisan che però scontenterebbe buona parte dell'elettorato, come quello trattato al Senato dal dem Chris Murphy e dal repubblicano James Lankford, che pure scalfiva soltanto la superficie del problema, ovverosia la sicurezza delle aree al confine. Con un eventuale ritorno di Trump alla Casa Bianca, ci sarebbe un brutale inasprimento delle misure di contenimento che però non porterebbe a una soluzione nemmeno a voler soprassedere sulla questione dei diritti umani
C: Chiudiamo con una nota di colore sui concorrenti minori. Pochi giorni fa il Partito Libertario ha eletto un suo candidato per le presidenziali nonostante il tentativo di Trump di raccoglierli dietro di sé. Il tycoon ha anche ricevuto numerosi fischi e contestazioni quando si è presentato alla convention del partito e lo stesso candidato Chase Oliver lo ha definito un "criminale di guerra". Non dimentichiamo che i libertari sono stati storicamente una stampella dei repubblicani. Rischiano seriamente di inimicarsi il loro appoggio? Tra gli sfidanti di Oliver c'era anche l'ultra-cospirazionista Robert Kennedy Junior. Qualora anche lui voglia proseguire la corsa da indipendente ritieni possa portare a Trump un grosso svantaggio?
M: Sì ritengo che Kennedy Junior con le sue posizioni cospirazioniste sui vaccini e la sua ostilità nei confronti della causa ucraina sia un danno maggiore per Trump anziché per Biden, come si credeva qualche tempo fa. I libertari hanno sicuramente delle vicinanze col Gop storico ma ultimamente le misure liberticide di DeSantis che ingeriscono pesantemente con la gestione interna delle imprese lo allontanano molto dal mondo libertario che infatti a maggioranza ritengono i MAGA dei socialisti di destra.
C: Grazie ancora per il tempo prezioso concesso, Matteo. Raccomando ai nostri lettori appassionati di America di iscriversi alla tua newsletter. Non ne resteranno delusi.