di M. Salvemini

Redazione Storia

LIBRO

A Modern History of Southeast Asia: Decolonization, Nationalism and Separatism
di Clive J. Christie
Tauris Academic Studies (31 dicembre 1997)

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Quando un potenziale lettore prende in mano questo libro per la prima volta potrebbe pensare che si tratti dell'ennesimo manuale destinato ai corsi iniziali sulle aree dell'Asia e del Pacifico. L'obiettivo di Clive J. Christie è, invece, quello di analizzare le cause e gli esiti dei numerosi movimenti separatisti etnici e regionali sorti in concomitanza con la transizione all'indipendenza dell'area nel secondo dopoguerra.

Clive J. Christie è senior lecturer di Storia del Sud-Est asiatico presso l'Università di Hull. Tra le sue recenti pubblicazioni ricordiamo il libro discusso oggi, ovvero "A Modern History of Southeast Asia: Decolonisation, Nationalism and Separatism", "Southeast Asia in the Twentieth Century: A Historical Reader" [1] e "Race and Nation: A Documentary Reader" [2]. Recentemente si è occupato anche della storia della guerra del Vietnam, concentrandosi sulla questione del suo significato internazionale durante l'era anticoloniale.

Dalla fine della Seconda guerra mondiale, l'attenzione degli studiosi si è concentrata proprio  sull'emergere dei partiti nazionalisti nel Sud-Est asiatico all'inizio del 1900 e sulla loro successiva creazione di Stati nazionali nella regione, dopo il ripristino dell'indipendenza. I movimenti separatisti sono sempre stati percepiti dai governi competenti e da altri osservatori come ampiamente motivati da divisioni etniche, religiose o regionali.

Negli ultimi anni, in particolare, si è registrato un notevole aumento dell'attenzione nei confronti dei movimenti separatisti, uno sviluppo probabilmente dovuto in parte al fatto che diversi movimenti di questo tipo sono emersi in Europa, Asia e Africa sulla scia della Guerra Fredda. Alcuni hanno persino previsto l'ascesa di un nuovo paradigma in futuro, in cui entità territoriali più piccole che operano all'interno di una comunità globale più interconnessa sostituiranno lo Stato-nazione, che si prevede diminuirà.

Secondo Christie, l'esperienza del Sud-est asiatico offre la possibilità di indagare gli inizi di tali attività e i loro effetti sull'emergere e sul consolidarsi delle unità nazionali all'interno della regione. In questa regione, nell'immediato dopoguerra, diversi movimenti separatisti fecero la loro comparsa per opporsi alle spinte del nazionalismo emergente. Prendendo spunto da diversi casi che interessarono più paesi (come i Karen e gli Arakanesi in Birmania, i Cinesi dello Stretto nell'isola di Penang, i Montagnard nell'Indocina francese, i Malesi Patani nel sud della Thailandia e la rivolta di Aceh nel nord di Sumatra), l'autore deduce che tutti questi movimenti ebbero origine da un evento storico comune: la progressiva emersione di un sentimento di unità tra i popoli della regione durante gli ultimi anni dell'era coloniale.

Tuttavia, si nota come, alla fine, i loro obiettivi fossero spesso molto diversi. Alcuni gruppi, come i Karen in Birmania e gli insorti delle Molucche nell'Indonesia orientale, aspiravano all'indipendenza o all'autogoverno, mentre i musulmani Patani nel sud della Thailandia preferivano rimanere parte di uno Stato vicino. D'altro canto, gli Acehnesi tentarono, senza riuscirci, di reinterpretare la nuova ideologia nazionale indonesiana nel contesto di una società islamica epurata.

La maggior parte di queste tribù viveva come piccole minoranze, spesso isolate, all'esterno di grandi "imperi etnici", come l'autore chiama gli antichi regni della zona, prima dell'invasione degli europei. I governanti coloniali spesso promuovevano il loro sentimento di indipendenza per disperdere le forze ostili insorte in resistenza al controllo europeo. 

Alla fine, però, il nazionalismo prevalse in tutta l'area e le amministrazioni coloniali uscenti lasciarono queste comunità minoritarie a sé stesse. Dopo il ripristino dell'indipendenza, la maggior parte delle minoranze venne reintegrata in varia misura nella comunità nazionale.

Perché questi movimenti non ebbero successo? Christie ritiene ragionevolmente che uno dei motivi del loro fallimento sia stato il grande desiderio di stabilità e unità nazionale della regione negli anni successivi alla fine dell'era coloniale. Tuttavia, egli sostiene anche che il successo o il fallimento siano dovuti ai risultati o alla carenza di competenze di statecraft (arte di governare) in un momento cruciale della storia delle nazioni in questione, piuttosto che essere «la conseguenza di irresistibili e immutabili "leggi" dell'etnicità o del nazionalismo» [3].

Alla luce della caduta del comunismo internazionale e dell'apparente rafforzamento delle tendenze centrifughe in alcune parti del mondo, cosa ci riserva il futuro? Christie sottolinea che sono entrati in scena alcuni elementi imprevisti, come l'emergere di una Cina più assertiva e la democratizzazione della politica, che dà voce a movimenti populisti, come l'espansione del movimento separatista di Timor, e un Islam più militante in alcune nazioni della regione. L'autore giunge alla conclusione che gli elettori dell'area esitino a rischiare con le loro istituzioni politiche e abbiano "una naturale inclinazione verso la stabilità" [4]. Queste righe sono state scritte prima della catastrofe finanziaria che travolse l'area nell'estate e nell'autunno del 1997. Viene da chiedersi quanto durerà questa "propensione alla stabilità" in un contesto nuovo e imprevedibile.


PAPER

Oriental by Design: Ottoman Jews, Imperial Style, and the Performance of Heritage
di Julia Phillips Cohen
The American Historical Review, Volume 119

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Julia Phillips Cohen è professoressa associata presso il Programma di studi ebraici e il Dipartimento di storia della Vanderbilt University. È autrice di "Becoming Ottomans: Sephardi Jews and Imperial Citizenship in the Modern Era" [5], premiato nel 2015 col Jordan Schnitzer Award in Modern Jewish History e il Barbara Jelavich Prize dell'Associazione per gli Studi Slavi, dell'Europa Orientale ed Eurasiatici (ASEEES).[6]

Stando all'analisi condotta dall'autrice, durante la prima metà del XIX secolo molte donne ottomane iniziarono a indossare per la prima volta un abito, ma continuarono a portare regolarmente pantaloni larghi e vestaglie, riservando gli abiti in stile europeo alle occasioni speciali. Cambiavano il loro abbigliamento quando si spostavano tra spazi pubblici e privati: alcune optavano per gli abiti tradizionali in casa e li modificavano per adattarli alla moda occidentale quando uscivano. Il passaggio all'abbigliamento europeo è stato graduale, con le donne che hanno scelto di indossare abiti di stile occidentale come le redingotenella seconda metà del secolo.

Gli uomini ebrei ed i musulmani dell'Impero Ottomano adattavano il loro abbigliamento alle funzioni religiose, incorporando il fez, un copricapo cilindrico in feltro, nelle loro pratiche sacre. Gli uomini ebrei ottomani erano noti per indossarlo durante la lettura delle scritture, mentre i maschi musulmani lo indossavano in moschea. Il cappello e la tonaca furono introdotti dal sultano Mahmud II come parte di un'uniforme laica che fungeva da indicatore della modernità maschile ottomana standardizzata.

L'auto-orientalismo svolse un ruolo significativo nell'identità degli ebrei ottomani durante il tardo periodo ottomano, aiutandoli ad acquisire capitale sociale, culturale, politico ed economico. Gli ebrei ottomani fecero dell'auto-orientalismo un mezzo per identificare e celebrare la loro eredità imperiale ottomana, soprattutto in un periodo in cui le tendenze globali si orientavano verso il nazionalismo folcloristico. Il loro attaccamento all'orientale era una forma di nostalgia imperiale e di patriottismo folcloristico, la quale si intensificò con il declino dell'Impero Ottomano.

La religione, sostiene la Cohen, influenzò le pratiche di abbigliamento femminile nell'Impero Ottomano, ove le donne musulmane scelsero sempre più spesso di indossare abiti di stile europeo in ambienti pubblici durante la seconda metà del XIX secolo. Le scelte di stile delle donne furono modellate dalle norme religiose e dalle aspettative della società, riflettendo una miscela di tradizione, modernità e identità religiosa nel loro abbigliamento.

Lo stile imperiale, invece, svolse un ruolo cruciale nel preservare la memoria del patrimonio e dell'identità ottomana. I rappresentanti, gli artisti e gli intenditori ottomani cercarono di acquistare e creare oggetti che simboleggiassero la loro distinzione imperiale, riflettendo un senso di orgoglio e di legame con il loro patrimonio culturale. La promozione dello stile imperiale attraverso l'architettura, l'arte e l'abbigliamento serviva ad affermare l'identità ottomana ed a distinguere l'impero dalle uniformità globali, sottolineando un'essenza artistica ed una foggia nazionale uniche.

L'articolo esplora quindi come l'auto-orientalismo abbia influenzato l'identità degli ebrei ottomani durante il tardo periodo ottomano, evidenziando il loro impegno con l'eredità imperiale ottomana e le complessità del loro attaccamento all'orientale. Lo studio sottolinea il ruolo dell'auto-orientalismo nell'acquisizione di varie forme di capitale e nella navigazione delle mutevoli tendenze globali verso il nazionalismo, insieme all'importanza dello stesso nel plasmare l'identità culturale, sociale e politica degli ebrei ottomani durante il declino dell'Impero Ottomano.


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