Anna Politkovskaja e Aleksei Navalny: due vittime di Putin in epoche diverse

Tutti hanno paura ora, e anch'io sono una parte del tutto. Anch'io ho paura, ma questa è la mia professione e avere paura è una cosa tua, personale

(A. Politkovskaja, 2003)

Il mio messaggio nel caso mi uccidano è molto semplice: non arrendetevi

(A. Navalny, intervista nel documentario della CNN 'Navalny', 2022)

Fonte: Pexels

 

Il 26 febbraio è stata diffusa la notizia di trattative in corso da molto tempo per scambiare Navalny con un agente dei servizi segreti russi prigioniero in Germania.

Maria Pevchikh, collaboratrice della Fondazione anti-corruzione, ha affermato che l'oppositore doveva essere rilasciato nell'ambito di uno scambio di prigionieri con gli Usa e la Germania. L’accordo doveva portare al rilascio anche di due americani detenuti in Russia (probabilmente Evan Gershkovich e Paul Whelan) in cambio di Vadim Krasikov, colonnello dell’Fsb, detenuto in Germania per l’omicidio a Berlino di Zelimkhan Khangoshvili, un georgiano di origine cecena. Per questo crimine Krasikov sta scontando un ergastolo.

Difficile capire cosa abbia impedito l’accordo, che i collaboratori stavano cercando di realizzare da molto tempo, con il supporto di varie personalità tra cui Kissinger. Che forse Putin, considerando troppo pericoloso Navalny, abbia deciso di eliminarlo come prova di forza in vista delle imminenti elezioni? In ogni caso, è certo che per lo Zar del Cremlino Navalny era diventato un grande problema. Forse paragonabile a quello rappresentato dalla giornalista Anna Politkovskaja.

I due oppositori erano personaggi totalmente diversi tra loro, con ben poco in comune. Politkovskaja era una reporter pura, nata negli USA da diplomatici ucraini ai tempi dell’URSS. Aveva studiato giornalismo a Mosca ed era sempre stata una giornalista, fino alla sua morte, avvenuta per mezzo di quattro colpi di Makarov (la vecchia pistola di ordinanza delle forze armate sovietiche) nell’atrio dell'edificio dove abitava. Era il 7 ottobre 2006, il giorno del compleanno di Vladimir Putin. Con Navalny si è scelto invece un metodo meno rumoroso.

Aleksei Navalny era figlio di un militare sovietico, ma essendo nato quasi vent’anni dopo la Politkovskaja era cresciuto nell’epoca post-comunista. Laureato in legge, è stato un imprenditore, un politico, un blogger. Mentre Anna era andata dritta per la sua strada, Aleksei aveva girato un po’ in tondo. Anche politicamente. Era partito da posizioni ultranazionaliste e xenofobe, e secondo Limonov (il poeta guerriero, fondatore del Partito Nazibolscevico insieme ad Aleksandr Dugin) era un finto oppositore funzionale al regime, uno che veniva arrestato e poi rilasciato.

Limonov in un certo senso aveva ragione. Ma con il tempo Navalny si è evoluto e la sua fondazione anticorruzione è diventata presto una spina nel fianco del regime di Putin. Ciò l’ha poi reso il più noto dei dissidenti russi. Avvelenato nel 2020, episodio che lo portò in coma e poi a essere curato in Germania, nel 2021 decise di tornare in Russia, dove fu arrestato e condannato a una lunga pena detentiva in diverse prigioni di massima sicurezza. Infine, il 16 febbraio 2024 è morto nel penitenziario federale russo IK-3, nella città di Kharp (costruita dai prigionieri del sistema Gulag sovietico) nel distretto Priuralsky, non lontano dal Mare di Barents nel Circolo Polare Artico.

Percorrendo strade diverse, Navalny e Politkovskaja erano giunti allo stesso risultato: diventare l’incubo di Putin. Entrambi colpivano la cleptocrazia di Mosca nelle sue due colpe principali (che in fondo sono sempre le colpe principali di tutte le dittature), il primo con le sue inchieste sulla corruzione, la seconda con le sue inchieste sulle violazioni dei diritti umani.

Secondo il caporedattore della Novaya Gazeta, dove lavorava Anna, la Politkovskaja stava per pubblicare un'importante inchiesta su abusi e torture commesse dai servizi di sicurezza ceceni di Ramzan Kadyrov. I funerali si svolsero il 10 ottobre a Mosca e parteciparono oltre mille persone. Tra i presenti Marco Pannella (unico politico italiano), amico di Anna Politkovskaja. Nessun rappresentante del governo russo.

Putin dichiarò: L’autore del delitto non resterà impunito, aggiungendo che Anna Politkovskaja era ben conosciuta fra i giornalisti, gli attivisti per i diritti umani e in Occidente. Tuttavia, la sua influenza sulla vita politica russa era minima.

Anna Politkovskaja era una donna coraggiosa che non solo denunciava i crimini di guerra e il terrorismo di stato dell’esercito russo in Cecenia, ma che descriveva, con il suo stile asciutto, la realtà di quello che vedeva accadere in Russia dopo la caduta dell’URSS: un momento di grande caos e miseria ma anche di estrema libertà per la stampa, che dopo la salita al potere di Putin si è trasformata in una feroce dittatura di una cricca criminale.

Nell’introduzione del suo libro più conosciuto, La Russia di Putin (2000), la Politkovskaja scriveva:

"diventato presidente, Putin – figlio del più nefasto tra i servizi segreti del Paese – non ha saputo estirpare il tenente colonnello del KGB che vive in lui, e pertanto insiste nel voler raddrizzare i propri connazionali amanti della libertà. E la soffoca, ogni forma di libertà, come ha sempre fatto nel corso della sua precedente professione."

Come altri giornalisti russi, Anna ha pagato caro il suo coraggio e la sua dedizione alla verità.

Verità e notizie, erano questi i punti di riferimento della Politkovskaja, che iniziò la sua carriera all’Izvestija (in russo Известия, cioè Notizie), uno dei più antichi giornali russi, fondato nel 1917 durante la rivoluzione. Poi nel 1999 passò alla Novaya Gazeta, fondata nel 1993 da un gruppo di giornalisti provenienti dalla Pravda sovietica (Правда, Verità), tra cui l’attuale direttore Dmitri Muratov, premio Nobel per la pace nel 2021. Il Nuovo Giornale (questa la traduzione italiana del suo nome) fu sostenuto da Gorbacev, che fino alla morte ne fu azionista, e aveva come obiettivo un giornalismo d’inchiesta, indipendente. Obbiettivo pienamente raggiunto, anche se a caro prezzo: sono infatti sette, dal 2000 a oggi, i redattori della testata uccisi. Testata che ha sospeso le pubblicazioni in Russia dopo l’invasione dell’Ucraina, trasformandosi in Novaya Gazeta Europa, con sede a Riga in Lettonia.

Nel giugno 2023 la procura generale della Russia ha dichiarato Novaya Gazeta “organizzazione indesiderabile”. Notizie e Verità, dicevamo, erano il faro di Anna Politkovskaja e dei suoi colleghi. Nella Russia Sovietica la Pravda era il quotidiano del Partito, mentre l’Izvestija era il giornale del Soviet Supremo. Nell’URSS si sussurrava, ovviamente solo tra persone fidate, Nella Pravda (Verità) non ci sono notizie e nella Izvestija (Notizie) non c'è verità.  Anna Politkovskaja però non criticava solo la Russia di Putin ma anche l’Occidente. La prima frase dell’introduzione del già citato La Russia di Putin recita: Questo libro parla di un argomento che non è molto in voga in Occidente: parla di Putin senza toni ammirati.

Non solo quindi “con Putin la Russia sta recuperando i peggiori valori sovietici, come il brutale fondamentalismo stalinista. (...) La Russia sta per precipitare in un abisso, scavato da Putin e dalla sua miopia politica”, ma anche l’Occidente è stato complice passivo, chiudendo per anni un occhio o addirittura tutti e due su quello che stava succedendo in Russia, in termini di persecuzioni, minacce, arresti, condanne e addirittura uccisioni di giornalisti (21 assassinati da quando Putin ha conquistato il potere, altri scomparsi nel nulla, altri ancora vittime di incidenti), di politici (Nemtsov, ucciso a colpi d’arma da fuoco, lo stesso Navalny, o Kasparov, costretto all'esilio dopo i continui arresti), di omosessuali (recentemente il movimento LGBT è stato dichiarato organizzazione estremista e sappiamo che nel feudo ceceno di Kadyrov esistono lager per omosessuali) e di artisti (pensiamo alla persecuzione delle Pussy Riot).

Anna Politkovskaja ha cercato di avvertire non solo la Russia ma tutto il mondo della pericolosità di Putin. Ma non è stata ascoltata. Lei, essendo nata a New York, aveva anche la cittadinanza americana, dove sarebbe potuta diventare ricca oltre che ancora più famosa. Invece, nonostante le minacce di morte e il tentativo di avvelenamento, scelse di restare in Russia e nel 2006 venne uccisa. Ma nel 2006 sembrava che Putin fosse uno dei tanti leader autoritari non pericolosi per l’occidente ma solo per il suo popolo. “Un dittatore, di cui però si ha bisogno”, per citare l’espressione usata da Draghi per Erdoğan (di cui prima o poi forse l’Occidente capirà la pericolosità).

L’anno successivo, però, la politica estera di Putin cambia, con una decisa svolta antioccidentale. Nel febbraio 2007 infatti, alla conferenza di Monaco sulla Sicurezza, per la prima volta attacca apertamente l’occidente e gli Stati Uniti, rivendicando un ruolo più importante nello scacchiere internazionale oltre che una politica decisamente aggressiva. Un discorso che sembra riprendere le tesi di Aleksandr Dugin, il teorico dell’Eurasiatismo moderno, esposte nel saggio del 1997 Fondamenti di Geopolitica, secondo cui la Russia deve ritornare a essere un impero eurasiatico, riconquistando i territori perduti (Finlandia, paesi Baltici, Polonia, paesi del Caucaso e le nazioni ex sovietiche; Ucraina, Kazakhistan ecc.), portando o riavvicinando i paesi cristiano-ortodossi (Grecia, Serbia, Macedonia, Romania) dalla sua parte, gestendo alleanze tattiche con Francia e Germania (dopo aver dissolto la UE con la guerra ibrida), Cina, Giappone e Iran. Tutto questo usando in parte la forza militare, in parte la guerra ibrida (disinformazione e finanziamento di partiti e movimenti antieuropei, antiamericani, antioccidentali, tradizionalisti, populisti), in parte utilizzando le risorse energetiche (gas e petrolio) e gli accordi commerciali.

Nel luglio dello stesso anno la Russia annuncia di non volere più aderire al Trattato sulle Forze Armate Convenzionali in Europa. Nel 2008 Dugin visita l’Ossezia del Sud, in Georgia, e dichiara: “Le nostre truppe occuperanno la capitale georgiana, Tbilisi, tutto il paese, e forse persino l’Ucraina e la penisola di Crimea, che storicamente fa parte della Russia”. Ad agosto Putin attacca la Georgia, applicando le tesi di Dugin. Ma ancora in Occidente non si capisce o non si vuole capire. Si continua a usare il petrolio e il gas russo e si guarda indifferenti alle occupazioni militari e alle ingerenze in Asia e Africa, nonché alla brutalità di un regime che mostra sempre più apertamente la sua crudeltà.

Navalny ci ha messo più tempo ma è giunto alle stesse conclusioni di Politkovskaja. Entrambi hanno affrontato l’inevitabile morte con il tipico fatalismo russo. Solo nel febbraio 2022, quando Putin attacca Kiev dopo aver negato di volerlo fare, anche l’Occidente finalmente capisce.

 

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