DDL Sicurezza: Parte 3 - Sicurezza urbana, penitenziaria e migranti

Nella prima parte si è posta l’attenzione sulle misure contro la Cannabis sativa Linnaeus. Nella seconda parte sui provvedimenti contro ambientalisti e studenti. In questa sede, conclusiva dell’iter sul discusso ddl, si tenterà di riflettere sulle riforme nei campi migratorio, penitenziario e infine urbano.

Stranieri, permesso di soggiorno e S.I.M.

Questo articolo della riforma - il 32 - non esisteva al momento della presentazione del disegno di legge, ma è stato inserito in corso d’opera dalla maggioranza parlamentare. La disciplina vigente in materia di comunicazioni elettroniche è contenuta all’interno del d.lgs. 259/2003. Per effetto di questo disegno di legge, all'art. 30 verrebbe aggiunto il comma 19-bis e poi sarebbe inserita una frase all’interno dell’art. 98-undetricies: è in quest’ultimo articolo che la legge attualmente impone alle imprese di telefonia mobile l’obbligo di identificare gli utenti che vogliano acquistare una scheda elettronica (S.I.M.). Con la riforma, qualora l’utente non fosse cittadino di uno Stato dell’UE, gli verrebbe richiesto anche il rilascio di una copia del titolo di soggiorno: in caso di inadempimento, l’impresa sarebbe impossibilitata a rilasciare la scheda elettronica. A pagare le conseguenze di eventuali contravvenzioni al divieto sarebbe l’impresa stessa alla quale verrebbe inflitta una pesante sanzione amministrativa pecuniaria, nonché una pena accessoria di chiusura dell’attività per un periodo da 5 a 30 giorni.

La riforma in questione è piuttosto singolare, tuttavia presenta numerose insidie. La ratio che sta dietro a questo ulteriore onere identificativo è da ricondurre al tentativo di ostacolare le organizzazioni criminali, le quali si servono talvolta di stranieri irregolari per svolgere compiti da manovale, riconducibili ad operazioni commerciali sommerse - e quindi illegali: è valutazione della maggioranza che attualmente siano le stesse imprese a facilitare - ovviamente in modo incolpevole - le comunicazioni all’interno dei piani bassi delle organizzazioni, proprio fornendo le S.I.M. Il divieto troncherebbe perciò a monte la presunta fonte di questo rifornimento. D’altra parte l’impatto che questa riforma avrebbe sulla libertà di comunicazione, tutelata dall’art. 15 della Costituzione, non è da sottovalutare. Verrebbe infatti in essere una disparità di trattamento tra cittadini dell’UE e cittadini stranieri. È necessario dunque verificare in primo luogo se questa privazione di libertà sia o meno giustificata dalla lotta ai commerci illeciti; in secondo luogo se la misura proposta sia effettivamente idonea allo scopo. A sentire le accese polemiche da parte delle opposizioni, è molto probabile che - in caso di entrata in vigore del ddl - su questo argomento verrà chiamata a pronunciarsi la Corte costituzionale.

Rivolte tra carcerati e migranti

Gli artt. 26 e 27 del disegno di legge verranno trattati insieme per comunanza di tematiche. A causa dei problemi di sovraffollamento e di degrado che affliggono sia i centri di detenzione per i carcerati che le strutture di trattenimento e accoglienza per i migranti, negli ultimi tempi sono aumentate le attività sovversive e le rivolte degli internati a danno delle autorità addette alla sorveglianza. 

Non si mette in discussione il fatto che qualsiasi atto che possa compromettere l’ordine all’interno degli istituti detentivi debba essere bloccato e sanzionato a dovere, così come non si può negare la necessità di tutela delle forze pubbliche di sorveglianza. Tuttavia è vitale essere consapevoli del fatto che il diritto penale non sia l'unica risposta alle criticità: è sensata l’introduzione di nuovi reati (o l’aggravamento delle pene), ma soltanto nel momento in cui a queste misure ne vengano affiancate altre, dirette ad agire (non a valle ma) a monte della disfunzionalità. L’inasprimento del diritto penale avrà perciò la sua utilità nel breve

periodo, con la propria sfumatura intimidatoria; a medio e a lungo termine invece si deve intervenire in senso opposto sui reati meno gravi, riducendo in primo luogo il carattere carcero-centrico della pena e in secondo luogo ricorrendo ad un utilizzo più frequente delle sanzioni civili e amministrative. Il panpenalismo, al contrario, avrà la sola funzione di cura palliativa, con il preoccupante effetto collaterale - oltre ad aggravare i sovraffollamenti - di aumentare i processi e, conseguentemente, allungarne ancora maggiormente i tempi.

Tornando alla riforma, l’art. 26 inserisce una circostanza aggravante nell’art. 415 del Codice penale, rubricato Istigazione a disobbedire alle leggi: La pena è aumentata se il fatto è commesso all’interno di un istituto penitenziario ovvero a mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone detenute. Il significato letterale è molto chiaro, il senso dell’intervento molto meno: questo articolo del Codice è da decenni fonte di discussioni tra i tecnici del settore, culminate nel 1978 con una pronuncia di incostituzionalità parziale da parte di una - perfino timida - Corte costituzionale. Le ragioni delle perplessità sono da ricondurre alla parola leggi nella rubrica dell’articolo. Cosa si intende con questo termine? Certamente non si può intendere “leggi penali”, perché in quel caso verrebbe applicato un altro articolo, ovvero il 414. Quindi si dovrà far riferimento alle altre leggi: ha senso dunque punire penalmente l’istigazione a disobbedire a leggi amministrative e civili? Non molto. Se già quindi il reato base è poco ragionevole, ancora meno può esserlo l’aggravante dell’art. 26. 

Più significativo l’inserimento dell’art. 415-bis: una fattispecie inedita per punire la rivolta in carcere. In questo caso, ha scatenato molte discussioni l’inclusione - tra le condotte rilevanti - della resistenza passiva, che, in quanto tale, di per sé non sarebbe abbastanza pericolosa da essere meritevole di punizione. Tuttavia, è opinione di chi scrive che bisogna sempre considerare il contesto: il termine rivolta presuppone un gruppo più o meno consistente di individui; a maggior ragione in un carcere, dove le condizioni del luogo sono purtroppo spesso degradanti per il condannato, è molto probabile che l’idea di una rivolta acquisisca molta popolarità tra i detenuti. Non è perciò assurdo affermare che, nel marasma generale, anche una condotta passiva possa essere di forte intralcio a chi deve sedare una rivolta. In più, se si osserva con attenzione la formulazione della norma, il giudice deve sanzionare la resistenza passiva solo quando impedisc[e] il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza, avendo avuto riguardo del numero dei rivoltosi e del contesto spazio-temporale. Quindi una condotta passiva non idonea ad ostacolare gli atti d'ufficio non potrà essere punita dall'art. 415-bis. 

Non devono infine spaventare le aggravanti legate alla morte e/o lesione grave o gravissima non volute: da decenni è ormai pacifico (come si può notare dal simile reato di rissa) che per imputare un omicidio e una lesione non voluti è necessaria quanto meno una rimproverabilità riconducibile alla colpa, intesa come mancata diligenza del soggetto agente. Perciò, se dalla rivolta deriva la morte di un soggetto, difficilmente potrà esserne imputato il rivoltoso che si è limitato a porre una resistenza passiva, a meno che nel concreto il giudice non vi ravvisi una colpa o contributo effettivi. Sull’art. 27, che estende lo stesso reato alle strutture di trattenimento per i migranti, si facciano le medesime considerazioni.

Madri in carcere

Per ragioni umanitarie, il nostro ordinamento prevede un sistema differenziato - rispetto al comune condannato - dell’esecuzione di una pena detentiva per le donne in stato di gravidanza o con prole di età inferiore a tre anni. L’art. 146 del Codice penale infatti obbliga il giudice a rinviare l’esecuzione della pena quando il condannato sia una donna incinta o con prole di età inferiore a un anno. L’art. 147 dà invece il potere al giudice di rinviare l’esecuzione della pena quando il condannato sia una donna madre avente prole di età inferiore a 3 anni. Con la riforma, il primo sottoinsieme verrebbe abrogato e spostato all’art. 147: si avrebbe, perciò, in tutti e tre i casi un rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena. Verrebbero inoltre aumentate le cause di revoca del provvedimento di rinvio: oltre alle ipotesi oggi previste - quali morte, abbandono o affidamento a terzi del figlio oppure decadenza dalla responsabilità genitoriale - verrebbe aggiunta la situazione in cui durante il periodo di differimento, [la madre] pon[ga] in essere comportamenti che causano un grave pregiudizio alla crescita del minore. Inoltre, sempre per effetto della riforma, se il giudice dovesse ravvisare il pericolo di commissione di ulteriori delitti, sarebbe obbligato a negare il differimento: in questo caso, se la donna dovesse essere incinta o con prole di età inferiore a un anno, sarebbe obbligatorio allocarla in un istituto a custodia attenuata per detenute madri; se la prole fosse di età inferiore a 3 anni, la stessa collocazione sarebbe facoltativa. 

Se la riforma ha certamente il merito di restituire una certa flessibilità all’ordinamento, tuttavia farebbe ricondurre una decisione così importante - come il rapporto madre-figlio neonato/nascituro - ad un singolo organo, quale il giudice, anziché alla volontà popolare del Parlamento. Inoltre, una valutazione sul futuro criminoso della donna potrebbe portare a negare il beneficio alle fasce sociali più esposte alla criminalità quotidiana. Quindi, un’arma a doppio taglio.

Daspo urbano

L’art. 13 del disegno di legge prevede alcune modifiche al d.l. 14/2017, il cui articolo 10 sviluppa la tematica del Daspo urbano, cioè del divieto di accesso a determinati luoghi per alcuni soggetti: la ragione di questa prescrizione sta nel fatto che in certi casi il mancato impedimento di accesso aumenterebbe la possibilità di pericolo per la sicurezza urbana. I luoghi all’interno dei quali è rilevante il divieto all’accesso, di cui all’art. 10, sono elencati all’art. 9 dello stesso decreto: aree interne delle infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, e delle relative pertinenze

Per comprendere l’entità del futuro intervento normativo, bisogna prima comprendere la disciplina vigente. Il divieto di accesso richiede tre elementi, due dei quali necessari ed uno eventuale: come primo, la possibilità di pericolo per la sicurezza, intesa quest’ultima parola in senso restrittivo e quindi associata ad un concreto pericolo di commissione di reati; poi il compimento reiterato -  e quindi adottato almeno due volte - di una delle condotte di cui all’art. 9: impedi[re] l'accessibilità e la fruizione delle predette infrastrutture oppure manifestare l’ubriachezza in luogo pubblico o aperto al pubblico o ancora (sempre in pubblico) compiere atti contrari alla pubblica decenza - e altri ancora. L’elemento eventuale è, invece, un presupposto, quale la condanna (definitiva o anche di appello) ad un reato - contro la persona o il patrimonio - entro i 5 anni precedenti il compimento della condotta. Si tratta di un’eventualità perché serve semplicemente ad aumentare la durata del Daspo: se manca il presupposto, il divieto può essere di massimo 12 mesi; in caso contrario, da 12 mesi a 2 anni. 

La riforma manterrebbe identico questo schema. La modifica consisterebbe in un’aggiunta particolare: affinché il questore possa disporre il Daspo, sarebbe necessaria e sufficiente una semplice denuncia o condanna (anche non definitiva) - nei 5 anni precedenti - per un qualsiasi reato contro la persona e per alcuni reati contro il patrimonio. Se questo presupposto (la denuncia o condanna non definitiva) fosse di per sé veramente sufficiente, vorrebbe dire che - in presenza dello stesso - gli elementi spiegati in precedenza (la possibilità di pericolo per la sicurezza e il compimento di una delle condotte dell’art. 9) non sarebbero più necessari. Tuttavia, alla luce della recente pronuncia della Corte costituzionale n. 47/2024, il Daspo urbano vigente si può considerare costituzionalmente orientato soltanto se si valorizza il nesso di pericolosità. Chi scrive è perciò dell'idea che, nell’aggiunta della riforma, affinché questa non sia palesemente incostituzionale, oltre al presupposto della denuncia sia anche necessaria una valutazione della concreta pericolosità. Dunque è da considerare erronea - in quanto costituzionalmente illegittima - la lettura secondo la quale sarebbe sufficiente la sola denuncia.

Di qui, lo scenario finale: se il soggetto non è denunciato o condannato per i reati sopra citati, oltre al nesso di pericolosità serve anche il compimento della condotta dell’art. 9 (con un Daspo di massimo 12 mesi); se il soggetto è denunciato o condannato (non in via definitiva) per i reati sopra citati, basta il semplice nesso di pericolosità, anche senza aver adottato la condotta dell’art. 9 (con un Daspo di massimo 12 mesi); se il soggetto, oltre a soddisfare il nesso di pericolosità, ha compiuto la condotta e in più è condannato in via definitiva o anche in appello, il Daspo sarà da 12 mesi a 2 anni.

Modifiche al Codice della strada

L’art. 25 della riforma prevede una serie di modifiche al Codice della strada, in particolare all’art. 192. Nell’articolo si può individuare una serie di obblighi e poteri: al comma 1, l’obbligo di fermarsi all’invito dei funzionari, agenti o ufficiali; al comma 2, l’esibizione della carta di circolazione e della patente di guida; al comma 3, i poteri delle autorità di ispezionare il veicolo, di impedire la marcia per difetti o irregolarità dell’illuminazione o dei pneumatici, di ordinare l’arresto ai veicoli sprovvisti di mezzi antisdrucciolevoli (es. i pneumatici invernali); al comma 4, il potere per le autorità di formare posti di blocco per arrestare i veicoli che non si fermino nonostante l’ordine intimato con segnali idonei; infine al comma 5, l’obbligo di ottemperare alle segnalazioni del personale militare nei casi individuati dalla legge. 

Quello che interessa è che attualmente è prevista una sanzione amministrativa pecuniaria (da 87 a 344 euro) per le violazioni di cui ai commi 1, 2, 3, 5; un’altra sanzione amministrativa pecuniaria (da 1362 a 5456 euro) per la violazione di cui al comma 4. Con la riforma si avrebbe un leggero aumento delle sanzioni pecuniarie ma con tre regimi differenziati: meno severo per i commi 2, 3, 5; poco più elevato per il comma 1 (se recidivo nel biennio, accessoriamente la sospensione della patente fino a 1 mese); il più severo è  previsto per il comma 4, a cui però si segnala l’aggiunta della sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente (da 3 mesi a 1 anno). Per quanto riguarda la decurtazione dei punti: restano 3 nei casi dei commi 2, 3, 5; aumentano a 5 per il comma 1 (10 se recidivo nel biennio); restano 10 per il comma 4.

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