Nodi al Pettine e Mercato del Lavoro

A seguito dell’ultimo rapporto sull’occupazione Istat per il mese di Settembre 2024 e in attesa del report sul mercato del lavoro per il terzo trimestre, risuona necessaria una breve analisi contestualizzata di questi dati sull’occupazione che tanto hanno entusiasmato la classe dirigente e che potrebbero nel medio periodo rivelarsi contrariamente illuminanti.

Immagine di pressfoto, freepik

Cambio di trend?

A Settembre 2024 il mercato del lavoro ha presentato un tentennato rallentamento, mostrando -0,3% di occupati rispetto al mese antecedente e soprattutto interrompendo il positivo trend registrato negli ultimi trimestri. Calano principalmente lavoratori dipendenti permanenti e a termine, con gli autonomi tendenzialmente stabili. Lo stesso tasso di occupazione scende al 62,1%, perdendo 0,2 punti percentuali rispetto al mese di Agosto. 

Su base annua il mercato del lavoro rimane comunque in netta crescita, con un incremento di 301.000 occupati.

Fonte: ISTAT; Elaborazione personale del grafico basato sui dati presi dal link sottostante; Tasso di occupazione per gruppo di età a partire da Gennaio 2010 a Settembre 2024.

Spostando la lente sui livelli territoriali, nel secondo trimestre era riscontrabile un particolare calo di inattività nelle regioni centro meridionali, al contrario di un lieve aumento al Nord. Tuttavia, a settembre, l'inattività è aumentata in modo uniforme su tutto il territorio, segnalando probabilmente la fine della stagione dei contratti a termine. Le dinamiche per classe di età rivelano che l’inattività è cresciuta soprattutto tra i più giovani (15-24 anni), mentre la fascia 25-34 anni ha mostrato segnali di maggiore partecipazione al mercato.

I forecast per il periodo Ottobre 2024-Marzo 2025 strizzano l’occhio ad un incremento delle retribuzioni contrattuali del 2,8%. Nonostante ciò permangono nette disparità tra settore pubblico e privato. Qualora il calo occupazionale si dimostri effettivamente parte di un processo di più lungo respiro, potrebbero emergere definitivamente tutti quegli elementi dubbiosi che ostacolerebbero la già zoppicante crescita economica e i coraggiosi obiettivi di riduzione del deficit  di cui parleremo nel prossimo capitolo. 

Il mese di Settembre rappresenta dunque un momento di riflessione per il mercato del lavoro italiano, a seguito di un prolungato periodo di crescita. Sebbene il quadro complessivo rimanga “solido”, la diminuzione degli occupati e l’aumento dell’inattività potrebbero indicare una fase di incertezza, accentuata dalla fine delle attività stagionali e da possibili difficoltà strutturali.

Duplici e dubbiose interpretazioni

L’analisi delle due facce della medaglia, nonché dell'occupazione e della produttività,  soprattutto se contestualizzate all’evoluzione del Pil, offre un quadro complesso del sistema economico italiano, mettendo in luce contraddizioni e ostacoli strutturali.

Fonte: FRED ST.LOUIS FED; Elaborazione personale del grafico basato sui dati presi dal link sottostante; Andamento Pil Reale, Produttività (Total Labor Productivity) e Occupazione Totale a partire dal 1996 al 2023. Indice 2015=100.

Negli ultimi mesi, i dati sul mercato del lavoro, pur presentando un aumento significativo dell’occupazione, hanno suscitato preoccupazioni riguardo alla qualità di tale crescita. Nei 12 mesi a partire dal periodo Luglio-Settembre 2023, l’occupazione ha toccato livelli record, con un incremento annuo degli occupati pari al 2%, ma con un Pil che, pur rimanendo sostanzialmente invariato, ha fatto registrare una leggera flessione. Questo disallineamento tra Pil e occupazione ha sollevato forti dubbi tra politici ed economisti, arrivati a chiedersi se tale aumento dell’occupazione non sia in realtà il mascheramento dell’esponenziale crescita di lavoro povero, nonché di impieghi a bassa remunerazione e scarso valore aggiunto.

La divergenza tra Pil e occupazione solleva interrogativi sulle modalità di misurazione e sulle dinamiche economiche sottostanti. Due ipotesi principali emergono. La prima è che il Pil italiano sia stato sottostimato negli anni recenti, un’eventualità plausibile dato che revisioni statistiche al rialzo sono già avvenute in passato. La seconda ipotesi è che il Pil reale sia stato sovrastimato nel periodo 2021-2023. Entrambe le spiegazioni evidenziano le difficoltà nel catturare pienamente l’effettivo andamento economico del Paese, ma non sembrano indicare un peggioramento netto della produttività rispetto al periodo pre-pandemico.

Nonostante queste ambiguità, il trend occupazionale suggerisce un lieve miglioramento dei fondamentali economici, almeno rispetto al passato recente. Tuttavia, le sfide rimangono. La riduzione degli incentivi edilizi, motore trainante dell’occupazione (per informazioni citofonare al “Superbonus”) degli ultimi anni, e il rallentamento dell’economia europea potrebbero frenare o ribaltare ottimismi e trend vari nei prossimi mesi.

Fonte: ISTAT; Elaborazione personale del grafico basato sui dati presi dal link sottostante; Occupati in migliaia di individui per settore a partire dal primo trimestre 2015 al secondo trimestre 2024. Indice 2015=100.

Interventi mirati per incentivare l’innovazione, migliorare l’efficienza nei settori meno produttivi e favorire la formazione di competenze adeguate alle esigenze del mercato del lavoro sono le prerogative che l’Italia si deve porre per tentare almeno di superare queste sfide. Senza considerare politiche economiche che favoriscano la transizione verso settori ad alto valore aggiunto, in grado peraltro e potenzialmente di riallineare la crescita del Pil a quella occupazionale.

Il problema del disallineamento tra Pil e occupazione potrebbe derivare anche dal lato del Pil stesso. La crescita economica in Italia è stata negli ultimi anni modesta, ma, come mostra l’analisi del Pil reale e degli occupati, vi è stata una divergenza interessante. Nel periodo pre-pandemico, la crescita del Pil e occupazionale erano sostanzialmente allineate, mentre a partire dal 2021, il Pil reale è cresciuto più lentamente rispetto al numero degli occupati, suggerendo una produttività del lavoro stagnante.Questo fenomeno riflette una problematica strutturale che ha caratterizzato l’Italia negli ultimi vent’anni: la scarsa crescita della produttività.

Fonte: ISTAT; Elaborazione personale del grafico basato sui dati presi dal link sottostante; Retribuzione lorda per unità di lavoro equivalente a tempo pieno per settore di attività economica a partire dal primo trimestre 2010 al secondo trimestre 2024. Le Ula forniscono una misura dell'input di lavoro retribuito dall’impresa e sono calcolate come quoziente tra il totale delle ore retribuite ed il numero standard di ore lavorate in media da una posizione a tempo pieno, come previsto dalla contrattazione nazionale. Indice 2021=100.

Un aspetto fondamentale di questa discussione riguarda infatti la stagnazione della produttività in Italia, che rimane una delle problematiche strutturali più gravi del Paese. Secondo i dati di Eurostat, tra il 2003 e il 2023 la produttività reale per ore lavorate in Italia è aumentata solo del 2,5%, una performance nettamente inferiore rispetto alla media europea (+19,6%) e ad altri grandi Paesi come Germania (+16%), Francia (+9,7%) e Spagna (+18%). In termini di produttività relativa, l’Italia si colloca ben al di sotto di molti suoi partner europei, con un indice di produttività nel 2023 pari a 100,5, contro i 106,1 della Germania e i 103,1 della Spagna. Questi dati indicano una situazione di sostanziale stagnazione che perdura dal 2001. Nonostante questa difficoltà generale, l’andamento della produttività non è omogeneo tra i settori economici. I comparti del commercio, delle attività finanziarie e assicurative e del manifatturiero hanno registrato significativi miglioramenti negli ultimi vent’anni, rispettivamente del 38%, 29% e 21%. Altri settori, come quello agricolo e industriale, hanno visto incrementi più modesti, mentre alcuni, tra cui ristorazione, costruzioni e attività estrattive, hanno sperimentato cali significativi.

Di contesto e di contrasto

Nel 2024, l’economia italiana è prevista in crescita dello 0,7%, trainata dagli investimenti e dalla contrazione delle importazioni. Le stime riportano che questo aumento sarà seguito da una crescita più sostenuta nel 2025 e 2026, rispettivamente dell’1% e dell’1,2%, favorita dall’incremento dei consumi e dall’accelerazione delle spese legate al famigerato PNRR. Ci si attende inoltre che l’inflazione, a seguito di un calo al’1,1% nel 2024, si riassesti all’1,9% e 1,7% rispettivamente nel 2025 e 2026. 

La riduzione dei crediti d’imposta per le ristrutturazioni edilizie e le entrate fiscali solide spingeranno il deficit pubblico al 3,8% del PIL nel 2024, con ulteriori cali previsti al 3,4% nel 2025 e al 2,9% nel 2026. Va comunque considerato il costo del servizio del debito, che progressivamente aumenterà sino a raggiungere il 4% del PIL nel 2026. Inoltre, lo stesso rapporto debito/PIL dovrebbe aumentare, passando dal 134,8% del 2023 al 139,3% nel 2026, principalmente a causa degli effetti ritardati dei crediti d’imposta sulle ristrutturazioni edilizie accumulati nei deficit passati. Insomma, anche qua, si torna sempre dove si è stati bene. Soprattutto se si parla di Superbonus.

In definitiva, la complessità dei dati sul mercato del lavoro e le dinamiche economiche evidenziano una situazione di fragile equilibrio. L’apparente solidità del mercato occupazionale nasconde criticità profonde, nonché stagnazione della produttività, disallineamento tra Pil e occupazione e il persistente divario interno e generazionale a minare le fondamenta di una crescita sostenibile. Gli incrementi occupazionali, spesso concentrati in settori a basso valore aggiunto, non bastano a mascherare l’assenza di una visione strategica per affrontare le sfide strutturali. L’impatto che incentivi e annesse attese riduzioni si porteranno dietro sarà infelice, così come l’insostenibilità retributiva e il peso del debito pubblico in un contesto economico in rallentamento. Senza interventi mirati e coraggiosi per rilanciare la produttività, incentivare l’innovazione e ridurre le disuguaglianze, il rischio è di perpetuare un circolo vizioso di precarietà e stagnazione, compromettendo le prospettive di crescita economica e benessere sociale del Paese.

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