Di recente si sta discutendo riguardo al disegno di legge numero 1236, rubricato come Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario.
Si tratta, quindi, di un testo legislativo avente quadruplice oggetto: la sicurezza pubblica, il personale in servizio, le vittime di usura e l’ordinamento penitenziario. Il progetto di legge in questione è di iniziativa governativa, in particolare del Ministro dell’Interno Piantedosi di concerto con i Ministri Nordio e Crosetto, rispettivamente a capo dei ministeri Giustizia e Difesa. Presentato in data 22 gennaio 2024 alla Camera dei Deputati, è stato approvato il 18 settembre dalla stessa: in attesa, dunque, dell’approvazione in Senato, è utile porre in essere uno studio, anche critico, dello stesso.
Il disegno di legge - come si può già intuire - è di notevoli dimensioni: composto da 38 articoli - raggruppati in sei capi - esplora moltissime tematiche molto differenti tra loro. In questa trattazione, perciò, non verrà compiuta un’analisi cronologica ed integrale degli articoli, ma si tenderà ad occuparsi dei temi maggiormente attenzionati dall’opinione pubblica. Si è scelto, di conseguenza, di cominciare, in questa prima parte, individuando le misure contro la commercializzazione della Cannabis.
Si prenda in considerazione l’articolo 18, in tema di Cannabis. L’articolo è inserito nel secondo capo del testo, rubricato come Disposizioni in materia di sicurezza urbana. Gli esponenti dell’attuale maggioranza non hanno mai lasciato dubbi sulla loro opinione fortemente negativa verso tale sostanza. Difatti, il giudizio negativo viene rimarcato fortemente sia nella rubrica sopracitata sia all’interno del primo comma dell’articolo medesimo: si tratterebbe, dunque, di un prodotto che può favorire [...] comportamenti che espongono a rischio la sicurezza o l’incolumità pubblica o[...] la sicurezza stradale.
In questa sede non si discuterà nel merito di questa visione politica, quanto in riferimento all’entità della riforma: l’articolo 18 introduce, infatti, modifiche agli articoli 1 e 2 della legge 242 del 2016.
Questa riforma ha dato adito a numerose critiche da parte dei fautori della legalizzazione della Cannabis, i quali avevano visto nella legge del 2016 un baluardo per difendere la commercializzazione della Cannabis light, cioè la canapa con un livello ridotto di delta-9-trans-tetraidrocannabinolo - o, altrimenti, THC. Nei confronti di questa argomentazione è necessario, tuttavia, precisare che il concetto di Cannabis light (o legale) non è da porre in relazione con la legge 242/2016. Per comprendere ciò, è necessario fare un passo indietro.
Tra le fonti oggi in vigore, quella più antica proviene dal diritto internazionale: nel 1961, una serie di Stati - tra cui l’Italia - conclusero una Convenzione a New York in materia di stupefacenti; l’esigenza di questo accordo derivava dalla consapevolezza dell’utilità di queste sostanze in campo medico e della loro pericolosità in caso di una loro circolazione non controllata (e, quindi, illegale): dunque, della necessità di un bilanciamento tra l’esigenza medica e quella di pubblica sicurezza.
Tra queste sostanze è presente anche, sebbene parzialmente, la Cannabis: nell’art.1 la definizione di canapa designa le sommità fiorite o fruttifere della pianta di canapa [...] dalle quali non sia stata estratta la resina, qualunque sia la loro utilizzazione. Si deve, quindi, intendere che, ai fini della punibilità, ci si riferisce solo a ciò che fa parte delle sommità - dunque, non il fusto; vengono esplicitamente esclusi i semi e le foglie non accompagnate dalla sommità.
La normativa estera è poi completata a livello europeo, i cui regolamenti e direttive hanno da una parte inserito la canapa tra le sostanze stupefacenti, dall’altra hanno posto delle restrizioni per ammettere la coltivazione della canapa industriale (sia pure soltanto con valori di THC inferiori allo 0,2%) per determinate finalità. Tutto ciò vincola l’Italia ex artt. 10, 11, 117 della Costituzione.
Nel nostro Paese, invece, sono due le fonti che si devono tenere in massima considerazione. La prima è il D.P.R. 309/1990, all’interno delle cui tabelle è stato inserito un numero molto vasto di sostanze stupefacenti, tra cui il THC: se quest'ultimo è ottenuto in modo sintetico (spice, kush), si deve ricercare nella Tabella 1; se, invece, è presente all’interno di derivati vegetali della canapa, nella Tabella 2. Oltreché sulla pericolosità di gran lunga maggiore dei prodotti sintetici, la distinzione rileva dal punto di vista della sanzione: nel caso di commissione - con sostanze alla Tabella 1 - di una condotta fra coltivazione, produzione, fabbricazione, estrazione, raffinamento, vendita, offerta o messa in vendita, cessione o ricezione, distribuzione, commercio, acquisto, trasporto, esportazione, importazione, procurare ad altri, invio, passaggio o spedizione in transito, consegna oppure illecita detenzione, la reclusione varia tra i 6 e i 20 anni; nel secondo caso, la reclusione si riduce ad un arco tra 2 e 6 anni. Se si tratta di uso personale, il fatto non costituisce reato ma resta comunque punito ai sensi dell’art. 75. D’altra parte il D.P.R., in osservanza del diritto europeo, ammette all’art. 26 la coltivazione della canapa limitatamente alla produzione di fibre ed altri usi industriali (gli stessi individuati dalla normativa europea): se nel caso concreto mancassero questi presupposti, qualsiasi condotta integrerebbe reato.
La seconda fonte è, invece, la legge 242/2016, che legalizza una serie di prodotti elencati dall’art. 2 comma 2 che possono essere ottenuti - senza necessità di autorizzazione - dalla lavorazione della canapa: si tratta di un elenco da interpretare in senso stretto, al punto che ogni derivato non espressamente ricompreso all’interno del comma 2 non troverà la propria applicazione nella legge del 2016 bensì nel D.P.R. del 1990 e sarà, dunque, proibito. Inoltre, si deve aggiungere che la canapa cui fa riferimento questa legge è quella indicata dalla direttiva europea 2002/53/CE, che, come già detto prima, individuava il limite massimo di THC allo 0,2%.
A questo punto si potrà comprendere l’incisività della nuova riforma che, in primo luogo, inserirebbe il termine industriale al comma 1 dell’art. 1: al tempo l'aggettivo era stato dato per scontato, data la centralità nella normativa europea del carattere industriale. Tuttavia, come afferma il Dipartimento per le politiche antidroga, in questi anni si è insinuata nella collettività non solo la falsa idea che questa legge abbia spalancato le porte alla Cannabis light, ma anche l’opinione altrettanto erronea che la lavorazione della canapa sia ammessa anche ad un livello non industriale. Perciò, col fine di dirimere qualsiasi dubbio, si effettuerebbe con il Ddl un intervento di affermazione politica.
Stessa cosa si può dire dell’aggiunta del termine professionale alla coltivazione destinata al florovivaismo, una delle pratiche ammesse dall’art. 2 comma 2. In più, verrebbe aggiunto ad entrambi gli artt. il comma 3-bis, che vieta l’importazione, la cessione, la lavorazione, la distribuzione, il commercio, il trasporto, l’invio, la spedizione e la consegna delle infiorescenze della canapa coltivata ai sensi del comma 1 del presente articolo, anche in forma semilavorata, essiccata o triturata, nonché di prodotti contenenti o costituiti da tali infiorescenze, compresi gli estratti, le resine e gli oli da esse derivati [...]. Anche in questo caso, si possono replicare le riflessioni precedenti: non è un’innovazione giuridica bensì una mera affermazione politica, perché i prodotti e le condotte del comma 3-bis attualmente non rientrano comunque nel comma 2 in quanto mai stati leciti. Anche senza la riforma, infatti, le infiorescenze, le resine e gli oli, sostanze incluse oltretutto nella definizione di canapa data dalla Convenzione di New York, sarebbero già vietate dal D.P.R. 309/1990.
Se, perciò, la riforma non riforma ma afferma, vorrebbe dire che la canapa è sempre stata illegale? Non completamente. Tuttavia, la risposta non è legata alla legge del 2016, bensì ne prescinde.
La Cannabis light non è frutto di un equivoco collettivo, ma non è stata neanche consacrata da un intervento normativo: la sua formazione proviene dall’ambito scientifico in quanto si tratta di canapa con un livello così basso di THC (in favore del CBD) che in concreto non ha alcuna efficacia drogante.
Quest’ultima espressione è stata coniata nella sentenza 30475/2019 ad opera delle Sezioni Unite della Cassazione: se la sostanza ha efficacia drogante, la commercializzazione al pubblico dei derivati della coltivazione della cannabis, quali foglie, infiorescenze, olio, resina integra reato ai sensi del D.P.R. 309/1990; in caso contrario, il fatto non sarà punibile perché in concreto non lesivo del bene protetto, cioè la sicurezza pubblica. Questa soluzione, tuttavia, è tanto chiara in astratto quanto lacunosa nel concreto, perché, senza un riferimento a priori che sia numerico, la decisione è rimandata ad ogni singolo giudice: la conseguenza, non assurda in questi casi tecnici, è che l’applicazione del diritto vari a seconda sia dell’idea che il giudice ha di questa tematica sia delle perizie che verrebbero fatte di volta in volta, con un’evidente lesione alla certezza del diritto. Perciò la soluzione più plausibile sarebbe quella di tenere come riferimento il valore numerico più condiviso dalle ricerche mediche storicamente effettuate, nonostante la sentenza del 2019 sembri distaccarsene.
Il punto è: esiste questo valore numerico? La risposta è affermativa e coinciderebbe con una percentuale di THC pari o inferiore allo 0,5%. Questo valore è di gran lunga quello più condiviso, al punto che ha ispirato il nostro Parlamento nella legge del 2016 a inserire - all'art. 4 - una causa di non punibilità per l’agricoltore che abbia coltivato canapa con una percentuale superiore allo 0,2% ma inferiore allo 0,6%. Tuttavia, vanno fatte delle precisazioni: la sentenza del 2019, nonostante abbia erroneamente rifiutato ogni riferimento numerico, non aveva completamente torto nel dubitare di questa percentuale.
Il motivo è da individuare nel fatto che è molto complicato prevedere in astratto quando la canapa non abbia efficacia drogante, proprio perché tale efficacia dipende da molti fattori. In primo luogo, a ridurre la prevedibilità, la variabilità genetica intrinseca alle specie vegetali: nella legge del 2016, infatti, ai fini del calcolo, è prescritto l’obbligo di effettuare una media aritmetica tra i campioni analizzati; peraltro in un caso giudiziario, dove non si hanno campioni estesi, la variabilità genetica potrebbe complicare - e non di poco - il compito a un giudice che usi in modo acritico il dato numerico. Poi, soprattutto nei prodotti derivati, la presenza ulteriore dell'acido Δ9 -tetraidrocannabinolico A, il precursore del THC: il primo elemento, infatti, nella fase di combustione si converte nel secondo - aggiungendosi a quello già presente; perciò, un campione di canapa - con il THC entro il limite consentito - dopo la combustione potrebbe oltrepassare la soglia. D’altra parte eventi come l’accensione con il fuoco, l’inalazione del fumo e il sidestream smoke (il fumo emesso dal solo bruciare della sigaretta) - molto comuni con questa sostanza - comportano una riduzione del THC effettivamente assorbito.
Detto ciò, sarebbe auspicabile l’intervento del Legislatore in tal senso: è inutile continuare con il proibizionismo se nei tribunali è pacifica la possibilità di una mancata offensività in concreto; al contrario, per perseguire al meglio la certezza del diritto, è più ragionevole fissare una soglia chiara ma soprattutto sensata, al di sopra della quale è presunto l’effetto drogante. Infine, si dovrebbe chiarire quale debba essere il momento di rilevazione della percentuale: se fosse antecedente alla combustione, ci si esporrebbe meno alle variabili illustrate sopra; se susseguente, sarebbe più in linea con la ricerca di un effettivo effetto drogante.