RiFare la scuola

di

Istruzione & Cultura

Spesso, quando si parla di scuola, non si presta sufficiente attenzione ai numeri, alla ricerca scientifica sul tema ed al confronto con i sistemi scolastici di altri paesi.

Senza dati oggettivi e comparabili, senza le percentuali e senza un’analisi approfondita di questi risulta difficile capire cosa stia funzionando e cosa invece debba essere riformato o, in alcuni casi, costruito dal nulla. 

Da tempo le istituzioni internazionali segnalano come l’Italia sia al di sotto della media dei paesi sviluppati per quanto riguarda la spesa pubblica in educazione, università e ricerca. Nel nostro paese questa è pari al 3,8% in relazione al Pil: questo è abbastanza? Il confronto con gli altri paesi avanzati ci dice che o loro spendono poco o noi troppo poco: la media europea infatti si attesta al 4,5%. Il problema però non è solo quanto poco investiamo in istruzione, il problema è soprattutto come investiamo, cioè quali politiche scolastiche decidiamo di attuare e come funziona il nostro sistema scolastico. Abbassiamo il numero di studenti per classe o aumentiamo gli stipendi a tutti i docenti? Accorciamo il calendario scolastico, per potenziare il settore turistico, o allunghiamo il tempo dedicato alla scuola? Manteniamo i percorsi scolastici come sono o li modifichiamo imparando dai paesi con migliori risultati? Manteniamo l’attuale logica didattica o ci chiediamo se l’evidente abbandono e, più generalmente, il ritardo italiano nei livelli d’istruzione dipenda anche dai metodi didattici adottati? I nostri metodi di selezione e promozione del personale sono appropriati o ne esistono di migliori?

I confronti internazionali  suggeriscono che i sistemi scolastici si possono migliorare, non c’è nulla di inevitabile o immutabile. I dati PISA dicono che non sussiste un legame obbligatorio fra disagio sociale e rendimento mediocre degli studenti e che la riuscita scolastica può essere ampiamente migliorata anche per quegli studenti che crescono in situazioni particolarmente disagiate. Investire in istruzione significa investire nel benessere a lungo termine della società, ma significa anche dover aspettare anni prima che l’attuazione di una determinata politica scolastica mostri i propri frutti. Ci vuole tempo, purtroppo. E spesso la politica è impaziente, ha fretta di accontentare i propri elettori in una contrattazione in cui l’interesse degli studenti non è minimamente rappresentato. 

Le ricerche di Rick Hanushek dimostrano che esiste una relazione positiva stabile fra aumento del livello di conoscenze acquisite a scuola e crescita futura del reddito nazionale. Eppure noi per l’apprendimento perso durante la chiusura delle scuole dovuta alla pandemia non abbiamo fatto nulla. Secondo quanto scrive nel suo ultimo libro “La scuola bloccata” Andrea Gavosto, economista e presidente della Fondazione Agnelli, il tasso di rendimento di un anno di istruzione si attesta intorno al 10%, ben superiore a quanto potrebbe fruttare un investimento finanziario o immobiliare. Fare in modo che i nostri ragazzi e ragazze ricevano un’educazione adeguata porta vantaggi all’intera collettività, non solo agli studenti stessi. 

Mi duole dirlo ma, per quanto riguarda la scuola, che ci sia Draghi o Conte alla presidenza del consiglio poco cambia, il modus operandi resta sempre lo stesso: nulla si crea, nulla si distrugge. 

L’Italia è il paese d’Europa con i più bassi livelli di istruzione, i più alti tassi di dispersione scolastica e il più alto numero di NEET. Il 13% degli adolescenti italiani non termina la scuola superiore. Il divario territoriale Nord-Sud è disarmante: nelle regioni Sicilia, Calabria e Campania circa 1 studente su 5 abbandona la scuola prima del diploma. Secondo gli ultimi dati INVALSI la percentuale dei maturandi che non raggiunge un livello accettabile di competenze (livello 3) in lettura è del 44%. In matematica questa percentuale si attesta al 51% e in alcune regioni del Sud si arriva fino al 70%. Eppure il 99% di chi sostiene la maturità la supera. Qualcosa non torna. Secondo gli ultimi dati PISA (2018) il 14,8% degli studenti italiani non raggiunge la soglia minima di competenza. Siamo tra i peggiori in Europa.

Anche dall’ISTAT arrivano indicatori problematici: in Italia la percentuale di laureati è tra le più basse in Europa ed il tasso di uscita dal paese dei laureati è maggiore di quello del resto. Solo la metà dei giovani che conseguono il diploma si immatricolano all’università nello stesso anno e solo il 34% di questi ottiene la laurea. Questo vuol dire che, anche fra i trentenni, abbiamo un laureato ogni cinque o, al meglio, ogni quattro! Negli ultimi anni i giovani che hanno trasferito all’estero la propria residenza sono costantemente aumentati e pochi hanno fatto ritorno. L’ISTAT calcola che dal 2008 al 2020 sono ufficialmente espatriati dall’Italia 355.000 giovani tra i 25-34 anni e, sempre facendo riferimento alla stessa fascia d’età, i rimpatri sono circa 96 mila nello stesso periodo. La differenza tra rimpatri e gli espatri è rimasta costantemente negativa e determina una perdita netta complessiva di circa 259.000 giovani tra i 25-34 anni. Di questi circa 93 mila giovani con al più la licenza media, 91 mila diplomati e 76 mila laureati.  

La scuola italiana ha perso il suo effetto perequativo o, per dirla in altri termini, l’ascensore sociale è completamente bloccato. Il contesto socio economico e culturale della famiglia di provenienza determina il futuro dei giovani. Quello che maggiormente conta, quindi, è dove si nasce e in che contesto familiare si cresce. I dati disponibili dicono che uno studente ha il 75% di probabilità di laurearsi se proviene da una famiglia con genitori laureati, il 48% se figlio di diplomati ed il 12% se i genitori hanno solo la licenza media. Si scende al 6% se i genitori non hanno alcun titolo di studio. Nel 2020 in Italia i NEET, cioè i ragazzi tra i 15 e 29 anni che non studiano, non lavorano e non si formano, sono 2,1 milioni, su un aggregato complessivo di 9,8 milioni nei 27 stati membri dell’Ue. Anche in questo caso il background familiare è fondamentale: i figli di genitori con al massimo la licenza media presentano un’incidenza di NEET del 31,7%, che si riduce al 17,3% tra i figli di genitori con il diploma di scuola superiore e all’11,9 % tra quelli con genitori laureati.

Anche volendo prescindere dal disagio sociale e dalle diseguaglianze che questi numeri suggeriscono rimane l’enorme danno economico collettivo. Milioni di giovani italiani non contribuiscono al benessere nazionale e conducono una vita di studio e professionale che non può non deluderli escludendoli dalle dinamiche economiche familiari alla maggioranza della popolazione e da ogni prospettiva di emancipazione personale. 

Abbiamo una classe politica che continua a occuparsi di materie “urgenti”, ovvero di richieste corporative di breve periodo, ma non di ciò che veramente è importante per i nostri studenti. Senza un livello di istruzione adeguata, come dice Andreas Schleicher “le persone languiranno ai margini della società, i Paesi non potranno trarre beneficio dagli avanzamenti tecnologici e tali avanzamenti non potranno tradursi in un progresso sociale. Semplicemente, non possiamo sviluppare una politica pubblica inclusiva e coinvolgere l’intera cittadinanza se la carenza di istruzione impedisce agli individui una piena partecipazione alla vita sociale”. 

 

Serve ridisegnare una scuola che torni ad essere un motore di crescita sociale e sviluppo economico per l’intero paese.

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