“Hak, Hukuk, A-da-let! Hak! Hukuk! A-da-let!”.
A Padova la primavera è arrivata: il cielo è terso, fuori si sta bene. La comunità di studenti turchi, pian piano, riempie la via principale del Portello—il quartiere universitario della città. È previsto un raduno per le 18.30: l’obiettivo è protestare contro le accuse di terrorismo e corruzione mosse all’ex sindaco di Istabul. Di ragazzi ne arrivano dieci, poi venti, poi cento. Non sono disponibili i numeri ufficiali online, ma non saranno stati meno di trecento: un numero strabiliante per una minoranza così specifica in una città tutto sommato media. Tra bandiere turche e cartelloni che riprendono il padre fondatore della repubblica, Mustafa Kemal Atatürk, gli studenti intonano lo slogan sopra riportato, che significa: “Diritto, legge, giustizia”. Un’esortazione al governo a rispettare i principi della Costituzione su cui ha giurato (e su cui continua a giurare, a più riprese, dal 2002).
In Turchia siamo alla quinta notte di proteste dal giorno dell’arresto del sindaco di Istanbul nonché principale avversario politico del presidente. Ekrem İmamoğlu, il cui nome era ben noto ai giovani turchi ancor prima delle accuse mossegli dallo stato, è presto diventato il volto della Turchia democratica. “Il suo arresto è un colpo di stato”, mi dice Ozan, uno degli studenti presenti alla manifestazione. Indossa una maglia della squadra turca del Fenerbahce e ammette, scherzando, che il suo è un inglese da ingegnere. “Tutti si sono mossi in sua difesa, perché equivale a difendere la nostra repubblica”.
Su X (il social di Elon Musk, che in questi giorni è stato accusato di censurare le proteste) girano parecchi video, alcuni di essi rivelatori di una cruda repressione: spray al peperoncino, bastonate, idranti sugli studenti. Sorprendono i metodi della polizia, che poco hanno a che fare con quelli a cui siamo abituati nei paesi democratici; le manganellate arrivano anche a fronte di provocazioni indirette, di discorsi allusivi, o di simboli di qualunque genere (è popolare in queste ore un video in cui si vede un giovane ragazzo esultare alla maniera di Cristiano Ronaldo a qualche passo dalle forze dell’ordine, che reagiscono in modo affatto proporzionato). “È una realtà a cui ci siamo abituati,” prosegue Ozan, “ma stiamo reagendo. In 15 milioni hanno votato alle primarie del CHP (il partito d’opposizione, ndr), legittimando e adulando la figura di Imamoglu. Non è più una battaglia circoscritta ad Ankara e Istanbul, la gente protesta anche nelle campagne”.
A febbraio l’inflazione nel paese era del 39,1%, il livello più basso da parecchi anni, con un picco dell’85,5% nel 2022. La lira turca è debole e la classe media, un tempo sostenuta dal governo di Erdogan, è oggi in seria difficoltà—oltre ad essere esausta. La Turchia più rurale, quella che si estende lungo l’est del paese, è stata lo zoccolo duro del presidente, le cui politiche conservatrici compiacevano l’elettorato meno occidentale. Oggi però la situazione è diversa: il terrorismo di matrice jihadista continua a far paura, i diritti umani vengono calpestati e la voce della gente comune silenziata. Dal golpe fallito nel 2016, i giornalisti fronteggiano dure leggi che limitano la libertà di stampa.
Frattanto i cori qui a Padova si fanno sempre più espliciti, rievocando non solo i principi repubblicani, ma anche alcune idee di settecentesca memoria, come il diritto/dovere di ribellarsi al tiranno. A questo proposito un cartellone recita: “Il popolo è più grande di un dittatore”. A differenza dei leader europei, qui non si usano mezzi termini. Erdogan viene apostrofato prima come un dittatore, poi come un fascista, da cori che possono essere compresi anche da chi non parla turco o inglese. La faccenda mi ricorda Mario Draghi, all’epoca Primo Ministro, che per “errore” etichettò il presidente turco come un dittatore.
Sia in patria che altrove, le proteste vedono le donne in prima linea. Della tempra delle ragazze turche parlava anche Oriana Fallaci nel suo “Il sesso inutile”, descrivendo la figura della soldatessa di Ankara. Le donne in Turchia partecipano alla vita del paese dal 1934. La loro rappresentanza è stata spesso irregolare: il parlamento turco è per lo più formato da volti maschili. C’è poi un problema con i femminicidi: sarebbero almeno 394 nel 2024, in accordo con un articolo del Duvar, un quotidiano turco indipendente. Le loro battaglie, però, non sono rimaste vane, nonostante gli evidenti attacchi del governo, che nel 2021 è uscito dalla Convenzione di Istanbul. Nel marzo 2024 vi erano 11 sindache su 81 città. Un articolo del Guardian evidenzia come la proporzione delle donne elette a livello municipale sia triplicata. Al vertice amministrativo di Batman, città conservatrice nel profondo sud-est della Turchia, Gulistan Sonuk, 31 anni, si è rivolta a una folla esultante e quasi incredula. Con il 65% dei voti, è diventata la prima sindaca della città, sconfiggendo un partito radicato da decenni. “Questa vittoria non è solo mia,” ha dichiarato Sonuk, la voce ferma ma carica di emozione, le sue parole riportate dal giornale britannico, “appartiene a ogni donna a cui è stato detto che non può governare”.
In Turchia, peraltro, la lotta non si limita alla politica. L’8 marzo 2024, migliaia di donne hanno invaso le strade di Istanbul per la Giornata Internazionale della Donna, sfidando un divieto governativo. Con striscioni e canti, hanno chiesto uguaglianza e tutele legali, le loro voci risuonano ben oltre la città. “Sono venuta qui, in questa caffetteria, oggi alle 13:00 per essere presente alle proteste delle 19:30,” ha detto Irem, 35 anni, manifestante. “I diritti delle donne sostanzialmente non esistono in questo momento. Come donne, è importante che stiamo tutte insieme, indipendentemente dalla nazionalità” le sue parole ai microfoni di ABC News.
Anche a Padova, quest’oggi, c’erano più donne che uomini. Le loro voci risuonano chiare in quella loro lingua che ai miei orecchi è così musicale. Una ragazza, in particolare, dai tratti quasi nord-europei, attira l’attenzione: ha un cartello in mano, è vestita di nero, stile quasi cyberpunk; una bandana le copre buona parte del volto. I suoi occhi brillano di orgoglio e di rabbia. “Ho paura delle conseguenze,” ammette, concedendomi cinque minuti del suo tempo. Il suo inglese è fluido. “c’è il rischio che tornando in Turchia la polizia mi riconosca. Loro ci profilano. Potrebbero trattenermi nel paese, accusandomi di andare in Italia al solo scopo di protestare”. Parla spigliata, nella sua voce riecheggia la fermezza di donne come la sindaca Sonuk. “Io sono molto grata del fatto di essere in Italia”. Quegli stessi occhi, senza perdere la loro forza, adesso si sono riempiti di lacrime. “So che è poco, ma protestare, anche da qui, è un modo per dire che anche io ci sono”.
Gli occhi in lacrime di questa ragazza sono lo specchio dell’anima turca: ferita, ma orgogliosa e resiliente.
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