Il conflitto tra Israele e Palestina è una delle questioni più dibattute e divisive della geopolitica contemporanea. Troppo spesso, però, si assiste a un dibattito sterile da fronti opposti dimenticando che ormai la questione è irrimediabilmente compromessa dalla propria storia. Dopo più di un secolo di guerre, massacri, vendette e recriminazioni, non è più utile – né produttivo – cercare di schierarsi in modo partigiano. La domanda più rilevante oggi è: che cosa è meglio per il futuro dell’Occidente? E che cosa accadrebbe se Israele perdesse davvero la guerra in corso? O se la vincesse Hamas?
Il conflitto israelo-palestinese ha radici storiche profonde, è estremamente complesso e suscita opinioni diverse e spesso contrastanti. Come associazione culturale, incoraggiamo un dibattito aperto e informato, nel rispetto delle opinioni altrui e della pluralità di prospettive.
Liberi, Oltre le Illusioni
Per comprendere l'attuale stato delle cose, occorre ricordare alcuni passaggi storici fondamentali. La radice del conflitto risale al periodo del mandato britannico sulla Palestina (1917-1948), quando la Dichiarazione Balfour del 1917 promise un “focolare nazionale” per il popolo ebraico in una regione già abitata da una popolazione araba numerosa.
Con la fine della Seconda guerra mondiale, in seguito alla Shoah, nel 1948 fu proclamata la nascita dello Stato di Israele. Seguirono guerre con gli stati arabi confinanti (1948-49, 1956, 1967, 1973) e l’occupazione dei territori palestinesi, una situazione che ha creato tensioni e recriminazioni fino ai giorni nostri. Dal lato palestinese, la formazione di gruppi come l’OLP negli anni ‘60 e successivamente di Hamas nel 1987 ha accentuato la conflittualità, introducendo anche la componente del terrorismo.
Dopo decenni di tentativi di pace falliti, come gli Accordi di Oslo (1993-1995), oggi il conflitto si trova in una fase in cui ogni possibilità di negoziato sembra svanita. La radicalizzazione di Hamas da una parte e l’intensificazione della risposta militare israeliana dall'altra, che a sua volta alimenta nuove ondate di estremismo, creano un circolo vizioso di violenza, vendetta e ulteriore radicalizzazione. Ogni attacco genera una reazione che, lungi dal risolvere la questione, la esaspera, rendendo sempre più remota ogni possibilità di soluzione pacifica. Questo meccanismo perpetuo di conflitto non solo distrugge le prospettive di pace nella regione, ma rafforza l’ideologia estremista, che si nutre delle sofferenze e delle ingiustizie percepite da entrambe le parti.
Il punto chiave, però, non è più chi abbia ragione o torto, e Israele e Palestina paiono ostaggi della loro stessa storia, nel frattempo il radicalismo islamico avanza. Ora, proviamo a riflettere su una questione: una sconfitta di Israele potrebbe rappresentare un pericoloso punto di svolta nell’espansione del jihadismo, con conseguenze che andrebbero ben oltre il Medio Oriente. Eppure, mentre il pericolo cresce, alcuni sembrano più interessati a cercare giustificazioni a posteriori per una guerra che si trascina da un secolo, piuttosto che a valutare quali siano le implicazioni reali per l'Occidente e per il mondo intero.
Hamas non è semplicemente un movimento di resistenza palestinese: è un'organizzazione jihadista che persegue apertamente l’eliminazione di Israele e la creazione di uno stato islamico basato sulla Sharia. La sua ideologia è condivisa da altre formazioni estremiste come Hezbollah, i Fratelli Musulmani e dall’Iran, che lo sostiene militarmente. Se il circuito paramilitare attorno cui ruota Hamas dovesse ottenere una vittoria significativa, il segnale che ne deriverebbe sarebbe devastante: dimostrerebbe che il terrorismo e l’estremismo possono vincere, dando probabilmente nuova linfa ai gruppi jihadisti in tutto il mondo, dall'Africa al Medio Oriente fino all'Europa.
L’esperienza dell’Afghanistan ci insegna quanto il radicalismo islamico sia resiliente e pronto a riprendere il potere ogni qual volta ne abbia l’opportunità. Questo è un esempio concreto di come il fanatismo non venga estirpato con una semplice presenza militare o con strategie diplomatiche di compromesso. Dopo oltre dieci anni di occupazione statunitense e miliardi di dollari spesi per la democratizzazione del paese, i Talebani sono tornati al governo senza alcuna difficoltà, riportando con sé violenza, oppressione e il ritorno a un regime di terrore. La lezione qui è chiara: senza un cambiamento strutturale e culturale profondo, qualsiasi ritiro o cedimento viene interpretato dal radicalismo islamico come una vittoria, alimentando nuove ondate di estremismo e questo cambiamento non può essere imposto dall'esterno in pochi anni.
Questa stessa logica si applica alla Palestina e al ruolo dell’Occidente: la vittoria del radicalismo avrebbe effetti altrettanto disastrosi che si ritorcerebbero contro l’Occidente stesso, da sempre attore di spicco nello scacchiere mediorientale e il cui fallimento risulterebbe a questo punto evidente e non reversibile. Un altro aspetto cruciale che non può essere ignorato è la responsabilità della comunità internazionale nei finanziamenti concessi con troppa leggerezza. Per anni enormi somme di denaro sono state erogate senza adeguato controllo con il pretesto di aiuti umanitari e progetti di sviluppo. In troppi casi questi fondi si sono invece trasformati in tunnel sotterranei per il contrabbando di armi e infrastrutture per attività terroristiche. Questa facilità di finanziamento, spesso forse dettata da calcoli politici interni o dall’evitare di urtare sensibilità diplomatiche o persino dall’opportunismo elettorale, ha contribuito a rafforzare chi non ha alcuna intenzione di usare quei fondi per costruire una pace duratura. Ogni concessione economica senza adeguati controlli non ha fatto altro che alimentare un meccanismo autodistruttivo che ha reso il radicalismo islamico più forte e le prospettive di pace sempre più lontane.
Chi pensa che questa sia una guerra di conquista o di riconquista del territorio, secondo me, sbaglia. La verità è che Israele non è vista solo come una terra da reclamare, ma piuttosto come un corpo estraneo occidentale. È questo che Hamas combatte: la presenza stessa di una società che nella struttura istituzionale e culturale incarna un modello di vita incompatibile con la visione teocratica fondamentalista.
Ma c'è di più. Hamas non è solo un'organizzazione ideologica o religiosa, è anche un sistema gestito da signori della guerra, individui che traggono enormi vantaggi economici dalla situazione di conflitto. Il controllo su una popolazione povera e disperata, tenuta in ostaggio dal fanatismo religioso, diventa uno strumento di potere per chi governa l’organizzazione. Armi, traffici illeciti, finanziamenti esteri: tutto ruota attorno a un'economia della guerra che garantisce a questi leader una posizione di dominio assoluto. Israele rappresenta, in questo senso, una sfida diretta a quell’ordine religioso e ideologico che il radicalismo islamico vuole imporre, ed è per questo che la sua distruzione è vista come un obiettivo strategico per chi sogna l’instaurazione di un califfato islamico globale, ma anche per chi vuole perpetuare il proprio potere personale e i propri privilegi.
Il radicalismo islamico non è solo un problema per Israele, ma una minaccia globale. Già in passato, attentati come quelli dell’11 settembre 2001, gli attacchi a Madrid (2004), Londra (2005), Parigi (2015) e Bruxelles (2016) hanno dimostrato quanto l’estremismo islamico possa colpire direttamente l’Occidente. La vittoria di Hamas, o di movimenti simili, seppur assolutamente remota a livello militare, potrebbe concretizzarsi a livello mediatico facendo leva sul senso di colpa occidentale post-coloniale e ciò rafforzerebbe questa minaccia alimentando l’ideologia jihadista nelle periferie europee, dove il fenomeno della radicalizzazione è già una realtà preoccupante.
Inoltre, chi si augura un'eventuale caduta di Israele dovrebbe tenere presente che quest’eventualità destabilizzerebbe ulteriormente il Medio Oriente, rafforzando gli attori più pericolosi della regione: l’Iran, il quale sogna l’eliminazione dello Stato ebraico e l’egemonia sciita; la Turchia, che sotto Erdogan ha mostrato simpatie per Hamas; e i gruppi affiliati ad Al-Qaeda e ISIS, che vedrebbero una simile vittoria come una prova della giustezza del loro jihad. La storia ci insegna che, come accadde con il nazismo, il fanatismo non può essere arginato solo con la diplomazia: la Seconda guerra mondiale dimostrò che, di fronte a un'ideologia totalitaria e violenta, il ricorso alla forza fu necessario per scongiurare conseguenze ancora più catastrofiche. Allo stesso modo, il radicalismo islamico, se lasciato prosperare nelle simpatie occidentali, potrebbe rappresentare una minaccia esistenziale per l'Occidente, rischiando di imporre uno scontro che non si limiterebbe più ai confini del Medio Oriente.
Oggi, la vera domanda è quale futuro vogliamo costruire. Schierarsi in modo ideologico per Israele o per la Palestina senza una visione strategica del mondo è un esercizio sterile. L’unica valutazione sensata riguarda la sicurezza, la stabilità e la libertà futura dell’Occidente.
Mentre il modello occidentale si basa sulla democrazia, sulla libertà individuale e sul pluralismo, il radicalismo islamico promosso da Hamas e gruppi simili incarna l’esatto opposto. I regimi fondati sulla Sharia impongono restrizioni pesanti alla libertà di espressione, ai diritti delle donne e anche alla possibilità di professare religioni diverse dall’Islam dominante. In molti paesi dove il fondamentalismo islamico ha preso il sopravvento, si assiste alla repressione di oppositori politici, alla censura e alla negazione di diritti civili fondamentali.
Se l’Occidente non difenderà attivamente i propri principi, rifiutando qualsiasi compromesso con ideologie che ne negano l’esistenza stessa, il rischio sarà quello di assistere a una volontà di espansione di queste dottrine anche in Europa, con possibili effetti nefasti sul tessuto sociale e sulla libertà delle future generazioni. Non si tratta solo di Hamas o Al-Qaeda. Ignorare questa minaccia significa permettere che la libertà, il pluralismo e la democrazia vengano progressivamente erosi da un’ideologia che non ammette compromessi e rischiare di consegnare ai nostri figli un futuro in cui l’estremismo sarà più forte, la sicurezza più fragile e la libertà minacciata. Questo è un genere di rischio che non ho nessuna intenzione di correre e se c’è una lezione che la storia ci ha insegnato, è che il fanatismo non si ferma da solo: deve essere fermato. Non esistono guerre convenzionali "belle", la guerra sotto ogni punto di vista rappresenta il fallimento dell'umanità, ma quando però (e purtroppo) si è già dentro quel fallimento, allora bisogna avere anche il coraggio di scegliere da che parte stare e ciò si badi bene non vuol dire che si debba accettare acriticamente l'operato del governo israeliano, ma avere la forza di guardare avanti. Il vero obiettivo deve essere la tutela della propria civiltà e dei propri valori, senza lasciarsi trascinare in un tifo cieco che ignora le reali e possibili conseguenze geopolitiche ed esistenziali che ci potrebbero attendere.
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