Trump e la pace in 24 ore: retorica, affari e ambizioni personali

Durante la campagna elettorale del 2024, Trump ha spesso ripetuto che se fosse stato lui presidente, la Russia non avrebbe mai invaso l’Ucraina (1), e che una volta rieletto sarebbe stato in grado di ristabilire la pace nell’arco di ventiquattro ore (2). Entrambe le dichiarazioni sono fallaci. 

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Questo è Liberamente.

Donald Trump. Autore: Gage Skidmore from Peoria, AZ, United States of America, Wikimedia Commons

Nel caso della prima, formulare ipotesi su potenziali sviluppi alternativi del passato è un esercizio puramente retorico, poiché viaggiare nel tempo è fisicamente impossibile e non esiste alcun modo per verificare la validità di scenari immaginari. Inoltre, anche ignorando l’impossibilità scientifica dell’affermazione di Trump, sostenere senza prove che la mera presenza di una data variabile indipendente (Trump alla Casa Bianca) abbia influenzato il comportamento di un’altra variabile dipendente (la scelta di Putin di invadere) è altrettanto errato e fuorviante. Sarebbe come affermare che indossare un cappello di carta stagnola protegge dagli asteroidi solo perché nessuno è mai stato colpito mentre ne indossava uno.

Quanto alla seconda affermazione del presidente americano, i fatti parlano chiaro, è già passato più di un mese dal suo insediamento e il conflitto è ancora in corso. Ciò detto, le recenti dichiarazioni e decisioni di Trump indicano che sta effettivamente cercando di far terminare la guerra, in modo vigliacco e riprovevole, facendo leva sull’Ucraina, cioè la vittima nonché parte più debole del conflitto. 

Riassumendo brevemente le principali azioni della sua amministrazione nei confronti di Russia e Ucraina di queste settimane, tutto ha inizio il 12 febbraio, quando il Segretario della Difesa Hegseth è a Bruxelles per il suo primo incontro NATO. In contrasto con qualsiasi logica di negoziazione, Hegseth dichiara che tornare ai confini pre-2014 dell’Ucraina e l’accessione di quest’ultima alla NATO sono obiettivi irrealistici (3). La prova della scarsa lungimiranza di tali parole è arrivata il giorno dopo quando lo stesso SecDef (4) ha dovuto far marcia indietro precisando che sarà Trump a guidare i negoziati e a deciderne le condizioni (5).

Tornando al 12 febbraio, il Segretario del Tesoro Scott Bessent si trovava a Kyiv per un bilaterale con il Presidente Zelenskyy, ovvero il primo incontro tra il leader ucraino e un membro della seconda amministrazione Trump. Il motivo della visita è la proposta di Washington di siglare un accordo economico sull’estrazione delle risorse minerarie in territorio ucraino (6). Il documento non contiene garanzie di sicurezza da parte statunitense, per cui Zelenskyy rifiuta (7). I dettagli della proposta americana vengono approfonditi successivamente.

Infine, in serata arriva la conferma che le comunicazioni telefoniche tra Casa Bianca e Cremlino sono riprese già da alcuni giorni (8)(9). Questo è un fatto notevole in quanto rappresenta il primo gesto di riavvicinamento diplomatico concesso da Trump a Putin. L’ultima telefonata tra Biden e Putin risale infatti al 12 febbraio 2022, pochi giorni prima dell’invasione (10).

Due giorni dopo, giovedì 14 febbraio, il Vicepresidente J.D. Vance è a Monaco di Baviera per l’annuale conferenza sulla sicurezza e, con un discorso di circa 20 minuti, il numero due della Casa Bianca afferma che a suo parere le più grandi minacce del momento non sono esterne, quali la Russia o la Cina, bensì interne all’Occidente, identificabili principalmente con la presunta diminuzione della libertà d’espressione e le politiche migratorie degli ultimi anni (11).

Il martedì successivo, 18 febbraio, due nuovi sviluppi. 

Primo, il Segretario di Stato Marco Rubio e il suo omologo russo, Sergej Lavrov, si incontrano a Riyad e, tra le altre cose, emerge la volontà di entrambe le parti di ripristinare appieno il personale presso le rispettive ambasciate (12), segnando così un ulteriore riavvicinamento diplomatico tra USA e Russia. 

Secondo, in serata Trump tiene una conferenza stampa dalla sua residenza a Mar-a-Lago. Questa ha marcato l’inizio degli attacchi verbali del presidente statunitense verso l’omologo ucraino. È in questa occasione, infatti, che Trump accusa Kyiv di essere responsabile per lo scoppio della guerra (13).

Zelenskyy replica affermando che Trump è “intrappolato in una bolla di disinformazione” (14) e, a sua volta, la risposta non si fa attendere. Il giorno seguente, mercoledì 19 febbraio, Trump pubblica un post sul suo social network Truth, nel quale essenzialmente definisce Zelenskyy un “dittatore senza elezioni” (15).

Poco più di una settimana dopo, il 27 febbraio, giorno in cui Trump accoglie il primo ministro britannico Starmer alla Casa Bianca, alla domanda di un giornalista se pensasse ancora che Zelenskyy fosse un dittatore, il presidente risponde: “l’ho detto io? Non posso credere di averlo detto” (16).

Sempre verso la fine di febbraio, non è chiaro esattamente quando (17), il Segretario della Difesa Hegseth ordina di cessare tutte le operazioni informatiche offensive contro la Russia (18). Ufficiali del Pentagono hanno specificato che il provvedimento è temporaneo e limitato alle tempistiche delle trattative ed esperti del settore confermano che una mossa del genere non è inusuale e in linea con le procedure del caso (19). Ciò nonostante, rimane una scelta rischiosa e controversa vista la mancanza di alcun tipo di reciprocità da parte russa.

Giungendo così al penultimo evento di questa ricostruzione, lo scorso venerdì, 28 febbraio, Zelenskyy è in visita alla Casa Bianca per firmare il sopra citato accordo sulle terre rare. Sebbene l’incontro inizialmente si svolga in modo cordiale, la conferenza stampa nello studio ovale sfocia in un’accesa discussione. Oltre ai due presidenti, sono presenti anche il VP Vance e il Segretario di Stato Marco Rubio. Mentre quest’ultimo interviene solo in maniera minore, il vice di Trump è colui che causa l’alzata di toni. La conferenza stampa dura poco meno di un’ora, il canale ufficiale della Casa Bianca ha pubblicato l’intera registrazione su YouTube (20)

Al minuto trentotto, un giornalista polacco chiede a Trump cosa direbbe ai polacchi che un tempo vedevano negli Stati Uniti un modello di libertà e progresso occidentale, ma che ora assistono a una politica estera statunitense sempre più allineata a quella dei peggiori regimi autoritari, come quello russo di Putin.

Trump risponde dicendo di non essere allineato con nessuno, se non con il suo Paese, gli Stati Uniti, e che è necessario mantenere buoni rapporti con entrambe le parti affinché i negoziati abbiano successo. 

Al termine della sua risposta, Trump chiede alla folla di giornalisti se vogliano porre un ultimo quesito, e in questo istante Vance fa cenno al suo superiore di voler rispondere anche lui alla domanda del giornalista polacco. 

Ottenuto il via libera da Trump, Vance afferma che la politica “delle armi e di battersi i pugni sul petto” è già stata adottata dalla precedente amministrazione e che si è col tempo rivelata fallimentare. Conclude aggiungendo che adesso l’amministrazione Trump farà la cosa giusta scegliendo invece la diplomazia. Zelenskyy è visibilmente scettico nei confronti delle parole di Vance, a cui fa notare che dal 2014, anno in cui l’aggressione russa contro l’Ucraina è iniziata con l’invasione della Crimea, ben quattro amministrazioni americane si sono susseguite. Obama, Trump, Biden e infine di nuovo Trump. Con nessuna di queste – Zelenskyy precisa – Putin ha mostrato rispetto per la diplomazia e chiede dunque a Vance di che diplomazia stia parlando, visto il totale sprezzo che il presidente russo ha per essa. Da qui, la discussione degenera, in una situazione in cui sia Trump che Vance umiliano Zelenskyy, in palese difficoltà linguistica, con false accuse e menzogne sull’invasione. La visita giunge così ad una brusca fine e ovviamente la firma dell’accordo salta.

Questo infausto evento ci porta all’ultimo degli sviluppi qui riportati: la sera del 3 marzo Trump decide di interrompere il flusso di tutti gli aiuti militari all’Ucraina (21) (22)

È notizia di poche ore fa che Zelenskyy ha pubblicato un lungo post su X in cui ribadisce per l’ennesima volta la propria gratitudine nei confronti degli Stati Uniti, aggiungendo che è un dispiacere che l’incontro alla Casa Bianca sia andato come è andato e che l’Ucraina è pronta a firmare in qualunque momento, in qualsiasi contesto (23).
In cosa consiste questo famigerato accordo? Il Center for Strategic & International Studies offre un’analisi concisa ed efficace (24) secondo cui l’accordo bilaterale che Zelenskyy avrebbe voluto firmare il 28 febbraio, e che è tuttora disposto a siglare, si discosta in modo significativo dalla proposta iniziale presentata dal Segretario del Tesoro Bessent. Quest’ultima prevedeva che l’Ucraina utilizzasse le proprie risorse minerarie per rimborsare agli Stati Uniti 500 miliardi di dollari in aiuti militari ricevuti in precedenza. Il nuovo quadro concordato non assegna agli Stati Uniti i diritti sui ricavi derivanti da minerali per un valore di 500 miliardi di dollari, non prevede altresì garanzie di sicurezza per l’Ucraina. Piuttosto, l’intesa stabilisce la creazione di un fondo di investimento per la ricostruzione, con proprietà congiunta tra Stati Uniti e Ucraina. Quest’ultima sarà tenuta a destinare al fondo il 50% di tutti i ricavi futuri derivanti dalla monetizzazione delle risorse naturali di proprietà statale, comprese le riserve minerarie, il petrolio, il gas naturale e le relative infrastrutture. Faranno eccezione le risorse che già rappresentano una fonte di entrate per il Paese, come le attività di Naftogaz e Ukrnafta, le due principali aziende ucraine nel settore dei combustibili fossili. È importante sottolineare che di conseguenza la redditività del fondo dipenderà interamente dal successo dei nuovi investimenti nelle risorse ucraine.

Ma se l’accordo non contiene garanzie di sicurezza, perché Zelenskyy vuole firmarlo? Ci sono più ragioni. Primo, firmare appagherebbe Trump, aumentando le probabilità che decida di continuare a supportare l’Ucraina, possibilmente riaprendo il flusso di aiuti militari. Secondo, anche se non dirette, in realtà l’accordo potrebbe portare ad avere delle garanzie di sicurezza. Domenica scorsa, 2 marzo, Trump condivide sul suo social Truth un post di tale Michael McCune (25), un blogger amatoriale, in cui veniva avanzata l’argomentazione che il genio di Trump sia riconoscibile nel fatto che l’accordo costringerebbe Washington a proteggere l’Ucraina riducendo al minimo il rischio di guerra. Questo perché – spiega McCune – un attacco da parte della Russia metterebbe in pericolo la vita dei lavoratori americani presenti in territorio ucraino, costringendo pertanto gli Stati Uniti a intervenire. Questa ipotesi non è una certezza, ma è pur sempre meglio di niente, e ancor di più di un Trump ostile che blocca qualsiasi tipo di aiuto.

Data l’imprevedibilità di Trump e la rapidità con cui la situazione evolve, è possibile che alcune, o potenzialmente anche tutte le considerazioni a seguire, vengano smentite dai fatti in futuro. Ciò detto, al momento è ragionevole ritenere che Trump non sia segretamente allineato con Mosca, almeno non completamente. Questo perché se fosse stato così, non avrebbe rinnovato sanzioni contro la Russia a fine febbraio (26) e non ci sarebbe stato motivo di aspettare per interrompere il flusso di aiuti a Kyiv. D’altra parte, è anche vero che in queste ore la Casa Bianca sta prendendo in considerazione l’annullamento delle sanzioni (27). In ogni caso, conoscendo il carattere del presidente americano, l’ipotesi più plausibile è che le sue azioni siano guidate da scopi elettorali e di ego, è infatti risaputo che una delle sue ambizioni sia ricevere il premio Nobel per la pace (28). In altre parole, le evidenze attuali suggeriscono che è improbabile che Trump sia un asset russo, fermo restando che è una possibilità non totalmente escludibile per quanto remota.

Infine, alcuni analisti hanno persino ipotizzato che Trump stia tentando un cosiddetto “reverse Nixon”. Anche in questo caso, è molto improbabile che sia così (29). In breve, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, l’allora presidente Nixon sfruttò le tensioni tra Mosca e Pechino per avvicinarsi a quest’ultima applicando la logica de “il nemico del mio nemico è mio amico” e isolare il proprio nemico principale, l’Unione Sovietica. La teoria di questi giorni è quindi che Trump stia cercando di “sfilare” la Russia alla Cina, ma la realtà dei fatti sembra negare questa tesi. Nixon ebbe successo perché al tempo Russia e Cina erano in pieno scontro economico e militare, per cui fu relativamente facile per Washington convincere Pechino a collaborare in chiave antisovietica. Oggi le cose sono ben diverse. Mosca e Pechino sono molto vicine da un punto di vista economico e militare, e a nessuna delle due converrebbe recidere questo rapporto, soprattutto alla luce del lungo confine di terra che condividono che, come è accaduto durante la guerra fredda, potrebbe diventare terreno di spiacevoli scontri.

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