Myanmar: storia di una lotta perpetua

Dall’indipendenza ottenuta nel 1948 dal Regno Unito, in Myanmar si sono succedute quattro dittature militari, per un totale di 55 anni di autocrazia su 77 di storia.

Foto: Protesta contro il colpo di stato militare (9 febbraio 2021, Hpa-An, Stato di Kayin, Myanmar), di Ninjastrikers, Wikimedia Commons

Ho dovuto far fuggire tutta la mia famiglia...il Myanmar non è un posto sicuro per chiunque abbia una bussola morale.

A parlare è un giornalista, le sue parole riportate da un articolo di Human Right Watch. Siamo al quarto anno di una guerra civile che si è portata appresso, secondo i dati dell’OHCHR (Office of the United Nations High Commissioner for Human Rights), tra le 5.000 e le 8.165 anime. Un tempo celebrato per la sua ricca eredità culturale e i templi dorati di Bagan, oggi il paese è un campo di battaglia, un mosaico di sofferenza e resistenza. Il regime militare vacilla sotto il peso delle proprie brutalità, mentre le forze di resistenza, pur combattendo l’intermittenza del sostegno di Pechino (1), guadagnano terreno. Come se non bastasse, un violento terremoto di magnitudo 7.7 ha di recente provocato un’altra tragedia umanitaria. 

In questo brutale conflitto si gioca il destino di un popolo che, oltre ai propri valori e speranze, ha messo in discussione anche i suoi eroi. 

Le radici della crisi

L’Unione della Birmania - il nuovo soggetto creatosi a seguito dell’indipendenza dal Regno Unito - si presentò al mondo come una democrazia parlamentare, ricalcando il percorso tracciato da altri paesi del subcontinente indiano oggetto di destini simili. Il nome, Birmania, è il modo più comune con cui in italiano ci riferiamo al paese: deriva da “Burma” che, nella lingua locale, indica l’etnia birmana, quella maggioritaria – tuttavia, come vedremo più avanti, la questione delle etnie è molto delicata e il nome Myanmar è quello che sarebbe più corretto adottare per riferirci alla nazione. 

La fragile democrazia rappresentativa durò fino al 1962, quando Bo Ne Win, generale dell’esercito, attraverso un colpo di stato, prese le redini del potere, inaugurando un regime autoritario durato per ben ventisei anni. Nel 1974 venne promulgata una nuova costituzione, nella quale si affermavano principi di tipo socialista che si tradussero in una serie di politiche isolazioniste. Le conseguenze furono il collasso economico, un mercato nero di dimensioni notevoli e un altro colpo di stato, quello del 1988. Le agitazioni di quell’anno scossero per la prima volta la stampa estera. Tutto iniziò con le proteste studentesche di marzo: gli studenti scesero in campo per denunciare la corruzione del governo, il debito pubblico al di là di ogni limite accettabile, la disoccupazione e la crisi economica. 

Le proteste si intensificarono nei mesi a seguire, coinvolgendo centinaia di migliaia di persone, tra cui monaci buddisti, studenti, medici e lavoratori, raggiungendo il culmine l'8 agosto 1988, data simbolica scelta per la reiterata presenza del numero 8 (ottavo giorno dell’ottavo mese del ‘88) – l’evento infatti viene ricordato come “Rivolta 8888”. La repressione violenta da parte delle forze di sicurezza causò migliaia di morti, con stime che variano, ma alcune fonti, come il già citato Human Rights Watch, riportano almeno 3.000 civili uccisi tra il 18 e il 19 settembre 1988, durante e subito dopo il colpo di stato. Migliaia di attivisti furono arrestati, e molti fuggirono nei paesi vicini, unendosi a gruppi etnici in lotta contro l'esercito birmano.  

Il generale Ne Win si dimise il 23 luglio 1988, ma la transizione a un governo civile sotto il Presidente U Maung Maung non placò le proteste. Il 18 settembre, il generale Saw Muang instaurò la giunta SLORC (State Law and Order Restoration Council), segnando un ritorno al dominio militare dopo un breve tentativo di governo di carattere civile. Questo evento pose fine alla Rivolta 8888, ma aprì la strada a decenni di repressione e alla formazione del partito liberaldemocratico “National League for Democracy” (NLD) di Aung San Suu Kyi, nonostante le elezioni del 1990 non fossero destinate a portare a un effettivo trasferimento di potere. 

Nel 1989, il nuovo regime militare cambiò il nome del paese da Unione della Birmania a Unione del Myanmar, e la capitale, Rangoon, fu ribattezzata Yangon. La giunta ha sostenuto che il nome “Birmania”, vestigia dell'era coloniale, favorirebbe la maggioranza etnica birmana e che “Myanmar” sarebbe più inclusivo. 

“La Rivoluzione dello Zafferano

Un’altra rivoluzione, conosciuta come Rivoluzione dello Zafferano, scosse il paese nel 2007. Ancora una volta studenti e monaci buddisti furono protagonisti: il nome stesso delle proteste deriva dal tipico colore delle vesti indossate dai monaci. La giunta, sotto la pressione dell’opinione pubblica internazionale e guidata dall’ambizione di imitare le riforme di mercato cinesi, decise di devolvere alcuni suoi poteri alle amministrazioni civili e di aprire a un periodo di riforme. Nel 2008 venne emanata una nuova costituzione - tutt’oggi in vigore - e nel 2011 la giunta si dissolse a favore di un governo di transizione guidato da Thein Sein, già primo ministro e ufficiale dell’esercito. 

Thein Sein guidò il paese verso un clima più rilassato: vennero incoraggiati gli investimenti esteri e concessa una parziale libertà di stampa nonché l’amnistia per i prigionieri politici.
Nelle elezioni del 2015, l’NLD vince le elezioni e Htin Kyaw viene eletto presidente. Il vero potere è però nelle mani di una donna, il volto birmano più conosciuto: Aung San Suu Kyi. 

Aung San Suu Kyi e la guerra civile del 2021

Il mondo conosce Aung San Suu Kyi nel 1988, quando si unisce alle proteste di massa. Ispirata dalla filosofia non violenta di Mahatma Gandhi e dai principi del buddismo, ha co-fondato la Lega Nazionale per la Democrazia (NLD) e ne è diventata segretaria generale. La sua leadership carismatica e il suo appello alla democrazia l’hanno resa una figura centrale nel movimento di opposizione. Tuttavia, nel 1989, è stata posta agli arresti domiciliari dal regime militare, che ha rifiutato di riconoscere la schiacciante vittoria della NLD nelle elezioni del 1990.

Per i successivi 21 anni, Aung San Suu Kyi ha trascorso gran parte del tempo in detenzione, diventando un simbolo globale di resistenza pacifica. Nel 1991, le è stato conferito il Premio Nobel per la Pace, un riconoscimento del suo “coraggio civico per la libertà”. Nonostante le restrizioni, la sua influenza è rimasta forte, e nel 2010 è stata finalmente rilasciata. Due anni dopo, nel 2012, è stata eletta al parlamento birmano, segnando un passo significativo verso la democratizzazione del paese.

Il punto di svolta è arrivato nel 2015, quando la NLD ha ottenuto una vittoria schiacciante nelle elezioni generali, conquistando l’86% dei seggi nell’Assemblea dell’Unione. A causa di una clausola costituzionale che vietava a chiunque con coniugi o figli stranieri di diventare presidente (Kyi è sposata con un cittadino britannico), Aung San Suu Kyi non ha potuto assumere formalmente la presidenza. Tuttavia, ha assunto il ruolo di Consigliere di Stato, una posizione creata appositamente per lei che le ha conferito un’autorità simile a quella di un primo ministro. In questa veste, ha guidato il governo civile, anche se i militari hanno mantenuto un ruolo significativo nella politica nazionale, controllando ministeri chiave come la Difesa e gli Affari Interni.

La sua ascesa al potere ha suscitato grandi speranze sia in Myanmar che a livello internazionale. La sua elezione ha segnato la fine di decenni di dominio militare diretto e l’inizio di una transizione verso una parziale democrazia. Tuttavia, il suo governo ha dovuto affrontare sfide immense, tra cui la gestione di un’economia stagnante, la riconciliazione con le minoranze etniche e la negoziazione di un equilibrio delicato con i militari, che continuavano a detenere un quarto dei seggi parlamentari.

Nonostante i progressi in alcuni settori, come l’apertura economica e la liberalizzazione dei media, il governo di Aung San Suu Kyi è stato presto oscurato da una delle più gravi crisi umanitarie della regione, innescata dalla persecuzione della minoranza musulmana dei Rohingya. Nel 2017, una campagna militare contro i Rohingya nello stato di Rakhine ha portato a violenze diffuse, con accuse di pulizia etnica e genocidio. Centinaia di migliaia di Rohingya sono fuggiti in Bangladesh, e la tragedia ha portato a svariate condanne internazionali.

La risposta di Aung San Suu Kyi alla crisi è stata ampiamente criticata. Invece di denunciare le atrocità, ha minimizzato la gravità della situazione, attribuendo le tensioni a un “clima di paura” e alla percezione di una minaccia musulmana globale. Nel 2019, ha difeso l’esercito birmano davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, sostenendo che le accuse di genocidio fossero “incomplete e fuorvianti”. Queste posizioni hanno portato a un deterioramento della sua reputazione internazionale, ma in Myanmar ha mantenuto un forte sostegno tra la maggioranza buddista, che la vedeva come una protettrice della nazione.

La guerra civile

Nel febbraio del 2021, il generale Min Aung Hlaing, insieme ad altri vertici militari, ha messo in scena un colpo di stato che ha scosso il Myanmar. L’azione è scaturita dalla pesante sconfitta subita nelle elezioni del 2020 dal Partito dell’Unione per la Solidarietà e lo Sviluppo (USDP), formazione vicina all’esercito. La giunta, che si autodefinisce Consiglio di Amministrazione dello Stato, ha subito arrestato Aung San Suu Kyi. I parlamentari del suo partito, insieme a rappresentanti di altre forze politiche e numerosi attivisti, sono stati confinati agli arresti domiciliari.

La risposta popolare non si è fatta attendere: nelle settimane successive al golpe, il paese è stato travolto da proteste di massa. Decine di migliaia di cittadini – medici, bancari, insegnanti – si sono uniti a un movimento di disobbedienza civile inizialmente pacifico, incrociando le braccia e rifiutandosi di lavorare fino al ripristino del governo eletto. La repressione dell’esercito non ha conosciuto tregua, attirando dure condanne da parte delle Nazioni Unite, governi stranieri e organizzazioni per i diritti umani. I militari hanno aperto il fuoco contro i manifestanti e persino nelle abitazioni civili con munizioni vere. Entro la fine del 2021, interi villaggi sospettati di appoggiare l’opposizione sono stati rasi al suolo, con massacri che non hanno risparmiato né civili né combattenti ribelli. Secondo l’Associazione di Assistenza ai Prigionieri Politici (Burma), organizzazione no-profit con sede in Thailandia, almeno 1.500 civili sono stati uccisi dalle forze armate – una cifra che molti ritengono sottostimata. Oltre ottomila persone, tra cui giornalisti, medici e politici dell’NLD, sono finiti in carcere. Da quanto riporta il New York Times in un articolo di qualche mese fa, almeno 50.000 persone, tra militari e civili, avrebbero perso la vita; più di 26.000, tra cui attivisti, politici e giornalisti, sono invece stati incarcerati. 

Con il passare del tempo, alcuni parlamentari dell’NLD sopravvissuti alle epurazioni, leader delle proteste e attivisti provenienti da diverse minoranze etniche hanno dato vita a un governo parallelo, il Governo di Unità Nazionale (NUG). Questa coalizione si propone di unificare le forze ostili alla giunta, rafforzare i legami tra i gruppi etnici, delineare una visione per il Myanmar del dopo-giunta e ottenere il sostegno della comunità internazionale. A settembre del 2021, il NUG ha alzato la posta: i civili si sono riuniti in più di 200 milizie accorpate in un macro-organismo chiamato P.D.F (People’s Defence Forces), i cui soldati sono per la maggior parte ragazzi di Generazione Z. L’età mediana del paese, secondo fonti ONU, è di trent'anni. Queste forze si sono contraddistinte per la costruzione “homemade” di droni e armi che tuttavia non reggono il confronto con le armi possedute dai militari – fornite spesso da russi e cinesi. Tuttora, la giunta ha il controllo dei cieli.

La mappa dei gruppi etnici che operano in Myanmar, reportdifesa.it

Le  svariate centinaia di milizie pro-democrazia sono spesso coordinate da eserciti differenziati su base etnica. Il Myanmar, un paese di 57 milioni di abitanti incastonato tra India, Cina e Thailandia, si estende su un territorio di 653.311 chilometri quadrati (poco più grande dell’Ucraina e pressoché identico all’Afghanistan) con un PIL pro capite di appena 1.468 dollari americani. La sua popolazione è un mosaico etnico: il 68% è di etnia Burman, mentre Shan, Karen, Rakhine e altre minoranze compongono il resto. La religione dominante è il buddismo (88%), seguita da cristianesimo (6%) e islam (4%). Le etnie riconosciute dalla costituzione sono ben 135. I principali gruppi etnici, tuttavia, sono otto e spesso sono concentrati nei vari stati regionali.

A gennaio 2022, il conflitto tra la Forza di Difesa del Popolo e l’esercito si era ormai esteso a gran parte del territorio nazionale. “Assistiamo a scontri in township che non vedevano combattimenti dall’indipendenza del Myanmar”, ha dichiarato Jason Tower dell’U.S. Institute of Peace (USIP), in un’intervista riportata dal CFR. La violenza non si limita più alle regioni di confine, abitate da consistenti minoranze etniche, ma dilaga anche nelle grandi città del centro, come Mandalay e Yangon. Questo vortice di caos ha spinto migliaia di civili a cercare rifugio oltre confine, in India e Thailandia.

L’opposizione, con tenacia, ha impedito alla giunta di consolidare il proprio dominio. Nel 2024 i ribelli hanno riguadagnato terreno, arrivando a controllare praticamente tutti i territori di frontiera del paese. Ad oggi, secondo lo Special Advisory Council for Myanmar, la giunta controlla stabilmente soltanto il 17% del territorio.

La guerra non conosce tregua

Il 28 marzo 2025, il Myanmar è stato colpito da un terremoto di magnitudo di 7.7, il più forte mai registrato dal 1912. L’epicentro è stato la città di Sagaing, non lontana da Mandalay, la seconda città del paese. Al momento, ma in aggiornamento, almeno 1.600 persone sono state ritrovate morte sotto le macerie. Le scosse sono state avvertite anche a Bangkok e nel sud-ovest della Cina. 

Ciononostante, i bombardamenti non si sono fermati. La giunta - lo riporta la BBC - ha bombardato le aree più colpite dal disastro. Sette persone sono morte. Il Relatore Speciale per l’ONU, Tom Andrews, ha riferito che è “a dir poco incredibile” che i militari continuassero a “sganciare bombe quando si sta cercando di salvare le persone” dopo il terremoto. “Chiunque abbia influenza sui militari deve aumentare la pressione e chiarire che questo non è accettabile”, ha aggiunto.

Ad aggravare la situazione sono stati i dazi che gli USA hanno imposto al Myanmar lo scorso 2 aprile. Si tratta di dazi del 44%, che si sommano alle sanzioni che USA e UE hanno già imposto al paese. La misura di Trump potrebbe gravare sul settore tessile, che rappresenta la maggiore fonte di export del paese, legando sempre più il Myanmar a Pechino e incentivando il traffico di droga che Patrick Winn, nel suo libro “Narcotopia”, ha analizzato. 

“Non riesco a esprimere a parole il dolore che provo. Mio figlio nascerà senza un padre. Siamo sopravvissuti fisicamente, ma i nostri cuori e le nostre emozioni sono distrutti” ha detto Su Wai Lin, una delle sopravvissute intervistate dal NYT. Suo marito è morto nel tentativo di salvare la vita a un anziano di 90 anni, rimasto intrappolato nell’appartamento a Mandalay dove la famiglia viveva. 

Nel Myanmar, dove la guerra civile ha già spezzato il cuore di una nazione, il terremoto ha ridotto in polvere anche le ultime speranze, lasciando un popolo a raccogliere i cocci di un futuro che sembra svanire tra le macerie.

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