I Dazi di Trump: la più stupida guerra commerciale è arrivata

La più stupida guerra commerciale della storia” recitava il Wall Street Journal lo scorso 31 gennaio.

Titolo non fu mai più adeguato per definire quello che oggi stiamo vivendo, l’ennesima follia di una seconda presidenza Trump che finirà col danneggiare gli Stati Uniti stessi oltre che il resto del mondo.

Una politica di dazi venduta il 2 aprile come il Liberation Day degli Stati Uniti e che fino ad ora si è tradotta in crolli verticali della borsa, svalutazione del dollaro e una controrisposta cinese che non lascia trasparire nulla di buono per il futuro.

Una stupida politica commerciale che è tale per tre ordini di ragione: storia, modello di calcolo e logica sottostante.

Il presidente Trump nel discorso alla nazione del 2025, Wikimedia Commons

La storia parla: i dazi non fanno bene e non hanno fatto bene agli Stati Uniti

Come discusso con Giampaolo Galli qualche settimana fa (1), sono ben poche le cose sulle quali in economia vi è un consenso quasi unanime e, tra queste, vi è il giudizio sui dazi.

I dazi, qualunque sia la ragione per la quale li adottiamo, finiscono col danneggiare l’economia di un paese. E neanche gli Stati Uniti sfuggono a questo principio.

Come evidenziato dalla Tax Foundation (2), i dazi della prima presidenza Trump si sono tradotti in un danno per consumatori e imprese, hanno provocato l'aumento dei prezzi delle materie prime, dei semilavorati e delle merci, con conseguente impatto inflazionistico, minor reddito da lavoro e da capitale e una compromissione della capacità competitiva del paese, con distorsioni nell’allocazione delle risorse per gli investimenti e un trasferimento dell’impatto delle tariffe dai settori “tutelati” al resto dell’economia. 

L’impatto finale sul PIL è dunque complessivamente negativo, con lo stesso bilancio statale a uscirne danneggiato a causa sia del minor conseguente gettito fiscale che della danneggiata resilienza dell’economia americana.

Ed è proprio per questo che in questi giorni abbiamo visto Borse in rosso e dati controintuitivi come la svalutazione del dollaro: gli agenti economici si aspettano la recessione, non una nuova epoca dell’oro.

Il modello di calcolo dei dazi: lettere greche usate a caso

Donald Trump non ha risparmiato parole e toni enfatici dietro la nuova ondata:

Oggi è il giorno della Liberazione, il 2 aprile sarà per sempre ricordato come il giorno in cui l'industria americana rinasce, il giorno in cui il destino dell'America è stato ripreso, e il giorno in cui abbiamo iniziato a rendere l'America di nuovo ricca

 E in che modo i dazi perseguirebbero tale obiettivo?

 il nostro paese e i suoi contribuenti sono stati derubati per più di 50 anni, ma ora non succederà più. Lo fanno a noi? Lo facciamo a loro. Molto semplice. Ora tocca a noi prosperare

Dazi reciproci.

Il dazio è un’imposta indiretta applicata sulla quantità o il valore di una merce (bene o servizio) importata nel paese che lo impone (3). Tale imposta assume il carattere di “reciprocità” quando in una situazione di scambio tra due paesi entrambi scelgono un’applicazione reciproca di pari entità.

Esempio: gli Stati Uniti impongono un dazio del 25% su l’acciaio UE? L’UE risponde con un 25% su prodotti americani importati.

Perché una tale policy?

Formalmente può essere un caso di guerra commerciale, uno strumento di pressione o un modo per riallineare una situazione di scambio commerciale percepita come sbilanciata.

Il caso odierno rientrerebbe in quest’ultimo motivo, poiché il deficit commerciale statunitense sarebbe dovuto – secondo la Casa Bianca – a una combinazione solidificata nel tempo di barriere commerciali, dazi e condizioni non daziarie quali dumping fiscale, manipolazione del cambio, leggi sull’ambiente e la sicurezza del lavoro più lasche, ecc (si noti inoltre che la traduzione corretta di tarrifs è dazi, non tariffe, n.d.a.).

Ma è davvero così? È questo quello che abbiamo visto il 2 aprile? Assolutamente no.

I nuovi dazi statunitensi non sono un caso di reciprocità, ma una scelta deliberata figlia del grottesco, ove il grottesco è tanto il modello adottato quanto la logica sottostante.

L’USTR ha pubblicato la formula adottata nel calcolare i dazi (4):

Fonte: USTR

Sembra la classica complicata formula economica con tanto di lettere greche, non trovate?
Niente di più sbagliato: è un’accozzaglia di lettere a simboleggiare un’assurdità.

Al numeratore abbiamo il saldo commerciale con un dato paese (export meno import)

Al denominatore sono moltiplicate tre grandezze:

  • Elasticità delle importazioni al prezzo dell’import, cioè quanto varia l’import se cambia il prezzo;
  • Passtrough: quanto un aumento dei dazi si riflette sul prezzo finale dell’importazione (se è alto allora più alto è il dazio, più si alza il prezzo)
  • Importazioni degli Stati Uniti dal paese

Sembra complicato, ma è una messinscena.

Citata infatti un po’ di letteratura economica, l’USTR afferma testualmente di aver assunto il valore di quelle lettere greche:

ε = 4          φ = 1/4

cioè un 1 intelligente che riduce il tutto a un rapporto deficit commerciale – importazioni:

Ed è dunque questo il dazio applicato? No, è il 50% di tale valore.

Perché la metà? Perché – a parafrasare le fonti della Casa Bianca – Trump sceglie di fare il dio generoso. Un dio generoso che agisce basandosi su una logica folle viziata dall’incoerenza.

La logica dietro il modello: sono tutti scorretti con noi. Anche i pinguini.

Come giustamente fatto notare da più di una voce (5), per mesi ci si è interrogati per capire come Trump avrebbe adottato i dazi e, conseguentemente, quali sarebbero state le conseguenze di ciò.

Mesi di riflessione per ritrovarsi ora con un commercio internazionale minacciato da una formuletta tale per cui vi è una perfetta correlazione tra dazi applicati e disavanzo commerciale.

In altri termini? Una retta, una dannatissima, banalissima e illogica retta.

Giudizio troppo severo? Per niente. Cinque motivi di illogicità in tutto questo.

Motivo 1: nella formula non viene considerata in alcun modo l’eventuale politica di controdazio da parte del paese bersaglio. E dato che ciò danneggerebbe ulteriormente la bilancia commerciale, ad attuare in modo rigido e prolungato il modello si darebbe vita a un loop che teoricamente si chiuderebbe con il blocco degli scambi tra Stati Uniti e il dato paese.

Motivo 2: il modello guarda la bilancia bilaterale con un paese, ma ignora la struttura delle catene di fornitura globale. Un paese funge spesso da intermediario negli scambi: quello che stiamo importando da A in realtà arriva da B o C, ovvero quello che vendiamo ad A in realtà è poi rivenduto a D o E.

Motivo 3: il deficit commerciale, basato sui dati 2024 (6), non è stato correttamente calcolato. La formula considera infatti solamente il commercio dei beni, e non anche quello dei servizi ove l’export statunitense è forte (tecnologia, consulenza ecc); inoltre, i beni che sono considerati critici/rilevanti sono stati esclusi dai dazi (7).

Motivo 4: tale formula implica che l’intero deficit USA verso un dato paese è sostanzialmente dovuto a pratiche commerciali sleali. Questo significa negare uno dei principi cardine del commercio internazionale quale è il vantaggio comparato: in un’economia aperta un paese dovrebbe specializzarsi in ciò che sa fare meglio per poi scambiare con gli altri. Detto in altri termini, se a un consumatore statunitense piace il vestiario italiano o il formaggio francese, il loro acquisto comporta importazioni: in che modo le scelte di consumo c’entrano con eventuali dazi imposti agli Stati Uniti?

Motivo 5: se la formula fosse rigorosamente applicata, paesi in deficit verso gli USA come il Regno Unito non dovrebbero subire dazi. Trump ha fissato una soglia minima del 10%.

La conclusione è dunque presto tratta.

Trump non sta combattendo politiche commerciali scorrette: secondo la sua idea un dato paese dovrebbe annullare il deficit commerciale con gli USA per riallinearsi, vedendosi comunque applicata la misura minima del 10%.

E il risultato di una tale follia è un complesso di cifre che oscillano tra il paradossale e l’assurdo. 

Per citare alcuni casi:

  • Isole Heard e Mcdonald: territorio australiano abitato solamente da pinguini. Dazi del 10%.
  • Isole Chagos: complesso di atolli nell’Oceano indiano ove l’unico abitato ospita la strategica base anglo-americana Diego Garcia. Dazi al 10%.
  • Isola di St. Pierre Michelon: territorio d’oltremare francese in Canada abitato da quasi 6 mila persone e generalmente in pareggio commerciale verso gli USA. Si sono ritrovati un dazio del 50% perché nel 2024 qualcuno ha acquistato halibut per un valore di 3,4 milioni di dollari contro un import dagli USA di 100 mila dollari (8).
  • Brasile e Singapore: i due paesi sono agli antipodi in materia di politiche sul commercio. Si ritrovano applicati la stessa misura del 10%.
  • Bangladesh: il paese asiatico si ritrova applicato un dazio del 37%, ergo secondo Trump gli USA subirebbero “barriere commerciali” per un 74%. La realtà dei fatti è che il Bangladesh è un paese troppo povero per avere una capacità economica tale da importare beni ad alto valore aggiunto dagli USA.
  • Russia: nonostante il deficit commerciale di 2,5 mld, non verranno applicati dazi perché - parole del segretario al Tesoro Bessent - la Russia è già sostanzialmente colpita dalle sanzioni conseguenti l’invasione dell’Ucraina. 

E per quanto riguarda il nostro paese? Possiamo ritenerci fortunati.

L’Italia in quanto membro dell’Unione Doganale UE subisce il 20%. Se ci avessero considerato come singolo paese, il dazio sarebbe stato di gran lunga superiore, alla faccia di un certo ministro e dei suoi compari di partito (Salvini and company), che hanno continuato e tutt’ora continuano a difendere Trump, vedendo nei suoi dazi una grande opportunità di crescita per le nostre imprese.

Una misura che rende più care le esportazioni per un paese in cui l’interscambio commerciale (somma di importazioni ed esportazioni) incide sul PIL per più del 60% (9), scatenando dubbi e aspettative di recessione economica, favorirebbe la crescita.

Certo, come no.

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