Ritorno delle politiche industriali

Una nuova era delle politiche industriali sembra essere iniziata.

Benché lo Stato non abbia mai rinunciato ad intervenire nell’economia, negli ultimi anni il numero di interventi pubblici per favorire un settore o un’impresa è aumentato significativamente.

La pandemia COVID-19, l’acuirsi delle tensioni geopolitiche e la lotta al cambiamento climatico sono tra le cause principali del nuovo trend.

Dovremmo preoccuparci di questo aumento delle politiche industriali oppure un maggior intervento dello Stato nell’economia è auspicabile?

Le politiche industriali sono tornate in Occidente, dovremmo preoccuparcene?

Inflation Reduction Act (IRA), Creating Helpful Incentives to Produce Semiconductors Act (CHIPS), European Chips Act e Green Deal Europeo.

Sono solo alcuni esempi del ritrovato interesse dei governi occidentali per le politiche industriali.

In realtà, già prima degli ultimi anni, gli Stati di tutto il mondo non avevano rinunciato ad intervenire nell’economia nazionale per promuovere un settore piuttosto che un altro. Anche in Europa e negli Stati Uniti, contrariamente a quanto si possa pensare, gli esempi negli ultimi decenni sono stati numerosi. Nel 2010, Tesla ricevette un prestito di ben 465 milioni di dollari a tasso agevolato dal Department of Energy [1]. La compagnia Francese Airbus nacque nel 1965 per iniziativa di Francia, Germania e Regno Unito [2].

Tecnologie come il GPS e Internet furono possibili grazie a progetti di ricerca finanziati dal DARPA, un programma americano per promuovere la ricerca nel settore militare [3]. Analogamente, altri programmi pubblici per favorire la ricerca come ATP [3] negli USA o ESPRIT e Horizon Europe [4] in UE hanno permesso la commercializzazione di numerosi prodotti. Infine, ma gli esempi potrebbero essere ancora centinaia, la stessa Unione Europea nacque dal coordinamento delle politiche industriali dei primi paesi che fecero parte della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA).

Insomma, le politiche industriali non hanno mai abbandonato l'Occidente, tantomeno gli altri Paesi [3]. Negli ultimi anni però, qualcosa è cambiato ed il ricorso alle politiche industriali è diventato sempre più frequente, soprattutto in USA, UE e Cina[5] .

A partire dal 2018, il numero di interventi di politica industriale annui nel mondo è aumentato in modo significativo rispetto agli anni precedenti, sia in termini assoluti che in proporzione al numero di interventi pubblici che incidono sugli interessi commerciali di Stati esteri (si possono considerare le politiche industriali come un sottoinsieme di quest’ultimo tipo di politiche) [6].

 

L'acuirsi delle tensioni geopolitiche negli ultimi anni, la fragilità delle catene del valore globali mostrata dalla pandemia COVID-19 e l'importanza recentemente assunta dalla lotta al cambiamento climatico sono i fattori determinanti di questo nuovo trend [7]. Così confermano anche i dati relativi alle politiche industriali attuate nel 2023. Lo scorso anno, oltre il 30% delle politiche industriali è stato motivato dalla necessità di promuovere la competitività del settore interessato dall’intervento. Invece, la lotta al cambiamento climatico, la protezione della sicurezza nazionale e la necessità di avere delle catene di approvvigionamento più resilienti sono state rispettivamente le motivazioni dietro a il 28%, il 20% ed il 15% degli interventi [7].

Che ci si trovi di fronte ad una nuova era delle politiche industriali è perciò piuttosto chiaro, e anche le cause del nuovo trend sembrerebbero esserlo.

Ma dovremmo gioire di questo rinvigorito intervento pubblico nell’economia oppure preoccuparcene?

Sul piano teorico, i problemi posti da alcuni fallimenti di mercato giustificano e anzi rendono auspicabile il ricorso a politiche industriali [6]

L’esistenza di esternalità positive o negative è uno dei casi più comuni.

Con le prime ci si riferisce a quei benefici per la società che talvolta un’attività economica produce ma dai quali i produttori non sono in grado di trarre un profitto. Le seconde, invece, altro non sono che i costi che a volte un processo produttivo comporta per la società ma non per i produttori. 

Nel caso un’attività economica generi delle esternalità positive, i privati producono meno di quanto sarebbe socialmente desiderabile poiché per loro il bene prodotto ha un valore inferiore rispetto a quello che gli assegna la società. In caso di esternalità negative i privati producono invece di più di quanto sarebbe auspicabile poiché per loro il costo di produrre è inferiore di quanto non sia in realtà. 

In caso di esternalità, l’intervento dello Stato attraverso politiche industriali potrebbe essere auspicabile per raggiungere un livello di produzione socialmente desiderabile.

Immaginiamo ad esempio che in un Paese produrre missili sia poco lucrativo e che i privati preferiscano produrre giocattoli in legno. Anche se la seconda industria è più profittevole per l’economia del Paese, per motivi di sicurezza nazionale, produrre missili potrebbe essere preferibile per lo Stato. Infatti, ogni missile prodotto, oltre al valore associato al prezzo a cui viene venduto, ha anche un valore dovuto alla sicurezza che garantisce alla nazione. I privati non sono in grado di monetizzare questa seconda tipologia di valore e perciò l’intervento dello Stato potrebbe essere necessario per incentivare quello che si ritiene essere un settore più importante.

Analogamente, l’inquinamento può essere considerato un'esternalità negativa. Un prodotto che costa di meno di un altro in termini di produzione potrebbe inquinare di più. L’inquinamento però è un costo per la società, non per i privati che producono quel prodotto. Perciò lo Stato, considerando i costi che l’inquinamento comporta, potrebbe preferire incentivare la produzione di un prodotto più costoso ma meno inquinante. 

Oltre al caso in cui un settore economico generi delle esternalità, il ricorso alle politiche industriali potrebbe essere necessario qualora manchi un coordinamento tra privati. Immaginiamo che la produzione di giocattoli in legno dell’esempio di prima possa essere remunerativa solo se esistono abbastanza segherie nel Paese. Allo stesso modo, senza la domanda generata dall’industria di giocattoli, costruire un impianto per la lavorazione del legno non permetterebbe di recuperare l’investimento. In questo caso, se lo Stato non intervenisse per assicurare lo sviluppo di entrambe le industrie, gli investitori privati potrebbero preferire non investire in un’industria per paura che nessuno investa nell’altra. Così facendo, senza l’intervento del settore pubblico, si perderebbe l’occasione di avere due nuove attività economiche nel Paese.

Infine, anche se i governi nazionali potrebbero non volerlo, talvolta sono obbligati ad attuare delle politiche industriali poiché molte attività economiche, per prosperare, necessitano di beni e servizi che solo il settore pubblico può fornire. 

Il nostro solito produttore di giocattoli potrebbe avere bisogno di un porto vicino ai suoi stabilimenti, mentre l’industria missilistica potrebbe preferire un efficiente rete ferroviaria per trasportare i semilavorati necessari per produrre i propri missili. Le risorse dello Stato, però, sono limitate e non bastano per costruire entrambe le infrastrutture. In questo caso, il governo nazionale è “condannato a scegliere” (Rodrik and Hausmann, 2006) quale dei due settori incentivare a spese dell’altro. Dunque, anche se non direttamente voluta una politica industriale potrebbe essere talvolta inevitabile [8]

I casi appena elencati dimostrano come alcune circostanze possano giustificare il ricorso a politiche industriali. Tuttavia, benché auspicabile sul piano teorico, l’intervento del settore pubblico potrebbe far nascere nuovi problemi e rendere la cura peggiore della malattia che si vuole curare [6].

Alcuni interventi di politica industriale, come l’utilizzo di sussidi, alterano i prezzi degli input e degli output utilizzati per la produzione, causando un’allocazione delle risorse inefficiente [9]

Inoltre, un governo, anche se animato dalle migliori intenzioni, è improbabile che sappia quale sia l’investimento vincente in un determinato settore o, ancor di più, l’azienda più promettente. Questo tipo di interventi, oltre a portare distorsioni nei mercati e sperperare le risorse pubbliche potrebbero quindi anche essere inutili e non riuscire a sviluppare il settore obiettivo delle politiche attuate. 

Il pericolo di fallimento per lo Stato è poi particolarmente elevato nel caso in cui si adottino politiche industriali verticali. A differenza delle politiche industriali orizzontali, gli interventi verticali si concentrarono su settori specifici o su alcune imprese in particolare. In questi casi perciò, il pericolo di investire tutte le risorse sulla tecnologia erronea, o peggio ancora sull’azienda sbagliata, aumenta [10].

Infine, anche ammettendo che le distorsioni derivanti dall’intervento pubblico nel mercato siano accettabili e che un governo possa essere onnisciente, o perlomeno capace di fare più investimenti giusti che sbagliati, la politica potrebbe comunque decidere di non fare gli investimenti corretti. Gruppi di interesse possono influenzare l’intervento pubblico per ottenere politiche che favoriscano settori senza alcuna utilità per la società. Oppure, grazie a legami personali, alcune imprese possono essere sostenute dallo Stato anche se ormai non più produttive e senza alcuna prospettiva di crescita.

Gli argomenti sia in favore che contro gli interventi di politica industriale non mancano ed il dibattito sul tema è lontano dal trovare una conclusione unanime. Gli oppositori dell’intervento dello Stato nell’economia citano i disastrosi esempi in America Latina mentre i suoi fautori ricordano l’esperienza di Paesi come la Corea del Sud o la Cina e sottolineano l’importanza di interventi ben pianificati affinché possano funzionare.

In ogni caso, indipendentemente dalla propria posizione a riguardo, una nuova era delle politiche industriali sembra essere alle porte.

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