Si sente a volte indicare il “radicalismo islamico” come un pericolo per la civiltà occidentale nel suo complesso. In queste righe mi concentrerò in particolare su come viene trattato il tema dell’islamismo militante o “radicalismo islamico”; e poi sulle conclusioni che possiamo trarre per casa nostra.
Si sente a volte indicare il “radicalismo islamico” come un pericolo per la civiltà occidentale nel suo complesso. Fenomeni come Hamas, l’ISIS o Hezbollah, conosciuti anche da un pubblico generalista, sono dipinti come minaccia esistenziale per un certo sistema di valori e istituzioni a noi caro; e parimenti, si identificano paesi percepiti come in prima linea contro tale minaccia (come Israele) o politici che si agitano contro il “pericolo” islamico (specie a destra, dal Rassemblement National in Francia alla Lega da noi) quali baluardi della nostra civilizzazione.
Trovo questo tipo di ragionamento fallace, e invero esso stesso pericoloso. Si fonda su stereotipi manichei (“noi” buoni contro “loro” cattivi). Ciò impedisce di cogliere la complessità di una dinamica – quella della mobilitazione politica su base religiosa – che richiede invece estrema attenzione e preparazione. In queste righe mi concentrerò in particolare su come viene trattato il tema dell’islamismo militante o “radicalismo islamico”; e poi sulle conclusioni che possiamo trarre per casa nostra.
Partiamo dalla dicitura di “radicalismo islamico”. È fuorviante, e nella letteratura specializzata viene usata poco ormai: suggerisce infatti che andando alle “radici” dell’Islam vi si trovi militanza violenta. Ergo: i fondamenti dell’Islam sono violenti. Tesi che nessuno studioso serio dell’Islam sostiene più da anni, ovvero da quando proprio l’evento violento per antonomasia legato all’Islam (l’11 Settembre) ha generato una moltitudine di studi sull’argomento (che si sono andati ad aggiungere ad una letteratura già molto vasta per-2001). Il fatto che l’Islam possa generare – indiscutibilmente – movimenti politici violenti indica una possibilità, non una necessità. Fatto, per altro, condiviso da ogni altra religione: fanatici indù del Rashtriya Swayamsevak Sangh, Klu Klux Klan cristiano, Movimento Kach nel contesto dell’ebraismo. Ora, se anche concediamo, come espediente comunicativo, che essere “radicali” voglia dire essere inclini alla violenza, non lo possiamo però accettare come strumento analitico. Per esempio, ci possono essere posizioni “radicali” che di violento hanno ben poco: il movimento salafita, tra i più rigidi e, appunto, “radicali” nella galassia islamica, produce per la stragrande maggioranza dei casi comunità dedite alla preghiera, alla lettura del Corano e al seguire un certo stile di vita.
E qui appunto la galassia islamica: è veramente inopportuno pensare che questa rappresenti un monolite; e non è un monolite nemmeno una sua specifica configurazione, quella islamista, che a sua volta non è sempre violenta e militante – anzi, lo è in un numero veramente ristretto di casi. L’islamismo si riferisce a movimenti e gruppi che vogliono elidere la separazione tra religione e politica che, val la pena di ricordarlo, è un concetto partorito nel contesto storico della nostra società, ma non necessariamente di altre. Il lavoro di Talal Asad in tal senso è fondamentale, e Liberi Oltre se ne occuperà a breve. Voler elidere tale distinzione non vuole per nulla dire che lo si voglia fare con la violenza. Da qui, bisogna ulteriormente appunto distinguere un islamismo militante che invece, innegabilmente, abbraccia la violenza politica come strumento legittimo. Non basta: all’interno dello spazio dell’islamismo militante le differenze ideologiche, programmatiche, strategiche sono enormi. In sostanza sono gruppi che spesso si combattono l’un l’altro. Non ci potrebbe essere nulla di più frammentato dell’islamismo militante, e bisogna raccontarlo come tale. Dire che Hamas, gli Hezbollah, i Fratelli Musulmani, l’ISIS e l’Iran fanno parte di un medesimo blocco che condivide idee, valori e programmi è assurdo. Dire che tale “blocco” vuole distruggere l'intera civiltà occidentale poi dimostra una errata percezione anche delle loro capacità oltre che delle loro intenzioni.
Proviamo, in maniera limitata dato lo spazio a disposizione, a proporre alcune considerazioni. Primo: i Fratelli Musulmani non sono considerati da nessun esperto una “formazione estremista” o “radicale”. Val la pena di ricordare che hanno vinto le prime (ed uniche) elezioni libere in Egitto (nel 2012). Che siano stati inetti e incapaci al governo non suggerisce che siano estremisti. Che abbiano fornito, specie negli anni ’70, una base ideologica da cui invece sono emersi gruppi estremisti, è invece vero. Ma la rinuncia alla violenza da parte della Fratellanza data agli anni ’50, e appunto tali gruppi finivano per condannare i Fratelli Musulmani per il loro interesse nelle associazioni come sindacati, per la via parlamentare al potere, per il loro spirito riformista. Che poi l’attuale governo egiziano, tra i più repressivi della regione, li dichiari terroristi dice più di Al-Sisi di quanto non dica della Fratellanza stessa.
Hamas è una costola dei Fratelli Musulmani, un gruppo che – dato il contesto in cui opera, che è di occupazione militare – ha scelto la violenza armata. Si può peraltro ricordare che Israele ne foraggiò la crescita a fine anni ’80 come rivale dei nazionalisti laici dell’OLP. Possiamo chiamare resistenza quanto fa Hamas se condividiamo le sue posizioni; possiamo chiamarlo terrorismo se gliele contestiamo. Possiamo anche vedere un’area grigia, dove il terrorismo è una tattica e la resistenza una dichiarazione politica – parliamo di livelli di analisi diversi. Meno controverso è il fatto che Hamas si comporti come innumerevoli gruppi di stampo anti-coloniale: a torto o a ragione, credono che lo stato di Israele sia una potenza coloniale e lo vogliono scacciare. È tutta una questione di terra e nazione, tanto che vengono definiti “islamo-nazionalisti”. Per dire: Hamas nei suoi piani programmatici non lancia invettive contro l’Occidente tutto. Non ha un’agenda di califfato globale. Non ha nemmeno un chiaro progetto di cosa voglia dire “governo islamico” perché non è il suo focus principale. Che poi i suoi leader impongano le solite, tristi misure di facciata (velo obbligatorio per le donne, restrizioni sul consumo di alcol, etc.…), o che abbiano governato Gaza dal 2006 ad oggi in modo autoritario e miserevole, o che siano capaci di atti come quelli del 7 Ottobre, non cambia la loro raison d’être.
Hezbollah è invece un attore politico ancora diverso. Sciita e non Sunnita, il che implica principi teologici e cosmologici specifici da cui discende una certa organizzazione a livello sociale (vi è qualcosa di simile ad un clero, per esempio). Soprattutto, per la nostra conversazione, importa che esso sia legato all’Iran a doppio filo, in maniera molto diversa da Hamas. Hezbollah segue la dottrina (sciita) di Khomeini della “Tutela dei Giureconsulti”, un anatema a livello ideologico, teologico e programmatico sia per i Fratelli Musulmani che per Hamas. Se i suoi membri collaborano con Hamas è perché hanno un nemico in comune, Israele. Ma, come Hamas, non hanno il progetto di un califfato globale – anche loro sono “islamo-nazionalisti”: solo che il loro territorio di riferimento è il Libano e non la Palestina. A livello organizzativo e operazionale, sono simili ad Hamas in quanto, come quasi tutte le formazioni islamiste militanti, offrono servizi essenziali alla popolazione. Se vogliamo spiegare perché molti in Libano e Palestina (ma non tutti!) supportino Hamas e Hezbollah, allora dobbiamo pensare che essi gestiscono ospedali, scuole, cliniche, centri di accoglienza, offrono sussidi di disoccupazione, costruiscono (e ricostruiscono) edifici e infrastrutture. Lo fanno per proprio tornaconto? Certo – come qualsiasi attore politico nella stessa situazione; e lo fanno perché – in Palestina o in Libano, per motivi diversi – non c’è uno Stato capace di farlo al posto loro.
Quindi, l’Iran. Il quale, a differenza degli attori menzionati finora, è uno stato, non un movimento socio-politico. È l’unica teocrazia al mondo (insieme, possiamo ricordarlo con una punta di ironia, al Vaticano): vi è una classe clericale al potere. Come stato, opera come e più della Fratellanza, di Hamas e di Hezbollah nel contesto statuale regionale e internazionale. Ha una rivalità mai veramente sopita con l’Arabia Saudita (entrambi vorrebbero vantare una preminenza nel mondo Islamico); ne ha una che conosce fasi alterne di distensione e tensione con la Turchia; e ha un confronto aperto con Israele dal 1979, anno della rivoluzione islamica. È un confronto che fa comodo ad entrambi. “Perfetti nemici” li ha descritti Ali Ansari, tra i principali esperti di politica iraniana: gli iraniani possono usare lo spauracchio israeliano per giustificare repressione interna e vari programmi di armamento; gli israeliani per inquadrare come “esistenziale” la minaccia degli ayatollah e giustificare in base ad essa incursioni militari nella regione (Siria, Iraq, Yemen, e infine anche l’Iran stesso) e mantenimento dello status quo nei Territori Occupati. L’Iran dal canto suo supporta Hamas e Hezbollah in quanto incapace di rappresentare una minaccia militare convenzionale per Israele. La ricerca dell’atomica risponde a questa logica. Basta, in un certo senso, la realpolitik per spiegare come l’Iran si comporti nei confronti di Israele.
Un paio di appunti ulteriori. L’ideologia khomeinista è complessa, e non si ha qui lo spazio per approfondire i suoi tratti. Ma non è un’ideologia di califfato globale: questa locuzione appartiene al jihadismo sunnita, che considera l’Iran post-rivoluzionario peggio degli “infedeli occidentali”.
Per quanto detto finora, nessuno degli attori fin qui menzionati rappresenta un “blocco islamico” che vuole distruggere l’Occidente. Ci sono invece altri attori ancora – i cosiddetti jihadisti-salafiti – che in effetti propugnano un Califfato e la parallela distruzione del mondo occidentale. I più famosi sono Al Qaeda e il defunto Stato Islamico. La loro ideologia (ancora una volta: composita al loro interno, e vi sono studi che dimostrano la frammentazione dell’ISIS, per esempio) ha un’origine storico-intellettuale precisa: il connubio tra un Islamismo rivoluzionario propugnato da alcuni gruppi separatisi dalla Fratellanza Musulmana (cui abbiamo fatto cenno poc’anzi) e alcune istanze della corrente salafita, altrimenti apolitica e non-movimentista. Possiamo chiudere con quanto segue: ISIS e Al Qaeda predicano la distruzione, o per lo meno la lotta senza quartiere, all’Occidente. Tale minaccia si è presentata nei terribili atti terroristici che conosciamo. Ma pensare che tali atti, per quanto tragici, possano distruggere la nostra civiltà, va oltre ogni giustificato allarmismo. Sono atti criminali che vanno trattati come tali. Anche quando l’ISIS provò appunto a farsi “stato”, per sconfiggerlo militarmente bastarono milizie curde con supporto aereo americano. Non esattamente uno sforzo militare proibitivo da ultimo scontro per la sopravvivenza dell’Occidente.
Se vi è dunque un movimento mondiale islamista, tale movimento non è certo compatto. Quando anche alcuni gruppi, o uno stato come l’Iran, adottano la violenza, non è detto che lo facciano per distruggere l’Occidente. E quando anche lo vogliano fare, questa minaccia si articola come questione di polizia e intelligence; non sono gli eserciti, per essere chiari, che la devono affrontare. Criminali, non un attacco alla nostra civilizzazione.
Massimo Ramaioli fa parte del Consiglio Scientifico di Liberi Oltre le Illusioni ed è Assistant Professor presso il Dipartimento di Scienze Sociali della Al-Akhawayn University in Ifrane (AUI), in Marocco. In precedenza è stato Assistant Dean della School of Arts, Humanities and Social Sciences e Assistant Professor nel Social Development and Policy Program presso la Habib University (HU) di Karachi, in Pakistan. È laureato in Scienze Sociali per la Cooperazione e lo Sviluppo, e ha conseguito un Master in Studi Afro-Asiatici all’Università di Pavia.
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