Gli errori di Trump: l'IVA non è un dazio

Mentre si trascinano le giornate della “guerra commerciale più stupida della storia”, con tensioni crescenti alimentate da Borse altalenanti, animate da imprese e investitori storditi, e condotta da quello che pare un giocatore d’azzardo con denaro altrui, il dibattito sui neo dazi continua a imperversare.

Foto: Wikimedia Commons, White House

Dazi che nascono dal grottesco, tra formule e logiche viziate da incoerenza, come illustrato alcuni giorni fa(1), e che trovano fondamento in idee tanto distanti dalla realtà che definirle menzogne è indulgente, poiché si tratta di veri e propri deliri concettuali. E tra i più dannosi deliri condivisi, sia da Donald Trump che dai sostenitori nazionali ed europei, v’è l’idea che l’IVA sia una forma di dazio. Una castroneria della ragione spacciata per saggezza.

Imposte indirette per bersagli diversi

L’Imposta sul Valore Aggiunto (IVA) e i dazi sono entrambe imposte indirette applicate agli scambi, ma le due affliggono diversamente gli scambi su cui incidono.

L’IVA grava su tutti i beni consumati all’interno di un dato Paese, indipendentemente dal fatto che questi siano stati prodotti al suo interno o siano stati importati. Invece i dazi, focalizzandoci solamente su quelli relativi alle importazioni, affliggono solo l’importazione di beni o servizi dall’estero con lo scopo di influenzare il loro costo d’acquisto.

Proviamo a spiegarne le differenze con un esempio pratico.

Supponiamo di andare ad un ristorante per mangiare un hamburger e che:

  • tale ristorante abbia disponibili hamburger sia italiani che importati dagli Stati Uniti;
  • il ristoratore sostenga lo stesso costo per acquistare ambedue i prodotti (10€);
  • lo Stato italiano applichi un dazio del 100% sulla carne importata dagli Stati Uniti;
  • il ristoratore scarichi il costo del dazio interamente sul cliente.

Andiamo al ristorante, prendiamo un hamburger italiano e uno statunitense, e ci vengono chiesti 11€ per l’hamburger nostrano e 22 per quello estero. Ma come si arriva a questi prezzi?

Partendo dal costo che il ristoratore sostiene per ogni hamburger (10€ nel nostro esempio) a questo si aggiunge poi l’IVA al 10% (aliquota per i servizi di ristorazione), ma c’è una differenza importante: la c.d. base imponibile sulla quale si applica l’aliquota è superiore per quello statunitense. Mentre per l’hamburger italiano l’imposta si applicherà infatti su € 10, quello statunitense è affetto dal dazio del 100%, che porta l’ammontare su cui applicare l’imposta a 20€, sul quale poi il 10% ci fa arrivare ai totali 22€ che il ristoratore ci ha chiesto. L’IVA non fa alcuna distinzione tra i prodotti, mentre il dazio discrimina solo il prodotto straniero.

Ma allora perché Trump, insieme a tanti altri, continua a lanciarsi contro l’IVA, qualificandola come una pratica commerciale scorretta contro gli Stati Uniti ed a vantaggio delle esportazioni degli altri Paesi? Probabilmente, se non certamente, perché vuole approfittare della confusione dovuta alle differenze di funzionamento dei nostri sistemi di imposte, rifiutandosi di approcciare seriamente una questione non ovvia sulla quale va dunque fatta chiarezza.

Come funziona l’IVA?

Quasi tutti i Paesi nel mondo hanno un’imposta sui consumi, ciò che cambia è la forma.

La nostra IVA è una c.d. imposta multifase, ovvero si applica in ogni fase del ciclo di vita di un prodotto (produzione, trasformazione, commercializzazione), ma è realizzata in maniera tale da non essere un costo per le imprese coinvolte, gravando effettivamente solo sul consumatore finale. Questa caratteristica è detta tecnicamente neutralità dell’IVA ed è ottenuta tramite un processo detto rivalsa, che illustreremo ora con un esempio pratico.

Poniamo che Mario produca un paio di scarpe, tu le inscatoli e venda, e che Ascanio sia l’acquirente finale. Se operiamo in un contesto di IVA al 10% ove:

  • Mario vende le scarpe a te per 10€ + IVA (1€);
  • tu vendi le scarpe ad Ascanio per 15€ + IVA (1.50€).

Cosa succede in termini di IVA?

L’IVA che hai pagato a Mario (1€) è un credito verso lo Stato, poiché tu l’hai versata a Mario, che è un tuo fornitore, e visto che, come abbiamo detto prima, l’IVA è concepita per essere un costo solo sul consumatore finale, tu dovrai fartela restituire.

L’IVA che tu hai incassato da Ascanio (1.50€) - invece - è un debito verso lo Stato e la dovrai versare ad esso. Dunque al momento del versamento dell’imposta salderai al fisco la differenza tra l’IVA pagata ai fornitori e quella incassata dai clienti, qui pari a 50 centesimi.

L’IVA per le imprese (cioè Mario e te) è dunque una partita finanziaria, cioè un flusso di denaro in entrata e in uscita, che poi arriva allo Stato dall’effettivo pagatore (Ascanio) (2). Ma cosa succede invece nell’ambito degli scambi con l’estero?

L’IVA è neutrale: non sussidia l’export e non penalizza l’import

Negli scambi con l’estero l’IVA non è applicata sulle esportazioni, ma solo sulle importazioni. Questo è noto come “adeguamento di frontiera” (border adjustment), una caratteristica del tributo dovuta alla sua stessa natura. Capiamola procedendo punto per punto sulla base di quanto detto.

Le imposte sul consumo, che includono l’IVA, non dipendono dal luogo di produzione della merce, ma da quello dove è consumata, ergo non interessano il consumo che si verifica all’estero (export), ma solamente quello che avviene su suolo nazionale, che il prodotto sia importato o meno.

Dunque serve siano essere chiari alcuni aspetti, che spieghiamo ora con un altro esempio.

Poniamo io voglia vendere della mia merce all’estero:

  • quello che io esporto è importato dal mio cliente, ovvero sarà lui a pagare la relativa imposta sul consumo prevista dal fisco della sua nazione;
  • io, per produrre la merce che ho esportato, ho fatto degli acquisti sui quali ho già pagato l’IVA, ma poiché non ho un’imposta derivante dalla vendita, visto che la sosterrà il mio cliente, si interrompe il meccanismo di scarico sul consumatore finale (rivalsa) spiegato prima;
  • dunque avrò solo da farmi restituire l’IVA pagata ai miei fornitori, lasciandomi creditore verso lo Stato;
  • questo credito, poiché l’IVA non è un costo sostenuto dalle imprese, in quanto tale mi sarà dovuto dallo Stato.

Perché non assoggettare anche le esportazioni all’IVA?

Se ciò avvenisse, un americano che acquista un macchinario italiano pagherebbe l’imposta due volte: una volta verso il fisco statunitense e un’altra verso quello italiano. Visto che il macchinario sarà usato negli Stati Uniti, non Italia, e che l’IVA è un’imposta sul consumo sul suolo italiano, questa non inciderà sull’esportazione oltreoceano.

Perché invece non si “esentano” le importazioni dall’IVA?

L’IVA, come abbiamo detto, è fatta per gravare sui consumatori finali, e tutti i prodotti consumati sul suolo nazionale vi sono assoggettati, che siano importati o meno. Se così non fosse, nel caso si esentassero dal pagamento dell’IVA le importazioni dall’estero, si darebbe a queste ultime un ingiusto vantaggio, sussidiando indirettamente i produttori stranieri.

Questa è l’essenza del principio di neutralità dell’IVA applicato nel commercio internazionale: pago l’imposta dove consumo, non dove dove produco. L’IVA non impatta sul commercio internazionale, ma solo sui consumi interni.

Se io e lo statunitense Alfredo fossimo concorrenti nel vendere lo stesso tipo di scarpe in Italia, a far la differenza sarebbero solo la nostra efficienza produttiva e un potenziale maggior costo che Alfredo potrebbe dover sostenere per le sue scarpe qualora egli fosse assoggettato a dei dazi in Italia (3), senza però che vi sia alcuna discrimazione in termini IVA, poiché l’aliquota applicata sarebbe la stessa per entrambi. 

Questa per gli statunitensi è una dinamica completamente diversa rispetto a ciò che accade nella loro nazione, ove invece è vigente un’imposta sulle vendite, la Sales Tax, in un complicato sistema(4) che differisce dall’IVA poiché:

  • è distinta in ogni Stato della federazione statunitense, ognuno con le proprie regole (beni e servizi imponibili, aliquote, norme per la dichiarazione, obblighi etc);
  • sulle importazioni non ne esiste(5) una federale, ovvero valente per tutti gli Stati Uniti;
  • ha una logica piramidale, in quanto non agisce solo sulla transazione verso il consumatore finale, ma pure su alcuni input del processo produttivo;
  • non ha possibilità di essere recuperata come credito verso lo Stato.

Dove è il problema?

Per capirlo, serve bussare alla porta della Casa Bianca. L’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), i più diversi economisti(6), nonché la normativa(7) dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), sono chiari sul tema: i dazi discriminano, e l’IVA è un’imposta nazionale che non genera alcun vantaggio competitivo.

Evitate quindi la follia di questa danza macabra dell’intelletto in catene, non è saggio prendere parte alla novella replica del ballo degli indemoniati di Strasburgo del 1518.

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