Delle diverse figure che hanno dominato la Prima Repubblica, Bettino Craxi è quella che solleva forse più discussioni, più dello stesso Andreotti. Craxi viene spesso ricordato come uomo carismatico, uno statista che ha saputo sia traghettare l’Italia fuori dalla crisi economica sia che ha saputo tenere testa agli Stati Uniti con il caso diplomatico di Sigonella.
Ma la realtà dei fatti è ben diversa.
Accantonando Tangentopoli, oggi vogliamo infatti raccontarvi non una storia diversa, ma la storia di come Craxi non sia stata una figura positiva per l’Italia, bensì un uomo le cui scelte politiche ed economiche hanno avuto un tale costo che tutt’ora ne viviamo - e soprattutto paghiamo - le conseguenze.
Scevri da ideologia, dati alla mano.
La carriera politica
La carriera politica di Craxi è una combinazione di successi, controversie e scandali. Giunto a divenire leader del Partito Socialista Italiano (PSI) e Presidente del Consiglio dei Ministri, già da bambino fu a stretto contatto con la politica(1) , prendendo la tessera del PSI a 17 anni.
La sua crescita nel partito fu graduale e costante, maturando un peso politico che lo porterà a divenire prima assessore al comune di Milano, poi segretario provinciale di partito, venendo eletto deputato del collegio Milano-Pavia nelle elezioni del 1968, secondo a preferenze solo a Pietro Nenni. (Craxi, pag. 75)
Se tale elezione evidenziò il suo controllo del PSI milanese, a livello nazionale era considerato come una figura di scarso peso, un giudizio che non cambiò neanche quando venne nominato vicesegretario del partito (1970). Una valutazione che gli spianerà la strada per diventarne il segretario nel 1976, nel periodo di crisi del centrosinistra.
Gli anni del segretariato di Craxi si caratterizzano per i molteplici cambiamenti alla struttura del partito all’interno di un periodo storico complesso che vedrà la discesa di consensi della Democrazia Cristiana e la nascita del pentapartito, giungendo a divenire il secondo Presidente del Consiglio nominato al di fuori dell'ambito della Democrazia Cristiana nel 1983.
Tra i cambiamenti più importanti va certamente segnalata la svolta anticomunista, una novità non figlia della contingenza ma di una scelta maturata anni prima, visto che già nel 1966 si dichiarava convinto di come “ai socialisti unificati spettasse il compito di intervenire positivamente nella crisi che travaglia molte forze di sinistra, rifiutando seccamente le tradizionali formulazioni frontiste propagandistiche e pseudo unitarie tipiche del comunismo togliattiano e posttogliattiano, ma promuovendo le chiarificazioni, le demistificazioni, sollecitando una presa di coscienza delle reali prospettive di trasformazione della società italiana”. (B. Craxi, Problemi del Socialismo, in ID., Socialismo e realtà, Milano, Sugar, 1973, pp 45-46) e (Craxi, Musella, p.66).
Per cosa si caratterizzarono gli anni del craxismo?
Craxi portò una novità sostanziale all’interno della politica italiana: la sua capacità di essere protagonista gettò le basi di quello che oggi conosciamo come leaderismo, l’atteggiamento di supremazia tipico degli accentratori e dei capi di partito.
Craxi è stato probabilmente il primo leader ad identificarsi con una classe dirigente e ancora oggi viene ricordato come un decisore, un accentratore, una persona di pugno e di grande piglio.
A esempio di ciò si è soliti richiamare la lotta intrapresa contro l’inflazione, che giungerà all’approvazione del contestato decreto di San Valentino del 1984 sulla scala mobile, un evento che però di fatto è stato più uno spettacolo politico che una misura d’effetto sull’inflazione (vedasi infra).
Un leaderismo che si pone a sfondo di due tumori il cui prezzo tuttora paghiamo.
Il primo fu la corruzione e il finanziamento illecito dei partiti, che in quegli anni trovano la loro massima espressione. Un sistema criminale autoalimentante mai disconosciuto dallo stesso Craxi e per il quale si è sempre pilatescamente assolto dalle sue responsabilità con il noto “lo facevamo tutti”. Nel suo ultimo discorso alla Camera (3 luglio 1992) lo stesso Craxi disse: “Ciò che bisogna dire, che tutti sanno del resto è che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale...Se gran parte di questa materia, deve essere considerata materia puramente criminale, allora, gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale”
Il secondo tumore fu invece la disastrosa gestione dell’economia, che a fronte di una stabilità politica priva di precedenti aprì il baratro dei conti pubblici nel quale tutt’oggi stiamo cadendo.
Il costo economico di Craxi: l’esplosione della spesa pubblica e del debito pubblico, l’aumento della pressione fiscale, la menzogna del merito della disinflazione
Nel comune parlare è molto diffuso il mito secondo il quale gli anni ‘80 siano stati un decennio di benessere, gli anni senza crisi, dei mondiali del 1982 e della Milano da bere.
Se non fosse che quel “bere”, quel “benessere”, era figlio delle più becere illusioni: la crescita degli anni ‘80 era infatti drogata da una combinazione di svalutazione, debito pubblico e artifici contabili.
E particolare attenzione va proprio data al debito pubblico, il quale negli anni ‘80 ha la sua esplosione sotto l’egida dei governi di Craxi, passando dal 62,6% nel 1982 all’ 84,1% nel 1986 (2)
Cercando di tracciare un quadro complessivo del periodo, dal 1971 le spese correnti statali superano le entrate, ergo il settore pubblico dà vita a un fabbisogno di risorse che può essere finanziato soltanto in due vie, rispettivamente risparmio privato e estero, distogliendolo così da più importanti finalità, quali gli investimenti privati.
L’aumento della spesa pubblica non era per finalità d’investimento, bensì per la volontà di soddisfare esigenze elettorali e clientelari che daranno vita a una crescita economica drogata e ad illusioni - figlie della spesa sociale - tali da far assistere a fine decennio al totale indebolimento delle virtù di risparmio italiche (discesa del rapporto risparmio privato/reddito nazionale) e al crescente assorbimento di risorse estere.
Combinando le analisi di Rossi e Felice, non è infatti un caso che il periodo 1980-1986 sia quello della c.d. “stabilizzazione mancata”, segnato da diverse ombre tra le quali la mancanza di un rientro verso la sostenibilità dei conti pubblici: anni di spesa incontrollata e irresponsabile volta alla ricerca di voti.
Infatti, se la stagnazione economica italiana originata dalla seconda crisi petrolifera (1979-1980) termina nel 1983, la successiva crescita economica non venne sfruttata per rimettere in sesto i conti, visto altresì il venir meno della leva monetaria di finanziamento della spesa pubblica.
I dati sono incontrovertibili. Il disavanzo primario accumulato dallo stato si trovava in quegli anni tra il 3 e il 5% annuo e la stessa struttura del bilancio pubblico cambiò, registrando un aumento della spesa primaria dal 36,9% del 1979 al 43% del PIL nel 1985 (la spesa sociale salì di 3,5 punti tra il 1980 e il 1985), oltre che ad un aumento della spesa per interessi, la quale passò dal 5,1% del PIL del 1981 al 8,8% del PIL del 1986.
Craxi - al pari degli altri governi succedutisi nel decennio - non colse in alcun modo le opportunità del momento (come il crollo del prezzo delle fonti energetiche del 1986), se non esprimendo buone intenzioni nei documenti di programmazione economico-finanziaria, promettendo un ripristino dei conti pubblici fondato su previsioni macroeconomiche irrealistiche, politiche inverosimili e piani internamente incoerenti.
Altro importante macigno lasciatoci da Craxi fu poi l’aumento della pressione fiscale.
L’aumento della spesa pubblica non poteva che tradursi in un aumento delle imposte che - principalmente incentrato su quelle indirette - fece salire la pressione fiscale dal 31,4% nel 1980 al 41,9% nel 1992, anno in cui fummo costretti a una repentina e dolorosa correzione dei conti pubblici tuttora incompiuta.
È doverosa infine un’ultima nota: Craxi non ha alcun merito sul crollo dell’inflazione.
Essa infatti era iniziata già ad inizio anni 80 grazie alle politiche monetarie restrittive attuate a livello internazionale dalle banche centrali, ben 4 anni prima del famigerato decreto di San Valentino del 1984, il quale tra l’altro era una misura una tantum che non eliminava, bensì limitava, una delle policy più pericolose della Prima Repubblica: la scala mobile.
Misura che sarà abolita solamente nel 1992 e che arriverà a costarci un’inflazione più elevata rispetto agli altri paesi europei avanzati, nonché costringendoci così a periodiche svalutazioni del tasso di cambio (Felice, pag. 291).
Considerazioni finali
A fronte di quanto sopra riportato possiamo dunque concludere che il lascito di Craxi, riassumibile in leaderismo, accentramento e contenimento della democrazia decisionale, distruzione dei conti pubblici e corruzione del sistema socio-economico, al quale si potrebbe altresì aggiungere il suo ostacolare la riforma del sistema pensionistico a inizio anni ‘90, è complessivamente negativo.
Un risultato così negativo i cui effetti politici ed economici continuano ad essere tuttora presenti, negati se non addirittura difesi da un revisionismo storico figlio di corruzione ideologica e metodologica.
La corruzione politica ed economica di un uomo che è morto all’estero in fuga dalle sue responsabilità.
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