Nella politica di oggi vediamo sempre più spesso l’utilizzo di categorie come “amico” e “nemico”. Sebbene questo non rappresenti una novità di per sé, è rilevante il fatto che, nel dibattito politico, “nemici” siano molto spesso interni. In un mondo spaccato in due - tra il conflitto Russo-Ucraino e quello Israelo-Palestinese - la Democrazia è più interessata a farsi la guerra, ignorando il nemico alla sua porta.
Se l’identità è uno dei temi centrali in politica sin dalla notte dei tempi - che sia essa religiosa, etnica, razziale, linguistica - allora non deve sorprendere che l’approccio Schmittiano alla politica, da intendersi come soluzione del conflitto amico-nemico, sia rilevante ancora oggi.
I processi democratici stanno di fatto venendo ingolfati dall’identity politics (IP), a destra come a sinistra. L’IP è tra i fenomeni più rilevanti della politica contemporanea, proprio perché all’interno dei processi democratici, che teoricamente fanno del pluralismo la loro forza, ne è visibile l’impronta. Quello che in sociologia è noto come “Othering process” - ossia quel processo tramite cui un gruppo enfatizza le caratteristiche che lo differenziano da un altro gruppo (1) - è il pane quotidiano della retorica politica e partitica delle democrazie occidentali, con echi assai sinistri di un passato buio. In Europa così come negli States il tema dell’identità è l’ago della bilancia dei processi elettivi: “Io sono Giorgia”, il motto-meme identitario del nostro Presidente del consiglio; “non tutti gli SS erano criminali”, il goffo tentativo di Maximilian Krah di riabilitare parte del passato nazista tedesco (2); “ho ucciso io Roe v. Wade”, l’appropriazione ideologica, politica e identitaria di Donald Trump sul diritto federale di abortire (3); le tessere con il volto di Berlinguer promosse da Elly Schlein per tracciare una linea di continuità tra il PCI e il PD (4). Queste rivendicazioni identitarie ben prima che ideologiche occupano uno spazio smodato del vivere politico, specie se si considera la vuotezza del contenuto non-simbolico di questi slogan.
Si parla di identità e non di ideologia proprio per via del fatto che, in ciascuno degli esempi sopracitati, sarebbe impossibile estrapolare del contenuto operazionalizzabile in termini politici. Ciononostante, i simboli di questi slogan impegnano il discorso politico e sono perciò importanti da tenere in considerazione almeno come segnali di una possibile direzione che il leader che li pronuncia vorrebbe dare alla propria comunità.
Sebbene il panorama politico internazionale ci fornisca quotidianamente spunti per ridefinire e identificare possibili nemici della democrazia - da Putin, in guerra contro l’occidente at large, a Kim Jong-un, passando per l’Iran di Khamenei, solo per citarne alcuni, - come esemplificato dal goffo e recente tentativo di Trump,
“I think the bigger problem are the people from within. We have some very bad people. We have some sick people. Radical left lunatics”(5).
Che il futuro presidente degli Stati Uniti utilizzi certi termini scandalistici non fa notizia; infatti, ciò che veramente colpisce l’osservatore politico è l’assenza di scandalo tra i repubblicani, ormai assuefatti a questa belligeranza continua ed estrema, nonché soprattuttointroversa.
Non è un caso isolato, e nemmeno solo americano. Mentre Trump attaccava persone e funzionari americani a lui invisi, in Italia il Presidente del Senato La Russa suggeriva di cambiare la Carta Costituzionale. Il motivo? La magistratura aveva appena bocciato l’espatrio dei 12 immigrati in Albania (dopo che aveva ordinato il rientro di altri 4)(6). La Russa ha affermato che “La destra, che vuole governare, vorrebbe rispetto per le prerogative della politica”(7). Insomma, la magistratura non può fare quello che vuole, soprattutto se non è in linea col governo. O meglio, la magistratura non può e non deve differenziarsi dal governo.
Soffermarsi sui nemici interni infatti fa sì che le istanze identitarie trasbordino il veicolo del conflitto sociale per finire su quello istituzionale: se i nemici sono interni, ed è chiaro che lo sono, normali regole non possono bastare. La separazione dei poteri risuona ormai come un lusso di tempi di pace ormai andati. A chi alza il dito e sommessamente fa notare che la guerra, quella vera, è fuori, viene mostrata la porta. L’Europa è in guerra con il proprio vicino, storicamente ingombrante per l’autodeterminazione del suo continente. Eppure un nemico come quello personificato dalla Russia - nemico vero che quotidianamente minaccia e uccide i nostri vicini la cui unica ambizione è quella di essere “un po’ più come noi e un po’ meno come loro” - politicamente non vende. La Federazione Russa, anzi, “compra” a suon di simboli e contanti larghe frange del tessuto sociale Europeo. Come ad esempio i Patrioti di Europa, che sono infatti, più o meno direttamente, a libro paga dell’orso russo (8), che tra la guerra in Ucraina e le mazzette in Moldavia (9), e i TikTok in Romania (10), trova tempo per continuare le proprie relazioni ufficiali ed ufficiose con i maggiori partiti di estrema destra e sinistra del continente.
In uno scenario internazionale sempre più precario e con nuovi fronti che minacciano di aprirsi (11), l’attenzione della politica è fin troppo indirizzata a sbarazzarsi dei nemici interni, con la possibilità che la politica estera Europea - o quello che vagamente vi somiglia - muoia definitivamente. L’approccio claudicante del vecchio continente nei confronti delle esplicite minacce esterne mette di fatto in luce come la nostra comunità politica sia stanca, impegnata spesso a battibeccare su temi di quart’ordine (12) - anche questi non raramente identitari - e ormai svuotata ormai di qualsiasi tipo di lungimiranza. In questo “vannacciano” mondo al contrario, i filorussi europei sono dipinti come patriottici, nonché vicini all’uomo e alla donna comuni; la pace ad ogni costo, calcio negli stinchi ai valori caposaldo dell’occidente libero, è spacciata come panacea contro le crisi economiche e valoriali. L’Unione Europea, che all’interno di questi scenari è l’unica forza che disporrebbe delle risorse per influire positivamente sul conflitto Russo-Ucraino, è anch’essa svuotata di potestà e spesso indaffarata a condurre battaglie ideologiche contro i mulini a vento, di cui le case green e il ban ai motori a combustione entro il 2035 sono solo recenti esempi.
In questo quadro che il neo-ministro della cultura Giuli definirebbe intriso di apocalittismo, c’è però una battaglia identitaria che forse varrebbe la pena combattere. L’elefante nella stanza è infatti quel filo rosso valoriale che accomuna i Paesi UE e gli States, e che rappresenta l’unica alternativa per uscire in piedi da questa situazione. Quei valori più o meno lascamente definiti e operazionalizzati nelle varie comunità - libertà, democrazia, pluralismo, secolarismo, ecc. - non sono orpelli secondari delle democrazie liberali occidentali: essi sono direttamente responsabili del benessere economico-sociale che le nostre comunità hanno esperito dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi. Ed è qui che giace il problema.
La battaglia culturale che i promotori dell’IP stanno combattendo - e vincendo - mira a distruggere uno o più di questi aspetti paradigmatici delle società aperte. Dalle nostre parti cresce quotidianamente la convinzione che sia l’Occidente stesso ad essere finito (13): da analisti “geopolitici” che decantano la fine dell’impero a stelle e strisce, ad improbabili giornalisti che osannano più o meno velatamente l’operato di Vladimir Vladimirovich, uomo forte per eccellenza che tutti dovremmo temere dati i suoi “missili ipersonici” e il suo infinito arsenale atomico. L’Europa e gli Stati Uniti nella retorica che domina questi gruppi sono responsabili direttamente di tutti i mali del mondo - dall’Ucraina allo Yemen - e, soprattutto, sono incapaci di garantire benessere pure a se stessi. La narrativa insomma ci vede schiacciati, destinati ad un ridimensionamento che ne simboleggi la supposta mediocrità. Il mondo fuori è pericoloso e noi non siamo - secondo alcuni - all’altezza della difficoltà; secondo altri è invece giusto e desiderabile che ci si faccia da parte, essendo noi appunto i responsabili di tutti i problemi, indipendentemente dal fatto che questi siano nostri o meno.
Ovviamente tutto questo ha delle briciole di verità qua e là. L’operato Europeo ed Americano in tema di Esteri lascia a desiderare. Infatti, neppure le frange più convinte del sostegno all’Ucraina sembrano essere in grado di agire in maniera incisiva; sul conflitto Israelo-Palestinese, il mondo si divide verticalmente tra chi ascolta solo le ragioni dei primi, e chi unicamente quelle dei secondi, generando una serie di attesi risultati quali la devastante e continua distruzione di Gaza, l’allargamento del conflitto verso Libano e Iran, e nessun piano di rientro dalle pluri-emergenze in vista per le Cancellerie Europee.
Eppure delle alternative ci sarebbero, senza neanche dover scomodare modelli che non ci appartengono. L’Occidente, un tempo dipinto come baluardo dei diritti umani, della libertà e della democrazia, dovrebbe cercare di tenere fede a quegli stessi precetti che nel secondo dopoguerra ne hanno fatto la fortuna. Lo svuotamento continuo dell’ONU di qualsivoglia autonomia è anche responsabilità nostra, ma non è irreversibile. La risposta non la troveremo tornando indietro, rifacendoci a modelli isolazionisti o di stampo nazionalista, ma rinnovando con forza la volontà di estendere la cooperazione a chi si impegna di tenere fede a quelle regole internazionali già menzionate e che ha le nostre stesse ambizioni. Perché questo accada, bisognerebbe riconoscere che le nostre società, pur non esenti da problemi, sono costruite su regole e valori che ci permettono di vivere in pace, che ci garantiscono la possibilità di prosperare economicamente e socialmente, che solo gli stolti potrebbero mai voler cambiare.
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