Quella della vita lenta è un'immagine che negli ultimi anni sta acquisendo una popolarità sempre maggiore in Italia. Basta aprire qualsiasi social network per imbattersi in immagini e video che ricreano momenti di vita lenta: una filosofia di vita che invita a godere dei paesaggi naturali, borghi pittoreschi, colline verdi, mare calmo, lenzuola che svolazzano ed anziani che godono dei loro piccoli momenti immersi nel passato. Al centro di tutto ciò c’è una sorta di romanticizzazione e creazione di scenari idilliaci. Ma nel concreto cos’è la vita lenta e cosa nasconde davvero?
La vita lenta è spesso idealizzata come uno stile di vita autentico, sostenibile e ricco di significato (1)(2), ma questa visione cela profonde contraddizioni. Paradossalmente, ciò che viene celebrato come un ideale di semplicità e connessione alla natura è, in realtà, la condizione che caratterizza soprattutto molte aree del Mezzogiorno: territori a vocazione agricola, con bassi livelli di produttività, poche opportunità e gravi problematiche socio-economiche.
Questa retorica romantica finisce per nascondere le difficoltà reali che, seppur diffuse a tutto il Paese, colpiscono maggiormente queste zone, come lo spopolamento, l’invecchiamento, la mancanza di infrastrutture ed il limitato accesso al lavoro, specialmente per i giovani. Continuare a venerare questo stile di vita non farà altro che peggiorare la qualità della vita ed abbassare gli standard di sviluppo anziché affrontare le vere sfide che affliggono il Sud Italia. La narrazione della vita lenta, per quanto attraente, rischia di trasformarsi in una "coperta" che copre problemi urgenti anziché risolverli.
Il contesto generale da cui partiamo è quello del calo o “inverno demografico” che interessa tutto il Paese: secondo il report 2023 dell’ISTAT(3) al 1 gennaio 2024 la popolazione residente in Italia è di 58,99 milioni (Figura 1). Sebbene si sia notato un lieve miglioramento, le nuove previsioni aggiornate al 2023 mostrano un trend preoccupante (Figura 2): si stima che la popolazione scenderà ancora a 58,6 milioni entro il 2030, a 54,8 milioni entro il 2050, fino a raggiungere i 46,1 milioni nel 2080.
A livello territoriale la situazione differisce: guardando al 2030 si prospetta un incremento del 11,5‰ annuo al Nord mentre nel Centro e nel Mezzogiorno parliamo di una decrescita rispettivamente dello 0,9‰ e del 4,8‰.
Con 379 mila nati contro 661 mila decessi si conferma ancora il saldo naturale negativo e l’unica cosa che garantisce temporanea stabilità temporanea è l’immigrazione (+274 mila unità grazie al saldo migratorio con l’estero) anche se, anche in questo caso, la situazione è diversificata tra le varie aree del paese e ripropone ancora una volta un numero più alto al Nord (11,3% residenti stranieri) e al Centro (11,1%) e cifre più contenute nel Mezzogiorno (4,5%).
Nel 2023 si sono riscontrati 444 mila trasferimenti interni al Paese. A livello interno il Mezzogiorno è l’area del paese in cui le partenze (407 mila) non sono state rimpiazzate con gli arrivi (344 mila) generando così un saldo negativo di -63 mila. La situazione è particolarmente negativa in Basilicata, Calabria, Molise e Campania.
Invece dall’altro lato si colloca il Nord, che si conferma area del paese più attrattiva con 842 mila arrivi e 785 mila partenze. Le regioni più attrattive sono Emilia Romagna, Friuli e Trentino. Invece, più ridotto ma comunque positivo, è il saldo del Centro.
Il declino demografico si accompagna a un'altra problematica che porta a un inevitabile indebolimento del tessuto sociale: l’invecchiamento della popolazione.
I dati del 1 gennaio 2024 mostrano che:
Tendenzialmente, però, a livello territoriale il Centro ed il Nord hanno una popolazione relativamente più anziana rispetto al Sud: mentre le prime due hanno rispettivamente il 12,1% e 11,8% di giovani tra 0-14 anni, al Sud la quota è di 12,5%.
La situazione così descritta è però destinata a peggiorare. In particolare, per quanto riguarda l’età media, mentre ora il Mezzogiorno ha una struttura più giovane - la sua età media è di 45,4 - entro il 2050 questa struttura sarà destinata a peggiorare toccando i 51,5 anni, superando il Nord (50,2 anni) ed il Centro (51,5). (4)
A livello socio-economico la situazione descritta si traduce in due modi:
I suddetti dati e la situazione descritta riflettono la situazione demografica del Paese afflitta da inverno demografico ed invecchiamento della popolazione soprattutto nelle aree interne e nel Mezzogiorno. Proviamo a guardare ora come questo si riflette sulla vita di tutti giorni e sulle condizioni di salute e benessere, su istruzione e formazione, economia e mondo del lavoro.
Anche guardando i dati contenuti nel Rapporto Benessere e salute (BES) 2023(6) la situazione conferma la presenza di difficoltà e divari a livello territoriale (Figura 8). Mentre le province autonome di Trento e Bolzano sono tra le realtà più virtuose (5 indicatori su 15 con valori massimi), la Campania e la Basilicata contano più picchi negativi (rispettivamente 5 e 4 valori su 15 minimi). Per quanto riguarda ad esempio la speranza di vita in buona salute, mortalità infantile ed adeguata alimentazione i valori peggiori sono rinvenibili al Sud Italia mentre quelli migliori al Nord. Lo stesso vale per quanto riguarda la salute mentale: i fatti mostrano il miglior valore a Bolzano ed il peggiore in Campania (nonostante sia da tenere bene a mente il diffuso peggioramento del benessere psicologico).
Un altro dato che può aiutare è quello sulla speranza di vita alla nascita ed in buona salute (Figura 9). Sotto la media italiana - graficamente nel quadrante negativo in cui si combinano più basse speranze di vita alla nascita e di vita attesa in buona salute - troviamo solo le regioni del sud. Bastano questi pochi dati per tracciare un quadro abbastanza significativo dei problemi degli standard di vita al Sud.
Passando all’istruzione ed alla formazione la situazione non migliora. Nel report dell’ISTAT si conclude con un “nel complesso, la maggior parte degli indicatori delle regioni del Mezzogiorno esprime performance peggiori di quelle delle regioni del Centro-nord”. Infatti, le competenze alfabetiche e numeriche nel Mezzogiorno toccano persino un 20% di differenza negativa rispetto alla media italiana; l’abbandono scolastico in Sardegna, Campania e Sicilia oscilla tra il 23,4 e il 18,6%. Sicilia, Calabria, Campania e Puglia hanno livelli di NEET(7) superiori al 20%, mentre la media italiana è il 16%.
Per quanto riguarda il mercato del lavoro, “nella provincia autonoma di Bolzano si osserva il valore migliore per il tasso di mancata partecipazione (3,5%). All’opposto si posizionano Sicilia, Campania e Calabria, i cui livelli sono quasi dieci volte più elevati e più che doppi rispetto alla media nazionale (rispettivamente, 32,6%, 32,3% e 32,1%)”.
Anche il “benessere economico” mostra dei risultati emblematici. Al centro-Nord le condizioni sono migliori rispetto alla media italiana, con la Campania che sulla variabile “difficoltà ad arrivare a fine mese” registra una distanza del 252% rispetto alla media italiana, riguardando quasi ¼ dei residenti nella regione.
E la qualità dei servizi? Difficoltà di accesso ai servizi essenziali, irregolarità nella distribuzione dell’acqua, emigrazione ospedaliera in altra regione, medici con numero di assistiti oltre soglia, tra gli altri, mostrano ancora una volta dati peggiori al Sud (Figura 12).
La domanda quindi è: la retorica della “vita lenta”, del vivere in maniera più tranquilla, più rilassata, godendo del sole e delle bellezze naturali, ha un riscontro nella vita reale? Guardando questi dati, possiamo escluderlo. Probabilmente godere delle bellezze naturali della Puglia, della Sardegna o di qualsiasi altra parte d’Italia è più rilassante e soddisfacente che lavorare nella “nebbiosa Pianura Padana”, ma attenzione a non aver bisogno di un ospedale o a voler aprire un’impresa altamente specializzata e produttiva, perché il rischio è di non trovare medici o giovani formati e capaci da assumere.
Senza la pretesa di ripercorrere le motivazioni storico-politiche dei divari, l’obiettivo è qui quello di dimostrare come l’idea di “vita lenta”, sempre più vantata come sinonimo di vita del Sud, non sia né sostenibile né indice di benessere o auspicabilmente desiderabile (per i motivi descritti) e che anzi, in realtà, non è neanche reale in quanto più si avvicina all’ideale idilliaco della vita lenta - vedi il Mezzogiorno - più in realtà ci si allontana dai livelli di benessere socialmente riconosciuti. L’auspicio è quindi quello di spingere ad abbandonare queste retoriche folkloristiche pena il continuare sulla strada delle diseguaglianze territoriali ancora troppo marcate che causano ancora disastri ed obbligano sempre più persone ad abbandonare i loro luoghi di nascita in quanto privi di speranze per il proprio futuro (circa 127 mila persone ogni anno lasciano il Sud per spostarsi in regioni del centro-Nord(8)).
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