Non basta sottoscrivere una direttiva europea affinchè questa sia messa in atto. L’Italia condivide le linee guida europee sull’istruzione ma non fa i conti con la realtà di un tessuto socio-economico instabile e disomogeneo, non ammette che esistono problematiche legate al mercato del lavoro e alla struttura stessa del sistema scolastico. Rifugge dal cambiamento anche quando ne viene avvolta e non ha intenzione di valutare i docenti in funzione dei risultati degli alunni. Un quadro irriverente che si fonda sulla professionalità di insegnanti eccezionali nel vero senso del termine: una eccezione.
Nelle linee guida dello Spazio Europeo per l’Istruzione, iniziativa che aiuta gli Stati membri dell'Unione europea a collaborare per costruire sistemi di istruzione e formazione più resilienti ed inclusivi, istruzione inclusiva, uguaglianza, equità e non discriminazione rappresentano ambiti prioritari per la collaborazione a livello europeo, nonchè le basi per una cittadinanza attiva. Questa iniziativa sottolinea il valore dell’inclusività e della scuola di buona qualità sin dall'infanzia poiché getta le basi per la coesione sociale, la mobilità sociale e una società equa. Nell'ambito dei diritti sociali europei inclusione non significa inserimento o accettazione, bensì è un concetto molto più profondo e radicato nel cosmo di culture che domina il continente: la diversità è fonte di arricchimento. Notare che non è ricchezza del singolo, ma del gruppo, l'attenzione viene spostata a livello pedagogico e psicologico sul gruppo classe. Avere a che fare con la diversità significa diventare cittadini migliori, cittadini europei che coltivano un certo tipo di intelligenza, quella sociale ed emotiva. Si sottolinea di fatto che non esiste un’unica intelligenza, solitamente considerata quella logico-matematica, aprendo la strada alla diversità anche nel campo delle capacità intellettive che possono spaziare da quelle appena elencate, all’intelligenza verbale, spaziale, corporea o naturalistica. La visione europea di inclusione abbatte le barriere sociali per creare un sistema scolastico sinergico dove ogni diversità va capita ed elaborata. Ad esempio la presenza di alunni discalculici in classe può portare ad un miglioramento nella fruizione della lezione che accolga allo stesso tempo i bisogni specifici degli studenti. Tramite l’utilizzo di colori per ogni step matematico e spiegazioni più dettagliate dei passaggi per risolvere un problema la materia risulta più comprensibile per tutta la classe.
La normativa però non fa i conti con la realtà. Mentre la legge è andata avanti sostituendo i programmi con le Indicazioni Ministeriali promuovendo metodologie personalizzate per l’apprendimento, il docente di scuola professionale si trova senza nessuna formazione specifica per la gestione di gruppi di ragazzi con concentrazione altissima di fragilità e bisogni specifici. Il risultato è una caduta a cascata dal liceo all’istituto tecnico o professionale, considerato dalle famiglie e dagli studenti come l’ultimo stadio della discesa nell’inferno dell’incompetenza. Inoltre, arrivati al capolinea dell’istruzione italiana, le classi sono sommerse da situazioni problematiche che rendono difficile la didattica e portano ad un aumento della probabilità di non arrivare ad un diploma superiore. Nel 2020/2021 ogni 100 alunni troviamo 5 alunni con cittadinanza non italiana nei licei, 10 negli istituti tecnici, 13 nei professionali quinquennali e 28 nei professionali triennali, in aggiunta immigrati di seconda generazione tendono ad avere come prima scelta l’istituto tecnico seguito dal liceo, quando per i non nati in Italia il secondo posto spetta ai professionali. Nello stesso periodo la percentuale di alunni con disabilità, comprendente disabilità visiva, uditiva, motoria, intellettiva, disturbi dell’attenzione e stranieri con disabilità è del 1.4% per i licei, 2.7% nei tecnici e 7.7% nei professionali (con maggior concentrazione di disabilità cognitiva) sul totale dei frequentanti.
La legislazione si basa sul concetto per cui l’inclusione comporti una modifica dell'istituzione affinché arrivi efficacemente al gruppo. Crea un quadro di élite per quanto riguarda l’inclusione sociale, costruisce percorsi personalizzati, gestisce ogni tipo di difficoltà dando carta bianca ai singoli docenti. Il metodo di insegnamento ad oggi propone di entrare in classe, osservare il gruppo classe e capirne le dinamiche, sottoporre dei test d’ingresso per determinare il livello disciplinare ed infine costruire un programma ad hoc scegliendo la metodologia didattica più efficace per quel determinato gruppo di studenti. La realtà del tessuto scolastico di contro è diversa, più difficile da gestire, soprattutto senza competenze necessarie, e la situazione si aggrava in quei contesti sia sociali che abitativi che vedono gli istituti professionali come il punto di arrivo di una caduta classista e vertiginosa. Questo sistema porta all’esasperazione di docenti, famiglie e studenti che si vedono catapultati in un ambiente ostico, catalogato socialmente come infimo, relegato ai margini della cittadinanza, da cui vogliono solo scappare ed andare a lavorare il più in fretta possibile perché non vedono l’utilità di un percorso di studi del genere e degenere.
L’Italia è stata storicamente un esempio positivo dal punto di vista progettuale dell’inclusione in quanto il 100% degli studenti con BES è inserito nell’istruzione ordinaria seguendo il processo iniziato nel 1977 con l’abolizione delle classi differenziate che stabilì il principio del valore della diversità per tutti gli studenti senza alcuna distinzione. Negli ultimi decenni però abbiamo rallentato il passo, o messo la retromarcia, dipende dai punti di vista. Le parole del ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara se da una parte ammettono che il problema dell’inclusione esista, fanno intendere come il modo migliore per combattere la penalizzazione degli studenti BES stranieri sia quello di costituire classi di “potenziamento” separate per italiano e matematica o punire coloro che, genitori e studenti, non riescano ad adattarsi a questo sistema imperfetto. Un quadro che si spaccia per il più inclusivo d’Europa oltre che perdere di credibilità, rende inutile il discorso sulle diverse intelligenze alimentando il già ingente divario sociale tra alunni, costretti ad un futuro legato a ciò che non possono controllare. Per uno studente la ricchezza familiare, il titolo di studio dei genitori, la classe sociale e la provenienza sono le uniche determinanti di “scelta” se manca inclusione.
Come si suol dire “dal dire al fare c’è di mezzo il mare”. Mentre sappiamo bene che il mare è fatto di acqua, è difficile capire di cosa sia fatto ciò che impantana l’Italia in questo arcaico status quo. Quali sono le motivazioni per cui il Paese non riesce a raggiungere gli standard europei di diritti sociali e non costruisce un sistema scuola uguale per tutti fino ai 16-17 anni che formi i cittadini del futuro senza umiliazioni o vendette classiste?
Il sistema scolastico è ostruito dai sindacati. Dopo la crisi economica la scuola è diventata il posto per l’occupazione di chi non aveva altro da fare, specialmente in istituti tecnici e professionali, difeso da un corpo sindacale che aborre il cambiamento. Un ingegnere o una matematica possono essere competenti e preparati nell’ambito di studio, ma questo non determina direttamente che siano anche competenti come insegnanti o che sappiano gestire classi di 30 alunni tra cui non mancano situazioni al limite. Una selezione che si basa solamente sugli anni di studio della materia e non sulle competenze psico-pedagogiche crea un ambiente scolastico in cui la lezione diventa infattibile ed in alcuni casi porta i docenti all’esasperazione. Per questo la riforma Bianchi del 2023 delinea, oltre ai 60 CFU per l’abilitazione all’insegnamento in percorsi universitari di tipo pedagogico, un periodo di lavoro sul campo. Questo è utile per il docente che vuole scegliere la carriera, ma se non viene attentamente valutato è inutile dal punto di vista degli studenti che vedono l’ennesimo cercatore di posto fisso e non possono agire per cambiare la situazione. A costo di difendere lo status quo un sindacato così ottuso demolisce le possibilità future degli alunni e sminuisce il ruolo del professore ad un livello tale che questo venga considerato come un lavoro di ripiego, mentre è la professione che plasma le generazioni.
Se si provasse a cambiare il sistema e ci si spostasse verso un modello di “scuola unica” i docenti non insegnerebbero più alle medie o alle superiori, al liceo o al professionale. Una certa categoria di professori si sentirebbe declassata ed umiliata forse tanto quanto un loro studente bocciato ad insegnare nel nuovo modello di istruzione alla pari. L’impressione è che il riformismo sia spazzato via da un’opposizione di tipo sindacale silenziosa e occulta ma forte, contraria alla degradazione sociale dei professori figlia di un conservatorismo automatico ormai interiorizzato e completamente irriflessivo che difende a spada tratta la struttura scolastica.
Anche se il sistema scolastico non accetta il cambiamento e ne rifugge, la scuola è già completamente diversa rispetto a quella del passato. I professori non sono più gli unici detentori del sapere, l’informazione è di dominio pubblico e chiunque con un cellulare in mano può apprendere con una velocità e facilità trent’anni fa inconcepibile. Il lavoro di per sé deve fare i conti con una “concorrenza” spietata, quella delle piattaforme di informazione, dei social, delle pagine web, dei video su Youtube e altro ancora. Eppure il modo con cui si fa lezione è lo stesso di prima della venuta di internet, non fa i conti con un mondo iper stimolante in cui concentrarsi è diventato complicato e non cerca metodologie alternative per far fronte a questo problema. In aggiunta è ormai appassita la motivazione estrinseca che spingeva gli studenti ad impegnarsi nello studio. Le posizioni apicali nella società non sono più garantite dall’impegno scolastico, ma sono il risultato di conoscenze interpersonali, specialmente in Italia, e competenze apprese all’esterno del sistema scuola. Invece di cercare una soluzione al generale sentimento di scoraggiamento che permea il destino degli studenti italiani, il sistema scolastico chiude occhi, orecchie e anche la porta in faccia ai problemi del Paese come se non esistessero.
Le condizioni salariali per i giovani di oggi sono peggiori rispetto a quelle di quasi quarant’anni fa. Dal 1985 al 2019, la probabilità che i lavoratori più giovani si trovassero nel quartile più alto della distribuzione dei salari è diminuita del 34%, mentre la stessa probabilità per i lavoratori più anziani è aumentata del 16%. Inoltre, la probabilità che i lavoratori più giovani ricoprano posizioni manageriali è diminuita di due terzi. Ad appesantire il tendenziale ristagno o diminuzione dei salari generali italiani, nel 1985 il salario annuo mediano di un lavoratore con più di 55 anni di età era più alto del 15% rispetto a quello di un lavoratore con meno di 35 anni di età. Nel 2019 questo divario era superiore al 30%. Non solo i salari non crescono, ma i divari aumentano mentre i lavoratori anziani godono di carriere più di successo, e quelli giovani si impoveriscono. Le cause di questo problema sociale ed intergenerazionale non sono oscure o inconcepibili, ma conosciute e volontariamente ignorate. Dalla relazione annuale INPS sulle disuguaglianze salariali veniamo a conoscenza che l'allargamento del divario salariale per età è associato a un rallentamento delle carriere dei lavoratori più giovani, mentre quelle dei lavoratori più anziani sono migliorate. Inoltre la crescente inabilità delle imprese di aggiungere posizioni apicali alle loro organizzazioni, a causa di bassa produttività aziendale e aumento dell'età pensionabile, ha generato ricadute negative sulle carriere dei lavoratori più giovani. I lavoratori più anziani hanno esteso le loro carriere occupando le posizioni apicali più a lungo ed impedendo ai lavoratori più giovani di raggiungere le posizioni meglio retribuite.
In aggiunta, i risultati del rapporto su istruzione, reddito e cittadinanza della Banca d’Italia collocano l’Italia nel novero dei paesi con una persistenza intergenerazionale delle condizioni economiche relativamente alta. Negli anni recenti questo fenomeno mostra una tendenza all’aumento. Variabili che non sono oggetto di scelta da parte degli individui spiegano il loro successo economico in una misura più ampia che in passato. Il resoconto segnala come il giudizio all’uscita dalla scuola dell’obbligo sia crescente con il livello di scolarizzazione dei genitori. Un secondo fattore, in parte collegato al precedente, è rappresentato dalla differenziazione per indirizzi della scuola secondaria. Gli studenti si auto selezionano nelle diverse tipologie di istruzione secondaria sulla base dei risultati conseguiti dai propri genitori. Tale meccanismo determina una segmentazione della popolazione di studenti (ad esempio tra licei e scuole professionali) fortemente correlata con le classi sociali di provenienza.
Sembra comprensibile e lecito che in un contesto lavorativo del genere uno studente che frequenta il sistema scolastico italiano non ne veda l’utilità né lavorativa né personale. Da un lato il sistema scuola rifugge l’idea di creare cittadini consapevoli allenando il pensiero critico e la logica e dall’altro cerca di costruire pezzo per pezzo la forza lavoro di un sistema decadente e irrispettoso verso i giovani. Una scuola senza qualità, dove è fortuna essere visto come individuo pensante, non fa altro che disincentivare lo studio e far percepire l’intero sistema di istruzione non più come un privilegio ora di tutti, ma come un fardello opprimente.
Visto che ormai il focus del sistema scolastico è in balia dei professori, tanto vale sfruttare questa onda politica, instaurare un metodo di valutazione dei docenti: devono essere valutati a partire dai risultati che ottengono i loro studenti. Oggi il risultato non eccellente che lo studente ottiene è colpa sua o colpa dei genitori, ma non si può demonizzare la situazione familiare e di rimando la classe sociale, la scuola e gli insegnanti devono essere considerati parte dell'insuccesso scolastico. La valutazione esiste a livello dei singoli istituti ma rifugge dall’avvicinarsi ai professori, bensì colpevolizza gli studenti o addirittura il contesto sociale. Dall’analisi di motivazioni e punteggi presenti nel database sulla valutazione degli esiti scolastici si legge con degradante e triste frequenza: “Il punteggio di italiano e matematica ottenuto nelle prove INVALSI è inferiore (o superiore) rispetto a quello di scuole con background socio economico e culturale simile”. Una volta su due in cui il discorso ruota attorno alle prove INVALSI ciò che funziona da perno, il fulcro del problema è il background socio-economico sfruttato come scusante per il basso livello di competenze raggiunte. Non si parla di professori, non si parla di competenze dei professori, di professionalità dei professori, di capacità psicopedagogiche dei professori ma sempre e solo degli studenti, la colpa è degli studenti, della famiglia e della classe sociale. Una scuola che si nasconde dietro alle ingiustizie sociali per non ammettere la sua ormai palese incapacità e arretratezza non ha il diritto di essere chiamata scuola.
Gli studenti sono argomento di punta quando si parla di colpe mentre per problemi e soluzioni i riflettori si spostano sui docenti. In realtà questa concentrazione irragionevole è parte di una questione più generale che colpisce l’intero settore pubblico italiano. Vale per la magistratura e la polizia, dove la politica si preoccupa dei bisogni dei giudici e non dei giudicati, delle forze dell’ordine e non di arrestati o carcerati. Vale per ogni tipo di funzionario ministeriale assenteista perché il sistema dei partiti mette in primo piano i bisogni del dipendente pubblico e dimentica quelli del fruitore del servizio: il cittadino. I partiti politici del nodo studenti non si preoccupano, mirano ai voti dei professori come classe e lobby ben definite dal momento che le famiglie italiane con figli non sono considerate un target sufficientemente definito da creare peso elettorale. L’idea di una scuola corresponsabile dei risultati scolastici si perde nelle continue proposte di aumenti in busta paga dalla destra mentre la sinistra si preoccupa delle richieste ottuse dei sindacati che ostracizzano l’istruzione italiana. Gli ideali di Don Milani sono destinati a perire?
Ogni singola scuola può essere vista come un’azienda, un’organizzazione di beni e persone finalizzata al soddisfacimento di un bisogno specifico e particolare: l’istruzione. Come tale le sue azioni devono essere organizzate, pensate, progettate con rigore in modo da raggiungere i propri obiettivi al meglio delle possibilità. Se il sistema fallisce e non funziona è buona prassi partire dall’alto e ricercare la falla nel sistema di gestione delle risorse e del personale invece che rattoppare e mettere le pezze dal basso senza una visione d’insieme. In questo sistema, la figura del preside riveste lo stesso ruolo di un manager aziendale, che però si trova in una posizione di potere dopo aver maturato 5 anni di servizio come insegnante di ruolo e vinto un concorso pubblico incentrato sulla conoscenza della normativa. La bravura nella gestione è fortuna, non è struttura. Se il preside risulta essere un manager capace è solo perché il fato lo ha deciso e non perché esista una correlazione diretta tra esperienza come professore e capacità di gestione di un istituto scolastico. La scelta più saggia è quella di selezionare una figura di tipo manageriale che abbia capacità e competenze psicopedagogiche, o che sia affiancato da uno psicopedagogista, con il compito di delineare un piano strutturato per l’istituto, scegliere gli insegnanti e controllare il funzionamento del sistema scolastico. Strappare dal volere della fortuna la qualità del sistema scolastico è il primo tassello essenziale per la creazione di un’istruzione che rispetti i diritti sociali e che plasmi i cittadini del domani.
Il sistema ha bisogno di una rivoluzione strutturale che renda la permanenza dello studente medio (esisteranno sempre casi al limite) una scoperta di sé e del proprio senso di cittadinanza consapevole. Senza questo una fetta corposa della popolazione italiana rimane socialmente esclusa dal meccanismo di promozione sociale che la scuola può generare.
Abbiamo poi un problema con la selezione degli insegnanti. Se il sistema seleziona insegnanti che vivono la bocciatura e il gioco autoritario come realizzazione di se stessi, come la loro funzione primaria, allora vuol dire che seleziona male. La bocciatura e il processo di umiliazione che avviene con essa sono un’inutile e strana forma di vendetta sociale dal potere docente verso l’alunno disarmato. Il meccanismo di selezione può avvenire in modi diversi. Questa prassi della bocciatura va eliminata o meglio, deve diventare un caso particolare ed eccezionale a fronte di situazioni specifiche, che necessitano di essere normate, e che non hanno altra soluzione se non quella di fermare l’alunno e ripetere l’intero anno scolastico. Dopodiché devono essere costruiti dei meccanismi che permettono a coloro che nel vecchio sistema sarebbero stati bocciati di essere inclusi nei corsi degli anni successivi. Su questo un cambio di prospettiva sulla classe “una ed indivisibile” potrebbe essere di aiuto. Altro cambio necessario nel sistema scolastico italiano infatti colpirebbe il gruppo classe; questo non vuol dire frammentazione, ma allargamento ed inclusione. Non sono più i professori a dover cambiare aula mentre il gruppo classe rimane fermo, ma è il gruppo allargato che si ritrova nell’aula di matematica, di italiano o di musica, un quadro educativo che consente tra l’altro, a chi ha capacità particolari di seguire i corsi che più interessano e magari alzare il livello di difficoltà.
Un sistema scolastico più sinergico ed equo creerebbe un ambiente sano e di crescita per gli studenti che ad oggi vedono istituti e mansioni attraverso l’ottica classista della serie A e della serie B. Un’ottima meccanica ha una spiccata intelligenza manuale, un ottimo matematico una logica, un’ottima psicologa una sociale e emotiva, ogni mestiere ha forze e debolezze, non deve per forza essere classificato o relegato alla base della piramide. L’essenziale è che se si ha talento e spirito d’iniziativa non si venga ostacolati da arcaici modi di pensare, da valutazioni di terzi o estreme ed insormontabili problematiche di un gruppo classe fuori dai limiti della normativa vigente.
L’inclusività europea viene sottoscritta solo a penna e non nella realtà mentre il sistema classista si autoalimenta e rifugge dal cambiamento che invece lo avvolge senza sosta. La lobby dei professori difesa dai sindacati non accetta di essere valutata per i risultati degli studenti o di essere parte integrante dei loro fallimenti scolastici. La scuola italiana senza una riforma strutturale del sistema non è degna di essere vista come un percorso di formazione, bensì è il posto di lavoro dei professori e come tale soffre dei problemi dei posti fissi. Per quanto la popolazione studentesca rimarrà a guardare il declino del sistema scolastico?