Tutta la vita all'ultimo banco

La scuola italiana non riesce ad occuparsi di tutti, soprattutto di chi non è perfetto, perpetuando una barbarica separazione classista della società che convoglia i “fragili” alla fine della piramide sociale, scendendo dal liceo classico fino all’istituto professionale. Questi “fragili” sono una grande famiglia che non comprende solamente le difficoltà di apprendimento, ma anche quelle di tipo linguistico e situazioni di povertà economica ed educativa. Una scuola che sminuisce, divide e classifica allo stesso tempo incatena all’ultimo banco, in classe e nella vita, perchè senza un’istruzione di qualità è come se mancasse qualcosa per raggiungere i propri obiettivi, manca equità, manca correttezza, manca giustizia.

Tra scelte premature e riformismo mancato.

Non ha senso intavolare una conversazione sull’istruzione senza sapere quali sono stati i passi che hanno portato l’Italia alla situazione attuale. Il motivo per cui il Paese oggi si trova in uno stato di stagnazione culturale e irriflessiva è figlio della storia e di una cultura costruita in secoli di lassismo. Partiamo da lontano. Il primo punto di transizione dalla tradizione analfabeta si ha nel 1860 con l’obbligatorietà dei primi due anni di scuola primaria gratuita poi estesa a 3 anni nel 1877. Nel 1904 la Legge Orlando porta l’obbligo a 12 anni e per combattere la segregazione abitativa obbliga i comuni ad istituire scuole elementari almeno fino alla quarta classe. Nel 1923 la Riforma Gentile ridefinisce il sistema ripartendo la scuola in materna (3 anni), elementare (5 anni), media inferiore (3 anni) e secondaria composta da liceo classico e scientifico, istituto tecnico e magistrale. Con l’obbligo scolastico esteso ai 14 anni si va definendo una struttura classista e rigorosa in cui l’università è riservata a studenti uscenti dai licei, mentre gli istituti tecnici preparano all’entrata nel mondo del lavoro, precludendo ulteriori studi. Nel 1928 inoltre, accanto alla scuola media compare la scuola di avviamento professionale che prepara i bambini di 10 anni ad entrare nella forza lavoro o in un istituto tecnico con lo stesso sbocco obbligato. In sostanza a 13 anni o peggio a 10, la vita di un cittadino italiano è decisa ed indirizzata alla costruzione dell’élite dirigente o della classe operaia. 

Neanche la liberazione dal dominio fascista e l’entrata in vigore della Costituzione riescono a sciogliere questo sistema malato; il cambiamento arriva invece con la riforma della scuola media del 1962 che abolisce l’avviamento permettendo a tutti di accedere a qualsiasi tipo di scuola superiore. Inoltre, dopo le movimentazioni e proteste studentesche, nel 1969 gli accessi all’università vengono estesi agli studenti provenienti da qualsiasi istituto superiore, il privilegio del liceo viene meno, e il sistema scolastico in generale si apre alle rappresentanze studentesche e dei genitori. Sull’onda del riformismo nel 1997 Luigi Berlinguer dichiara la volontà di annullare la distinzione tra formazione culturale e professionale e la necessità di introdurre un’istruzione a ciclo unico oppure a due cicli. Quest’ultima proposta viene poi elaborata in un primo ciclo per la formazione della personalità critica, favorendo un’attitudine positiva all’apprendimento, ed un secondo ciclo che fornisce le competenze necessarie per continuare gli studi o per entrare nel mondo del lavoro a seconda di obiettivi e capacità dell’alunno. 

La Riforma Berlinguer approvata nel 2000 non entrerà mai in vigore, di fatto viene abolita nel 2001 da Letizia Moratti che invece di una riforma sistemica istituisce l’alternanza scuola/lavoro negli istituti professionali. Le successive riforme Gelmini (2008) e della “Buona scuola” (2015) non toccano la struttura del sistema scolastico, a parte l’abolizione della maggior parte degli istituti sperimentali, bensì si focalizzano sulla figura dell’insegnante e del preside, nonché dei criteri di valutazione degli studenti. Negli ultimi anni continua il trend di attenzione verso l’insegnante con la creazione di un percorso universitario abilitante di 60 CFU culminante in un periodo di prova e reclutamento con cadenza annuale. Non sembra però aver risolto né il problema dei posti vacanti ad inizio anno scolastico né la qualità della formazione dei docenti, che attanaglia l’Italia da almeno 50 anni. Nel 2023 invece, secondo una perversa strategia di valorizzazione portata avanti dal nazionalismo italiano, si prevede l'introduzione del liceo del Made in Italy come stemma di promozione del Paese. 

Mentre il sistema scuola ristagna e rende palese il bisogno di una riforma strutturale e sistemica vediamo una classe politica noncurante dei bisogni educativi dei cittadini. Se da un lato l’istruzione diventa il posto di lavoro degli insegnanti e non più il luogo di crescita della collettività, dall’altro la riforma Valditara del 2023 vede un ritorno nostalgico all’eco gentiliano. Nel settembre del 2024 infatti, partirà la sperimentazione di istituti tecnici e professionali della durata di 4 anni più 2 anni di istituto tecnico superiore per avvicinare ancor di più i giovani al mondo del lavoro. Questa riforma, che “serve ai nostri giovani e al Paese” a detta del ministro, riconduce lo stesso Paese ad un sistema chiuso e classista abbandonato da tempo. Ancora oggi la scelta che plasmerà il proprio futuro professionale e individuale viene necessariamente fatta alla fine della scuola media, a 13-14 anni, ma esistono ancora scappatoie e scivoli integrativi. Con questa soluzione si azzerano le possibilità di cambiamento e la vita dello studente rimane diretta conseguenza della classe sociale della famiglia. In questo modo, se la sperimentazione fosse poi resa lo standard nazionale, la possibilità di scegliere l’istruzione terziaria verrebbe preclusa per i diplomati degli istituti superiori. Di fatto in 2 anni di ITS gli studenti accumuleranno circa 40-60 CFU che dovranno poi essere valutati a discrezione delle università e riconosciuti nel caso in cui si voglia entrare in un percorso di laurea triennale da 180 CFU. Non è scontato che vengano riconosciuti e soprattutto che vengano riconosciuti in toto.

In altri Paesi la situazione è più favorevole e la scelta viene razionalizzata.In Spagna questa scelta viene rinviata ai 16 anni, dopo un percorso di studi condiviso da tutti gli studenti, che potranno scegliere se affacciarsi al mondo del lavoro con percorsi più professionalizzanti oppure continuare con studi più teorici. La Germania inoltre, Paese con  un'antica tradizione professionalizzante, ha deciso di trasformare il diploma al culmine delle scuole professionali in laurea breve, consentendo poi di continuare con un master e occasionalmente un phd. Nel sistema inglese e statunitense invece il corpo condiviso di materie che accompagna gli studenti fino ai 16 anni viene affiancato da alcune lezioni opzionali a scelta dello studente per una questione sia di responsabilizzazione, che di scoperta di sé, nonché di valorizzazione delle proprie capacità. Esiste poi la possibilità di seguire lezioni più o meno intense della stessa materia, per consentire a chi ha una spinta in più di mettersi in gioco. Si costruiscono canali di apprendimento interni alla stessa scuola più teorici o manuali, facili o difficili, senza distruggere il gruppo classe o esiliare bambini e ragazzi in altri istituti. Mentre l’Europa si sposta verso il modello anglosassone, in Italia siamo rimasti ad un sistema in cui è la famiglia, e quindi la classe sociale oppure le difficoltà di apprendimento, che scelgono il percorso dello studente a 13-14 anni; una scelta che influenzerà il proprio futuro sia lavorativo che personale.

I problemi strutturali dell’istruzione in Italia

Riportiamo il treno sui binari. Il sistema d’istruzione in Italia non funziona, non funziona da decenni e le parti politiche non prendono questo problema gigantesco in considerazione ed anzi, spostano il focus sui professori come se la scuola fosse il posto fisso del docente e non il luogo in cui far sbocciare il cittadino come individuo attivo e critico. La scuola italiana soffre strutturalmente a causa di problematiche di lungo periodo che passano dall’abbandono scolastico alle bocciature, dai Neet alla segregazione abitativa e sociale, dall’edilizia scolastica alla gestione delle diversità territoriali e socio-economiche.

Relativamente all’a.s.2020/2021 e al passaggio all’a.s.2021/2022, nella scuola secondaria di I grado, lo 0,19% dei frequentanti ha interrotto la frequenza scolastica senza valida motivazione nel corso dell’anno scolastico, mentre nel passaggio lo 0.25% per un totale di 7.327 alunni. Nello stesso biennio, durante il passaggio tra cicli scolastici da scuola secondaria di I a II grado, gli abbandoni sono stati 5.046, lo 0.30% dei frequentanti totali ma l’1.14% dei frequentanti del terzo anno. Per il II grado lo 0.86% ha abbandonato durante l’anno e l’1.69% nel passaggio per un totale di 67.007 alunni, il 2.55%. Per tirare le somme, la probabilità di un alunno che inizia la scuola media di non arrivare alla maturità è del 3.27%, ogni 100 bambini, circa 3 non riusciranno ad ottenere il diploma. Anche se diversi per magnitudo questi scenari a dir poco agghiaccianti condividono alcuni fattori utili a comprendere in profondità il problema dell’abbandono. Tendenzialmente i fattori che influenzano questo comportamento sono nell’ordine: ritardo scolastico causato da bocciature, numerose assenze, frequenza in istituti tecnici o professionali, scelta diversa rispetto a quella del consiglio orientativo legata ad una bassa votazione in uscita, cittadinanza non italiana e nello specifico non nati in Italia, istituti del Sud e Isole. Anche se i dati sono in calo rispetto agli anni precedenti, il livello e la concentrazione di questo fenomeno risultano allarmanti presi singolarmente e creano una situazione di completo disagio sociale se accostati alle statistiche sui Neet.

Abbandono complessivo nella scuola secondaria di II grado (%) MIUR

I giovani tra i 15 e i 24 anni che non studiano e non lavorano (Neet) infatti sono un fenomeno di rilievo nel Bel Paese, toccando il 12.7% del totale nella stessa classe d’età. Un dato anch’esso in calo dopo aver toccato il 23.3% nel 2013, che però rimane elevato se comparato agli altri Stati europei ed alla media europea di 9.2%. La figura del Neet può essere vista come un sottogruppo a rischio del comparto di disoccupati ed inattivi, un giovane scoraggiato che alla meglio sta cercando lavoro ma non ha intenzione di continuare il percorso di studi. Questo atteggiamento comporta gravi difficoltà in ambito lavorativo, considerato che a fine 2022 il tasso di occupazione per forza lavoro con educazione secondaria è di 66.2% contro un 81.6% per i laureati e un 44.6% per chi ha un’istruzione primaria. Ottenere un titolo di studio almeno superiore e puntare ad uno di livello universitario sfrutta il crescente trend ormai ventennale di diminuzione della probabilità di essere disoccupato e soprattutto inattivo, concede maggiori salari ed una vita da cittadino più dignitosa. Un alto numero di abbandoni e Neet è sintomo di un sistema che non funziona.

Da notare che lo studio del MIUR non prende in considerazione i bisogni educativi specifici (BES), tra cui provenienza straniera, difficoltà socio-economiche, disturbi specifici dell’apprendimento, disabilità, e come questi vengano divisi all’interno del sistema scolastico. Di fatto la normativa vigente stabilisce che ogni classe non possa superare il 30% di studenti stranieri e uno studente con disabilità (nel caso di più studenti con DSA la classe si riduce a 20 alunni). Tutto ciò tenta di evitare da una parte una possibile violazione della Carta dei Diritti fondamentali dell’UE che vieta discriminazioni basate sulla nazionalità, dall’altra di costruire un ambiente in cui lo scambio di conoscenza non sia ostacolato dalla presenza di troppe situazioni al limite. Per accompagnare il processo di inclusione le scuole possono rafforzare l’insegnamento della lingua italiana, assegnare un sostegno personalizzato alla classe con presenza di alunno disabile, creare programmi interculturali e coinvolgere i genitori. Ma mancano competenze dirigenziali e personale qualificato, e gli alunni prima dei 16 anni non possono essere iscritti ai corsi CPIA per adulti di italiano. Nemmeno dopo i 16 anni possono fruire degli eventuali corsi  erogati dai CPIA perché il sistema SIDI (Sistema Informativo dell’Istruzione) non consente la doppia iscrizione scolastica, limitando ancor di più loro la possibilità di apprendere la lingua. Inoltre va tenuto in considerazione che, figli della visione classista dell’istruzione, gli istituti tecnici e soprattutto professionali comprendono una quantità molto maggiore rispetto alla legge di BES, creando un ambiente difficile da gestire senza opportune competenze. 

Negli ultimi anni accanto alle disuguaglianze intergenerazionali si sono acuite quelle geografiche, sociali ed economiche tra ragazzi del Sud, del centro e del Nord, tra bambini delle aree centrali e delle periferie, tra italiani e stranieri, tra figli altolocati e figli svantaggiati. Questo movimento affonda le radici nell’aumento della povertà assoluta dei bambini, concentrata in alcune aree e tra le famiglie di origine straniera, ma anche su un modello scolastico ed un sistema di istruzione che non riesce più a bilanciare la diversa provenienza socio-economica e culturale degli studenti. Si parla perciò di segregazione abitativa e sociale, che inficia sulla dispersione scolastica e quindi sulle possibilità di raggiungere le competenze necessarie ad esercitare i propri diritti di cittadinanza. Di fatto, considerato che solitamente i licei sono nel centro città mentre gli istituti tecnici e professionali si trovano in periferia queste situazioni di svantaggio sono ormai strutturali nel sistema d’istruzione italiano. Gli alunni con difficoltà, figli della classe più povera della società o degli immigrati, si trovano nelle stesse classi, mentre la “borghesia” rimane nei licei del centro. Un modello educativo che muove fisicamente l’alunno meno bravo in altri istituti di periferia non fa altro che incrementare questo divario sociale. Per questo motivo la scelta di altri Paesi come gli Stati Uniti consiste piuttosto nel cambiare il corso spostandosi su livelli di difficoltà inferiori, rimanendo all’interno dello stesso gruppo classe e istituto.

Accanto alla segregazione abitativa troviamo quella di tipo sociale. Ad esempio, secondo il rapporto del Politecnico di Milano sullo stesso comune, le scuole sono molto più polarizzate rispetto ai quartieri: in quartieri caratterizzati da forte presenza di immigrati, l’80% dei bambini italiani si sposta verso il centro o verso scuole private e abbandona il proprio bacino scolastico d’utenza. Queste scelte creano situazioni in cui si concentrano disagi e difficoltà che gran parte delle scuole non riescono a superare. Il fenomeno prende il nome di white flight, la segregazione scolastica in quartieri non segregati.

Altro problema sottolineato nelle statistiche del MIUR è quello dell’edilizia scolastica italiana. Le scuole del Mezzogiorno (Sud e Isole) hanno una minore dotazione di mense, dal 19% al 38% che rende di difficile attuazione un piano orario pomeridiano, e palestre, dal 29% al 39% rispetto a quelle del Centro e del Nord. Al contrario, in quasi tutte le regioni le scuole sono ben servite dai trasporti pubblici urbani con una media del’84%, ma rimane il problema per quelli interurbani solo al 48%, con cadute fino al 31% in Campania. Senza trasporti interurbani si amplifica il processo di segregazione abitativa e si alimenta una divisione netta tra classi sociali del centro e della periferia. Inoltre, una scuola su due non garantisce servizi di trasporto dedicati ai disabili. Un grande fardello rimane l’età delle scuole, da un lato al Nord poco più del 60% è stato costruito prima del 1975, e dall’altro nel Mezzogiorno solo circa il 30% delle scuole possiede un certificato di agibilità. Un bagliore di speranza potrebbe scaturire dalle risorse del PNNR che dedica 6.5 miliardi all’edilizia scolastica da dividere per riqualificazione, messa in sicurezza e costruzione di nuovi edifici nelle regioni del Sud (42.3%) Nord (36.2%) e Centro (20.3%). Lo Stato, con queste manovre, avrebbe la possibilità di sfruttare il fenomeno di decrescita della popolazione a proprio vantaggio per eliminare edifici più piccoli e meno funzionali e ristrutturare la distribuzione dei plessi scolastici in modo da eliminare il precedentemente citato meccanismo di segregazione abitativa.

In conclusione

Il sistema italiano degli anni 90’ aveva iniziato un processo di rivoluzione del sistema scolastico che venne abolito dalla mediocrità politica interessata ai bisogni della lobby dei docenti, difesa tutt’ora dai sindacati a spada tratta. Il Paese soffre di problematiche strutturali pesanti e a lungo andare insostenibili che incatenano gli studenti alla classe sociale di appartenenza dei genitori dalla scuola fino alla pensione. La politica non si interessa delle cause delle catastrofi socio-economiche future che proverranno da questi anni di noncuranza sul tema scuola. Fino a quando i partiti proporranno azioni come la leva obbligatoria per istruire le generazioni al rispetto delle regole la civiltà avrà perso la lotta contro l’indifferenza. Al Paese serve una manovra strutturale che ricostruisca il sistema dalle fondamenta in modo da plasmare un quadro scolastico equo e non discriminante. Ad oggi le problematiche della classe sociale si riversano nell’ultimo banco ed a questo gli alunni restano incatenati anche nella vita. Tutta la vita all’ultimo banco.

 

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