Istruzione: lotta contro i mulini a vento o preoccupazione reale?

Spesso, in diverse occasioni e contesti, ci troviamo a discutere del sistema scolastico italiano e dei numerosi problemi che lo affliggono.

Tuttavia, sorge una domanda fondamentale: l’istruzione in Italia è concretamente una priorità o le problematiche del settore sono affrontate solo in modo superficiale e marginale? Come è realmente la situazione in Italia? Esistono sforzi concreti o siamo forse come Don Chisciotte che combatte i mulini a vento.

Illustrazione creata tramite AI da Roberto Milani

Investimenti in istruzione: la situazione in Italia e in Europa

Nel 2021, complice la crisi COVID-19, il Consiglio europeo ha sottolineato l'importanza dell’istruzione e l’urgenza di investire in questo settore: è stato affermato che “l’istruzione e la formazione hanno un ruolo fondamentale da svolgere nel plasmare il futuro dell’Europa” ed è per questo che si è reso necessario una versione aggiornata del precedente progetto per la cooperazione europea nel settore dell’Istruzione riconoscendo nuovi ambiziosi obiettivi in cui “investimenti efficaci ed efficienti nell’istruzione e nella formazione sono un prerequisito per migliorare la qualità e l’inclusività dei sistemi di istruzione e formazione e migliorare i risultati in materia di istruzione, nonché per stimolare la crescita sostenibile, migliorare il benessere e creare una società più inclusiva”[1]

Tenendo a mente questa considerazione e condividendo l’idea sottostante, partiamo da uno dei modi più efficaci per valutare l’interesse e l’impegno verso la tematica dell’Istruzione, ovvero l’entità degli investimenti in questo settore.

Secondo quanto riportato nel rapporto Education at a Glance 2023, nel 2020 la spesa per istruzione in Italia era inferiore alla media OCSE: mentre l’Italia investiva solo il 4,2% del proprio PIL nel settore dell’educazione (di cui 30% scuola primaria, 46% secondaria e 26% terziaria) la media OCSE era del 5,1%.

L’ammontare misurato di spesa per studente in Italia corrisponde a circa 11.400 dollari USA, mentre la media dell'OCSE è di 12.600 dollari USA: cifra che però in entrambi casi corrisponde al 27% del PIL pro capite, rientrando così nella media OCSE. 

L’emergenza COVID-19 ha posto sfide senza precedenti ai sistemi educativi globali. Da un punto di vista cronologico, durante il periodo COVID 19, mentre nei paesi OCSE  la spesa in ’istruzione (sempre considerando i gradi che vanno dalla scuola primaria alla terziaria) per studente a tempo pieno (inclusa la ricerca e sviluppo) è aumentata dello 0,4%, in Italia la spesa è diminuita dell'1,3%. 

Questo cambiamento è da ricondurre ad una riduzione dell'1% della spesa totale per le istituzioni educative e a un aumento dello 0,3% del numero totale di studenti a tempo pieno [2][3].

Neanche secondo i dati elaborati da Openpolis la percentuale di spesa pubblica in educazione rispetto al PIL nel periodo che va dal 2012 al 2021 (Figura 1) le cose vanno meglio. Ripercorrendo l’andamento della spesa dal 2012 al 2021 possiamo notare che in Italia la percentuale non va oltre un certo range, quello del 4%. In particolare:

  • nel biennio 2012-13 era del 4,1% per poi calare al 4% in quello successivo (2014-2015) 
  • dal 2016 al 2019 è scesa ulteriormente al 3,9%
  • nel 2020 ha toccato il picco del 4,3%
  • nel 2021 è tornata sui valori precedenti del 4,1%.

La media UE-27 si è invece aggirata attorno al 4,7 % - 4,9%, raggiungendo un picco positivo del 5% nel 2020. I risultati italiani si collocano dunque al di sotto della media europea, mostrando così una discreta disparità a livello di contesto europeo  in termini di spesa pubblica in educazione.

Anche guardando i dati più recenti (Figura 2), è possibile notare come l’Italia non regga il confronto con l’Europa. Secondo quanto riportato nel 2022, la media europea era del 4,7% e mentre altri paesi si collocavano al di sopra, arrivando attorno al 6% (Svezia, Belgio, Estonia), l’Italia si collocava tra i 10 paesi al di sotto,con una percentuale del 4,1%.

È bene sottolineare che un'analisi di questo genere si limita ad osservare la quantità degli investimenti, tralasciandone qualità ed efficienza.Tuttavia, questo è sufficiente a comunicarci come nonostante l’urgenza di un cambiamento nel settore educativo l’Italia non abbia ancora raggiunto un livello ottimale. La quota del 4,1% è al di sotto della media europea e questo porta istintivamente a chiederci se l’istruzione sia davvero considerata una delle priorità nazionali.

La questione degli insegnanti

Un altro aspetto interessante da considerare è la professione degli insegnanti: l'Italia vive un momento di stagnazione demografica generale e nel settore dell’istruzione possiamo contare su sempre meno insegnanti qualificati. Questi sono anche geograficamente distribuiti in modo diseguale, incidendo così maggiormente in determinate regioni. Inoltre il sistema di reclutamento è stato modificato nella speranza che questo possa rendere più attrattiva la professione nel lungo periodo.  

Ma per ora i dati parlano chiaro: secondo i dati presenti nella relazione di monitoraggio nel settore dell’istruzione e della formazione 2023 della Commissione europea [4], in Italia nel 2021 (Figura 3), un numero sempre crescente di insegnanti, che rientrano nella classificazione ISCED  di livello 1-3 (i quali comprendono istruzione primaria, istruzione secondaria inferiore e istruzione secondaria superiore), si avvicinano all’età pensionabile. In particolare nel 2021 il 70% degli insegnanti riportava tra i 45 e i 64 anni contro solo il 18,5% tra i 25-44 anni.

Inoltre, la professione del docente è resa poco attrattiva dal lungo percorso di reclutamento e dall’incertezza derivante da questa professione: si pensi che nell'anno scolastico 2021/22 i contratti a tempo determinato per i supplenti sono stati 225 mila contro i soli 73 mila a tempo determinato (sui 125 mila previsti) [4].

Per cercare di sopperire a questa situazione sono state messe in atto una serie di riforme del sistema di reclutamento e formazione dei docenti con l’obiettivo di “determinare un significativo miglioramento della qualità dei percorsi educativi” e “coprire con regolarità e stabilità le cattedre disponibili con insegnanti di ruolo” [5]. L’obiettivo è quello in particolare di reclutare 70 mila docenti attraverso il nuovo sistema entro il 2024.

Quando si parla di attrattività i salari sono un fattore cruciale. L’entità dei salari è da ricollegare al livello d’istruzione e agli anni di esperienza dei rispettivi docenti. Secondo il rapporto Education and Glance 2023 [2], prendendo in considerazione gli stipendi annuali statutari (cioè gli stipendi base senza considerare eventuali bonus o benefici aggiuntivi, standardizzati e stabiliti a livello nazionale e/o regionale secondo quanto stabilito dalle leggi o la presenza di CCNL) la media per gli insegnanti della scuola secondaria di secondo grado con la qualifica più comune e 15 anni di esperienza è di 53.456 dollari statunitensi. In Italia, lo stipendio medio di un insegnante con le medesime caratteristiche ed aggiustato in base al potere d’acquisto è di 44.235 dollari statunitensi, cioè 32.588 euro. 

Questo significa che a parità di esperienza e competenze acquisite un insegnante italiano guadagna meno rispetto alla media OCSE [6].

Questa disparità salariale evidenzia una delle principali sfide per l'attrattività della professione in Italia. Gli stipendi più bassi rispetto alla media OCSE possono rendere meno appetibile la carriera di insegnante, rendendo più difficile attrarre e mantenere nuovi individui all’interno del sistema educativo italiano. Questo può avere implicazioni negative sia sulla qualità dell'istruzione che sulla capacità di rispondere alla domanda di insegnanti qualificati.

I salari però non sono l’unico aspetto da tenere sott’occhio. Altri elementi da tenere in considerazione - come sottolineato nello stesso report - sono il tempo di insegnamento annuale richiesto, le ore di istruzione obbligatoria previste per gli studenti e la dimensione delle classi: tutti fattori che incidono sulla spesa totale degli stipendi e che permettono di stimare il costo medio degli stipendi per studente e valutare l’impatto di ciascun fattore. Questi permetterebbero di capire, nel concreto, l’incidenza qualitativa dell’entità dello stipendio, o in altre parole, ci permetterebbero di valutare quanto questi fattori contribuiscono complessivamente agli stipendi degli insegnanti e quanto del gap salariale vada ricondotto o meno alle differenze di istruzione. Ribadiamo però che l’intento di questa analisi  è meramente quantitativo (e non qualitativo)e che l’obiettivo è constatare quanto si investe e ci si interessi realmente alla tematica, nonché quanto viene assegnato in termini di spesa all’istruzione. Ma, altrettanto importante è anche constatare come e dove le risorse sono allocate in modo da rendere funzionale l’investimento e affrontare quindi un analisi tipo qualitativo. L’analisi portata avanti qui vuole quindi essere un mero trampolino di lancio per qualcosa di più approfondito. Più semplicemente un modo per sollevare interrogativi.

Sebbene qui non si affronti il tema della qualità della spesa, è fondamentale considerare anche come e dove queste risorse vengono allocate, affinché l'investimento sia davvero efficace. In futuro, sarà necessario approfondire questi aspetti per comprendere se le risorse vengano utilizzate in modo funzionale e quali settori abbiano bisogno di interventi prioritari per risolvere le problematiche emerse. Questa analisi, quindi, vuole essere solo un punto di partenza, un modo per sollevare interrogativi e stimolare riflessioni più approfondite.

Gli studenti: NEET e ELET

L’ultimo aspetto che è importante approfondire è l’entità di NEET e ELET in Italia. NEET è un acronimo che sta per “Young People Neither in Employment nor in Education or Training” e che si riferisce ai giovani adulti con un'età compresa tra i 15-29 anni che non sono coinvolti in nessun percorso educativo o professionale. È un’etichetta utilizzata per captare quei soggetti che risultano inattivi e che quando si parla di scuola ed istruzione vengono correlati ad un contesto di abbandono scolastico esplicito, i cosiddetti ELET (“Early Leaver from Education and Training”), nonché la quota di giovani con un'età compresa tra 18-24 anni che non hanno conseguito né titoli di studio superiori né qualifiche professionali biennali o oltre. 

Insomma due cluster sociali in particolare su cui il nostro sistema dovrebbe investire. Questi numeri sono importanti perché possono rappresentare un riflesso della scarsa  rilevanza concessa all’istruzione e ai problemi in prospettiva ad essa collegati. Nel concreto ci aiutano a capire quanto l’istruzione in italia sia adeguatamente strutturata alla preparazione dei giovani e qualora siano presenti politiche efficaci per migliorare l’inclusione sociale e l’occupabilità di questi.

Secondo i dati elaborati da Eurostat (Figura 4 e Figura 5), nel 2023 in Italia vi sono rispettivamente quote NEET ed ELET pari al 19% (contro la media dell’11,2 % europea e il target europeo da raggiungere entro il 2030 del meno del 9%) e al 10,5% (contro il 9,5% europeo e il Target 2030 inferiore al 9%). Si tratta quindi di ulteriori cifre che fotografano la situazione italiana che va sempre nella stessa direzione: al di sotto della media europea. 

Per arginare la situazione le risposte messe in campo sono due ed entrambe prevedono di attingere ai fondi del PNRR. Nello specifico:

  • 1,07 mld di euro per l’”estensione del tempo pieno” con l’obiettivo di “determinare un incremento dell’offerta formativa e rafforzare il contrasto alla dispersione scolastica grazie all’attivazione del tempo pieno”: il progetto prevede la costruzione di almeno 1000 strutture entro il 2026 ma, nonostante fosse previsto l’avvio dei progetti nel 2021, questo non si è ancora verificato e mancano soltanto 2 anni alla sua valutazione e rendicontazione [7];
  • 1,5 mld di euro per un “intervento straordinario finalizzato alla riduzione dei divari territoriali nei cicli I e II della scuola secondaria di secondo grado” con l’obiettivo di potenziare le competenze di base [...] e contrastare la dispersione scolastica” entro il 2026 (giungendo nel concreto a una soglia del 10,2% di abbandono scolastico) e attuare “programmi e iniziative di tutoraggio, consulenza e orientamento attivo e professionale con lo sviluppo di un portale nazionale per la formazione on line e con moduli di formazione per docenti” entro il 2025.” [8][9]

Il dibattito recente sul futuro dell’istruzione in Italia e il G7

Quest’anno l’Italia è stata protagonista del G7 in quanto nazione ospitante. Dal 27 al 29 giugno si è tenuta a Trieste una riunione ministeriale proprio sull’Istruzione. In occasione di questo evento è stata riconosciuta e ribadita ancora una volta l’importanza dell’istruzione come mezzo per affrontare crisi, conflitti e cambiamenti: “we recognize the power of education to prepare for change and mitigate against key threats such as conflicts, climate change and economic crisis, and therefore the need to prioritize quality education.[...] We uphold education as a universal human right. [...] In support of the 2030 Agenda and its Sustainable Development Goal 4 (SDG 4) [...] we endorse the fundamental role of education in helping to enable the achievement of all other SDGs” [10]

Sono stati sollevati temi importanti quali la dispersione scolastica, il divario di genere nel campo STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics, ovvero l’insieme delle discipline tecnico-scientifiche e ingegneristiche), il ruolo dell’intelligenza artificiale, l’importanza di approcci educativi innovativi e la promozione dello sviluppo delle competenze, nonché il ruolo degli insegnanti, ed è stato evidenziato quale obiettivo prioritario la necessità di ridurre il gap tra domanda e offerta di competenze acquisite durante la scuola e ricercate nel mercato del lavoro [11].

In occasione di ciò, il ministro Valditara ha parlato inoltre di “Agenda Sud” [12] e della decisione di “moltiplicare i docenti soprattutto in quelle materie più strategiche come italiano, matematica, inglese” ed è stato più volte ribadito come uno degli obiettivi fondamentali sia la lotta contro la dispersione. Un altro problema emerso è poi quello che riguarda la valorizzazione - sia sociale che economica - dei docenti, il ministro ha affermato che è necessario affrontare la precarietà, ma ha anche sottolineato che questo non è sufficiente. La valorizzazione passa anche attraverso il riconoscimento sociale e culturale dei docenti, la protezione legale contro le aggressioni, il welfare e l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro. Il ministro ha evidenziato l'importanza di “ricostruire una grande alleanza tra famiglia e scuola, fra famiglia e docenti” [13].

Conclusione

Alla luce dei dati esaminati appare chiaro che nel dibattito europeo ed italiano le problematiche legate al mondo dell’istruzione siano ormai sotto l’occhio di tutti, complice l’emergenza COVID 19 che ha acuito la situazione. Tutti i campanelli d’allarme sembrano convergere: sono necessari maggiori investimenti e in questo senso possono rivelarsi cruciali i fondi del PNRR: 17,59 miliardi destinati all’istruzione, 6 progetti di riforme per le infrastrutture e 5 riservati agli investimenti per le competenze [9].

L’attenzione sembra esserci ma l’auspicio è che la discussione in merito alla situazione si faccia ancora più pressante, che l’obiettivo non sia solo quello di avvicinarsi solo sempre di più ai target europei ma investire sul serio, cambiare e riformare la scuola laddove necessario. Per fare ciò è prima di tutto fondamentale guardare ai veri problemi, aprendo dunque al dibattito, ma nella giusta direzione e nella speranza di evitare di finire come Don Chisciotte che lotta contro i mulini a vento, trasformando l’istruzione in una reale priorità nazionale. 

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