La tanto discussa riforma del Codice della strada è ormai legge! Questo atto normativo trova come suo primo sostenitore il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti Matteo Salvini, il quale ha fortemente insistito per la sua più rapida approvazione. In attesa dell’entrata in vigore, in data 14 dicembre, si discuterà innanzitutto in merito alle motivazioni che hanno condotto a questa intesa e successivamente agli aspetti legati alla guida sotto effetto di alcol e stupefacenti.
Non si potrebbe ritenere compiuta e soddisfacente un’analisi che non dedichi uno spazio di riflessione alle motivazioni, che dovrebbero giustificare - a parere del Ministero - un intervento normativo così ingente in un ambito settoriale come quello stradale. Il disegno di legge n. 1435 (da cui è partito l’iter legislativo), dopo il consueto incipit Onorevoli deputati!, comincia con un’elencazione di dati raccolti dalle rilevazioni Istat: si tratta dei tassi riguardanti il numero di incidenti stradali, di vittime e di feriti. Il proponente del ddl ha posto a confronto i dati del 2020 e del 2021, evidenziando un sensibile aumento di sinistri, vittime e feriti e quindi la necessità di una normativa più aggressiva e deterrente: in particolare un aumento tra il 20% e il 30% di tutte e tre le voci. I dati di riferimento sono corretti, perché effettivamente un aggravio dei numeri è parzialmente confermato dalle rilevazioni seguenti: se nel 2021 gli incidenti stradali erano stati 151.875, nel 2022 sono stati perfino 165.889, mentre il 2023 ha raggiunto la quota di 166.525. L’utilità di questi dati è tuttavia vanificata se si considera l’avvento della pandemia (COVID): il dato più basso di incidenti (118.298) è infatti riconducibile al 2020, durante il quale la libertà di circolazione era stata fortemente compressa. Meno limitazioni, ma comunque significative, nel 2021 (di qui il sensibile aumento statistico). Nel 2022 e nel 2023 si è invece tornati ad una situazione di normalità: questo diverso assetto spiega perciò l’ulteriore aggravamento del 2022 ed il conseguente stazionamento del 2023. Ad avvalorare queste conclusioni, i dati pre-pandemia: 172.553 sinistri nel 2018 e 172.183 nel 2019. Si può concludere dunque che non solo - a parità di legislazione - non si è verificato un aumento, ma si è perfino verificata una diminuzione di incidenti. Ondulamenti analoghi si ravvisano anche per il numero di morti e di feriti. Di qui le conclusioni di chi scrive, per cui nel ddl in questione sarebbe stata perpetrata una narrazione che non rispecchia assolutamente l’andamento reale dei sinistri nel nostro Paese: sorge perciò spontaneo il dubbio sull’effettiva necessità di questo intervento normativo.
Nel ddl presentato dal Ministero, sempre con riferimento ai dati del 2020 e del 2021, viene ammesso che le cause maggiori di incidente stradale rimangano la distrazione, il mancato rispetto della precedenza e la velocità troppo elevata: statistica da considerare corretta ed attuale alla luce dei report Istat 2022 e 2023, all’interno dei quali è affermato che questa egemonia è sempre stata stabile nel tempo,con un valore compreso tra il 35% e il 40% degli incidenti. Tuttavia il ddl procede a considerare come uno dei comportamenti più pericolosi il fenomeno della guida in stato di ebbrezza o in stato di alterazione per l’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope: non si negherà in questo articolo la veridicità di tale affermazione; tuttavia su questo punto vanno fatte delle precisazioni. Le rilevazioni Istat non sono in grado ad oggi di stabilire in maniera completamente esaustiva la percentuale di incidenti legata alle alterazioni psicofisiche, anche a causa della possibilità di rifiuto, da parte dei conducenti coinvolti, di sottoporsi agli accertamenti: si tratta di una mera possibilità e non di un diritto, in quanto detto comportamento integra reato ai sensi dell’art. 186 comma 7 del Codice della strada; tuttavia, qualora vi sia stata opposizione all’esame, non è inviata l’informazione all’Istat, rendendo quindi sottostimata qualsiasi misurazione in merito. I dati disponibili restano dunque in primo luogo (in valori assoluti) le contravvenzioni elevate da Polizia stradale, Arma dei Carabinieri e Polizia locale: per quanto riguarda l’ebbrezza alcolica durante la guida, le contravvenzioni (tra il 2018 e il 2023, periodo pandemico escluso) si aggirano tra le 37-39 mila, con un picco nel 2019 (42 mila); sull’uso di sostanze stupefacenti - sempre durante la guida - il dato - considerando lo stesso periodo - risulta essere in diminuzione, dalle 5 mila del 2018 e alle 4 mila del 2023. In secondo luogo le percentuali - sulla correlazione tra alcol/droga ed incidenti con lesioni - rilevate dai tre suddetti Organi: anche a livello relativo non si registrano scostamenti dalla media. Medesime le considerazioni per quanto riguarda i controlli effettuati indipendentemente dall’occorrenza di un incidente stradale.
Concludendo: è innegabile che la guida in stato di alterazione psicofisica sia un problema di notevole importanza, specialmente durante le ore notturne; tuttavia la narrazione portata avanti dal Ministro proponente risulta essere maggiormente assimilabile ad una battaglia ideologica piuttosto che ad un tentativo di trovare una soluzione, con alcune irragionevoli ripercussioni sull’aspetto normativo.
Nel quadro normativo vigente, la guida in stato di alterazione psicofisica è sanzionata agli artt. 186 (alcol) e 187 (sostanze stupefacenti) del Codice della strada. Le discussioni in merito non sono certamente iniziate alla luce di questa riforma, ma hanno radici ben più profonde: in particolare i punti critici si articolano in primo luogo nel diverso livello di tolleranza e in secondo luogo nella qualificazione penalistica degli illeciti. L’assunzione di alcol è tollerata per tutti gli utenti (e quindi lecita) fino ad un tasso alcolemico di 0,5 grammi per litro, ad eccezione dei neopatentati e dei conducenti di veicoli con massa superiore a 3,5 tonnellate oppure adibiti al trasporto di persone o merci, casi per cui è prevista una sanzione amministrativa pecuniaria; quando il tasso alcolemico è compreso tra 0,5 e 0,8 grammi su litro, il fatto integra illecito amministrativo, con una sanzione pecuniaria maggiore e la sospensione della patente; il fatto si trasforma in reato quando il tasso alcolemico supera 0,8 grammi su litro, sanzionato con arresto e ammenda (sanzioni penali) e sospensione della patente (sanzione amministrativa), con un ammontare ed una durata che variano a seconda che il tasso alcolemico superi o meno gli 1,5 grammi su litro. Per quanto riguarda l’assunzione di sostanze stupefacenti vale invece la famigerata tolleranza zero, per cui il livello di alterazione psicofisica non rileva ai fini della sanzione, che sarà sempre corrispondente a quella per il tasso alcolemico maggiore di 1,5 grammi su litro. I penalisti ravvisano in queste previsioni normative una palese lesione del criterio di ragionevolezza, che sarebbe sanabile soltanto con l'inserimento di uno scaglionamento anche nell’art. 187: oltre che per un fattore meramente politico, la parificazione di trattamento è tuttavia fortemente ostacolata sia dalla maggiore difficoltà di rilevare una soglia tossicologica al di sotto della quale l’utente possa essere considerato idoneo alla guida, sia dalla minore capacità dei test orali (la cui affidabilità è controversa) di escludere o meno l’alterazione psicofisica durante il fatto. In secondo luogo si discute sull’opportunità di continuare a sanzionare penalmente questi comportamenti: non si discute il fatto che l’alterazione psicofisica sia fortemente pericolosa durante la guida, in quanto aumenta in modo rilevante il rischio di incidenti, soprattutto notturni; si tenta di riflettere invece sul fatto che la minaccia dell’arresto o dell’ammenda non riesca in concreto ad assolvere al proprio compito di deterrenza, anche alla luce della possibilità di convertire la pena nel lavoro di pubblica utilità oppure di assolvere l’imputato per particolare tenuità del fatto. Le medesime perplessità sono poste anche dallo stesso ddl: i tempi del procedimento penale e l’incertezza della pena, [...]l’applicazione dell’istituto del lavoro di pubblica utilità [...]la causa di esclusione della punibilità della particolare tenuità del fatto [...] finiscono per incidere sull’operatività dei citati articoli 186 e 187 e [...] sull’efficacia general-preventiva delle sanzioni [...]. Di qui la necessità di scegliere tra la valorizzazione di questi reati - con le conseguenze di gravare ulteriormente sulle carceri e sui tempi processuali - oppure la depenalizzazione in illeciti amministrativi, facendo affidamento sull’effetto deterrente della sospensione della patente. A scanso di equivoci, la depenalizzazione comprenderebbe il semplice fatto di guidare in stato di alterazione psicofisica: eventuali omicidi e lesioni colposi - da ciò derivanti - integrano invero i diversi reati di cui agli artt. 589-bis e 590-bis del Codice penale.
Per quanto riguarda la guida sotto l’influenza di alcol - e quindi l’art. 186 del Codice della strada - le modifiche non riguardano gli illeciti in sé - che rimangono invariati - quanto l’aggiunta di una sanzione ulteriore: l’alcolock. Si tratta di un dispositivo - installato sul veicolo a motore - che ha la funzione di impedirne la marcia qualora il tasso alcolemico del conducente sia superiore ad un livello preimpostato. Prima di illustrare le potenzialità e le criticità dell’alcolock, è necessario analizzare l’intervento normativo: questa sanzione verrà applicata ai condannati dei reati di cui all’art. 186 comma 2 lettere b) e c), cioè gli utenti (che siano ordinari, neopatentati o professionisti) colti alla guida con un tasso alcolemico superiore agli 0,8 grammi su litro. L’obbligo dunque non potrà essere imposto a coloro che non sono stati condannati - in via definitiva - per tali reati. A seguito della condanna, sul retro della patente (sotto alla colonna con il n. 12 facente capo, in corrispondenza della/e categoria/e di patente conseguita/e) verranno apposti i codici unionali 68 e 69: si tratta di indicazioni supplementari o restrittive ed in particolare riportanti le prescrizioni Niente alcol e Limitata alla guida di veicoli dotati di un dispositivo di tipo alcolock conformemente alla norma EN 50436; la permanenza dei codici è di minimo 2 o 3 anni, a seconda che il tasso alcolemico rilevato sia stato minore o maggiore di 1,5 grammi su litro. L’adeguamento della patente ai predetti codici viene effettuato a seguito dell’ordine di revisione della patente di guida: sembra si tratti tuttavia di una revisione tecnica, da distinguere dall’obbligo di visita medica prescritto - sempre dal prefetto - in relazione alla sospensione della patente. Dunque, alla luce della riforma, l’utente della strada, che sia stato colto con un tasso alcolemico compreso tra gli 0,5 e gli 0,8 grammi su litro (illecito amministrativo), sarà obbligato alla sola visita medica conseguente all’ordinanza di sospensione della patente; l’utente che invece sia condannato per i reati (quindi illeciti penali) legati ad un tasso alcolemico superiore, oltre alla visita medica legata alla sospensione della patente, una volta condannato dovrà risultare idoneo anche in sede di revisione tecnica, ai fini dell’adeguamento del documento ai codici.
In cosa consiste effettivamente l’alcolock? Si è anticipato che sia un dispositivo installato all’interno di un veicolo a motore, al fine di impedirne l’accensione nel caso in cui venga superato dal conducente un determinato tasso alcolemico (in concreto: un etilometro fisso), nel qual caso sarebbe - alla luce del nuovo art. 125 - pari a zero grammi su litro (tolleranza zero). In primo luogo è da definire veicolo a motore per cui - secondo la nuova normativa - questa installazione sarebbe obbligatoria soltanto per i veicoli di categoria M (destinati al trasporto di persone ed aventi almeno quattro ruote) ed N (destinati al trasporto di merci ed aventi almeno quattro ruote). In secondo luogo l’installazione dell’alcolock, il cui prezzo si aggira intorno ai 1500 euro, sarebbe da effettuare a spese del conducente (o del proprietario del veicolo su cui il conducente circola). In caso di circolazione su strada con un dispositivo alterato, manomesso, non funzionante o dal quale siano rimossi i sigilli (prescritti al fine di evitare compromissioni del suo funzionamento), l’utente responsabile andrà incontro a varie sanzioni amministrative.
La riforma in questione va accolta positivamente, perché si tratta di un rimedio fortemente vincolante sia per deterrenza sia per prevenzione: inoltre, sebbene la condanna penale sia presupposto per l’installazione del dispositivo, a ben vedere la nuova misura può ritenersi svincolata dalla qualifica di reato, anche in vista di una eventuale futura - anche se molto improbabile - depenalizzazione (basterebbe infatti cambiare il presupposto). Tuttavia sorgono alcune criticità. In primo luogo, per l’attuazione di questo rimedio risulta necessario un ulteriore decreto del Ministero che specifichi quali debbano essere le caratteristiche dell’alcolock, le modalità di installazione e le officine autorizzate: la riforma ha posto un limite temporale - ai fini dell’emanazione - di massimo sei mesi, ma non sarebbe una novità un’inerzia del Ministero in tal senso. Non meno importante il problema che in Italia, come risulta dal Report Acea Vehicles on European Roads del 2024, il parco auto, nonostante sia in linea con la media UE, risulti essere anziano mediamente di 12,5 anni: con questo presupposto è evidente che saranno necessari anni, se non decenni, per raggiungere la compatibilità di tutte le automobili con un’eventuale installazione dell’alcolock; quali obblighi (ed esborsi) dovranno sorgere in capo al conducente nell’ipotesi di incompatibilità? Infine, dubbia è anche la modalità con cui dovrebbe essere assicurata l’effettività della misura: si dovrà fare affidamento sulla buona volontà del singolo o si effettueranno controlli a tappeto (con inevitabili ed ingenti spese pubbliche)? A queste domande non seguono risposte: per evitare che questa misura crolli nel dimenticatoio, saranno necessarie soluzioni esigibili e credibili agli occhi dei consociati.
A questo punto si affronta il punto più critico della riforma: la modifica del reato di guida in stato di alterazione psicofisica per uso di sostanze stupefacenti (art. 187). Emblematica è la soppressione - nella rubrica e nei commi dell’art. 187 - delle parole in stato di alterazione psicofisica. La conseguenza ovvia è che il nuovo reato sarà quello di guida dopo l’assunzione di sostanze stupefacenti: dunque, non solo continua a non rilevare il livello di alterazione psicofisica, ma addirittura neppure rileva se in quel momento vi sia effettivamente o meno una qualche alterazione. Il motivo di tale scelta è da ricondurre alle difficoltà operative riscontrate nella contestazione dell’illecito della guida: dato che la Cassazione ha ribadito nel 2015 che - ai fini della condanna penale - debba essere provata non solo l’assunzione delle sostanze, ma anche che la guida materiale sia avvenuta in stato di alterazione (di qui la necessità assoluta di una visita medica che lo accerti), la maggioranza parlamentare avrebbe voluto facilitare il compito probatorio dell’accusa, rimuovendo il secondo elemento. Necessità che la stessa maggioranza non ha riscontrato invece per quanto riguarda l’ebbrezza alcolica, in quanto sufficiente la prova del superamento di uno dei predetti tassi alcolemici. Questo diverso onere probatorio richiesto dai giudici è imputabile al fatto che la positività delle analisi tossicologiche - a differenza dell'ebbrezza - non fornisce piena prova di un’alterazione nel momento della guida, ma soltanto di un pregresso uso delle sostanze, che si convertono, diverse ore dopo l’assunzione, in metaboliti inattivi. Di qui la futura soluzione parlamentare - piuttosto discutibile - di ritenere sufficiente la mera assunzione di sostanze: nelle motivazioni di cui al ddl, le tutele elaborate dai tribunali non vengono infatti viste nella chiave di non colpevolizzare un imputato lucido durante l’atto della guida, quanto in un perdòno di condotte particolarmente pericolose per l’incolumità pubblica. Questo atteggiamento rinunciatario da parte della maggioranza parlamentare si rinviene anche nella decisione di sopprimere il decreto attuativo - fantasma - del Ministero: nella riforma nel 2010 del Codice della strada, all’art. 187 comma 2-bis era prevista l’emanazione - entro 60 giorni - di un decreto attuativo, che avrebbe dovuto introdurre il cosiddetto drogometro, con l’obiettivo di effettuare rilevazioni più puntuali; questo dispositivo ad oggi, a distanza di 14 anni, non è stato ancora inventato e il decreto mai emanato: in data 14 dicembre si ufficializza perciò la rinuncia ad individuare un sistema affidabile.
Cosa cambia per quanto riguarda i controlli? Prima della riforma, la sottoposizione dei conducenti ad accertamenti clinico-tossicologici o analitici su campioni di mucosa del cavo orale poteva essere compiuta soltanto a cura del personale sanitario ausiliario delle forze di polizia; qualora non fosse stato possibile, gli agenti avevano l’obbligo di accompagnare il conducente presso strutture sanitarie. A seguito della riforma invece sono gli stessi agenti di polizia ad essere autorizzati al prelievo dei campioni di fluido (che sembra essere più economico del corrispettivo su mucosa) del cavo orale: l’autorizzazione deriva dall’esito positivo degli accertamenti preliminari non invasivi (gli unici fino ad oggi permessi alle forze dell’ordine) oppure quando vi sia ragionevole motivo di ritenere che il conducente del veicolo si trovi sotto l’effetto conseguente all’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope. Alle strutture sanitarie spetta ormai la mera analisi dei campioni (oppure il prelievo ma soltanto quando questo non sia stato possibile nel luogo di elevamento). Procedure analoghe si effettuano in caso di incidenti. Infine, nel caso in cui l’accertamento richieda più tempo, gli organi di polizia possono disporre il ritiro della patente per un massimo di 10 giorni, come fosse una sorta di presunzione di pericolosità.
Vi sono d’altra parte conseguenze anche nelle ipotesi in cui gli accertamenti più approfonditi - del cavo orale o sanitari - non fossero possibili: sempre in una chiave di presunzione di pericolosità, si farebbe affidamento sui soli accertamenti del comma 2, cioè su quelli preliminari e non invasivi, tutt’altro che affidabili, il cui esito positivo in teoria sarebbe utile ai soli fini di procedere ad esami più precisi (ed invasivi). I controlli del comma 2, in questo caso, attribuirebbero di per sé il potere agli organi di polizia di vietare al conducente la conduzione del veicolo, imponendo il trasporto dello stesso presso la più vicina autorimessa. Inoltre, a prescindere dall’esistenza o meno degli accertamenti più approfonditi (dunque è sempre sufficiente la base del comma 2), il prefetto ordina la sottoposizione a visita medica, il cui esito negativo comporta la revoca della patente, oltre al divieto di conseguire una nuova patente prima di tre anni dal provvedimento di revoca. Infine la sanzione per cui al conducente minore di ventuno anni, nel momento in cui siano accertati (non è necessaria quindi a tal fine la condanna) i reati di guida dopo l’assunzione di sostanze stupefacenti o di rifiuto di sottoposizione agli esami di accertamento, è fatto divieto di conseguire la patente prima del ventiquattresimo anno di età.
Si può concludere che non sia assurdo qualificare tutte queste modifiche dell’art. 187 come persecutorie di una certa fascia della popolazione. Si tratta di misure che sanzionano irragionevolmente i consociati sia a livello penale che amministrativo, senza che ci sia stato un apprezzabile aumento degli incidenti a ciò imputabile. Si comprendono le difficoltà di raggiungimento della prova, ma è inaccettabile - in un sistema democratico come il nostro - che una mancanza dello Stato ricada totalmente sui cittadini. Sarebbe perciò auspicabile un intervento della Corte costituzionale.
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