Winston Churchill, figura iconica e contraddittoria, incarnò un pragmatismo mutevole: sostenne la nazionalizzazione del petrolio persiano per esigenze strategiche, ma scelse il liberismo nell’aviazione civile. Opportunista nella questione irlandese, adattò le sue posizioni per avanzare politicamente. Questo articolo esplora quattro episodi che rivelano le sfaccettature di un leader complesso e divisivo.
A sessant’anni dalla sua morte, Sir Winston Leonard Spencer Churchill rimane una delle figure più iconiche e complesse del XX secolo, capace di attirare l’attenzione di storici, biografi e politologi da ogni angolo del mondo. Litri di inchiostro e migliaia di pagine sono state dedicate a raccontarne le gesta, a decifrarne le contraddizioni e ad interpretarne l’eredità. Churchill continua a suscitare dibattiti accesi, con un’aura eroica che si intreccia a una lunga serie di aspetti controversi: un personaggio che, pur essendo simbolo di resistenza e determinazione, si muoveva in un sistema di valori che non smette di dividere studiosi e opinione pubblica.
Liberale in alcune battaglie, ma conservatore – talvolta persino reazionario – in molte altre; paladino della law and order, eroe della Seconda guerra mondiale ma decisamente meno incisivo durante la Prima; accusato di simpatie fasciste in gioventù, ma strenuo difensore dell’Inghilterra contro il nazismo. Il figlio del Duca di Marlborough fu un uomo dalle innumerevoli contraddizioni e molto più di un semplice Primo Ministro passato alla storia per il celebre discorso “We shall fight on the beaches” all’indomani della Battaglia d’Inghilterra.
Dietro i riflettori delle sue gesta più celebri – il viaggio a Mosca del 1942, il patto delle percentuali di influenza in Europa con Stalin, o la sua retorica instancabile durante la Guerra Fredda – si nascondono altre vite precedenti gli anni ’30 del Novecento, meno conosciute ma tutt’altro che marginali. È proprio su queste che ci soffermeremo in questo articolo: quattro episodi che tracciano un ritratto più sfaccettato di Churchill, ma uniti da un filo rosso comune: una mente pragmatica, talvolta cinica, sempre guidata da un opportunismo calcolato.
L’approccio di Churchill alla questione dell’Home Rule irlandese fu fondamentalmente opportunistico, modellato dalle sue ambizioni politiche e dal burrascoso contesto delle relazioni irlandesi-britanniche. Fin dall’Atto di Unione del 1800, che formalmente integrò l’Irlanda nel Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda, le tensioni tra le due parti non cessarono mai. La grande carestia degli anni ’40 dell’Ottocento, che causò la morte di circa un milione di persone e l’emigrazione di altrettante, aggravò i rapporti tra Dublino e Londra: molte figure di spicco accusarono il governo britannico di non aver fatto abbastanza per alleviare la crisi. Questo evento devastante, combinato con la persistente povertà e la stagnazione economica dell’isola, rese sempre più pressanti le richieste di autogoverno.
Nel 1870, le rivendicazioni nazionaliste iniziarono a organizzarsi politicamente con la formazione della Home Rule League, guidata da Isaac Butt e successivamente da Charles Stewart Parnell. Il movimento mirava a ottenere un parlamento irlandese decentrato a Dublino, pur mantenendo l’Irlanda sotto la Corona britannica. Tuttavia, le proposte di Home Rule trovarono forte opposizione da parte degli unionisti, specialmente nell’Ulster, la provincia settentrionale dove la popolazione protestante, discendente dai coloni britannici del XVII secolo, temeva la dominazione della maggioranza cattolica. Gli unionisti, che si identificavano come difensori del protestantesimo e dell’identità britannica, divennero una potente forza politica e sociale, opponendosi a qualsiasi concessione di autogoverno.
Churchill, nato in una famiglia fortemente unionista, inizialmente rifletteva queste tradizioni conservatrici. Suo padre, Lord Randolph Churchill, fu uno dei più accesi oppositori dell’Home Rule e sostenitore della causa protestante dell’Ulster. Fu proprio Lord Randolph a coniare il celebre slogan “Ulster will fight, Ulster will be right,” consolidando l’idea che i protestanti dell’Ulster avrebbero combattuto contro qualsiasi tentativo di imporre il dominio di un parlamento irlandese. Il cambiamento nell’approccio di Churchill arrivò dopo il suo passaggio al Partito Liberale nel 1904. Sebbene inizialmente critico verso l’Home Rule, Churchill cominciò a sostenerlo pubblicamente nel 1908, non per una reale convinzione ideologica, ma per allinearsi con l’agenda politica liberale e consolidare la sua carriera. Le elezioni del 1910, che resero i Liberali dipendenti dal sostegno del Partito Parlamentare Irlandese guidato da John Redmond, rafforzarono ulteriormente questa strategia.
Tuttavia, Churchill rimase attento alle sensibilità dell’Ulster. Come Segretario dell’Interno, propose che la provincia settentrionale potesse essere esclusa dall’ambito di applicazione dell’Home Rule, una concessione che irritò profondamente i nazionalisti irlandesi. La successiva approvazione del Terzo Disegno di Legge sull’Home Rule nel 1912 scatenò quindi un’ulteriore opposizione nell’Ulster e la nascita, lo stesso anno, del gruppo paramilitare degli Ulster Volunteers (da non confondere con l’Ulster Volunteer Force del 1965). Ciò contribuì al definitivo allontanamento del nostro alla causa Nord-Irlandese. Nel marzo 1914, Churchill tenne un veemente discorso a Bradford in cui attaccò apertamente gli unionisti dell’Ulster e le loro minacce di resistenza armata. Questo intervento, tuttavia, pur consolidando la sua posizione all’interno del Partito Liberale, non ebbe quasi alcun effetto nel ridurre le divisioni interne alla questione irlandese. Solamente un mese dopo questo intervento, infatti, i volunteers contrabbandarono 25.000 fucili dalla Germania per la loro militanza armata.
Alla fine, il coinvolgimento di Churchill nell’Home Rule riflesse più una manovra politica che un impegno sincero verso le aspirazioni irlandesi. Le sue posizioni variabili evidenziavano il desiderio di navigare le complesse dinamiche politiche dell’epoca. Lo scoppio della Prima guerra mondiale nell’agosto 1914 sospese l’implementazione dell’Home Rule, con Churchill che dirottò rapidamente la sua attenzione verso il conflitto europeo, dimostrando ancora una volta il suo pragmatismo politico.
Come Primo Lord dell’Ammiragliato, carica che assunse nel 1911, Winston Churchill si immerse rapidamente nella modernizzazione e riorganizzazione strategica della Royal Navy che da oltre cento anni era il fiore all’occhiello della superiorità marittima inglese, nonché orgoglio della corona. Il suo mandato fu caratterizzato da un ambizioso impulso all’innovazione militare in un crescente contesto di corsa agli armamenti con la Germania nonché con la Francia, Paese con cui l’Inghilterra era ancora in forte competizione nonostante l’Entente cordiale, parte della cosiddetta Triplice Intesa. Centrale nella sua strategia fu l’adozione del petrolio come combustibile principale per le navi da guerra britanniche, un cambiamento trasformativo rispetto al carbone che avrebbe migliorato la velocità, il raggio d’azione e l'efficienza operativa della flotta.
La transizione al petrolio non fu però priva di sfide. Il carbone era stato il cuore pulsante della Royal Navy per decenni, con un vasto approvvigionamento interno che ne garantiva l’autosufficienza, senza contare le miniere di carbone sudafricane. Il petrolio, tuttavia, doveva essere importato nella sua totalità. Ciò sollevò questioni critiche sulla sicurezza, sui costi e sull’affidabilità di un regolare approvvigionamento. Riconoscendo queste vulnerabilità, Churchill perseguì una soluzione audace e senza precedenti: assicurare una partecipazione diretta del governo nella produzione petrolifera. Questa iniziativa si intersecava con le più ampie preoccupazioni imperiali britanniche in Medio Oriente. Dalla scoperta del petrolio in Persia nel 1908 da parte dell’Anglo-Persian Oil Company, la regione aveva acquisito una nuova importanza strategica. Tuttavia, la società versava in difficoltà finanziarie sin dall’inizio degli anni ‘10, esponendo la Gran Bretagna al rischio di perdere un monopolio de facto sull’approvvigionamento di petrolio e gas naturale nella regione. Le quote dell’Anglo-Persian Oil Company erano infatti divise tra il Tesoro britannico e tra gli attori privati Royal Dutch Shell Group e soprattutto Burmah Oil, entrambi inglesi.
Nel 1912, Churchill nominò l’Ammiraglio John Fisher a capo della Commissione Reale su Carburanti e Motori, incaricata di esplorare le implicazioni logistiche e strategiche sull’adozione del petrolio. I risultati della commissione sottolinearono i vantaggi di questo combustibile, evidenziando la sua superiore efficienza energetica, nonché i minori costi di manodopera. In questo frangente Churchill vide un’opportunità per allineare le esigenze navali britanniche a quelle geostrategiche: la Gran Bretagna doveva assicurarsi il controllo diretto della compagnia per garantire un approvvigionamento petrolifero costante e indipendente.
Le trattative con la compagnia petrolifera procedettero nel corso del 1913 e all'inizio del 1914. Churchill si fece promotore di un investimento governativo di 2,2 milioni di sterline (equivalenti a 215 milioni di sterline del 2024), assicurando oltre il 50% delle azioni della società. Questa mossa avrebbe garantito alla Gran Bretagna un’influenza significativa sulla produzione e distribuzione petrolifera, tutelando gli interessi della Royal Navy. Le motivazioni di Churchill, articolate in Parlamento e in alcuni memoranda, inquadravano l’investimento come un imperativo strategico oltre che un’opportunità economica. Egli enfatizzò il fatto che il controllo dei giacimenti petroliferi persiani avrebbe rafforzato la supremazia navale britannica e sventato potenziali minacce da parte di potenze rivali, in particolare la Germania.
Nel giugno 1914, il Gabinetto approvò l’investimento, segnando un punto di svolta nella politica navale e imperiale britannica. L’Anglo-Persian Oil Company divenne una componente critica dell'infrastruttura strategica britannica, fornendo una fonte di carburante affidabile per la Marina e rafforzando l’influenza britannica in Medio Oriente. La visione di Churchill di navi da guerra alimentate a petrolio si materializzò con la costruzione delle navi da battaglia di classe Queen Elizabeth, che superavano in velocità ed efficienza i loro predecessori a carbone. La sua leadership assicurò che la Gran Bretagna non solo stesse al passo con gli avanzamenti tecnologici occidentali, ma si posizionasse anche come forza dominante nello scacchiere politico globale nel campo dell’energia: un lascito che avrebbe modellato il corso della prima metà del XX secolo.
La Campagna dei Dardanelli, iniziata durante la Prima guerra mondiale, rimane un chiaro esempio di strategia militare fallimentare e delle sue gravi conseguenze. Inizialmente concepita come un mezzo per assistere la Russia e colpire l’Impero Ottomano, la campagna si trasformò rapidamente in un fallimento catastrofico. La Russia, indebolita dalle sconfitte in battaglie come quella di Tannenberg e dei Laghi Masuri, implorò l’aiuto britannico dopo gli attacchi ottomani sul Mar Nero. Il Consiglio di Guerra britannico – guidato dal Primo Ministro H.H. Asquith e comprendente il Primo Lord dell'Ammiragliato Winston Churchill – rispose a questa crisi prendendo di mira lo Stretto dei Dardanelli. Il piano mirava a estromettere gli Ottomani dalla guerra, riaprire le rotte di approvvigionamento verso la Russia e ottenere una vittoria decisiva che avrebbe abbreviato il conflitto. Tuttavia, questa ambiziosa strategia fu compromessa da un’eccessiva fiducia e da assunzioni errate.
Churchill, sebbene inizialmente preferisse altri obiettivi strategici rispetto ai Dardanelli, abbracciò l’operazione come un’opportunità per dimostrare la supremazia navale a tutti i rivali della corona. La sua convinzione nel potere della Royal Navy di ottenere la vittoria lo portò a credere che un rapido e schiacciante attacco navale avrebbe costretto gli Ottomani alla resa. Purtroppo, questo cieco ottimismo oscurò considerazioni logistiche e operative critiche come l’efficacia dei bombardamenti a lungo raggio e la minaccia rappresentata dalle mine navali. I primi bombardamenti navali dimostrarono la vulnerabilità delle difese ottomane, ma gli inglesi non riuscirono a sfruttare questo vantaggio, permettendo agli Ottomani e ai loro consiglieri tedeschi di rafforzare le fortificazioni ed estendere la superficie dei campi minati.
Quando l’Intesa lanciò un assalto navale su larga scala il 18 marzo 1915, la flotta incontrò una resistenza formidabile. Gli Ottomani avevano minato le acque dello stretto, anticipando i movimenti prevedibili delle navi alleate. Durante la battaglia, tre navi da battaglia furono affondate e molte altre gravemente danneggiate, con oltre 700 morti. L’impatto psicologico di queste perdite distrusse la fiducia nella fattibilità della campagna. Il passaggio dell’operazione agli sbarchi anfibi sulla Penisola di Gallipoli il mese successivo avvenne sulla falsa riga della campagna navale. Alla fine del primo giorno di sbarco, l’Intesa aveva assicurato solo deboli avamposti e si preparava ad uno stallo, caratterizzato da brutali guerre di trincea simili a quelle del Fronte Occidentale.
Internamente, la campagna dei Dardanelli mise in evidenza profonde divisioni all'interno della leadership britannica. Il veterano ammiraglio John Fisher, Primo Lord del Mare, manifestò apertamente il suo scetticismo, se non una vera e propria opposizione, alla strategia. La sua relazione spesso tesa e imprevedibile con Churchill culminò in un drammatico doppio colpo per l’Ammiragliato: le dimissioni sia di Fisher sia dello stesso Churchill. Questo evento destabilizzò ulteriormente la guida della Royal Navy e contribuì, l’anno successivo, alla caduta del governo Asquith. Su Churchill ricadde gran parte della responsabilità per il fallimento della campagna. La sua incrollabile difesa dell'operazione, combinata con il suo apparente rifiuto di accettare pienamente i consigli dei comandanti militari esperti, lo dipinse come un dilettante eccessivamente entusiasta. I suoi critici sottolinearono l’eccessiva fiducia nelle proprie supposizioni ottimistiche e la mancanza di un'adeguata considerazione per le sfide logistiche e tattiche. Questa visione lo rese un facile bersaglio di accuse, alimentando il dibattito pubblico e politico sul disastro.
Tuttavia, il politologo John Furman Daniel III sostiene che, pur essendo Churchill uno dei principali responsabili, il disastro dei Dardanelli non può essere attribuito esclusivamente a lui. Si trattò, piuttosto, di un fallimento sistemico, che coinvolse una vasta gamma di leader civili e militari, incapaci di coordinare efficacemente una campagna tanto complessa quanto ambiziosa.
Winston Churchill ebbe un ruolo controverso nello sviluppo dell’aviazione civile britannica durante il suo mandato come Segretario di Stato per la Guerra e per l’Aeronautica tra il 1919 e il 1921. Sebbene i suoi contributi alla Royal Air Force in ambito militare siano ampiamente riconosciuti, il suo approccio all’aviazione civile, in particolare in Africa, è spesso visto come un insieme di opportunità mancate. All’indomani della Prima guerra mondiale, la Gran Bretagna era emersa come una potenza aerea dominante, con tecnologie avanzate, piloti esperti e un’industria aeronautica fiorente. Sembrava il momento ideale per far avanzare l’aviazione civile, sia a livello nazionale che all’interno del vasto impero britannico. Tuttavia, Churchill mostrò riluttanza a investire in questo settore nascente, prendendo decisioni che limitarono il potenziale del Regno Unito come leader globale nel campo dell’aviazione.
Uno dei progetti più ambiziosi dell’epoca fu lo sviluppo di una rotta aerea dal Cairo a Città del Capo, che avrebbe collegato due delle città più ricche e importanti dell’impero britannico. Il generale maggiore W.G.H. Salmond fu tra i principali sostenitori del progetto, sottolineando che il trasporto aereo avrebbe potuto rivoluzionare le comunicazioni in Africa, superando le grandi distanze e le carenze infrastrutturali del continente. Nonostante i promettenti preparativi, inclusa l’istituzione di piste di atterraggio lungo un percorso di oltre ottomila chilometri, il governo Lloyd George, su consiglio di Churchill, decise di non finanziare ulteriormente il progetto, scoraggiato dal consistente budget previsto. Anche altre proposte, come lo sviluppo di servizi aerei civili nell’Africa occidentale britannica, furono accantonate, nonostante l’evidente necessità di migliorare i trasporti e le comunicazioni nella regione.
Churchill, allora nella sua fase “liberale” all’interno della coalizione liberal-laburista, adottò un approccio non interventista, sostenendo che l’aviazione civile dovesse “volare da sola” senza rilevanti sovvenzioni pubbliche. Questo atteggiamento contrastava con quello di altre potenze, come la Francia, che investirono massicciamente nel settore, e appariva incoerente con la strategia che lo stesso Churchill aveva sostenuto solo pochi anni prima con la quasi-nazionalizzazione dell’Anglo-Persian Oil Company.
Lo scetticismo di Churchill nei confronti della sostenibilità a lungo termine del trasporto aereo commerciale rifletteva probabilmente la sua maggiore attenzione per l’aviazione militare e il contesto di competizione coloniale e militare europea, che la Grande Guerra non aveva attenuato. Tuttavia, questa riluttanza ebbe conseguenze durature: la Gran Bretagna rimase arretrata rispetto a paesi come Stati Uniti, Germania e Francia nello sviluppo di un solido settore dell’aviazione civile. Inoltre, se la Gran Bretagna avesse sostenuto questi progetti, avrebbe potuto rafforzare i legami tra il Commonwealth e la madrepatria, consolidando la sua influenza globale.
Winston Churchill si dimostrò una figura unica e profondamente mutevole, capace di adattarsi con pragmatico opportunismo alle sfide politiche ed economiche del suo tempo. La sua versatilità emerge con forza nel confronto tra il sostegno alla nazionalizzazione dell’Anglo-Persian Oil Company di stampo statalista e l’approccio liberista adottato nel campo dell’aeronautica civile. Nel primo caso, Churchill riconobbe il valore strategico dell’intervento statale per garantire la sicurezza energetica e rafforzare la potenza navale britannica. Nel secondo, invece, adottò una visione di mercato, preferendo lasciare l’industria aeronautica alla sua iniziativa, un atteggiamento che rallentò lo sviluppo del Regno Unito in un settore cruciale.
Questa capacità di reinventarsi trova un esempio eloquente anche nel suo opportunistico cambiamento di posizione sulla questione irlandese. Da convinto unionista, Churchill divenne un sostenitore dell’Home Rule, un passaggio che non rifletteva tanto un’evoluzione ideologica quanto la necessità di allinearsi alle priorità del Partito Liberale e rafforzare la propria carriera politica. Attraverso queste contraddizioni, Churchill non solo seppe navigare con astuzia i complessi scenari del suo tempo, ma riuscì anche a lasciare un’eredità che continua a stimolare dibattiti e riflessioni. Tuttavia, nonostante il suo straordinario acume politico, Churchill non fu immune da errori, spesso dovuti a una testardaggine che lo portò a sostenere scelte poco brillanti, come nel caso della disastrosa Battaglia dei Dardanelli, e ricordandoci che anche una figura di tale levatura poteva incorrere in gravi passi falsi.
Questi episodi, tuttavia, rappresentano solo quattro delle mille vite vissute dal Lord inglese, un personaggio troppo complesso e sfaccettato per essere semplicemente “ridotto” al ruolo di eroe della Seconda guerra mondiale. La sua figura, intrisa di luci e ombre, ci invita a scavare più a fondo per cogliere le molteplici sfumature di un uomo che, più di ogni altra cosa, incarnò molte contraddizioni del suo tempo. Spero che questo breve contributo possa stimolare il lettore ad approfondire ulteriormente una figura che, ancora oggi, non smette di affascinare e, soprattutto, di dividere.
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