Architettare l'Appartenenza: Assimilazione e Integrazione in qualche modo da The Brutalist

The Brutalist, il film di Brady Corbet vincitore di tre premi Oscar 2025 (miglior attore protagonista, miglior fotografia e colonna sonora), si cimenta nel raccontare l’approdo di  László Toth, fittizio seppur in qualche modo ispirato dalla realtà architetto ungherese sopravvisuto all’Olocausto, negli Stati Uniti. La ricerca di una stabile realizzazione professionale, nonché del ricongiungimento con la moglie, viene distillata in quello che potremmo definire un immateriale approdo alla corte dell’appartenere. L’indagine su un luogo di appartenenza filtrata dalla contrapposizione tra i concetti di assimilazione e integrazione. 

Immagine FreePik

Da un lato, il riferimento al Brutalismo come stile architettonico essenziale e funzionale. Qua l’ampiezza è tale che stride con una percezione dello spazio vitale al limite del claustrofobico. Dall’altro, la brutalità dell’esperienza migratoria, segnata dalla necessità di ridefinire la propria identità per ambientarsi attraverso un processo spesso per natura definibile come ostile.

Attraverso un’estetica rigorosa e minimale, The Brutalist utilizza l’architettura brutalista come metafora della rigidità delle istituzioni sociali e delle difficoltà che gli immigrati incontrano nell’adattarsi. Le strutture imponenti e inamovibili del Brutalismo evocano le barriere che regolano l’integrazione: offrono protezione, ma impongono rigide condizioni. László, intrappolato tra la sua visione artistica e le esigenze del mercato, incarna la tensione tra il desiderio di successo e la volontà di preservare la propria identità culturale.

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L’arrivo dell’immigrato nella cosiddetta “terra promessa” del progresso è un viaggio che si snoda tra illusioni e costrizioni, un percorso che non ha mai tratti netti ma piuttosto sfumature di incertezza e tensione. Assimilazione o integrazione? Assimilazione e integrazione. Due facce della stessa medaglia, due modi di decifrare il codice di un’appartenenza sempre sfuggente.

Nel tentativo di addomesticare la differenza, l’assimilazione appare come un processo di erosione dell’identità originaria. Una dissoluzione lenta e inesorabile che si consuma nell’adozione di una lingua, di costumi, di abitudini che non appartengono all’esperienza di partenza. Il “melting pot” americano l’ha elevata a principio, un amalgama che prometteva unità e che invece ha spesso generato alienazione. Un’adesione forzata, dove il prezzo della nuova appartenenza è la rinuncia a quella passata, lasciata sul confine come un bagaglio ingombrante. Dall’altro lato, l’integrazione. Meno dogmatica, forse più tollerata nei discorsi istituzionali europei. Un equilibrio precario tra l’essere e il diventare, dove il riconoscimento della diversità coesiste con la richiesta implicita di adeguarsi almeno in parte. Paradossale il suo gioco di specchi. Un’inclusione che, nella pratica, lascia trasparire l’ombra della selezione, dove l’adeguamento diventa necessaria condizione all’essere accettati. 

L’architettura dell’esperienza migratoria non è solo una questione di geografia urbana, ma di forma e struttura dell’identità. Il brutalismo di un’integrazione forzata, spigolosa e senza compromessi, si contrappone alla fluidità di una cultura che può stratificarsi senza cancellare ciò che l’ha preceduta. Le città non sono solo contenitori di esistenze, ma matrici di esperienze. E in questa architettura sociale, l’appartenere non è mai un atto compiuto, ma una continua negoziazione tra spazio, identità e memoria.

L’appartenenza è un cavo teso tra due luoghi, un ponte sospeso tra radici e futuro. Nel contesto migratorio, questa condizione si fa ancora più complessa, in quanto implica una continua negoziazione tra il mantenimento della propria identità e le aspettative della società ospitante. Tomaney (2014) lo sottolinea bene: l’appartenenza è storicamente legata ai luoghi, ma la mobilità contemporanea sfida questa connessione. Non è solo questione di geografia, ma di riconoscimento, di interazioni, di accesso alle opportunità economiche e sociali. 

L’assimilazione promette forse un’accettazione più rapida, ma a quale costo? La cancellazione progressiva della propria storia, il sacrificio di pezzi di sé per conformarsi al modello dominante. Eppure, come mostrano gli studi di Gonzales et al. (2013), anche chi si sforza di adattarsi può trovarsi in un limbo, accettato a livello culturale ma escluso da una reale partecipazione. Il "non appartenere" non è solo una condizione sociale, ma uno stato psicologico che può tradursi in un senso di estraneità profonda. L’integrazione permette invece teoricamente di esistere tra le due dimensioni. Il confronto tra Barcellona e Stoccolma, analizzato da Hellgren (2019), conferma che il senso di appartenenza dipende anche dall’ambiente: più spazi di interazione, più apertura alla diversità, più agevolazione nel sentirsi parte di un tutto senza rinunciare alla propria specificità.

Ma in questo percorso, dove ci si colloca? Lo spazio fisico diventa simbolo di un’identità in transito. La segregazione urbana racconta più di ogni manifesto politico: periferie e ghetti, la distanza geografica riflette il distacco sociale. Eppure, gli spazi pubblici, i parchi, le biblioteche, ovvero le infrastrutture sociali di cui parla Klinenberg (2018) possono essere fessure in cui l’appartenenza si fa concreta, tangibile. Luoghi di incontro in un paesaggio altrimenti frammentato, dove la vita si mescola senza bisogno di sottomettersi a una categoria.

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Eric Klinenberg (2018) sottolinea come le città siano il tessuto dove si giocano le dinamiche dell’appartenenza e di come, in questo tessuto, le social infrastructures, nonché biblioteche, parchi, centri comunitari, rappresentino il collante sociale​. 

Un caso esemplare è quello di Elmhurst-Corona, quartiere di New York che, in pochi decenni, è passato da un’enclave bianca a un mosaico multiculturale. Negli anni '70, la mancanza di spazi di aggregazione aveva acuito le tensioni etniche e il degrado urbano aveva contribuito a rafforzare l’alienazione degli immigrati. Solo grazie all’intervento delle istituzioni locali, attraverso la creazione di spazi di dialogo e incontro, si è potuto avviare un processo di integrazione progressiva. Questo esempio sottolinea come la resilienza delle comunità dipenda dalla qualità delle infrastrutture sociali.

Ma come interagiscono questi spazi con le diverse modalità di appartenenza e partecipazione sociale? L’integrazione è spesso vista come un processo di inserimento armonioso nella società ospitante, mentre l’assimilazione suggerisce l’erosione dell’identità originaria per conformarsi a un modello dominante​. Tuttavia, questa distinzione si complica nel contesto urbano, dove le infrastrutture sociali possono fungere da catalizzatori per un’integrazione più fluida e meno gerarchizzata. L’esperienza di Chicago, riportata da Klinenberg, dimostra come i quartieri con più biblioteche, parchi e centri comunitari abbiano registrato una mortalità inferiore durante una specifica ondata di caldo estremo. La presenza di questi spazi ha incentivato la formazione di reti di supporto tra vicini, contrastando l’isolamento sociale. Al contrario, nei quartieri privi di tali infrastrutture, l’assenza di connessioni comunitarie ha esacerbato le disuguaglianze e aumentato la vulnerabilità​.

Simili considerazioni emergono da studi condotti su città europee come Stoccolma e Barcellona. A Stoccolma, la segregazione economica e razziale crea barriere invisibili che limitano la capacità degli immigrati di sentirsi parte della città, mentre a Barcellona il problema principale è la precarietà economica, che ostacola l’accesso a risorse abitative e lavorative​. Questi fattori dimostrano che l’appartenenza non è solo un concetto culturale, ma anche uno spazio negoziato attraverso l’accesso a infrastrutture e opportunità.

Un modello alternativo alla segregazione e alla gentrificazione è rappresentato dalle pratiche di placemaking partecipato, che coinvolgono direttamente le comunità nella progettazione degli spazi pubblici. Malmö e Singapore hanno sperimentato con successo politiche di urbanistica partecipata per creare ambienti più inclusivi. A Rotterdam, la creazione di parchi multifunzionali nei quartieri popolari ha migliorato l’inclusione delle comunità migranti, mentre a Woodburn, in Oregon, lo sviluppo di spazi per il commercio locale ha rafforzato il senso di appartenenza degli immigrati latini. Queste esperienze suggeriscono che l’infrastruttura sociale non è solo un meccanismo di protezione nei momenti di crisi, ma può diventare un catalizzatore di opportunità economiche e sociali, facilitando l’incontro tra diverse classi e gruppi etnici. Tuttavia, perché ciò avvenga, è necessario progettare spazi che siano accessibili e realmente inclusivi, evitando il rischio che diventino esclusivi o subordinati a logiche di mercato che penalizzano le fasce più deboli​.

Il concetto di appartenenza è storicamente radicato nei luoghi, ma la crescente mobilità della società contemporanea lo rende sempre più fluido. Secondo Tomaney (2014), la sfida attuale è ridefinire l’appartenenza non solo come connessione a un territorio, ma come partecipazione attiva alla vita comunitaria​. Questo è particolarmente rilevante nei contesti migratori, dove l’integrazione non è un processo lineare, ma una negoziazione continua tra mantenimento dell’identità e adattamento alla nuova realtà. Klinenberg e altri studiosi sottolineano che le infrastrutture sociali possono agire da spazi di appartenenza, creando connessioni tra gruppi diversi e favorendo processi di identificazione reciproca​. Tuttavia, questi spazi devono essere progettati in modo che la loro funzione non venga distorta da logiche di esclusione. Ad esempio, mentre la presenza di biblioteche e parchi pubblici può incentivare l’interazione interculturale, la loro gestione e accessibilità economica sono fattori chiave per evitare che diventino strumenti di segregazione.

L’integrazione non è un evento, ma un processo che si svolge nello spazio e nel tempo. Le città, se progettate consapevolmente, possono diventare laboratori di appartenenza, in cui l’identità non viene imposta, ma si costruisce attraverso l’incontro, il confronto e la partecipazione.

Perché appartenere non significa soltanto presenziare in un luogo, bensì essere riconosciuti quale parte di esso.

E se giustamente The Brutalist si allontana da potenziali semplificazioni del tema, strizza l’occhio alla concettualizzazione dello spazio, dell’architettura e dell’urbanistica quali vettori ideali per un severo studio di integrazione. 

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