L'APPELLO DEI PROF. UNIVERSITARI ANTI-GREEN PASS. La replica di uno studente.

Nelle ultime ore sta facendo discutere l’appello, firmato da circa 300 docenti universitari, «contro la natura discriminatoria del “green pass”, per ribadire che l’Università è un luogo di inclusione» e per avviare un dibattito sulla natura stessa della certificazione verde. La discussione si è fatta più accesa da quando il professor Alessandro Barbero, il cui impegno divulgativo contro la pseudo-informazione è difficilmente revocabile in dubbio, ha deciso di aderire a tale appello––per la verità con motivazioni punto differenti, e forse anche più condivisibili, di quelle degli altri sottoscrittori.

Non si può tuttavia fare a meno di notare che l’appello, in sé e per sé considerato, presenti numerose criticità: una su tutte, quella relativa alla finalità. Se, infatti, l’appello è volto ad aprire un «serio e approfondito dibattito» sul merito, non si capisce perché i sottoscrittori non abbiano esitato a fare largo uso di pseudo-argomenti e di false analogie per illustrare la loro posizione. Giova, a questo punto, proporre un’analisi puntuale del testo dell’appello per capire meglio di cosa stiamo parlando.

L’appello inizia con queste parole:

«Dal primo settembre per frequentare le università italiane, sostenere gli esami e seguire le lezioni si deve essere in possesso del cosiddetto “green pass”. Tale requisito deve essere valido per docenti, personale tecnico, amministrativo e bibliotecario e studenti e ciò estende, di fatto, l’obbligo di vaccinazione in forma surrettizia per accedere anche ai diritti fondamentali allo studio e al lavoro, senza che vi sia la piena assunzione di responsabilità da parte del decisore politico».

 

Ora, se pure è vero che la scelta del governo Draghi di procedere con il “green pass”, anziché imporre tout-court un obbligo vaccinale è censurabile (ed effettivamente da chi scrive spesso è stata criticata), non si può condividere l’affermazione, presentata come consequenziale, che ciò sia attribuibile alla volontà del decisore politico di sottrarsi alla «piena assunzione di responsabilità». Anzitutto, sarebbe stata auspicabile maggiore chiarezza da parte dei sottoscrittori: a quale “assunzione di responsabilità” il decisore politico avrebbe voluto sottrarsi in questo modo? Verrebbe da pensare che pensino alle responsabilità derivanti dai danni subiti dai soggetti obbligati, a causa degli eventuali effetti collaterali derivanti dalla vaccinazione. Del resto, che un trattamento sanitario, qual è l’obbligo vaccinale, possa essere imposto per legge inter alia solo allorquando «nell'ipotesi di danno ulteriore alla salute del soggetto sottoposto al trattamento obbligatorio - ivi compresa la malattia contratta per contagio causato da vaccinazione profilattica - sia prevista comunque la corresponsione di una "equa indennità" in favore del danneggiato» (v. Corte cost. 5/2018) è principio praticamente incontestato nella giurisprudenza costituzionale, a partire dall’inizio degli anni Novanta e successivamente trasposto in legge dello Stato, la Legge n. 210 del 1992.

Nondimeno, ciò non vale a dire l’opposto, ossia che laddove mancasse un trattamento sanitario disposto per legge, allora lo Stato sarebbe anche esente dall’obbligo di indennizzo. È, del resto, la Corte costituzionale nella sentenza citata poco sopra ad aver ribadito che l’indennizzo ai soggetti danneggiati in modo irreversibile da vaccinazioni sarebbe «comunque dovut[o], in applicazione di quello che è un principio generale dell’ordinamento (…) con riguardo alle vaccinazioni sia obbligatorie, sia raccomandate».

Stando così le cose, non si capisce bene a quale «piena assunzione di responsabilità» facciano riferimento i sottoscrittori dell’appello.

L’appello poi continua in questi termini:

«Molti tra noi hanno liberamente scelto di sottoporsi alla vaccinazione anti-Covid-19, convinti della sua sicurezza ed efficacia. Tutti noi, però, reputiamo ingiusta e illegittima la discriminazione introdotta ai danni di una minoranza, in quanto in contrasto con i dettami della Costituzione (art. 32: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”) e con quanto stabilito dal Regolamento UE 953/2021, che chiarisce che “è necessario evitare la discriminazione diretta o indiretta di persone che non sono state vaccinate” per diversi motivi o “che hanno scelto di non essere vaccinate”.»


Sul ritenere una misura come il green pass ingiusta, nulla quaestio: ciascuno ha infatti diritto di manifestare la propria contrarietà alle disposizioni legislative dello Stato, e di questo non si discute. Meno legittimo, quantomeno da un punto di vista di onestà intellettuale, è inventarsi che detta misura sia in contrasto con la Costituzione italiana o con il diritto europeo.

Da un lato, infatti, i sottoscrittori citano il secondo periodo art. 32 della Costituzione, omettendone artatamente il primo che, come è noto, dispone: «[l]a Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti» (corsivo mio). Ad ogni modo, l’interpretazione del secondo periodo non è mai valsa a significare che qualsiasi tipo di trattamento sanitario obbligatorio, specie l’obbligo vaccinale, sia vietato[1], ammesso e non concesso che in relazione all’obbligo di green pass si possa poi parlare di trattamento sanitario.

Dall’altro, poi, i sottoscrittori richiamano––in modo, se possibile, ancora più subdolo––il Regolamento UE n. 953/2021. Del resto, non si tratta certo di una novità dal momento che la rivista giuridica Questione giustizia, espressione della corrente Magistratura Democratica aveva sollevato il medesimo argomento (spingendosi addirittura ad affermare che il giudice italiano avesse il dovere di disapplicare la normativa sul green pass). Argomento, peraltro, magistralmente smontato dal costituzionalista Roberto Bin il quale ha ricordato che, in primo luogo, il riferimento alla necessità di evitare la discriminazione «diretta o indiretta» di persone che, per scelta, non si sono vaccinate è contenuto non già nella parte dispositiva del Regolamento, ma nei c.d. «Considerando» (precisamente al n. 36) che, com’è noto, hanno una funzione tuttalpiù di ausilio interpretativo ma «non contengono enunciati di carattere normativo»[2]. In secondo luogo, come fa notare sempre Bin il Regolamento UE n. 953/2021 in realtà non regola il green pass “nazionale”, introdotto dai singoli Stati membri, bensì del c.d. green pass “europeo”, avente la diversa finalità di facilitare la libertà di circolazione dei singoli cittadini tra Stati membri, cosicché il suo richiamo in relazione alla materia di cui tratta l’appello risulta non pertinente e, soprattutto, inconcludente.  

L’appello continua poi con una specificazione:

«Nello specifico della realtà universitaria, i docenti sottoscrittori di questo pubblico appello ritengono che si debba preservare la libertà di scelta di tutti e favorire l’inclusione paritaria, in ogni sua forma. Nella situazione attuale, o si subisce il green pass, oppure si viene esclusi dalla possibilità di frequentare le aule universitarie e, nel caso dei docenti, si è sospesi dall’insegnamento: tutto questo viola quei diritti di studio e formazione che sono garantiti dalla Costituzione e rappresenta un pericoloso precedente».


Ora, al di là dell’ilarità che suscita il riferimento all’«inclusione paritaria» in un appello firmato da rappresentanti della categoria dei docenti universitari, risulta stucchevole il continuo riferimento ad una presunta violazione dei diritti costituzionali. Senza nemmeno richiamare il concetto, noto a tutti, del bilanciamento dei diritti (nel caso di specie, si potrebbe argomentare che il diritto allo studio e formazione è stato bilanciato con il diritto alla salute, di cui all’art. 32 primo periodo), forse che nell’ultimo anno accademico non si siano privati gli studenti universitari meno abbienti (i quali, a ragion veduta, non sempre potevano contare di una connessione veloce e di un dispositivo individuale con cui seguire le lezioni) del suddetto diritto?

E, se appunto, la didattica a distanza dovesse tornare ad essere la normalità, non si perpetrerebbe––seguendo il ragionamento dei sottoscrittori––una violazione ancora più grave degli stessi diritti qui citati? Ai lettori la non ardua sentenza.

«In sostanza, la “tessera verde” suddivide infatti la società italiana in cittadini di serie A, che continuano a godere dei propri diritti, e cittadini di serie B, che vedono invece compressi quei diritti fondamentali garantiti loro dalla Costituzione (eguaglianza, libertà personale, lavoro, studio, libertà di associazione, libertà di circolazione, libertà di opinione). Quella del “green pass” è una misura straordinaria, peraltro dai contorni applicativi tutt’altro che chiari, che, come tale, comporta rischi evidenti, soprattutto se dovesse essere prorogata oltre il 31 dicembre, facendo affiorare alla mente altri precedenti storici che mai avremmo voluto ripercorrere.»

Non si vuol nemmeno commentare il riferimento a «precedenti storici che mai avremmo voluto ripercorrere», perché è fin troppo chiaro a cosa alludano i sottoscrittori e ci verrebbe da rispondere con un sonoro invito a vergognarsi.

Nondimeno, i sottoscrittori avrebbero quantomeno l’onere di spiegarci in che modo il green pass rappresenterebbe una compressione della «libertà di opinione» (SIC!). Chi scrive si sta interrogando da qualche ora sul significato da attribuire a questa affermazione, senza addivenire ad una soluzione: l’obbligo di green pass forse ha impedito a 300 universitari di giungere insieme ad un accordo, pubblico e ampliamente pubblicizzato, su un appello in cui ad esso manifestano opposizione? Forse impedisce a numerose schiere di scettici, e nei confronti del vaccino e nei confronti del green pass (tra questi ultimi, permette di annoverare me stesso) di esprimersi tutti i giorni sui social, nei media e nelle televisioni?

L’appello si conclude con l’auspicio che

«si avvii un serio dibattito politico, nella società e nel mondo accademico tutto (incluse le sue fondamentali componenti amministrativa e studentesca), per evitare ogni penalizzazione di specifiche categorie di persone in base alle loro scelte personali e ai loro convincimenti, per garantire il diritto allo studio e alla ricerca e l'accesso universale, non discriminatorio e privo di oneri aggiuntivi (che sono, di fatto, discriminatori) a servizi universitari. Chiediamo pertanto che venga abolita e rifiutata ogni forma di discriminazione».


Sulla finalità dell’appello, specie laddove vuole ingenerare un dibattito serio, abbiamo già detto in apertura. Ci si permetta una considerazione polemica sulla chiusa dell’appello. Riteniamo, in particolare, di poter chiedere conto ai sottoscrittori, oggi così attivi contro «ogni forma di discriminazione», del loro silenzio relativamente alle vergognose vicende occorse nel febbraio del 2021 quando, in via prioritaria rispetto a persone che più ne avrebbero avuto bisogno, il personale universitario di alcune regioni riceveva la prima dose del vaccino anti-covid, pur continuando con la didattica a distanza. Forse che anche quella non era una forma di discriminazione, peraltro totalmente irragionevole viste le circostanze?

Ci si permetta di concludere ricordando una cosa. È condivisibile l’intento dei sottoscrittori di superare un dibattito fortemente ideologizzato. Del resto, la polarizzazione del dibattito pubblico sul tema del green pass e sull’eventualità dell’introduzione di un obbligo vaccinale sta raggiungendo livelli insopportabili. Le conseguenze, a breve e a lungo termine, di questo modo di procedere sono state esposte in una riflessione grandemente interessante pubblicata sull’edizione domenicale del Foglio da Alberto Mingardi e Gilberto Corbellini.

Nondimeno, riteniamo che il modo attraverso cui questo intento è stato portato a termine nell’appello qui preso in considerazione sia completamente deleterio. È inaccettabile che, per sostenere una posizione politica, del tutto legittima, si debba ricorrere all’uso di falsità e di errori metodologici da parte di persone quali i docenti universitari che, si ritiene, dovrebbero essere più d’ogni altro attente al sano svolgimento del dibattito pubblico, scevro da qualsiasi tipo di strumentalizzazione.

Concludo ribadendo che non ho mai messo in dubbio il rispetto umano, prima ancora che accademico, per coloro che in buona fede hanno sottoscritto questo appello. Con alcuni di loro in passato ho condiviso altre battaglie, e spero di farlo anche in futuro.

Ma questo appello è davvero grottesco.

 

 


[1] Basti qui citare ancora una volta la sentenza n. 5 del 2018, nella quale la Consulta ha individuato sulla base di una costante giurisprudenza costituzionale i tre requisiti che una legge deve avere per poter imporre un trattamento sanitario obbligatorio. Si rimanda, per approfondire, alla lettura del testo della sentenza disponibile qui

[2] Vedasi la spiegazione del professore di Diritto dell’Unione europea, Antonino Alì: http://www.dirittoue.info/2007/10/15/considerando/

Indietro
  • Condividi