Jimmy Carter: ascesa e caduta di un Presidente unico

Dalla tutela dei diritti umani nel mondo all’inasprimento della Guerra Fredda: un bilancio delle principali sfide affrontate dalla presidenza di Jimmy Carter. Fu davvero “history’s greatest monster” o la sua figura merita una rivalutazione dopo decenni di critiche?

Negli Stati Uniti, il dibattito su cosa renda un Presidente “buono” e “forte” o “cattivo” e “debole” va ben oltre la semplice appartenenza politica. Repubblicani o democratici poco importa: il ricordo collettivo, spesso intriso di leggende e luoghi comuni, sembra definire chi entra nell’Olimpo dei leader e chi viene relegato tra i fallimenti storici. Questo giudizio, più che su analisi approfondite, si basa su un misto di impressioni, nostalgie e racconti tramandati che attraversano le generazioni. Sembrerà una questione sciocca, ma questo sentire comune, che in America è molto presente, spesso tende ad influenzare per decenni la percezione di un gran numero di persone non esperte di politica fino a miscelare irrimediabilmente i fatti con le narrazioni.

Prendiamo Dwight D. Eisenhower: per molti americani, è un nome che ispira fiducia bipartisan. L’ex generale e Presidente è celebrato come un leader stabile, uno di quelli che sapeva “fare le cose giuste” senza suscitare troppe polemiche. Sotto i suoi otto anni di presidenza, il Paese sperimentò un periodo di notevole crescita economica. Poi c’è John F. Kennedy, il cui mito, amplificato dalla sua tragica fine, spesso oscura le ombre del suo operato – dall’escalation in Vietnam alla crisi cubana. Anche i molti meriti legati alle politiche sui diritti civili degli afroamericani furono successi attribuibili più a Lyndon B. Johnson che a JFK. Persino Ronald Reagan, divisivo per molti progressisti, è ricordato da una larga fetta della popolazione come un simbolo di forza e prosperità, l’uomo che ha messo fine alla Guerra Fredda senza cedere alle pressioni dell’Unione Sovietica, ribattezzata da quest’ultimo “the evil empire”.

Ma non tutti i presidenti finiscono sotto i riflettori dorati del consenso popolare. Harry S. Truman, per esempio, ebbe la sfortuna di succedere a Franklin D. Roosevelt, una figura quasi divina agli occhi degli americani. Il confronto fu spietato, e Truman venne percepito come un pallido erede, nonché responsabile dell’utilizzo dei due ordigni sviluppati dal Progetto Manhattan. George W. Bush, invece, ha visto la sua reputazione crollare dopo l’euforia patriottica post-11 settembre, diventando sinonimo di conflitti interminabili e decisioni discutibili se non addirittura criminali. Jimmy Carter, l’ex-Presidente venuto a mancare lo scorso 29 dicembre all’età di cento anni, compare anch’egli nella lista – nella Wall of Shame.

Come spesso accade, la celebre serie TV The Simpsons riesce a cogliere con sorprendente lucidità il sentire dell’opinione pubblica americana, regalandoci una scena memorabile. Durante l’inaugurazione di una statua dedicata al Presidente Carter (scelta economica, visto che quella di Lincoln era fuori budget), la folla reagisce con rabbia e disprezzo: fischi, sassi e bottiglie piovono sul monumento, mentre il sindaco, deluso e preoccupato per la propria sicurezza, viene scortato via in fretta. Sulla base della figura recita la scritta “malaise forever” (malessere per sempre). A sigillare il momento, uno degli abitanti di Springfield si rivolge alla statua e grida: “He’s history’s greatest monster!”.

Jimmy Carter, 1 maggio 1978. Fonte: Wikimedia Commons

L’ex governatore della Georgia è spesso ricordato in modo poco lusinghiero per una serie di episodi che hanno segnato la sua presidenza. Tra questi, il presunto “regalo” del Canale di Panama a “some tinhorn dictator,” il modo in cui Reagan definì sarcasticamente il leader panamense Omar Torrijos; l’apparente impotenza di fronte alla rivoluzione iraniana; una gestione inefficace del secondo shock petrolifero e il dramma degli ostaggi americani a Teheran. Nonostante una straordinaria carriera post-presidenziale come attivista per i diritti umani, culminata con un Nobel per la pace, Jimmy Carter rimane per molti una persona ammirevole, ma un pessimo Presidente. Eppure, il tempo può essere più clemente del giudizio immediato e la figura di Carter potrebbe emergere sotto una luce diversa. Mentre l’attualità scivola nella storia e gli archivi si aprono, emergono nuovi spunti di riflessione ed i politologi iniziano a dibattere con maggior cognizione di causa. La presidenza Carter, un breve intermezzo tra otto anni di conservatori (Nixon e Ford) e dodici di new right (Reagan e Bush Sr.), fu davvero così disastrosa? Quanti dei suoi presunti errori furono gonfiati dall’opinione pubblica del momento? Quanti successi furono ignorati perché non si adattavano alla narrativa dominante? Forse, più che un “mostro della storia,” Carter è stato, almeno in parte, una vittima della sua epoca: un Presidente maledetto.

Un outsider alla Casa Bianca

Che Jimmy Carter fosse un outsider alla Casa Bianca è un’idea su cui pochi dissentirebbero, come osservò anche la politologa Betty Glad. La sua figura strideva con quella del tipico Presidente chiamato a rappresentare la superpotenza mondiale, una nazione responsabile di oltre un quarto del PIL globale. Carter era un uomo profondamente religioso, un “born again Christian” battista, ex coltivatore di arachidi: un profilo in netto contrasto con le élite politiche di Washington. Gli anni Settanta, però, furono un’epoca particolare. I repubblicani stavano pagando il prezzo salato dello scandalo Watergate, e la decisione di Gerald R. Ford di ricandidarsi nel 1975 era stata accolta con scetticismo dalla crescente corrente della “new right”, capeggiata da Ronald Reagan. Quest’ultimo, pur non riuscendo a battere Ford alle primarie, si avvicinò pericolosamente a un risultato storico, indebolendo ulteriormente il Presidente uscente in vista delle elezioni presidenziali del 1976. Dall’altra parte, nemmeno i democratici navigavano in acque tranquille. L’ombra del Vietnam continuava a gravare sul partito, che portava sulle spalle il peso dell’ingresso in guerra già deciso da JFK e proseguito da LBJ. Inoltre, il progressivo distacco degli elettori del Sud, irritati dalle politiche antisegregazioniste delle ultime presidenze democratiche, aveva eroso la base elettorale tradizionale del partito.

In questo clima di disillusione e tensioni, il successo di Carter assume contorni più comprensibili. Prima alle primarie e poi contro Ford, Carter fu percepito come l’uomo giusto per rompere con un establishment che veniva da molti percepito come corrotto e compromesso. L’ex governatore della Georgia si presentava come un uomo del Sud capace di difendere gli interessi economici della regione, ma senza il bagaglio xenofobo e segregazionista che aveva caratterizzato la quasi totalità dei democrats meridionali fino a quel momento. Anzi, durante il suo mandato da governatore, aveva dimostrato una sorprendente determinazione contro la segregazione razziale, arrivando persino a tollerare la reintroduzione della pena di morte per ottenere maggiore libertà d’azione in questo campo. La questione afroamericana in Georgia, infatti, rimaneva un problema ben lungi dall’essere risolto, anche dopo il civil rigths act.

Questa sua capacità di tenere insieme anime diverse del partito fu determinante. Carter ottenne il sostegno dei democratici del Sud, conquistò la costa atlantica e parte del Midwest grazie a una campagna vincente in Iowa e al suo appeal presso la classe operaia. Altri fattori, però, contribuirono al risultato finale: la sua presa di distanza dalla guerra in Vietnam, posizione tutt’altro che plebiscitaria tra i democratici, riportò a casa gli elettori di sinistra, mentre la debolezza di Ford, minato dall’ascesa di Reagan, dalla crisi economica causata dal primo shock petrolifero e dai limiti delle politiche estere di Kissinger, gli aprì la strada. La vittoria di Carter, tuttavia, non si spiegava solo con le circostanze elettorali. A renderlo davvero unico tra i presidenti dell’era della Guerra Fredda fu la sua visione di politica estera, centrata non unicamente sul confronto ideologico con l’URSS ma sulla difesa dei diritti umani: un approccio radicalmente diverso per un’America che si riscopriva non più così egemone e in cerca di nuovi equilibri.

Dibattito Carter vs Gerald Ford, 23 settembre 1976. Fonte: Wikimedia Commons

Jimmy Carter e la Policy Aimed at Human Rights

Nel caso sia sfuggito al lettore distratto: Jimmy Carter non fu mai un politico tradizionale, e questo si riflette chiaramente nella sua visione dei diritti umani come asse portante della politica estera americana. Il 39° Presidente degli Stati Uniti cercò di trasferire i suoi valori morali nella gestione del Paese, mantenendo però un equilibrio che evitasse derive reazionarie. Certo, il suo approccio può essere definito decisamente moralista o paternalista, ma era guidato da una sincera convinzione che gli Stati Uniti avessero una responsabilità morale nel promuovere la giustizia globale. Ciò venne traslato sia in materia di politica interna tanto quanto in quella estera. Durante la campagna del 1976, Carter chiarì il suo punto di vista affermando: “You can’t legislate morality.” Un messaggio chiaro: anche un Presidente battista non avrebbe ostacolato i diritti già acquisiti, come quello all’aborto.

L’impegno di Carter sui diritti umani non fu semplice idealismo, come avremo modo di vedere a breve. Era una strategia ponderata, nata dalla sua visione eccezionalista e globalista di matrice profondamente cristiana, che vedeva negli Stati Uniti un faro per il resto del mondo. Tuttavia, tradurre nella pratica questa visione “neo-wilsoniana” si rivelò tutt’altro che facile, soprattutto con due figure forti al suo fianco: Zbigniew Brzezinski, Consigliere per la Sicurezza Nazionale, e Cyrus Vance, Segretario di Stato. I due erano complementari, certo, ma anche spesso in conflitto, tant’è che Vance lamentò spesso un’invasione di campo da parte del collega, anche perché Brzezinski, rispetto a lui, aveva un rapporto personale più forte con il Presidente.

Da una parte, Vance condivideva l’approccio “soft” di Carter, credendo in un proseguimento della distensione con l’Unione Sovietica, pur mettendo i diritti umani al centro della politica estera. Questo significava, ad esempio, evitare interferenze dirette in Paesi dove erano attivi movimenti di ispirazione socialista apparentemente indipendenti come i sandinisti in Nicaragua. Questa visione politica veniva esercitata soprattutto a “colpi” di diplomazia e soft power e non tramite intrusioni militari e dei servizi segreti negli affari domestici di nazioni sovrane. Dall’altra parte, Brzezinski – nato a Varsavia e figlio di un diplomatico che visse l’oppressione sovietica – non poteva permettersi illusioni: la distensione era, ai suoi occhi, un rischio. Preferiva un approccio più duro e pragmatico per contenere l’URSS. Le loro tensioni rappresentavano due facce della stessa medaglia, con Carter nel mezzo a cercare di bilanciarle.

Ma parlare di diritti umani non significava per Carter limitarsi a belle parole. Un esempio concreto della sua politica fu la negoziazione del nuovo trattato sul Canale di Panama, una questione spinosa che da decenni attendeva una soluzione. La presenza americana nella Zona del Canale era ormai vista come anacronistica e coloniale, non solo dai panamensi ma anche dalla comunità internazionale. Risolvere questa situazione offriva agli Stati Uniti un’occasione d’oro per rilanciare la loro immagine globale, dimostrando che erano pronti a voltare pagina rispetto al passato. Non solo. Una risoluzione pacifica avrebbe anche prevenuto un’escalation di terrorismo panamense anti-USA nella Zona del Canale. Per Washington, infatti, la minaccia principale al Canale non proveniva dall’esterno, ma dall’interno.

Carter capì subito che il successo di questo trattato avrebbe avuto ripercussioni ben oltre Panama. Come sottolineava un memorandum di Vance nel 1976, “ciò che faremo o non faremo rispetto alla negoziazione di un nuovo trattato sarà osservato con grande attenzione in tutta l’America Latina. Dal punto di vista sia della sicurezza sia del continuo funzionamento regolare del Canale, credo sia necessario lavorare a un nuovo trattato che sia accettabile per i panamensi. [...] [D]obbiamo compiere lo sforzo di negoziare un simile trattato se vogliamo sviluppare relazioni adeguate con l’America Latina.” Rispondere alle richieste panamensi senza compromettere gli interessi statunitensi avrebbe rappresentato un messaggio chiaro: gli Stati Uniti erano ancora una “forza di leadership creativa” sul piano globale. Con Panama, Carter mostrò che era possibile perseguire gli interessi nazionali senza calpestare la sovranità altrui come era invece drammaticamente accaduto alcuni anni prima in Cile. Ciò indicò la strada per un nuovo modo di intendere le relazioni tra Stati Uniti ed America Latina.

In Medioriente, allo stesso modo, Carter riuscì in un’impresa più unica che rara: nell'autunno del 1978, la residenza presidenziale di Camp David, nel Maryland, ospitò un cruciale vertice tra Carter, il Premier israeliano Menachem Begin ed il Presidente egiziano Anwar Al-Sadat. Per 13 giorni, lontano dai riflettori, i leader discussero le questioni più spinose del conflitto arabo-israeliano: la restituzione del Sinai all'Egitto, la definizione dell'autonomia palestinese, e il futuro degli insediamenti israeliani nei territori occupati. Il confronto fu estenuante, con momenti di stallo e il rischio concreto di un fallimento totale.

I due leader mediorientali ebbero pochissimi scambi diretti; fu Carter, con il supporto di Vance e Brzezinski, a orchestrare una delicata mediazione tra le parti. Begin, sorpreso dalle richieste dettagliate degli egiziani, tentò di mantenere il dialogo su un piano vago, ma né Carter né Sadat erano disposti ad accettarlo. In un momento di sconforto, Sadat minacciò di abbandonare il vertice, ma Carter riuscì a convincerlo a restare. Nonostante le tensioni e i frequenti momenti di stallo, si trovò un compromesso: due trattati separati. Uno sanciva la pace tra Israele ed Egitto, mentre l’altro proponeva un quadro per affrontare la questione palestinese, che però rimase largamente irrisolta. Israele accettò di ritirarsi dal Sinai, evacuando 15.000 coloni, mentre l’Egitto riconobbe ufficialmente lo Stato di Israele, divenendo il primo paese arabo a farlo. Gli Stati Uniti promisero aiuti economici ai due paesi, consolidando un fragile equilibrio regionale.

Le inevitabili contraddizioni di Carter

La triplice stretta di mano nella firma del trattato di pace tra Israele ed Egitto, 26 marzo 1979. Fonte: Wikimedia Commons

Le contraddizioni in politica non sono un’eccezione, ma una costante. Nessun leader, nemmeno con le migliori intenzioni, può essere sempre coerente o pienamente efficace. Elogiare la coerenza assoluta, specialmente in politica, è un esercizio sterile. Anche la presidenza Carter si trovò spesso di fronte a scelte in cui la decisione più giusta e quella più efficace non coincidevano, o dove la distinzione tra le due non era affatto chiara. Carter, in particolare, dovette affrontare dilemmi in cui la tutela dei diritti umani poteva configurarsi come un obiettivo a breve termine o, al contrario, richiedere sacrifici immediati per ottenere risultati nel lungo periodo.

La relazione degli Stati Uniti con la Cina mainland è una dimostrazione chiave di come Carter bilanciò principi e pragmatismo esponendo il fianco a potenziali critiche. Nel 1979, riconoscere il governo della Repubblica Popolare Cinese a scapito di Taiwan – processo già in atto durante l’amministrazione Nixon – rappresentò una svolta epocale. Nonostante la Cina di Deng Xiaoping fosse lontana dall’essere un Paese liberale, Carter scelse di guardare al lungo termine. Tale scelta si basava non solo su considerazioni strategiche della Guerra Fredda, ma anche sull’accettazione della realtà: continuare a riconoscere un’isola come legittimo governo della Cina era anacronistico. Con il senno di poi, la normalizzazione delle relazioni con Pechino permise alla Cina di aprirsi economicamente e politicamente durante gli anni Ottanta, migliorando le condizioni sociali di milioni di persone, nonostante non possano essere ignorate alcune tragedie come il massacro di Piazza Tiananmen. L’approccio di Carter non fu privo di ingenuità, ma la “one country, two policies” adottata dagli Stati Uniti dimostra come fosse possibile preservare interessi e valori simultaneamente.

(Ri)tornando al contesto latino-americano, i trattati sul Canale di Panama rappresentano un esempio emblematico delle sfide di una politica estera improntata sui diritti umani. Firmati con Omar Torrijos, un dittatore, i trattati restituirono il controllo del Canale a Panama. Le critiche furono immediate: cedere un’infrastruttura strategica, costruita e finanziata dagli Stati Uniti, a un regime autoritario? E, per giunta, pagare compensazioni economiche che avrebbero in parte finanziato guerriglie socialiste in America Latina, come i ribelli contro il regime di Carlos Humberto Romero in El Salvador. Tuttavia, nel lungo periodo, Panama beneficiò di una straordinaria crescita economica e sociale, dimostrando che le decisioni di politica estera vanno valutate con una prospettiva temporale ampia, evitando giudizi affrettati dettati dall’attualità.

Non mancarono, però, i fallimenti. In Nicaragua, la scelta di interrompere il sostegno al regime di Somoza favorì l’ascesa dei sandinisti di Daniel Ortega. Pur evitando interventi diretti, Carter si assunse la responsabilità di “abbandonare” un dittatore alleato, accettando l’ascesa di una leadership inizialmente ben vista da gran parte della popolazione. Intervenire contro Ortega avrebbe significato perpetuare la tradizione statunitense di ingerenza in America Latina, una pratica che l’amministrazione Carter scelse di abbandonare, ma che tornò sotto i successivi governi repubblicani. A differenza di Panama, però, la scommessa con il Nicaragua fallì. Ortega si rivelò nel tempo un dittatore altrettanto sanguinario della famiglia Somoza, senza però il “vantaggio” di essere un alleato degli Stati Uniti.

Carter e Anwar Sadat a Camp David, 5 settembre 1978. Fonte: Wikimedia Commons

La morte politica di Carter

Gli ultimi due anni di presidenza Carter, segnati dalla decisione di non intervenire militarmente in Iran dopo la rivoluzione islamica, hanno aperto interrogativi di lungo periodo: questa scelta favorì l’invasione sovietica dell’Afghanistan? Col senno di poi, l’assenza di intervento diretto in Afghanistan può essere vista come una mossa prudente, considerando gli esiti disastrosi delle successive operazioni militari statunitensi nella regione a partire dal 2001-2002. Tuttavia, il contesto della Guerra Fredda richiedeva dimostrazioni di forza, e molti criticarono Carter per la sua apparente debolezza. La coerenza dei suoi principi, se da un lato lo avesse reso fedele a una visione antimilitarista, dall’altro lo avrebbe esposto al rischio di prevedibilità. Una politica troppo rigidamente ancorata a valori chiave, pur nobili, lo rese vulnerabile alle azioni dei competitor, come l’URSS, che ne intuivano le reazioni e ne sfruttavano la prevedibilità per i propri fini strategici. Carter fissò paletti morali che, pur elevati, finirono per limitarlo in scenari complessi, dove la flessibilità e l’imprevedibilità possono essere decisive. È possibile dunque che l’Unione Sovietica, la quale aveva avuto modo di “testare” la presidenza Carter durante i colloqui che portarono al fallimentare accordo SALT II, avesse deciso di mettere alla prova il suo anti-interventismo.

A tutto questo si aggiungono due questioni cruciali che contribuirono alla rovina di Carter presso l’opinione pubblica: la crisi economica seguita al secondo shock petrolifero e il fallimento della missione segreta per liberare gli ostaggi dell’ambasciata americana a Teheran. Nel primo caso, Carter fu ritenuto parzialmente responsabile, poiché lo shock petrolifero ebbe origine dalla rivoluzione iraniana, durante la quale gli Stati Uniti non fornirono un supporto decisivo allo Shah. Inoltre, gli si attribuì una gestione inefficace della crisi e l’incapacità di risolvere la stagflazione, fenomeno che caratterizzò l’intero decennio. Tuttavia, la percezione di queste problematiche è stata e rimane influenzata dal sentire comune. In realtà, un’analisi approfondita delle politiche economiche della presidenza Carter, del ruolo della Federal Reserve e dei dati macroeconomici – spesso più positivi rispetto a quelli della successiva presidenza, celebrata invece come un successo economico – meriterebbe un approfondimento a parte.

Meno difendibile fu il fallimento dell’Operazione Eagle Claw, condotta dalla Joint Task Force della US Navy per salvare gli ostaggi a Teheran. La cronaca della missione, rocambolesca e quasi surreale, rappresentò la goccia che fece traboccare il vaso della credibilità del Presidente e dei servizi segreti, già messa in discussione dalla mancata rilevazione di una brigata sovietica stabile a Cuba fino al 1979. A peggiorare l’immagine di Carter contribuì il fatto che gli ostaggi furono liberati poche ore dopo l’insediamento di Reagan, nonostante fosse stata l’amministrazione Carter, dopo mesi di negoziati, a ottenere la loro liberazione. Il successo mediatico di Reagan oscurò il ruolo di Carter, sebbene sei diplomatici fossero stati messi in salvo già in precedenza grazie a un’operazione congiunta tra il governo canadese e la CIA.

La visione della leadership sovietica come militarmente forte e strategicamente minacciosa, promossa da un sempre più influente Brzezinski, spinse gli Stati Uniti ad adottare una linea dura. Questa percezione si rivelò in parte errata, poiché l’intervento sovietico in Afghanistan, letto dagli americani come dimostrazione di forza imperiale, fu in realtà più un segno di insicurezza sovietica. In ogni caso, per l’opinione pubblica l’immagine del Presidente era ormai segnata. Definire Carter come il primo Capo di Stato statunitense “post-Guerra Fredda” per via della sua attenzione ai diritti umani manca di prospettiva storica. Sebbene i diritti umani abbiano assunto maggiore rilevanza dopo la Guerra Fredda, durante la presidenza Carter essi furono utilizzati come strumento nel confronto bipolare. Egli non cercò di concludere la Guerra Fredda, ma di innovarla, tentando di conciliare tendenze emergenti e tradizionali.

La presidenza Carter resta un capitolo complesso e sfaccettato della storia americana, spesso ridotto a una narrativa di fallimenti e incoerenze. Tuttavia, una rilettura più equilibrata evidenzia l’ambizione di una politica estera che, pur soffrendo di limiti strategici e di comunicazione, cercò di bilanciare pragmatismo e valori morali in un contesto globale di instabilità. Sebbene la sua leadership sia stata criticata per debolezza, molte delle sue iniziative, dal trattato sul Canale di Panama agli accordi di Camp David, hanno avuto un impatto positivo duraturo. Carter, più che un “history’s greatest monster,” potrebbe essere ricordato come un Presidente che tentò di cambiare le regole del gioco, pagando però il prezzo delle contraddizioni e delle resistenze del suo tempo.

Ti è piaciuto questo articolo? Supporta la nostra associazione: associati oppure effettua una donazione.
Il tuo sostegno è per noi importante!

DONA ORAASSOCIATI

Indietro

"Una guerra che non vogliamo": le relazioni anglo-americane durante la guerra di Corea

di M. Salvemini

La guerra di Corea non rappresentò solo il primo grande conflitto che sorse nel contesto della…

Macron (non) è Napoleone

di L. Campisi

Macron è un europeo al servizio del Continente e un leader a cui tendere la mano

Ma questi 800 miliardi in armi sono davvero 800 miliardi?

di C. De Blasi

E davvero queste risorse ne toglieranno altre a sanità, istruzione ecc. come dice Conte? Spieghiamo

Questo sito web utilizza i cookie

Utilizziamo i cookie per personalizzare i contenuti e gli annunci, fornire le funzioni dei social media e analizzare il nostro traffico. Inoltre forniamo informazioni sul modo in cui utilizzi il nostro sito ai nostri partner che si occupano di analisi dei dati web, pubblicità e social media, i quali potrebbero combinarle con altre informazioni che hai fornito loro o che hanno raccolto in base al tuo utilizzo dei loro servizi.