Alcune affermazioni poco ortodosse in merito al debito pubblico italiano, rilasciate di recente da Marco Fortis, sono state riprese e utilizzate da diversi esponenti politici di centrodestra come base per avventurarsi in celebrazioni magniloquenti dell’operato del governo Meloni.
In questo articolo spiego brevemente perché queste tesi sono in contrasto con gli elementi di base della teoria economica sulla finanza pubblica e chiarisco perché i rating assegnati agli stati sovrani non sono influenzati dalle narrazioni dei comunicatori o dal pessimismo dei cittadini, come argomentato dai sostenitori del governo in carica.
Fortis parte dalla constatazione che il debito pubblico francese è, in valore assoluto, più elevato di quello italiano e afferma che, la sostenibilità dei debiti dei due paesi andrebbe valutata concentrandosi su questo elemento e, in particolare, sulla quota di debito detenuta dagli stranieri.
Nel cercare di affermare la rilevanza della dimensione del debito pubblico in valore assoluto, viene anche indirettamente criticato l’utilizzo del rapporto debito/PIL, da parte delle istituzioni europee e delle agenzie di rating, senza tuttavia fornire spiegazioni di dettaglio e limitandosi a menzionare in modo aneddotico il Giappone che ha storicamente registrato un valore molto elevato di questo rapporto e la Grecia, che secondo questa linea di pensiero sarebbe stata penalizzata da una quota eccessiva di debito in mani straniere.
In quest’ottica, l’Italia sarebbe ingiustamente penalizzata in termini di rating e di costo del debito e vittima di una comunicazione istituzionale autolesionista e dell’eccessivo pessimismo dei suoi cittadini. Inoltre, la maggiore quota di debito pubblico detenuta dagli italiani rispetto ai francesi sarebbe un “elemento di forza”.
Perché nessuno (a parte i sostenitori del governo Meloni) sembra interessato al valore del debito pubblico in termini assoluti?
Proviamo a chiarirlo con un esempio riferito a due individui, Tizio e Caio. Se Tizio ha un mutuo residuo di 100mila euro e Caio uno da 120mila, possiamo dire che il secondo si trovi in una posizione peggiore, che sia un debitore più rischioso o che, in altri termini abbia una probabilità maggiore di non riuscire a restituire quanto deve?
No, non possiamo dirlo, perché non disponiamo di informazioni sufficienti. Se per esempio Tizio guadagnasse 1000 euro al mese e Caio 3000, con questa informazione aggiuntiva sembrerebbe abbastanza intuitivo che il debito da 120mila, detenuto da una persona che guadagna 3000 euro al mese sia più sostenibile di uno da 100mila, detenuto da una persona che guadagna 1000 euro al mese.
La realtà è ovviamente più complessa, tuttavia il semplice esempio proposto aiuta a comprendere perché le agenzie di rating, e gli investitori professionali interessati a valutare il debito pubblico di uno stato sovrano non guardino allo stock al valore assoluto, ma si concentrino su una misura relativa fornita dal rapporto tra il debito pubblico e il PIL. Incidentalmente, possiamo rilevare che l’Italia è in una posizione peggiore rispetto a tutti gli altri paesi europei, esclusa la Grecia, se si guarda al rapporto tra debito e PIL.
Cosa ha che fare il debito assoluto con la sostenibilità?
Non è possibile discutere in dettaglio questo aspetto perché le affermazioni di Fortis non lo spiegano, limitandosi a lasciar cadere un riferimento sul Giappone (che ha da molti anni un rapporto debito/pil elevato, ma non desta preoccupazione) e uno sulla Grecia (che sarebbe stata fortemente penalizzata dalla elevata quota di debito in mani straniere) lasciando intendere che una quota elevata di debito pubblico in mani straniere costituisca un elemento di debolezza e di fragilità.
La maggioranza delle ricerche svolte sul tema (qui una breve rassegna) concorda sul fatto che la sostenibilità del debito giapponese sia legata alla solidità dell’economia che esprime un tasso di crescita (anche se non molto elevato) superiore al costo medio del debito.
A questo proposito, tuttavia, si potrebbe dire che dal punto di vista della teoria economica e del senso comune le tesi di Fortis invertano il nesso di causa effetto tra sostenibilità e debito detenuto da non residenti.
Non è lo stato emittente che ha il potere di decidere quanta parte del proprio debito possa finire in mani straniere: in circostanze ordinarie, sono gli investitori (residenti e non) ad acquistare titoli emessi da uno stato sovrano solo dopo averne valutato la sostenibilità e il grado di rischio. Non a caso gli emittenti che non vengono reputati credibili, anche perché per esempio presentano un rapporto debito/pil troppo elevato, ma più in generale, perché presentano un rischio troppo elevato di riuscire a onorare i propri impegni, perdono l’accesso al mercato e necessitano del soccorso di fondi salva stati come IMF e ESM.
In quest’ottica, si potrebbe affermare che, al contrario di quanto sostenuto da Fortis, la presenza di una quota di debito pubblico in mani straniere è un segnale di forza, perché vuol dire che investitori non residenti hanno dimostrato di avere fiducia nella solidità della nazione che emette i titoli. Per converso, la necessità di piazzare il proprio debito presso i residenti e il tentativo esasperato di farlo anche con agevolazioni, campagne di marketing e retorica populista come avvenuto con il BTP Italia, potrebbero essere ragionevolmente intesi come un segnale di debolezza o di volontà di assicurarsi contro possibili future crisi di fiducia.
Per riassumere, le tesi in base alle quali il giudizio dei mercati e delle agenzie sul debito pubblico italiano e francese andrebbero invertite, si possono qualificare come eterodosse perché giungono a risultati diversi e in parte opposti rispetto alla teoria economica generalmente accettata e alle metodologie di quantificazione dei rischi di default considerate attendibili da organismi indipendenti come le agenzie di Rating e da tutti gli investitori istituzionali e privati che ogni giorno operano sui mercati finanziari.
Il motivo per cui nessun operatore professionale presta attenzione alla dimensione del debito in valore assoluto è che questo indicatore non consente confronti omogenei tra i diversi paesi e non contiene informazioni sufficienti per valutare la sostenibilità del debito.
Viceversa l’attenzione data dalle istituzioni e dagli operatori di mercato al rapporto debito/PIL e più in dettaglio alla sua evoluzione nel tempo è dovuta al fatto che questo indicatore consente confronti omogeni tra diversi paesi e che il rischio che questo rapporto cresca fuori controllo costituisce l’elemento alla base della definizione stessa di sostenibilità del debito pubblico.
Con buona pace dei proclami dei sostenitori del governo Meloni, e più in generale degli inguaribili ottimisti, che vorrebbero farci credere che una industria da migliaia di miliardi di dollari lascia che le proprie valutazioni in termini di rischio siano influenzato dalla comunicazione istituzionale (buona o cattiva che sia) e dalla propaganda politica, non esiste alcun elemento ragionevole per affermare che i rating attribuiti al debito francese e italiano siano ingiustamente penalizzanti per il nostro paese.
Pubblicato su Econopoly