Bolkestein! Riecheggiano nitriti.
Lo sbeffeggiamento ideologico, l’avvicendamento di proroghe e l’assoluta soggiogazione di un governo dopo l’altro nei confronti dell’argomento (e della lobby) “balneari” richiamano, perlomeno a livello di ironia drammatica e di totale assenza di serietà, il buon Igor che, divertito, ripeteva a pappagallo “Frau Blucher” nel capolavoro di Mel Brooks.
La questione non si limita al fatto specifico, bensì affligge tutta una serie di situazioni nelle quali l’interesse del proprio “retrobottega” va a discapito di consumatori ed imprenditori propensi a non rimanere ancorati all’arcaico sistema di valori concorrenziali del Bel Paese.
Partiamo dalla direttiva in sé. Conosciuta come Direttiva Bolkestein, la Direttiva 2006/123/CE riguarda la gestione dei servizi nel mercato interno dell’Unione Europea. La direttiva prende il nome dal Commissario europeo Frits Bolkestein che ai tempi ne fu promotore e sostenitore. I tre pilastri principali su cui si articola la direttiva sono:
A seguito della percezione della direttiva da parte dell’Italia nel 2010, il segmento delle concessioni balneari è stato subito fulcro di potenziale applicazione e, di conseguenza, di accese proteste, considerando la natura particolarmente anti-concorrenziale del settore.
La direttiva richiede infatti che i conferimenti ad uso di beni demaniali, le spiagge in questo caso, siano assegnati attraverso la messa a gara pubblica. Questo volge all’obiettivo di eliminare le posizioni dominanti e di rendita degli attuali gestori durate, in molti casi, per svariati decenni, oltre che sostenere ed aumentare la trasparenza nei confronti dei consumatori. Fino ad ora le concessioni pubbliche agli stabilimenti balneari, anziché essere assegnate tramite gare aperte e trasparenti, venivano prorogate periodicamente agli stessi proprietari. Considerando che il bene su cui i gestori lucrano appartiene, in quanto pubblico, a tutti, la criticità della situazione perpetrata fino a questo momento ha raggiunto livelli insostenibili. Senza tenere conto che spesso e volentieri, all’assegnazione del bando, non segue alcun tipo di investimento, nonché miglioramento, da parte dell’assegnato.
Elemento cardine di questa situazione dalle tinte assurde è l'influenza politica che questa lobby, in quanto considerevole bacino elettorale, esercita.
Indipendentemente dai rispettivi orientamenti politici, i governi italiani hanno infatti continuato a garantire proroghe sulle concessioni. Questo impressionante perpetuarsi di rinvii è persistito persino in seguito alle varie procedure d’infrazione avviate dalla Commissione Europea nei suoi confronti e alle sentenze del Consiglio di Stato.
Nello “Stivale” questo processo ha assunto, nei decenni, le sembianze di un travagliato matrimonio tra partigianerie.
Nel già lontano 1942 il Codice della Navigazione richiamava la necessità di assegnare i beni demaniali soltanto a chi ne avrebbe garantito l’utilizzo attraverso il compimento del cosiddetto interesse pubblico. Nel 1952 uno step successivo dichiarava l’obbligo di pubblicare le richieste di assegnazione nei rispettivi albi comunali/territorali.
La prima svolta tendente alla situazione attuale avviene nel 1992 con l’introduzione del “diritto di insistenza”; grazie a questo gli attuali gestori venivano prioritizzati nella nuova messa a gara delle concessioni e ne veniva disposto, salvo casi particolari, il rinnovo automatico ogni sei anni. Questo provvedimento spingeva quella che poi diventerà la prassi di un settore verso lidi arcaici di arretratezza e di barriere all’ingresso per investitori e nuova (e sana) concorrenza.
Il diritto di insistenza entra chiaramente in contrasto con la legislazione comunitaria e le istituzioni europee volte a sostenere la concorrenza, la trasparenza, l’equanimità e la protezione dei consumatori. La prima procedura d’infrazione viene infatti aperta nel 2009 e nel 2010 il diritto di insistenza viene revocato.
Nonostante ciò una serie di proroghe (addirittura nella legge di bilancio di 2018 si parlava di 31 Dicembre 2033), accompagnate da ulteriori messe in mora da parte della Commissione Europea, porteranno questa situazione ad assumere tinte comiche.
Fiero del suo populismo, il governo Meloni ha tentato più volte di remare contro le direttive europee, istituendo un comitato tecnico-consultivo con il compito di dimostrare la falsità dell’argomento sulla scarsità della risorsa spiaggia e dunque annullare l’applicazione della direttiva Bolkestein.
Un culmine pietoso viene raggiunto con la relazione del Settembre 2023 la quale, inflazionando le stime Istat sulla lunghezza delle coste italiane, aggiunge 2.200km agli 8.970km precedentemente confermati. Secondo questi calcoli la quota di litorale occupata da stabilimenti balneari sarebbe soltanto del 33%, ben al di sotto delle percentuali secondo le quali la direttiva andrebbe applicata. Questa stima, come sostenuto dalla Commissione che respinge le affermazioni del governo in carica, conteneva tra le aree disponibili anche superfici occupate da porti commerciali, zone industriali, aree marine protette e via discorrendo.
Ricordiamo che Legambiente stima, evidenziando comunque la mancanza di totale affidabilità e di aggiornamenti a riguardo, il totale delle coste basse occupato da concessioni attorno al 43%. Questo senza contare la presenza di spiagge inaccessibili per motivi di illegalità e inquinamento, sommando le quali, si arriva al circa 50,5% delle coste basse italiane. Alcune regioni, quali Emilia-Romagna, Liguria e Campania presentano oltre il 70% delle spiagge occupate.
Al termine dello scorso Aprile, il Consiglio di Stato ha finalmente annullato le deroghe fino al 31 Dicembre 2024 precedentemente concesse da alcune amministrazioni comunali, confermando la scadenza delle concessioni balneari al 31 Dicembre 2023. La sentenza segue i principi della Corte di Giustizia Europea, evidenziando da un lato la necessità di procedere una volta per tutte con gare competitive volte all’assegnazione dei territori demaniali e dall’altro, di risolvere il problema della scarsità della risorsa spiaggia.
Questa sentenza ha rilevanza significativa, essendo l'ultimo grado di giudizio nella giustizia amministrativa.
Nonostante le dimensioni ridotte di gran parte degli stabilimenti, con circa il 95% dei quali non arriva ad occupare 10.000m2, gli esercenti spesso collezionano più di una concessione.
Ma quello che è il principale vulnus quantitativo della questione è l’irrisorietà delle cifre pagate per l’assegnazione della concessione in relazione all’effettivo beneficio calcolato che ne ricavano.
Ricordiamo innanzitutto che sino al 2020 i canoni erano rimasti invariati dal 1989 (!). In secondo luogo, la logica sottostante la misurazione del minimo da pagare non risulta chiara e ha scatenato negli anni numerose critiche.
Uno studio dell’Osservatorio CPI suggerisce un calcolo per dimostrare l’entità di questo fenomeno. Riportiamo di seguito un esempio sulla falsa riga di quello appena citato, considerando il regime dei prezzi allora in essere nel 2021, ed utilizzando numeri e cifre a dir poco modeste.
Supponiamo di avere uno stabilimento con 80 postazioni, ognuna delle quali (ombrellone più sdraio) deve occupare per legge (secondo la normativa vigente) almeno 10m2 di superficie; la superficie totale della spiaggia è dunque di 800 metri quadri. Immaginiamo inoltre che il prezzo medio per postazione sia di appena 25€ al giorno e che lo stabilimento sia aperto per quattro mesi (da maggio ad agosto), riuscendo ad occupare in media il 50% delle postazioni nel periodo.
In questo caso, le 40 postazioni frutterebbero al gestore 61.000€ (40 ombrelloni per 25€ per 122 giorni). Dal lato costi per il gestore, utilizzando i canoni di concessione della spiaggia riportati dall’Osservatorio CPI, se lo stabilimento si trovasse in un'area di alta valenza turistica, il canone sarebbe di 2,78€/m2, mentre di 1,39 qualora in un’area a bassa valenza turistica. Facendo due calcoli (800m2 x 2,78 = 2.224€ nel primo caso e 800m2 x 1,39 = 1.112€ nel secondo) il canone complessivo da pagare nelle due ipotesi sarebbe ugualmente di 2.698,75€ considerando l’imposizione della misura minima del canone totale. Questo valore, sempre all’interno del nostro calcolo ipotetico, rappresenta circa il 4,42% dei ricavi.
Considerando i numeri a ribasso utilizzati nell’esempio si riesce perfettamente a cogliere l’essenza del problema.
Nel 2016 il DEF stimava a 103 milioni il gettito totale derivante dalle concessioni. Dai successivi DEF questo elemento addirittura scompare.
Scorporando dai circa 107 milioni di euro misurati dall’Agenzia sul Demanio nel 2022 i pagamenti relativi alla cantieristica e al diporto nautico, arriviamo a neanche 60 milioni di euro; se consideriamo il tasso di morosità scendiamo a circa 45 milioni. Citando l’Espresso, nel 2021 il Comune di Milano incassava 53 milioni di euro per il solo affitto dei negozi operanti nella galleria di Vittorio Emanuele.
I numeri parlano chiaro e tenendo presente che si tratta di oltre 4.000km di spiagge, magari neanche valorizzati e raramente soggetti a miglioramenti da parte degli stessi gestori, scappa veramente da ridere sentire ancora parlare i contestatori della temibilissima Direttiva Bolkestein di favoritismi verso le grandi imprese e di ingiustizia.
Alla vigilia dell’ennesimo sciopero nazionale dei taxi che si terrà il 21 Maggio, scrivere di balneari calza a pennello.
Stiamo parlando di due lobby ben distanti in termini di attività ma bensì accomunate da uno spirito che, come dicevo precedentemente, è tanto caro ad una certa fetta socio-culturale italiana. Una sorta di ritorno al feudalesimo, caratterizzato da favoritismi gerarchici, concorrenza sleale (o ancora meglio assenza totale di essa) e conflitto di interessi.
Ascoltavamo tempo addietro questo servizio dell’ennesimo ente mediatico che evidenziava come tra gli elementi principali di critica alla Direttiva Bolkestein vi fosse, ad esempio, il potenziale rischio che, come frutto della messa a gara delle concessioni balneari, una spiaggia sicula potesse finire “in mano ad una ditta svedese”. Si parla sempre di “sottrazione” e mai di merito. Di ingiustizia, violazione e mai di sana competizione. Di identità e mai di valore aggiunto. Come se al consumatore dovesse interessare in primis il fatto che la spiaggia sia gestita dal proprietario locale, che in alcuni casi non sviluppa e potenzia il territorio per decenni, e poi magari in secondo luogo che i servizi offerti siano quelli adeguati al prezzo da pagare.
Stare a specificare l’ovvia presenza, in qualsiasi percentuale si voglia ipotizzare, di gestori balneari o imprenditori che spezzano il trend verso il quale questo articolo tende a rivolgersi, risulterebbe totalmente fuorviante dato che, in un contesto di sano mercato concorrenziale e riconoscimento, tutti i nodi verrebbero al pettine.
Si torna sempre dove si è stati bene. All’Alpha Junior, ai formaggi obbligatoriamente nei menù dei ristoranti, al vino salutare o all’impero romano. Si torna sempre dove la messa in discussione di una produttività nazionale incagliata sotto i livelli degli anni ‘70 non esiste.
Il turismo come “petrolio italico”, quello invece piace tantissimo. Peccato che il valore aggiunto di questo settore, come dimostrano i dati di Banca d’Italia ad esempio, sia risibile. Inoltre, se quello che dovrebbe rappresentare uno dei principali vettori di questo segmento finisce per essere unicamente considerato come bacino di voti, la “mancetta” elettorale verrà sempre prioritizzata allo sviluppo economico e territoriale del Paese. E si torna da capo, all’ennesima lobby che sguazza a discapito di realtà più produttive.
Spendiamo queste ultime righe con la speranza che, a seguito della sopracitata sentenza del Consiglio di Stato dell’Aprile 2024, si volga finalmente verso l’applicazione della Direttiva Bolkestein e si possa tirare un amaro respiro di sollievo su uno dei tanti casi di settarismo italiani. La concorrenza porta con sé la necessità di ricercare il risultato attraverso il merito e la qualità. Questo aspetto cozza con gli esponenti e i votanti di un certo tipo di Italia capitanata dai Salvini, dai Conte, dai Berlusconi, dagli Urso, dai Lollobrigida, e via discorrendo.
Funziona sempre così. Tanto con i tassisti quanto con i trattori. Quanto ancora con i balneari.
L’adagiarsi nel proprio “giardinetto” è un lusso e quando bisogna avere a che fare con ciò che ne sta al di fuori, soprattutto se questo è anche più efficiente, investe e riesce a far fruttare maggiormente l’oggetto della sua attività, allora è sicuramente più comodo scendere in piazza a protestare senza proposte, in attesa della prossima proroga o favore del governo di turno.