LA GHEGA

di M. Ardemagni

Un hapax, per quanto mi riguarda. Una parola che ho sentito pronunciare da una sola persona, mio padre e in un solo contesto: i campi da sci.

Un hapax, per quanto mi riguarda. Una parola che ho sentito pronunciare da una sola persona, mio padre e in un solo contesto: i campi da sci.

Mio padre si era rotto una gamba quando avevo due anni, andando a sciare a Baselga di Piné. Il che lo aveva indotto ad appendere gli sci al chiodo. Mia madre aveva avuto le anche così ballerine da scoraggiare qualsiasi velleità sportiva, tranne il nuoto. I miei quindi non sciavano, ma mentre mia madre se l'era messa via, a mio padre era rimasta, evidentemente, quella sana voglia repressa di sci e quindi "ingrassa il figlio tuo di quel che ti è mancato" (cit. Alberto Fortis).

Nel corso dell'inverno in cui io avevo nove anni e le mie sorelle rispettivamente sette e cinque, venimmo dotati di attrezzatura sciistica "stato dell'arte". Nel mio caso si trattava di sci Fischer di legno, attacchi Tyrolia con modernissimi (per allora) sganci anteriori (a torsione) e posteriori (a trazione) e scarponi Nordica con interno di pelo di capretto. Negli anni a venire la dotazione si sarebbe fatta molto più scadente, ma la partenza fu col botto.

Il teatro dei miei primi scempi sciistici furono le ripide piste di Caspoggio, località della Valmalenco (Sondrio) i cui impianti di risalita sono stati chiusi nel 2013 e che allora prevedevano un approccio tramite una seggiovia monoposto antidiluviana a due tratte: la prima dal paese a Sant'Antonio (1337 metri slm), la seconda (il luogo più freddo fuori dai circoli polari) da Sant'Antonio a piazzo Cavalli (1777 metri) dove, davanti all'ampio self-service, si srotolava la cosiddetta "Pista baby" che, se non ricordo male, prevedeva la punzonatura di un solo buco sulla tessera a punti (quella rosa da ottanta o quella bianca da venticinque).

Mio padre, come detto, non sciava, ma si collocava a bordo pista, subito fuori dal self-service, in posa littoria, a valutare l'incerto esito delle lezioni del maestro Bruno Bruseghini sulle mie scarse doti atletiche (con gli anni sarei vagamente migliorato, più per abitudine che per talento, ma all'inizio facevo sincera pena). Nel corso dei primi tre anni di lezioni non ricordo di avere mai visto una sola volta mio padre soddisfatto del mio stile. A fine lezione mi indicava sempre qualche altro coetaneo che, a suo dire, sciava molto meglio. Ce n'era uno piccoletto, si chiamava tipo Alberto Tombolato (o qualcosa del genere) nomen omen, anche se allora non poteva saperlo, il quale era diventato la mia croce. All'epoca si portava molto la serpentina a scodinzolo, uno stile virtuosistico del tutto inutile sia in gara che per diporto, ma che faceva molta presa sulle ragazze e su mio padre. 

Io non riuscii mai ad apprenderlo come si deve. Lo stesso maestro si rifiutava di insegnarmelo non so se per manifesta inferiorità (la mia) o perché lui stesso lo riteneva una baracconata inutile e così si limitava a sfinirmi con esortazioni “peso a valle".

Mio padre invece, ancora con la carogna della frattura di Baselga, sbavava dietro a quelle serpentine e mi invitava a seguire l'esempio del Tombolato e a dare "la ghéga". Faceva pure il gesto, con il colpo d'anca, sbraitando a bordo pista, facendomi sentire ancora peggio dello sciatore infame che ero. Il secondo anno una volta imboccai per sbaglio la “Pista del sole" (rossa) che era la naturale prosecuzione della baby, rimanendo fermo per svariati minuti, per il terrore del pendio, contro l'unico pinetto rimasto in piedi a centro pista. Ma questo sarà oggetto di un altro post, casomai. Resta il fatto che da allora la parola ghéga mi risuona in testa, ma non ho mai capito se qualcun altro l'abbia usata oltre a mio padre. Per rispetto nei suoi confronti non ho nemmeno googlato per controllare, prima di scrivere questo. 

Un giorno durante la lezione iniziai a guaire per il dolore ai piedi. La sensazione era quella di un grave congelamento. Il maestro Bruseghini rimase stupito, poi mi portò da mia madre e mi fece togliere gli scarponi. Dentro ai Nordica già foderati di pelo di capretto, vennero estratti due piedi (i miei) non in grado di compiere alcun movimento e che erano avvolti dai seguenti strati partendo dall'esterno ed ignorando il succitato pelo: 1) un calzettone di lana da alpinismo; 2) una calza di lana leggera da città; 3) una calzamaglia di cotone; 4) uno strato di pelle umana violacea (la mia). Il maestro fece gentilmente notare alla solerte genitrice (e feet stylist) che la compressione del piede da eccesso di strati l’avrebbe potuto portare alla cancrena nel giro di poche ore e invitò mia madre, vista anche la dotazione dello scarpone, a limitarsi, nei giorni successivi, a farmi indossare la calzamaglia. 

Poi qualcuno si chiedeva perché non facessi la ghéga.

PS: più giù della Pista baby c'era la Pista del sole, più su c'era invece la Vanoni/Dosso dei Galli, pista nera con uno skilift da paura con pendenza fino al 68%. Fu su quella pista che 7-8 anni dopo tutte quelle umiliazioni, limonai per la prima volta, ma a quell'epoca facevamo già i fuoripista quasi verticali proprio fianco allo skilift “in piedi”. Quella volta, ai piedi della pista, ad aspettarmi nello stesso punto dove anni prima stazionava mio padre, c'era la madre della mia amichetta: qualcuno aveva fatto la spia, ma anche di questo parliamo un'altra volta.

 

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