La rielezione di Trump alla presidenza degli Stati Uniti d’America getta pesanti ombre sul futuro del commercio mondiale.
Uno dei pochi pregi che caratterizzano i leader isolazionisti è la chiarezza del loro linguaggio e, nel caso di Trump, quello dei dazi è uno dei pochi ambiti dove la violenza della sua retorica ha trovato una concreta attuazione che, se in passato ha riguardato la Cina, oggi finirebbe non più col colpire solo lei, ma bensì anche l’Unione Europea.
Con risultati non certamente buoni né per noi, né per gli Stati Uniti stessi.
Fatta eccezione per il 2020 a causa del COVID, i dati forniti dall’Istat(1) ci indicano un interscambio fra Italia e Stati Uniti in crescita e a nostro favore:
Più della metà dell’export 2023 proviene da Lombardia (14,3 miliardi di euro), Emilia-Romagna (10,4 miliardi) e Toscana (9,1 miliardi), con la seguente composizione merceologica:
con i primi tre settori (macchinari, farmaceutici e autoveicoli) in crescita da anni.
Questa crescita positiva dell’interscambio interessa poi anche l’Unione Europea, come ci viene illustrato dai dati Eurostat(2):
Ma quali sono i fattori alla base dell’aumento dei rapporti commerciali?
Le ragioni dietro alla crescita della bilancia commerciale sono riconducibili alle evoluzioni della geopolitica, della politica economica e dei trend di mercato; le principali sono:
Ma in tutto questo bisogna ora prestare particolare attenzione al tema dei dazi che, se prima ci ha beneficiato, ora può diventare un problema.
Negli Stati Uniti la Cina è vista come una minaccia tanto dai repubblicani, quanto dai democratici: entrambi gli schieramenti hanno adottato misure (tariffe commerciali, restrizioni tecnologiche e re-shoring) per contrastare il Dragone nella lotta alla leadership economica e geopolitica mondiale.
I dazi hanno comportato una riallocazione delle importazioni(5) di cui abbiamo beneficiato, ma tale plus potrebbe ora venire meno.
Se da una parte i cinesi hanno cercato di aggirarli delocalizzando in paesi come il Vietnam, dall’altra lo spazio per nuovi ulteriori misure verso di loro è ormai troppo ristretto, non solo per il consolidamento della politica protezionistica sotto Biden, bensì anche per l’altro grande elefante nella stanza dei rapporti tra i due paesi: il debito pubblico statunitense.
Dei 34,59 trilioni di dollari che lo formano(6), il 22,9% è detenuto da paesi stranieri con la Cina secondo creditore per la cifra di 749 miliardi(7).
Nonostante l’importante contrazione di portafoglio registrata nell’ultimo decennio, l’acquisto del debito da parte dei cinesi è originato dalle dinamiche commerciali tra i due paesi: la Cina – puntando su una crescita guidata dall’export – necessita di un cambio yuan/dollaro favorevole e i dollari che riceve con gli scambi devono essere in qualche modo utilizzati.
I Treasury Bond – grazie al loro reddito garantito – sono la soluzione a tale necessità, come è necessità per gli Stati Uniti che la Cina continui ad acquistare il suo debito pubblico, visto un rapporto deficit/PIL importante(8) e nonostante l’eventualità di una cessione in blocco di quelli da loro detenuti sia tuttora un evento di coda.
Vi è infine un ultimo aspetto da considerare: Trump vede nell’UE un competitor(9).
Lui non ha mai risparmiato critiche e contestazioni all’Unione, spaziando dall’economia, alla geopolitica e alle divisioni interne; una UE debole e divisa è un plus per un leader isolazionista come Trump, la cui base politica – contagiata da una crescente antipatia verso la globalizzazione – preme perché siano imposte limitazioni al free-trade.
E sebbene sia improbabile che vengano imposti dazi nella misura del 100 per cento, le stime di questi giorni prevedono un impatto importante per il nostro sistema economico, in misura nettamente superiore alle ipotesi di Borghi su un sedicente maggiore introito del turismo USA generato dal reddito figlio di tali politiche(10).
Fantapolitica pura se guardiamo poi alla storia: i dazi non fanno così bene all’economia statunitense.
L’imposizione di nuovi dazi unito al taglio delle tasse promesso da Trump spingerà ulteriormente un PIL già in crescita, ma poco e a un costo tutt’altro che irrilevante.
Se il taglio della tassazione – sostenibile solo per un breve periodo di tempo – comporterà in primis un maggior debito pubblico, queste due policy combinate saranno fonte di inflazione, notizia tutt’altro che rassicurante: il mandato di Powell scade fra 2 anni.
E Trump, non volendo pagare il costo politico dell’inflazione, potrebbe minare l’indipendenza della FED, fattore essenziale alla base della credibilità di una banca centrale, specialmente se questa è quella degli Stati Uniti.
Inoltre, tale crescita potrebbe poi divenire una decrescita.
Diversi studi hanno già dimostrato come i dazi adottati finora abbiano complessivamente danneggiato l’economia americana(11), poiché se a beneficiarne sono stati i settori direttamente protetti, il resto del sistema è stato colpito dal rincaro di materie prime e componentistica, nonché dalla riorganizzazione delle catene di fornitura, dal rientro dei siti produttivi nel paese e dalle variazioni dell’export.
Non proprio il risultato sperato.
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