Il problema del metodo storico e la peculiarità dell'indipendenza ispano-americana

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di M. Salvemini

Redazione Storia

LIBRO

Lezioni di metodo storico
di Federico Chabod
Laterza; 19° edizione (10 febbraio 1992)

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Da tempi non sospetti, gli storici si interrogano sui fondamenti della loro disciplina e su quali debbano essere i punti fermi a guidare la loro ricerca. La stessa espressione "metodo storico" è già di per sé ambigua e oggetto di ampio dibattito nella professione. Possiamo però concordare su una definizione il più generale possibile: il metodo storico è l'insieme delle tecniche e delle linee guida che gli storici utilizzano per ricostruire gli eventi del passato. Fonti secondarie, fonti primarie e prove materiali, come quelle derivate dall'archeologia, rappresentano le componenti essenziali e imprescindibili della ricerca storica. La capacità dello storico si misura proprio nell'identificazione di queste fonti, nella valutazione della loro autorevolezza e affidabilità e nella combinazione delle testimonianze in modo appropriato, al fine di costruire un quadro degli eventi e delle società del passato il più accurato possibile. Il problema sorge quando si iniziano a valutare i criteri con cui questi processi di identificazione, valutazione e combinazione vengono condotti. Come evidenzia lo storico americano David Hackett Fischer, partendo dalla massima di Paolo «esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono»[1], gli storici «sono probabilmente d'accordo in linea di principio, ma non nella pratica. I canoni specifici della prova storica non sono né ampiamente osservati né generalmente condivisi».[2]

Proprio in mezzo a questa delicata questione si pone il libro di Federico Chabod. Egli iniziò la sua carriera accademica dedicandosi alle opere di Machiavelli, al punto che, spinto dal suo interesse per la storia delle signorie italiane [3] e incoraggiato dal suo maestro Piero Egidi, scrisse una prima introduzione al Principe nel 1924. Si trattò di un'anticipazione dei problemi trattati nel saggio più ampio e maturo "Del 'Principe' di Niccolò Machiavelli" che sarebbe comparso a puntate sulla "Nuova Rivista Storica" nel 1925 [4]. Si dedicò successivamente ad un'ampia ricerca sulle idee di Europa e nazione, e sulla loro evoluzione nel corso dei secoli fino alla loro definizione attuale [5], oltre alla storia della politica estera italiana durante il periodo della Sinistra Storica. [6]

Nel volume qui preso in considerazione, invece, Chabod si concentra appunto sull'analisi del metodo storico e di come quest'ultimo possa essere definito. Un punto essenziale che emerge è che ogni ricerca richiede specifiche osservazioni critiche, di un «procedimento metodologico "suo" proprio», che nessuna teoria generalizzante potrebbe mai dare e che solo l'attenzione del singolo studioso, col suo senso storico, il suo, con le parole di Chabod, "fiuto", affinato dall'esperienza, gli possono suggerire. Una delle questioni affrontate in precedenza è l'affidabilità delle fonti che lo storico prende in esame. La condizione generale direbbe di valutare se e quanto una data fonte sia tendenziosa. Tuttavia, solo quando ci si cala nei casi concreti delle singole fonti, una per una, sarà possibile vedere il grado di servibilità di una fonte, anche se partigiana, perché, in un certo caso, si dovrà tenere più o meno conto del racconto che quel determinato cronista, diarista ecc. fa di un certo evento, mentre, in un altro caso, si dovrà ugualmente tenere presente la versione del cronista, come quella che rispecchia non solo il punto di vista del cro­nista stesso, bensì tutta una corrente di idee e di sentimenti dell'epoca di cui il cronista ci ha voluto tramandare la memoria. 

È quindi la "sensibilità" storica del singolo studioso a fargli avvertire ciò che può e ciò che non può rimanere nella sua ricostruzione dopo l'analisi critica del testo. Regole di carattere pratico non possono essere trasformate in regole generali e nella pratica occorre anzitutto, secondo quanto osservava Francesco Guicciardini, la "discrezione".

In conclusione, Chabod ci tiene a ribadire che «il "metodo storico" che si apprende attraverso le opere ad esso specificamente dedicate, cioè attraverso precetti e norme di carattere generale e, apparentemente, assolute, non è una chiave che si adatti indifferentemente a qualsiasi serratura, un che di inalterabile ed inalterato, un passe-partout; è invece un delicato strumento "variabile", che deve, appunto, essere "finito di adattare", nei singoli casi, dall'intelligenza e dalla sensibilità dello studioso, come – se è lecito il paragone – un obiettivo fotografico deve essere regolato a seconda della luce e dell'ambiente che esso».


PAPER

Spanish American Independence: A Structural Analysis
di George Reid Andrews
Sage Publications, Inc.

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Che cosa fu la lotta per l'indipendenza dell'America spagnola? Perché i movimenti indipendentisti non portarono a significative rivoluzioni sociali ed economiche? Partendo dalle dinamiche tra Stato e società nell'America spagnola coloniale, George Reid Andrews, Distinguished Professor presso l'Università di Pittsburgh e specialista di storia dell'America Latina [7], mette in luce i fattori che influenzarono le lotte per l'indipendenza e il limitato impatto sulle strutture sociali dopo la stessa. Il paper mira a far luce sulla complessità del processo di ottenimento dell'indipendenza e sulle sfide che impedirono il realizzarsi di un'autentica rivoluzione sociale nella regione.

In primis, lo Stato borbonico dovette affrontare sfide nella sfera internazionale a causa delle lotte con la Gran Bretagna, perdendo territori nel Nuovo Mondo, come il Canada e Santo Domingo, e affrontando invasioni e interruzioni del commercio con il Nuovo Mondo da parte delle forze britanniche. Gli oneri economici dei Borboni francesi dovuti alle guerre con la Gran Bretagna contribuirono alla loro caduta, mentre i Borboni spagnoli riuscirono a mantenere il trono, ma dovettero affrontare la crisi della legittimità reale ed i movimenti indipendentisti in America spagnola a causa dell'intervento francese e delle pressioni interne.

Le élite coloniali dell'America spagnola risposero alle riforme borboniche affrontando la messa in discussione della loro egemonia, collaborando con lo Stato spagnolo per mantenere il potere e cercando di recuperare influenza all'interno della burocrazia coloniale. Nonostante il malcontento per l'aumento del carico fiscale e la riduzione della rappresentanza creola, le élite continuarono a sostenere lo Stato spagnolo per prevenire le rivoluzioni sociali e mantenere il controllo sulle masse.

Emerse il cosiddetto "paradosso degli organismi governativi" che sovvertirono le proprie politiche tra gli anni 1790 e 1800 nell'America spagnola. Andrews mostra come le élite locali e i burocrati si "misero d'accordo" per minare le riforme, portando al fallimento di iniziative come il tentativo di abolizione del Repartimiento.[8] Questo paradosso riflette le sfide affrontate nell'applicazione delle riforme e la resistenza degli interessi acquisiti all'interno dell'amministrazione coloniale, ostacolando in ultima analisi le significative trasformazioni sociali ed economiche durante le lotte per l'indipendenza.

Venne poi evidenziata l'esistenza di divisioni interne tra le élite ispano americane mosse da diversi interessi economici, le quali però mostrarono al contempo la loro capacità di serrare i ranghi nei momenti di crisi. La società coloniale era organizzata in una gerarchia di proprietà basata sulla razza con diritti e obblighi diversi. Le élite si affidavano allo Stato spagnolo per mantenere il loro dominio, affrontando le sfide della popolazione attiva e delle caste libere in ascesa. Nonostante i tentativi di ridurre l'influenza creola, l'impegno dello Stato a difendere gli interessi delle élite fu messo in discussione, provocando dubbi e disordini tra le élite coloniali.

Andrews, inoltre, contrappone le rivoluzioni ispanoamericane a quelle europee analizzate dalla scienziata politica Theda Skocpol [9], notando il limitato impatto delle prime sulle strutture sociali ed economiche. A differenza delle rivoluzioni europee, che portarono a significative trasformazioni sociali, politiche ed economiche, le rivoluzioni ispanoamericane si tradussero in cambiamenti nominali con scarsa partecipazione popolare e autonomia dagli interessi delle élite locali. Il fallimento delle nazioni ispanoamericane nello sviluppo degli Stati nazionali centralizzati dopo l'indipendenza è evidenziato come una caratteristica distintiva della storia della regione, che riflette le differenze nei risultati tra le due tipologie di rivoluzioni.

Nella conclusione viene utilizzata l'espressione "indipendenza senza rivoluzione". Questa si riferisce alla peculiare trasformazione politica dal colonialismo all'indipendenza dell'America spagnola, la quale avvenne senza significative rivoluzioni sociali o economiche. Infatti, nonostante le guerre e le lotte per l'indipendenza, le strutture sociali ed economiche rimasero in gran parte invariate dopo la stessa. L'espressione implica, quindi, che, pur avendo raggiunto l'autonomia politica dalla Spagna, le colonie non sperimentarono trasformazioni sociali sostanziali o sconvolgimenti tali da portare a cambiamenti significativi nelle relazioni sociali ed economiche.


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