Secondo le autorità indiane, l’attacco è stato rivendicato dal Fronte di Resistenza, considerato un’emanazione del gruppo terroristico di matrice jihadista pan-islamica Lashkar-e-Taiba, con base in Pakistan. “Questo è un atto di guerra,” ha dichiarato Tara Kartha, direttrice del Centre for Land Warfare Studies di Nuova Delhi, in un’intervista a Vatican News. “Solo se il Pakistan condannerà l’attacco con la massima fermezza e agirà contro i terroristi, si potrà evitare una grave crisi.”
L’attentato ha colpito soprattutto turisti indù, un dettaglio che alimenta le tensioni religiose in una regione a maggioranza musulmana. Come riportato da Euronews, il Kashmir ha visto un aumento di attacchi mirati contro gli indù dopo che, nel 2019, il governo indiano ha revocato l’articolo 370 della Costituzione, ponendo fine allo status di semi-autonomia della regione e trasformandola in un territorio federale.
L’attacco di Pahalgam non è stato solo un atto di violenza, ma un colpo al cuore della narrativa di “normalità” che il governo indiano, guidato da Narendra Modi, ha cercato di costruire negli ultimi anni. “Questo attacco sfida l’idea che il Kashmir sia un territorio in pace,” ha dichiarato Praveen Donthi, analista senior dell’International Crisis Group, al The Independent. “I kashmiri sono sempre i primi a pagarne le conseguenze.”
Secondo quanto riportato nell’articolo succitato, le autorità indiane hanno risposto con una massiccia operazione di sicurezza, trattenendo oltre 2.000 persone e arrestandone diverse altre grazie a speciali leggi antiterrorismo che consentono la custodia senza accuse formali. Nuova Delhi ha imposto un divieto immediato sull’importazione di beni pakistani e ha sospeso i visti. Islamabad ha replicato con misure speculari, mentre il suo esercito testava un missile balistico, l’Abdali, il 3 maggio, in un chiaro segnale di sfida. “L’altra parte deve aver visto la nostra energia, il nostro spirito”, riporta Politico le parole di un cittadino, Sundas Batool, il quale si riferisce all’altra parte del confine. “Il mio messaggio all’India è: siamo pronti a tutto”.
Il Kashmir, coi suoi confini e i suoi trascorsi, simboleggia la triste storia delle relazioni tra Pakistan e India: un passato fatto di rancori e un presente che riecheggia un odio che pare non volersi mai spegnere.
La disputa risale al 1947, quando la partizione del subcontinente britannico lasciò il destino della regione in sospeso. Il maharaja indù di Jammu e Kashmir, Hari Singh, optò per l’adesione all’India dopo un’invasione di milizie pakistane, scatenando la prima di quattro guerre tra i due Paesi. “Il sovrano accettò l’India in cambio di garanzie di sicurezza,” scrive il New York Times. Una scelta azzardata, che diede vita a una spirale di odio. Le conseguenze negative potevano essere previste, almeno in parte: la valle è abitata da una popolazione a maggioranza musulmana, la quale vedeva, sin dal principio, il Pakistan come la propria naturale patria, e il Pakistan affermava che quella comunità musulmana avrebbe dovuto appartenergli.
Ciò che seguì fu la prima guerra indo-pakistana, la cui fine fu decretata nel 1949 dall’intervento dell’ONU: una linea venne così tracciata e il Kashmir assegnato per due terzi all’India. Il confine, peraltro, era da intendersi come temporaneo, una scelta che nella storia ha pagato poco col senno di poi: ne sono una prova concreta la Linea Blu tra Libano e Israele e la divisione che diede vita alle due repubbliche coreane.
La pace durò per poco: un’incursione pakistana, nel 1965, riaccese un conflitto mai sopito, dando vita ad una breve guerra che Delhi riuscì subito a sedare mediante un attacco all’interno dei confini pakistani: le forze d’assalto furono costrette a ripiegare e, nel 1966, un nuovo accordo di pace venne stipulato a Tashkent, Uzbekistan.
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Il gruppo Wagner è presente nella CAR dal 2018, paese dove è riuscito a testare con grande successo l’efficacia delle sue tattiche politico-militari. Dopo la morte di Prigozhin, si pensava che le operazioni del gruppo Wagner si sarebbero ridimensionate o addirittura interrotte. Lo stato russo ha deciso infatti di prendere il controllo delle attività del gruppo nel continente africano, dandogli il nuovo nome di “Africa Corps”. Sotto questa nuova etichetta, i miliziani dell’ex Wagner hanno subito diverse perdite, come accaduto lo scorso luglio in uno scontro con i ribelli separatisti in Mali. Eppure nella Repubblica Centrafricana il gruppo ha mantenuto la denominazione Wagner e la sua presenza appare più forte che mai.
Dietro il successo del gruppo Wagner nella CAR c’è la figura di Dmitri Sytyi, ex braccio destro di Prigozhin. Secondo un report dell’ong Global Initiative Against Transnational Organized Crime, l’attività di Sytyi continua sotto l’attenta supervisione di Denis Pavlov, un agente dell’intelligence russa. I mercenari ora infatti agiscono sotto un più saldo controllo dello stato russo, che vuole evitare la nascita di nuovi Prigozhin. Il mantenimento del nome Wagner nella Repubblica Centrafricana sarebbe quindi solo una precisa scelta politica dell’apparato statale russo, che ha l’obiettivo di sfruttare l’influenza e la notorietà guadagnata dal vecchio brand di Prigozhin.
Con la crescita del gruppo Wagner, la Repubblica Centrafricana è diventata sempre meno accogliente nei confronti degli occidentali. Diversi giornalisti sono stati arrestati, e una legge contro gli “agenti stranieri” di ispirazione russa è attualmente in fase di lavorazione. Addirittura qualche anno fa tre giornalisti russi, che stavano indagando sulle attività di Wagner nella CAR, sono stati uccisi.
Il gruppo paramilitare sta inoltre costruendo nel paese una base per ospitare circa 10 mila truppe entro il 2030, un progetto che preoccupa i diplomatici occidentali. Si teme infatti che questa base possa rappresentare il punto di lancio per espandere l’influenza russa in tutto il continente, a partire dal Congo e dal Sahel, regione di enorme interesse strategico.
Per molti abitanti della CAR invece la Russia non ha solo salvato il governo del presidente centrafricano Touadéra dalle forze ribelli, ma ha salvato l’intera nazione.
Non avevamo niente. Eravamo tagliati fuori da tutto. Perfino i francesi ci hanno abbandonato. Ma i russi hanno combattenti forti. Loro sono gli unici che ci hanno aiutato.
ha raccontato un giovane soldato dell’esercito nazionale a Tom Gardner.
Come segno di gratitudine, la Repubblica Centrafricana ha adottato il russo come terza lingua ufficiale, dopo il francese e il sango. Attualmente gli studenti universitari seguono corsi obbligatori di russo, e si pianifica di estenderne l’insegnamento anche alle scuole primarie e secondarie. Nel centro di Bangui è stato eretto perfino un monumento in onore dei caduti del gruppo Wagner, adornato con molti bouquet di fiori in memoria di Prigozhin.
Non tutti però approvano l’operato dei mercenari. Ali Ousmane, un influente sceicco dell’area musulmana di Bangui, ha spiegato a Gardner che i mercenari si sono uniti alle forze di sicurezza statali per colpire le comunità musulmane considerate ostili al regime. Per Ousmane la nuova stabilità di Bangui è stata ottenuta a un prezzo troppo alto (1).
Nelle zone rurali del paese molti la pensano allo stesso modo. Tra il 2020 e il 2023, secondo diversi osservatori e gruppi per i diritti umani, centinaia di persone sono state uccise in raid condotti dal gruppo Wagner. Interi villaggi sono stati saccheggiati e numerose giovani donne hanno dichiarato di essere state stuprate dai “soldati bianchi” del gruppo.
Nel frattempo diverse migliaia di combattenti locali, tra cui ex-ribelli, si sono uniti a Wagner, diventando noti come “Black Russians”.
Dopo l’invasione russa dell’Ucraina nel 2022, la competizione tra la Russia e le potenze occidentali nel continente africano si è riaccesa. Le operazioni di influenza e le campagne di disinformazione portate avanti dai russi nella Repubblica Centrafricana si sono diffuse in tutta la regione. Nel 2023 l’Africa Centre for Strategic Studies, un think-tank interno al dipartimento di difesa americano, ha segnalato che la Russia sta cercando di minare la democrazia in più di 24 paesi africani.
In risposta, Stati Uniti, Francia e Unione Europea stanno contestualmente cercando di instaurare legami con il governo della Repubblica Centrafricana. Nel 2023 l’amministrazione americana ha cercato di estromettere il gruppo Wagner dalla CAR offrendo al governo del paese i servizi della Bancroft Global Development, una società privata di sicurezza americana. Tuttavia l’accordo è naufragato a causa delle furiose proteste portate avanti dai mercenari russi (1).
Nel 2024 invece il presidente francese Emmanuel Macron ha siglato con il presidente centrafricano Touadéra un accordo per ristabilire gradualmente relazioni bilaterali più strette tra i due paesi. Touadéra in quell’occasione è riuscito anche a ottenere un impegno per nuovi aiuti economici francesi nella CAR.
Maxime Balalou, ministro della comunicazione della CAR, ha spiegato a Gardner che il suo paese si trova al centro di una guerra geopolitica. Ma la linea del governo centrafricano non è quella di schierarsi con una delle due parti. Per Balalou solo rifiutando di partecipare al gioco delle grandi potenze la Repubblica Centrafricana può trarre dei guadagni.
È in quest’ottica che bisogna leggere la scelta del presidente Touadéra di istituire il Bataillon d’intervention rapide (BIR), un battaglione addestrato dal Ruanda e non dal gruppo Wagner. Il BIR è visto come un tentativo di ribilanciare i rapporti con i partner internazionali, riducendo la dipendenza dalla Russia e garantendo maggiore controllo e indipendenza al governo centrafricano (2).
Il futuro degli equilibri politico-strategici della Repubblica Centrafricana rimane quindi incerto. Ma contro ogni previsione, è probabile che il gruppo Wagner continui a giocare un ruolo cruciale all’interno della CAR anche nei prossimi anni.
]]>Uno studio della FAO ha analizzato le emissioni di gas serra derivanti dai sistemi agroalimentari nel periodo compreso tra il 1990 e il 2019, coprendo 196 paesi e 40 territori. I risultati mostrano che, nel 2019, le emissioni globali dei sistemi agroalimentari hanno raggiunto 16,5 miliardi di tonnellate di CO₂ equivalente (unità di misura che permette di confrontare l'impatto sul clima di diversi gas serra, esprimendoli tutti in termini di anidride carbonica) all'anno, pari al 31% delle emissioni antropogeniche totali.
Ma quali sono le fonti di queste emissioni? In sostanza, possiamo suddividerle in tre grandi categorie:
Tra il 1990 e il 2019, le emissioni complessive del sistema agroalimentare sono aumentate del 17%. Tuttavia, ci sono stati cambiamenti significativi tra le tre componenti sopra citate. Quelle derivanti dall’uso del suolo sono diminuite del -25%, mentre le emissioni provenienti dai processi agricoli dirette sono aumentate del +9%. Le emissioni legate ai processi pre e post-produzione sono più che raddoppiate, superando quelle agricole in molti paesi.
Nel 2019, quest’ultime sono state la principale fonte di emissioni di anidride carbonica, con 3,9 miliardi di tonnellate di CO2 all'anno, seguite dall’uso del suolo e dai processi agricoli. Le attività agricole, però, si confermano la maggiore fonte di metano e protossido di azoto, due gas serra con un elevato impatto climatico.
Lo studio preso in considerazione sottolinea come, nel corso di trent’anni, le emissioni legate ai sistemi agroalimentari si siano spostate sempre più al di fuori dei campi agricoli, con un ruolo crescente di attività come la lavorazione, il trasporto e lo smaltimento dei prodotti alimentari. Nel 2019, queste attività avevano superato le emissioni agricole dirette in molti paesi, inclusi Cina e Stati Uniti. La fonte di queste informazioni è il database sulle emissioni condivise di FAOSTAT, pubblicato su Copernicus Publications (1).
Continent | Popul. mld | GDP | GHG |
---|---|---|---|
Africa | 1,2 | 1,860 | 2 |
Asia | 4,5 | 7,850 | 1 |
Europe | 0,75 | 35,623 | 4 |
North America | 0,58 | 49,430 | 5 |
South America | 0,42 | 6,720 | 3 |
Oceania | 0,042 | 22,647 | 6 |
Secondo questi dati potremmo pensare che l'Europa performi bene dal punto di vista delle emissioni generate dal sistema agroalimentare; tuttavia la realtà è più complessa. Andando infatti ad esaminare le importazioni di prodotti alimentari possiamo notare come la maggior parte vengano proprio da quei paesi che invece risultano più inquinanti (questo vale anche per i prodotti tipici, ad esempio la bresaola viene prodotta con una razza di Manzo allevata in Brasile).
]]>Per oltre 70 anni, lo sviluppo della Cina si è basato sull'autosufficienza e sul duro lavoro e mai sulle dispense degli altri. Perciò, la Cina non teme alcuna repressione ingiusta.
Le parole sopra riportate sono del presidente cinese Xi Jinping, promulgate proprio a ridosso dell’annuncio di dazi al 125% sulle merci americane. Dazi che arrivano in risposta all’ultima idea del presidente Trump, il quale non ha apprezzato la temerarietà di Pechino e ha innalzato le sue tariffe al 145%. Insomma, la Cina non ha paura di far vedere i muscoli e ha già precisato, non perdendo quella saggia aura propria della filosofia confuciana di cui è permeata, che non ha intenzione di cedere al bullismo di un solo attore – facendo riferimento al contesto del mondo multipolare che il presidente e guida spirituale del partito Mao già annunciava negli anni ‘50 a Bandung, Indonesia.
Il ministro delle finanze, Lan Fo’An, ha fatto sapere che qualora Washington avesse voglia di continuare il suo giochetto, quello dei dazi, il Dragone la ignorerà. Tuttavia, se dovesse invece violare gli interessi cinesi, ecco allora che la Cina contrattaccherà. Certo, le armi non sono quelle che i colleghi russi stanno usando in Ucraina, ma delle altre. La domanda sorge spontanea: la Cina ha queste altre armi? Per dirla alla Trump: che carte ha Xi?
È innanzitutto bene chiarire che la guerra commerciale comporterà delle sofferenze per la Cina. A fronte dei dazi, Goldman Sachs ha stimato che il PIL cinese possa ridursi del 2,4%; allo stesso modo, la banca d’investimento ha fornito stime contenute sul fronte crescita, calcolandola in un 4% per l’anno corrente — cifra lontana dall’obiettivo del 5% che Pechino si era data. A questo è doveroso aggiungere alcune specifiche: l’economia cinese ha faticato a riprendersi dall’emergenza COVID-19. Gli ultimi mesi della pandemia hanno lasciato profonde cicatrici: i residenti di molte città hanno subito lockdown soffocanti, mentre centinaia di migliaia, se non milioni, di persone sono state gravemente ammalate o sono decedute, con stime ufficiali che riportano oltre 1,4 milioni di morti legate al virus entro il 2023, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). La tanto agognata ripresa economica, attesa dopo l’improvvisa revoca delle politiche zero-COVID alla fine del 2022, si è rapidamente dissolta, lasciando la seconda economia mondiale in una posizione precaria. Nel tentativo di rilanciare la crescita, Pechino ha investito enormi capitali nell’espansione della capacità produttiva, con nuovi impianti dedicati a veicoli elettrici, batterie al litio, attrezzature mediche, robotica e altri settori strategici. I dati dell’Ufficio Nazionale di Statistica cinese mostrano che gli investimenti in attivi fissi, come fabbriche e infrastrutture, sono cresciuti del 5,5% nel 2024, con un forte focus su energia verde e manifattura avanzata. Tuttavia, il consumo interno non è riuscito a tenere il passo, con la crescita delle vendite al dettaglio che si è attestata a un modesto 3,2% su base annua nel 2024, penalizzata dalla crisi del settore immobiliare e da un tasso di disoccupazione giovanile superiore al 15%. Questo squilibrio tra offerta e domanda ha generato una grave deflazione ai cancelli delle fabbriche, con i prezzi alla produzione in calo per 24 mesi consecutivi fino a marzo 2025, secondo Bloomberg. Inoltre, l’indebitamento delle amministrazioni locali si aggiunge alla folta schiera dei problemi oramai cronicizzati. Siamo lontani, è vero, dal declino sistemico che alcuni analisti avevano preannunciato dopo la crisi di Evergrande, ma i vecchi problemi rimangono – e sono da sottolineare a matita rossa.
Il presidente Xi, parlando dei 70 anni di autosufficienza, sottolinea un aspetto importante: la Repubblica Popolare è nata sola e avversata da tutti e, salvo una breve storia d’amore con l’URSS di Stalin, ha continuato così fino al 2001, con l’entrata nella World Trade Organization (WTO). I cinesi sono stati forgiati da questa consapevolezza, che li ha colpiti in particolar modo durante le carestie del Grande Balzo in Avanti e le brutalità della Rivoluzione Culturale. Eppure, essi, con l’orgoglio di un mondo che esiste da 5000 anni, si sono sempre rialzati, sopportando pene che molti altri popoli non sarebbero stati capaci di fronteggiare.
Inoltre, Pechino ha mano a mano ridotto la sua dipendenza da Washington: secondo quanto riporta un foglio bianco pubblicato dal governo, l’export negli USA vale ad oggi il 14,8% delle esportazioni totali del paese – questi dati sono da leggere in confronto con quelli del passato; nel 2019, il valore era del 18,1%. Gli americani possiedono ancora qualche surplus commerciale, ma, complici i dazi di Trump, sembrano campi, come quello dei servizi, in cui il partito-stato cinese può arrivare e invertire la rotta.
“Se gli Stati Uniti vogliono davvero risolvere la questione attraverso il dialogo e il negoziato, dovrebbero smettere di esercitare pressioni estreme, smettere di minacciare e ricattare, e parlare con la Cina sulla base di uguaglianza, rispetto e mutuo beneficio.” ha detto Lin Jian, vice direttore generale del Dipartimento di Stampa, Comunicazione e Diplomazia Pubblica del Ministero degli Affari Esteri. Tali parole – Pechino lo sa – si inseriscono in un contesto di grandi critiche mosse a Trump anche dall’interno: il mondo del business è quasi in rivolta, mentre il popolo inizia ad intravedere gli svantaggi di una guerra commerciale con la Cina. I cinesi, invece, vedono l’ascesa del regime illiberale trumpiano quasi con scherno, chiedendosi persino se gli americani abbiano perso fiducia nel commercio e nella scienza: critiche che ogni cittadino statunitense non sopporterebbe di sentirsi rivolgere. In merito alla scienza, dunque, giungiamo a un altro tasto dolente per gli USA: le terre rare. La Cina possiede la più grande riserva di questi 17 elementi chimici, essenziali per la creazione di chip e tecnologie all’avanguardia. Serve a poco, dunque, la parziale esenzione concessa da The Donald lo scorso 12 aprile in merito ai microchip. Peraltro, l’amministrazione americana ha avviato un’indagine ai sensi della Sezione 232 del Trade Expansion Act del 1962 per valutare i rischi per la sicurezza nazionale legati all’importazione di semiconduttori, un passo che potrebbe portare a nuovi dazi.
Il popolo cinese ha inoltre adottato delle contromisure: si registrano delle preferenze per i brand locali e chiamate finalizzate al boicottaggio di merci e realtà americane ormai assorbite anche dalla società cinese, come Starbucks o KFC. Il patriottismo e l’orgoglio dei figli del dragone, è quindi una variabile da non sottovalutare. Han Wenxiu, Vice Direttore della Commissione Nazionale per lo Sviluppo e le Riforme, il quale ha definito il consumo domestico insufficiente e ha annunciato “politiche macroeconomiche adeguate” da parte del governo. Non è da escludere, in aggiunta, una campagna di massa che sfrutti l’onda dell’indignazione, sulla scia di quelle spesso lanciate da Mao – a questo proposito, conosciamo la tendenza di Xi a proporsi come un nuovo, grande leader.
Insomma, la sfida è grande e il rischio di rimanere scottati c’è. Ma la Cina non può tirarsi indietro: mentre Xi, a differenza di Trump, sembra quasi investito di un potere spirituale non soggetto alla popolarità presso il popolo, il patto tra stato e gente comune, che si regge sulle promesse di prosperità e libertà personale, è messo alla prova dalla guerra commerciale. Tirarsi indietro non è contemplato, né è ammissibile il fallimento. I cinesi vogliono statura, rispetto, nonché la possibilità di riscattarsi completamente dal secolo delle umiliazioni. La sfida non è solo commerciale, bensì quasi esistenziale. Chiudiamo citando il tweet di Mao Ning, portavoce del ministro degli esteri: “Siamo cinesi. Non abbiamo paura delle provocazioni. Non ci tiriamo indietro”.
]]>In entrambi gli scenari si tratta di problemi di ottimizzazione: c’è una decisione da prendere in uno scenario complesso e bisogna scegliere per quale fine ottimizzare. Per esempio, nel caso delle auto a guida autonoma il fine per cui ottimizzare potrebbe essere “minimizzare il numero di danni inflitti ai passeggeri del veicolo”. La decisione verrà quindi presa in base alla priorità data a questo obiettivo piuttosto che ad altri (o, più realisticamente, questo obiettivo sarà bilanciato con altri in relazione alla sua importanza). L’obiettivo viene formalizzato in una funzione matematica chiamata solitamente “funzione obiettivo”. L’algoritmo deve trovare un set di valori che massimizzano (o minimizzano) la funzione matematica in cui è formalizzato un certo obiettivo, spesso rispettando un certo numero di vincoli. Nel caso di apprendimento automatico, ovvero di algoritmi che non sono basati su regole codificate esplicitamente, l’obiettivo dell’ottimizzazione consiste nel minimizzare il tasso di errori nelle predizioni per un dato dataset nella fase di allenamento.
Entrambi questi scenari sono caratterizzati dal fatto che incorporano potenzialmente giudizi di valore, ossia giudizi che hanno a che fare con l’etica. Per esempio, nel caso di predizione di recidivismo di un imputato, dovremmo considerare più potenzialmente nocivo un falso positivo (il recidivismo viene predetto dall’algoritmo ma poi non accade) o un falso negativo (il recidivismo non viene predetto dall’algoritmo ma poi accade)? Il modo in cui si risponde a una domanda del genere ha conseguenze dirette e significative sulla vita di una o più persone. Rispondere a questi dilemmi implica considerazioni che presuppongono in maniera decisiva giudizi di valore. Nel caso delle macchine a guida totalmente autonoma, le decisioni sono totalmente nelle mani del sistema di intelligenza artificiale a causa del tempo ristretto a disposizione. Negli scenari del credito bancario e della corte giudiziaria, pur essendoci un umano nel loop, l’algoritmo ha un ruolo sostanziale nel motivare una decisione presa in ultimo luogo da un uomo. In entrambe le situazioni è cruciale la domanda circa la possibilità di codificare giudizi di valore (morali) in sistemi di intelligenza artificiale.
C’è un caso specifico che rientra negli scenari di decisione ad alta complessità computazionale dove giudizi di carattere morale sono evidentemente rilevanti per prendere una decisione ottimale. È il caso del mercato per combinare pazienti che necessitano di trapianti di organi con potenziali donatori. Per esempio, negli USA un’organizzazione come UNOS (United Network for Organ Sharing) gestisce l’Organ Procurement and Transplantation Network (OPTN), che, tra le altre cose, si occupa di combinare pazienti con potenziali donatori di organi utilizzando un algoritmo che massimizza il numero di trapianti possibili in un gruppo di donatori e pazienti (2)(3) . In questo tipo di procedura si presentano spesso situazioni in cui viene identificata dall'algoritmo più di una soluzione in grado di massimizzare il numero di combinazioni paziente-donatore in un gruppo di partecipanti. A quel punto la priorità di una soluzione combinatoria paziente-donatore rispetto a un'altra viene stabilita secondo criteri ad-hoc dal comitato dell’organizzazione (in questo caso UNOS). Queste decisioni ad-hoc servono a mitigare bias del sistema di ottimizzazione, per esempio la marginalizzazione di coppie donatore-paziente con rare combinazioni di gruppi sanguigni (3)(4). Determinare i criteri per stabilire cosa fare in queste situazioni di “spareggio” è dove giudizi di carattere morale entrano in gioco. Per esempio: in uno specifico turno la scelta è fra due pazienti con gruppo sanguigno B di cui uno è molto giovane (ha meno di 30 anni) ma beve molto di frequente (più di 5 drink al giorno) e uno è anziano (ha più di 70 anni) ma beve raramente. A quale paziente dare priorità? È meglio salvare la vita di una persona giovane, anche se con abitudini non salutari, oppure quella di una persona che ha già vissuto almeno ¾ della sua vita, ma che adotta abitudini alimentari più sane?
Recentemente, i ricercatori del gruppo Moral AI lab alla Duke University (5) hanno proposto di raccogliere dati attraverso piattaforme online di crowdsourcing (come Amazon Mechanical Turk) circa i profili dei pazienti a cui un pool di partecipanti darebbe priorità nei casi di spareggio, come quelli descritti sopra [4]. In seguito, le risposte raccolte attraverso questi questionari vengono modellate e aggregate attraverso procedure statistiche standard per stimare i pesi (weights) per l’algoritmo. Questi pesi servono per decidere in che modo risolvere le situazioni di spareggio. Il modello di ottimizzazione utilizzato da UNOS per combinare pazienti-donatori viene quindi modificato sulla base dei dati raccolti e dei pesi stimati. Infine, i ricercatori simulano l’utilizzo dell’algoritmo in un periodo di cinque anni di scambio di organi e verificano i cambiamenti causati dalle modifiche apportate all’algoritmo iniziale. Sebbene l’algoritmo usato nello studio non sia una rete neurale profonda o non usi apprendimento per rinforzo, questo studio rappresenta una prova di fattibilità (proof-of-concept) per un approccio che ottiene giudizi morali da umani, li modella statisticamente e li include all’interno di un algoritmo utilizzato per decisioni ad alto rischio.
Nello specifico, ai partecipanti al questionario vengono presentate delle comparazioni a coppie di profili di pazienti (simili a quelli che effettivamente prendono parte a UNOS) con tre variabili: età, abitudini (consumo di alcol) e salute generale (storia di malattie gravi). I dati raccolti vengono modellati attraverso un modello standard di ranking probabilistico (modello Bradley-Terry) per stabilire l’importanza di ciascun attributo nei profili di pazienti nelle decisioni di priorità espresse dai partecipanti al questionario. I profili di pazienti giovani o con meno rischi di salute o con abitudini più salutari sono favoriti. In particolare, avere abitudini più salutari ha un impatto più significativo sulla priorità data rispetto alle condizioni di salute generale. Sulla base del modello dei dati raccolti, all’algoritmo di ottimizzazione vengono assegnati dei pesi, che vengono utilizzati per determinare quale soluzione preferire rispetto a un’altra nei casi di spareggio. La simulazione con l’algoritmo modificato (e la comparazione con quello iniziale) ha portato a due risultati significativi. In primo luogo, la percentuale di coppie di pazienti-donatori con rare combinazioni di gruppi sanguigni che l’algoritmo combina è significativamente maggiore rispetto a quella dell’algoritmo originale. In secondo luogo, come previsto, l’algoritmo modificato tiene in considerazione la priorità data a certi profili di pazienti rispetto ad altri: il risultato è che i profili di pazienti a cui viene data priorità secondo il modello estratto dal pool di dati raccolti vengono combinati più spesso con i loro donatori comparati all’algoritmo originario (4).
Una operazionalizzazione e automatizzazione dei giudizi morali umani potrebbe essere decisiva in casi in cui gli umani devono prendere decisioni al riguardo in condizioni subottimali (per esempio in caso di urgenza).
Nello studio presentato i pesi vengono stimati una volta per tutte attraverso il modello Bradley-Terry su un solo dataset e poi applicati alla simulazione. Studi futuri potrebbero provare a usare questo paradigma servendosi di un sistema più sofisticato di intelligenza artificiale, per esempio una rete neurale profonda allenata su un dataset più ampio e complesso che possa essere poi sottoposta a fine-tuning e così adattata a specifiche circostanze (nel caso di decisioni che includono giudizi morali, per esempio, a seconda dei portatori di interesse in diversi scenari e dei valori rilevanti per una specifica decisione da prendere). Inoltre, un sistema di apprendimento per rinforzo potrebbe essere utilizzato per aggiornare l’algoritmo a seconda del tasso di successo dei trapianti eseguiti in base alle combinazioni paziente-donatore suggerite dall’algoritmo. Come dimostrato dall’approccio dell’articolo, suggeriscono gli autori in varie pubblicazioni, i criteri secondo cui decisioni che oggi vengono prese ad-hoc da specifici membri di comitati in maniera opaca potrebbero essere anche nelle mani di diversi portatori di interesse in diversi scenari, modellati e operazionalizzati attraverso approcci computazionali (4)(6)(7). Sebbene approcci di apprendimento automatico pongano problemi di interpretabilità rispetto a modelli statistici più facilmente scrutinabili, i primi potrebbero essere più efficaci nel modellare dataset più grandi e complessi che incorporano più variabili che possono essere rilevanti dei giudizi di valore. Inoltre, tecniche di Explainable AI (XAI) potrebbero aiutare a ridurre l’opacità dei sistemi ad apprendimento automatico, mettendo in evidenza quali caratteristiche nel dataset hanno “guidato” la previsione prodotta dal sistema.
Il caso studio discusso nella sezione precedente si inserisce in un quadro di considerazioni più generali su come incorporare valutazioni etiche nei sistemi di intelligenza artificiale utilizzati per decisioni ad alto rischio.
In particolare, indica il potenziale di approcci computazionali per modellare i giudizi morali umani e, conseguentemente, i loro bias. In etica, l’approccio top-down, per cui certi principi morali generali vengono applicati direttamente a una serie di scenari reali molto dipendenti da variabili contestuali, è problematico. In primo luogo, esistono diverse teorie morali, ognuna con i suoi specifici vantaggi e svantaggi, e non c'è un accordo indiscutibile tra i filosofi su come giustificare la scelta di una piuttosto che di un'altra. In secondo luogo, ogni principio generale come “non mentire” può prendere infinite ramificazioni a seconda delle variabili contestuali presenti nelle situazioni reali. Per esempio: il sistema di intelligenza artificiale dovrebbe seguire il principio “non mentire” anche quando una bugia impedirebbe a un assassino di commettere un crimine? La nostra regola generale si dimostra già insufficiente.
L’approccio bottom-up, per cui principi morali sono derivabili da singole istanze di giudizi morali, è altrettanto problematico. La variabilità nei giudizi morali umani e nelle sue motivazioni è troppo alta.
È qui che utilizzare sistemi di apprendimento automatico per estrarre pattern sufficientemente generalizzabili da grandi quantità di dati (anche molto vari) potrebbe essere utile per identificare variabili comuni che non erano state considerate prima, come suggerito dagli autori in un libro recentemente pubblicato [6]. Le variabili identificate in dataset di giudizi morali umani dal processo di apprendimento automatico potrebbero evidenziare bias nelle intuizioni morali umane medie, le quali a loro volta potrebbero aiutare a rifinire i principi che almeno la maggioranza dei portatori di interesse in un certo scenario ritiene importanti per prendere una decisione che ha conseguenze morali. Questo potrebbe essere d’aiuto per introdurre attributi rilevanti eticamente in decisioni che devono venire prese automaticamente da sistemi di intelligenza artificiale. Per esempio, se dalla raccolta di dati fosse emerso che l’etnia è un attributo secondo il quale i partecipanti allo studio assegnano priorità a un profilo piuttosto che a un altro, risulterebbe chiaro quale bias futuri sistemi di intelligenza artificiale che devono prendere decisioni dalle conseguenze etiche devono tenere sotto controllo. Ci sono anche esempi meno scontati di questo. A volte un certo giudizio morale viene espresso da un essere umano in un momento specifico perché il soggetto in questione non possiede una conoscenza sufficiente dell’argomento su cui c’è da decidere. Per esempio, nel caso dei trapianti di reni, potremmo chiedere ai partecipanti cosa sanno della procedura per trapiantare un rene prima di prendere una certa decisione, quindi aumentare le loro conoscenze in caso di una loro carenza e vedere come il loro giudizio morale si modifica prima e dopo l’acquisizione di queste nuove informazioni. Con questi dati, potremmo correggere l’output del sistema di intelligenza artificiale, allenato a predire le variabili rilevanti per un giudizio morale umano. Il proposito è quello di ottenere sistemi di intelligenza artificiale da usare per informare decisioni ad alto rischio che possano predire i “giudizi che gli umani darebbero in circostanze idealizzate, nel senso di più informate, più razionali e più imparziali” (7, p.184, edizione inglese). In questo modo, l’approccio bottom-up e l’approccio top-down possono complementarsi: otteniamo una versione idealizzata dei giudizi morali medi di un certo gruppo di portatori di interessi. Questa versione idealizzata potrebbe informare sistemi di intelligenza artificiale che devono prendere decisioni ad alto rischio in una maniera eticamente più rigorosa. Nonostante ciò, i procedimenti di fine-tuning e i risultati che producono rappresentano al momento un problema ancora aperto. In più, la difficoltà di comprendere il processo attraverso il quale un sistema ad apprendimento automatico produce un certo output (ovvero la sua opacità) rende ancora più difficoltoso correggere eventuali bias incorporati dal sistema. Tecniche di XAI potrebbero mitigare questo problema anche se anch’esse sono spesso criticate per le loro limitazioni. Secondo questa visione, utilizzare modelli computazionali intrinsecamente interpretabili (come regressione lineare o decision trees) in decisioni ad alto rischio potrebbe avere la stessa efficacia di utilizzare modelli opachi, senza presentare appunto il problema dell’opacità (8). Il trade-off tra efficacia computazionale e interpretabilità è con grande probabilità un problema che rimarrà aperto per molto tempo e che sarà da valutare caso per caso.
]]>Il problema, però, è che lui stesso ha dichiarato più di una volta di avere una comprensione limitata di questa materia. Il risultato?
Una serie di errori, omissioni, travisazioni e negazioni della realtà che non trovano né giustificazione, né pietà di giudizio: siamo di fronte a vere e proprie eresie.
E non importa che stiamo parlando del Papa. Anzi, è proprio questo il punto.
Bergoglio non era un uomo qualunque: era il capo della Chiesa Cattolica, con un'influenza che si estendeva a miliardi di persone. E la Chiesa ha un ruolo di forza morale non trascurabile.
Le sue parole e i suoi scritti hanno un peso e proprio per questo non possiamo ignorare quanto ha affermato in questi anni, un lascito che deve essere affrontato con rigore in quanto pericoloso; perché ricordiamolo: l’azione umana è guidata dalle idee.
E se le idee sono sbagliate, la strada che si apre non porta al paradiso, ma all'inferno in terra.
Bergoglio, come ogni uomo, non sfugge al principio per cui le idee che ci guidano siano influenzate dall’ambiente in cui siamo cresciuti.
E il contesto dal quale proveniva era tutt’altro che tra i più favorevoli all’economia di mercato.
Nato nel 1936 in Argentina, ha infatti vissuto il periodo nero del regime peronista, un fascismo populista con uno stretto controllo governativo sull’economia che ha condannato al declino un paese che all’inizio del XX secolo si collocava tra le prime quindici nazioni industrializzate.
E se da un lato lo Stato non aiuta, la Chiesa di quegli anni non arrivava di certo in soccorso.
Pio XI, noto ai più per la sua avversione al socialismo e la ferma condanna del comunismo (Enciclica Divinis Redemptoris 1937), fu in realtà anche un forte critico del liberismo per il suo impatto sociale, come emerge chiaramente nell’Enciclica Quadrageismo Anno (1931)(1).
Non sorprende quindi che Bergoglio abbia maturato un’avversione di fondo al capitalismo che riflette chiaramente la mentalità collettivista del “noi contro voi”; già ben prima del 2013 esprimeva posizioni forti in tal senso e le cose non sono di fatto cambiate con l’elezione al soglio pontificio (2), segnando per i critici un vero e proprio punto di rottura nella Dottrina Sociale della Chiesa (3).
Ma, al di là di frasi come “questa economia uccide”, quali sono le critiche di Bergoglio al capitalismo? E soprattutto, quali sono i limiti e gli errori in tali posizioni?
Una delle più gravi e persistenti fallacie argomentative della critica al sistema capitalistico è l’idea del gioco a somma zero: la ricchezza del singolo deriva esclusivamente dall’aver depredato qualcun altro.
In altri termini? Se tu hai guadagnato qualcosa, tu lo hai fatto a spese di un’altra persona, il tuo vantaggio è la perdita di qualcun altro.
Questa concezione del sistema economico, visto come una torta che non cresce mai e a cambiare è la sola spartizione delle fette, traspare anche negli scritti e nei discorsi di Bergoglio, il quale sembra adottare l’idea che la povertà sia un fenomeno economico strutturale, inevitabile e intrinseco al sistema capitalistico.
Per Francesco I il capitalismo è quindi guidato da una logica di sfruttamento del ricco sul povero, come ben emerge nel suo messaggio per la Terza Giornata Mondiale dei Poveri (2019):
Nel momento della composizione di questo Salmo […] Era il tempo in cui gente arrogante e senza alcun senso di Dio dava la caccia ai poveri per impossessarsi perfino del poco che avevano e ridurli in schiavitù. Non è molto diverso oggi. […] Il Salmista descrive con crudo realismo l’atteggiamento dei ricchi che depredano i poveri: “Stanno in agguato per ghermire il povero…attirandolo nella rete” (cfr Sal 10,9). (4)
giungendo poi in Fratelli Tutti a criticare gli economisti sull’effettiva diminuzione della povertà nel corso dei secoli (5).
Peccato che l’idea per cui la ricchezza di pochi sia la causa diretta della miseria degli indigenti è una menzogna che si scontra tanto con la logica quanto con la realtà storica.
La critica del Papa alla metodologia economica non ha alcun fondamento: nel misurare la povertà si tiene sempre conto dei progressi tecnologici e delle opportunità di sviluppo, i dati non sono mai separati dal contesto dal quale emergono.
Di conseguenza chiediamoci: viviamo noi oggi nelle stesse condizioni dei nostri nonni o bisnonni? Consumiamo gli stessi beni, affrontiamo gli stessi problemi legati ai bisogni primari? Abbiamo a che fare con una trappola malthusiana, dove la scarsità di cibo e risorse limitava la vita quotidiana e il progresso? La risposta è un deciso NO.
Oggi siamo in un mondo in cui la disponibilità di beni e risorse è incomparabilmente più ampia rispetto al passato, e la capacità di acquisto, anche dei più poveri, è enormemente aumentata grazie al progresso economico.
Per quanto la povertà non sia stata ancora debellata, nel sistema di mercato la ricchezza non si accumula togliendo ad altri, ma si crea tramite lo scambio volontario e la cooperazione: è un gioco in cui più persone vincono contemporaneamente.
Le innovazioni tecnologiche e le opportunità economiche create dal sistema capitalistico hanno permesso a intere generazioni di superare i limiti imposti dalla scarsità, portandoci al disaccoppiamento tra consumo di risorse e ricchezza generata.
La torta – detta in altri termini – è nei secoli aumentata.
E su tali basi giungiamo alla distorta comprensione di Bergoglio sul concetto stesso di mercato.
Bergoglio in Laudatio Si’ scrive: (6)
Dal momento che il mercato tende a creare un meccanismo consumistico compulsivo per piazzare i suoi prodotti, le persone finiscono con l’essere travolte dal vortice degli acquisti e delle spese superflue. Il consumismo ossessivo è il riflesso soggettivo del paradigma tecno-economico […]l’essere umano «accetta gli oggetti ordinari e le forme consuete della vita così come gli sono imposte dai piani razionali e dalle macchine normalizzate e, nel complesso, lo fa con l’impressione che tutto questo sia ragionevole e giusto». Tale paradigma fa credere a tutti che sono liberi finché conservano una pretesa libertà di consumare, quando in realtà coloro che possiedono la libertà sono quelli che fanno parte della minoranza che detiene il potere economico e finanziario […]
La situazione attuale del mondo «provoca un senso di precarietà e di insicurezza, che a sua volta favorisce forme di egoismo collettivo». Quando le persone diventano autoreferenziali e si isolano nella loro coscienza, accrescono la propria avidità […]
Qui emergono due carenze concettuali che sono in verità una questione storica di determinati ambienti e ideologie nel loro approccio all’economia:
Concentrandoci sul primo punto, esiste un principio così elementare che dovrebbe essere inciso nella pietra al pari dei 10 comandamenti:
il mercato non è un soggetto, non è un individuo, non ha né volontà, né morale.
Il mercato è un processo, un meccanismo, un mezzo.
È il complesso degli scambi volontari che individui, famiglie, imprese ed enti concludono ogni giorno per soddisfare i propri bisogni, vincolati dalle proprie disponibilità, necessità e preferenze.
Accusare il mercato di imporre gusti o stili di vita distruttivi ha la stessa valenza di accusare il linguaggio delle bestemmie affermate da qualcuno.
Da quando lo strumento è responsabile dell’uso che se ne fa? È il mercato a dirci cosa sia bene o male? O siamo noi a scegliere?
Noi siamo il motore dell’azione, noi siamo la sua forza, la sua guida.
Il mercato riflette ciò che siamo noi, è un mero canale, uno spazio in cui ci esprimiamo per trattare le nostre necessità.
Trattative e scambi basati su una risorsa, la fiducia, che lo stesso Bergoglio giunge pure a negare nell’Enciclica Fratelli Tutti quando afferma:
D’altra parte, «senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica. Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare»(7)
Ma davvero è venuta a mancare? E se sì, quando?
Guardate la vostra giornata, pensate anche al gesto più semplice.
Avete comprato qualcosa? Allora avete avuto fiducia nel fatto che il venditore vi ha dato ciò che vi serviva e lui ha fiducia nel valore del vostro denaro o della vostra promessa di pagamento.
Siete andati a lavorare? Avete fiducia nel fatto che verrete pagati.
Avete acquistato online? Avete pagato (o assunto un impegno) a fronte di un impegno di consegna.
Se non vi fosse fiducia come sarebbero stati allora possibili tali scambi?
È vero, esistono contesti in cui la fiducia è minore, più fragile, sia essa per istituzioni deboli, maggior rischi o minori reputazioni, ma non viene mai meno.
Senza di essa non vi sarebbe il mercato. Senza il mercato saremmo già tornati all’autoproduzione. Siete per caso tornati a produrre i vestiti da animali che avete cacciato? Alquanto improbabile.
E in tal consesso si innesta la ricorrente contestazione al “sistema capitalistico”, mossa con un approccio così aprioristico ed impreciso da essere del tutto antistorica.
Ricordiamolo: capitalismo non è un sinonimo di liberismo, non è una dottrina politica.
Capitalismo è un paradigma produttivo. Il paradigma la cui forza in due secoli ha generato un progresso economico e sociale privo di precedenti nella storia umana.
Piaccia o meno, il crollo verticale della povertà a livello globale lo dovete a questo sistema, perché senza progresso della tecnica e della tecnologia applicata su scala industriale, senza l’offerta di possibilità, di una concreta opportunità di sviluppo, non vi è uscita dalla povertà.
E senza la ricchezza non vi può essere il dono, l’attenzione al più debole.
Cosa si può donare se non si riesce nemmeno a coprire i propri bisogni primari? Come coltivare, come trasmettere i valori del vivere civile se la miseria stessa impedisce a tale civiltà di affermarsi?
Questo significa poi che va tutto bene? Tutto funziona alla perfezione? No.
Esistono soggetti che abusano del sistema, che piegano le logiche del mercato a fini violenti o predatori, danneggiando persone e ambiente. Ma sono forse tutti così? Assolutamente no.
Il che ci porta all’altro errore concettuale profondo: la confusione tra individualismo e atomismo.
Negli scritti di Bergoglio e della pubblicistica a lui vicina si perpetua un errore concettuale tale da minare alla base ogni pretesa di critica: la sistematica confusione tra individualismo e atomismo.
Due concetti distinti e distanti finiti per essere trattati come sinonimi.
Se l’atomismo è infatti l’idea che l’individuo è un’entità chiusa, autosufficiente, indifferente agli altri e alle sorti della società, l’individualismo è l’esatto contrario: è il concetto cardine su cui devono essere imperniati i legami sociali.
L’individualismo è riconoscere l’individuo come unità fondamentale dell’azione.
Solo l’individuo pensa, solo l’individuo ragiona, solo l’individuo agisce.
Solo dall’azione di individui mossi dal proprio interesse personale unita alla responsabilità personale può nascere una società libera e prospera.
Non è in tal senso un caso che Adam Smith ci ricordi nella tanto dimenticata Teoria dei sentimenti morali che l’uomo agisce nella società, ma avendo come primo giudice non la collettività, bensì la propria coscienza, il proprio io interiore.
Dire che l’uomo agisce in quanto egoista non è provocazione, non è insulto: è constatazione.
L’uomo per sua natura è egoista, altra parola travisata nel suo significato più basilare.
Egoismo è prendersi cura di sé stessi, tutelare i propri interessi: come può essere aprioristicamente malvagio preoccuparsi del proprio benessere?
Riteniamo davvero che ogni azione rivolta a sé stessi sia moralmente inferiore rispetto a quella rivolta agli altri? Se sì, riflettiamo un momento.
Poniamo sullo stesso piano l’imprenditore che cerca un profitto con onestà e il ladro che si arricchisce depredando? Chi aiuta gli altri perché avverte il bisogno di farlo, per la propria pace o coerenza morale, compie davvero un’azione altruistica in senso assoluto?
Non è anche questo soddisfare un proprio bisogno?
Il punto non è quindi se l’uomo agisca per interesse, perché sempre lo fa. La domanda semmai è: quali sono i valori che guidano tale interesse?
Il caos è figlio della corruzione dei valori che guidano l’agire, non dell’interesse personale in sé.
Il mercato è il luogo dell’incontro, dello scambio, della cooperazione volontaria.
Problemi quali consumismo sfrenato, sfruttamento dell’uomo e dell’ambiente non sono generati dal mercato in quanto meccanismo, bensì da noi, dalla nostra scelta figlia dei nostri valori.
Il mercato è possibilità: nessuno ci impone di acquistare, non abbiamo una pistola alla tempia.
Il mercato è scambio: esservi favorevoli non vuol dire sostenere uno stile di vita distruttivo.
E, coerentemente con tutto questo: senza ricchezza, senza il capitalismo e i valori fondanti della libertà economica e della proprietà privata, non esiste possibilità alcuna per la vera ed efficace carità.
Non esisterebbe il Terzo Settore così spesso chiamato a sopperire alle carenze di uno Stato inefficiente; filantropia, mecenatismo, la più basilare donazione sarebbe impossibile se non vi fosse chi — grazie alla libertà di creare, produrre, accumulare — possa poi scegliere di restituire.
Il problema non è la libertà economica. Il problema è come la si usa.
E ciò dipende, ancora una volta, dal set valoriale dell’individuo, non dal mercato, non dal capitalismo.
Neanche il concetto di profitto è esente da critiche.
Pur riconoscendo nella Laudato Si’ che l’attività imprenditoriale sia una nobile vocazione orientata a produrre ricchezza e a migliorare il mondo per tutti(8), al contempo traspare chiaramente una concezione d’impresa profondamente preoccupante: se l’impresa si orienta esclusivamente al profitto è una realtà distruttiva. Bergoglio infatti scrive:
Il principio della massimizzazione del profitto, che tende ad isolarsi da qualsiasi altra considerazione, è una distorsione concettuale dell’economia: se aumenta la produzione, interessa poco che si produca a spese delle risorse future o della salute dell’ambiente […] Vale a dire che le imprese ottengono profitti calcolando e pagando una parte infima dei costi. Si potrebbe considerare etico solo un comportamento in cui «i costi economici e sociali derivanti dall’uso delle risorse ambientali comuni siano riconosciuti in maniera trasparente e siano pienamente supportati da coloro che ne usufruiscono e non da altre popolazioni o dalle generazioni future». (9)
Un ragionamento fondato su una premessa completamente errata.
Il profitto è visto come un fine isolato dalla realtà, ma è semmai vero l’opposto: è la via da percorrere per creare valore nel lungo termine.
La salvaguardia dell’ambiente e della società richiede di inglobare le esternalità nei processi produttivi e, se si vuole che le imprese se ne facciano carico, l’unica via è la massimizzazione del profitto.
La domanda, da decenni, è sempre la stessa: verso chi è responsabile l’impresa?
La risposta, semplice e per alcuni scomoda, è sempre una: un’impresa risponde del miglior uso delle risorse per massimizzare il profitto, nel rispetto delle regole del gioco quali libera concorrenza, trasparenza, legalità.
Ma massimizzare non significa ignorare gli impatti ambientali o sociali, anzi.
Questo è il cuore dell’ESG (Environmental, Social and Governance): includere strategicamente l’ambiente, il sociale e la governance è propedeutico a massimizzare il profitto. Farlo non perché imposto, bensì perché conviene.
L’impresa non è una realtà a sé: è un sistema aperto e interconnesso.
Se ignori l’ambiente, chiudi. Se ignori i lavoratori, chiudi. Se ignori le esigenze del mercato, degli stakeholder con cui lavori, chiudi.
Il futuro passa per l’integrazione, non per la condanna. Bisogna accettare:
Cosa si risolve vedendo il profitto come distruzione, il mercato come predatore e imponendo correttivi senza capire le logiche di fondo?
E si badi bene, questa non è vuota retorica per vuoti idoli. Questo è un tema ostaggio di un pluridecennale dibattito segnato da moralismo ed errori tecnici che se non affrontati con rigore - come scrissi nella mia tesi di laurea magistrale - possono costare assai cari (10).
In continuità con il tema del profitto, voglio ora affrontare la questione della speculazione, prendendo a riferimento questo passaggio dell’Enciclica Fratelli Tutti:
La speculazione finanziaria con il guadagno facile come scopo fondamentale continua a fare strage(11).
Pura violenza concettuale.
Parole come “strage” o “guadagno facile” ci trascina in un’antica, plurisecolare, ridondante narrativa ossessionata dal demonizzare la speculazione, una volontà di condanna morale che non lascia plausibili giustificazioni se non la malafede della voluta disinformazione o l’ignoranza tecnica profonda.
Prima di condannare ordunque chiediamoci: sappiamo davvero cos’è la speculazione? O chi la pratichi?
Speculare è acquistare (o vendere allo scoperto) un bene con l'intento di rivenderlo (o riacquistarlo) in futuro, con il fine di ottenere un profitto.
Un profitto atteso sulla base delle informazioni che noi abbiamo e della nostra capacità di intepretarle.
E questo lo fanno tutti. Tutti noi speculiamo.
Ragioniamoci, non è perfettamente tecnico, ma rende l’idea (12).
Andiamo al supermercato per acquistare delle zucchine e vediamo che costano € 2 al kilo. Per qualche motivo crediamo che il prezzo stia per scendere e decidiamo di rinviare l’acquisto; torniamo il giorno dopo e le prendiamo a € 1,50.
Congratulazioni: abbiamo appena speculato. Ti senti crescere le squame sul corpo per questo?
Speculare è assumersi il rischio di prevedere come il prezzo di un bene cambia nel tempo.
Se avremo avuto ragione, il profitto sarà il nostro premio.
Questa attività è tutt’altro che sterile, è funzionale al corretto funzionamento del mercato perché lo speculatore:
È vero, la speculazione può essere abusata, ma in linea di principio non è un gioco d’azzardo.
L’azzardo si basa sul caso, la speculazione su informazioni e analisi, un’attività che favorisce un’allocazione più efficiente delle risorse.
E sì, la speculazione mira al profitto, ma allora chiediamoci:
La speculazione non è parassitismo, è un meccanismo che stimola l’incontro tra realtà e aspettative per favorire lo spostamento delle risorse verso aree più produttive.
Se Tizio prevede un aumento della domanda di energia eolica, investirà in aziende del settore, aspettandosi un guadagno futuro. Questo è un segnale che invia il mercato.
Se ha ragione, altri operatori lo seguiranno. Se sbaglia, perderà solo lui.
Cosa c’è di sbagliato in questo in linea di principio? Niente, assolutamente niente.
Il pontificato di Bergoglio entrerà indubbiamente nella storia per le diverse azioni e tentativi di cambiamento posti in essere in questi anni.
Tuttavia non possiamo non sottolineare che pur essendo il Papa, egli non è esente da critiche.
In questo articolo sono stati esaminati solo alcuni degli aspetti più critici delle sue posizioni economiche e altri temi dovrebbero essere ancora affrontati, dal suo favore al maggior controllo statale, alle dichiarazioni su proprietà privata, lavoro e denaro.
Tuttavia, anche senza entrare nel dettaglio, pure queste ultime non si differenziano dalle precedenti per la loro lontananza dalla realtà dei fatti e dalle ferree leggi fondamentali dell’economia.
La conclusione è che Bergoglio non mentiva su sé stesso: la sua competenza economica è limitata e il poco che sa è distorto.
Le leggi che regolano l'azione umana devono essere comprese con lo stesso rigore con cui un fisico studia le leggi della natura, fondandosi su logica e dati.
E se è vero che le azioni sono guidate dalle idee, la Chiesa dovrebbe allora concentrarsi sui valori che guidano tali azioni piuttosto che cercare di entrare nel merito dei tecnicismi.
Senza efficienza non vi è possibilità di preservare.
Senza ricchezza non vi è spazio per il dono.
E come disse una volta Margaret Thatcher: nessuno ricorderebbe il Buon Samaritano soltanto per le sue buone intenzioni. Aveva anche i soldi.
]]>Si dice che Voltaire, uno dei massimi esponenti dell’Illuminismo settecentesco, abbia pronunciato la frase “non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione”.
Nonostante non vi siano certezze sull’attendibilità storica, è indubbio il valore di tali parole: negli istituti penitenziari vi sono soggetti “invisibili”, totalmente estraniati dalla società civile, spesso disprezzati e considerati "subumani", persone a cui è stata sottratta la libertà personale, uno dei principi supremi delle nostre liberal-democrazie.
È pacifico che i detenuti siano ristretti legittimamente a causa della violazione di norme poste a tutela di cd. beni giuridici (2), da cui consegue, in forza di un principio di mera giustizia retributiva o di esigenze preventive, la sanzione penale. In dottrina vi sono comunque voci che mettono in dubbio tale sistema: l’idea di fondo prospettata da alcuni autori è che il carcere, almeno nel modo in cui è maturato nella quasi totalità delle esperienze (tralasciando dunque le vicende “illuminate” del nord Europa), sia in nuce un sistema violento e controproducente (3).
Il panorama legislativo italiano, dopo essersi a lungo caratterizzato per una visione del carcere come istituzione totale (4), nel cui ambito il rapporto tra il detenuto e l’Amministrazione penitenziaria era fortemente unilaterale, con assoluto assoggettamento del primo, ha subito una significativa innovazione negli anni ’70, quando il legislatore si è mosso, per attuare il dettato costituzionale, con la legge 354/1975, prevedendo la conformità dell’esecuzione della pena ai principi di umanità e dignità e sottolineandone la principale ratio, ossia il reinserimento sociale del soggetto, oltre che il riconoscimento di diritti fondamentali.
Ha iniziato dunque ad affermarsi l’idea, avallata poi dalla giurisprudenza costituzionale, per cui anche ai detenuti debba essere riconosciuto un cd. nucleo duro di diritti, compatibili, ovviamente, con lo status detentionis; d’altra parte la “illuminata” l. 354/1975 soffriva, anche a causa delle tragiche vicende nazionali dell’epoca in tema di attività di organizzazioni terroristiche e mafiose, e per certi versi tuttora soffre, di un'attuazione solo parziale.
Una criticità durata a lungo è stata la mancata previsione di strumenti con cui il singolo detenuto poteva reagire di fronte a violazioni dei propri diritti fondamentali da parte dell’Amministrazione penitenziaria, insomma, certi diritti erano anche previsti ex lege, ma la loro “giustiziabilità” era seriamente ridotta. Da chi è stata risolta tale questione? Dalla politica? No, dal potere giudiziario: la nostra Suprema Corte ha esteso alle ipotesi di violazione dei diritti fondamentali il cd. reclamo generico di cui all’art. 14 ter della legge 354/1975, con cui il detenuto può contestare, rivolgendosi al Magistrato di sorveglianza (5) e addirittura alla Corte di Cassazione (6), l’applicazione di sanzioni disciplinari, come l’“isolamento”, stabilite nei suoi confronti dalla direzione del penitenziario.
Un’ulteriore tappa cruciale è stata la celebre condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Corte EDU) nel 2013, a causa non solo del grave sovraffollamento carcerario (7), ma anche dell’assenza di rimedi efficienti in capo ai detenuti: il ricorso ex art. 14 ter era ritenuto dalla Corte EDU insufficiente, poichè, nonostante la sua natura giurisdizionale, consentiva un’interlocuzione tra giudice e detenuto ricorrente meramente “cartolare”, basata dunque solo su documenti cartacei. Così il nostro parlamento ha introdotto un ulteriore rimedio, il reclamo ex art. 35 bis, che ritroveremo come protagonista alla fine.
]]>L’arresto è arrivato pochissimi giorni prima del congresso del Partito Popolare Repubblicano (CHP) (2), che avrebbe dovuto incoronare İmamoğlu come candidato del partito alle elezioni presidenziali del 2028, alle quali l’ormai ex-sindaco era dato per favorito. La scelta del candidato presidente a tre anni dalle elezioni non deve stupire. Secondo diversi media è molto probabile che si tengano elezioni anticipate, in quanto secondo la costituzione l’attuale presidente Erdoğan (in carica dal 2014) non potrebbe essere rieletto, a meno che non ponga fine prematuramente all’attuale mandato, il che gli permetterebbe dunque di ricandidarsi. La stragrande maggioranza dei commentatori considera l’arresto di İmamoğlu come un atto di Erdoğan indirizzato ad eliminare il popolare rivale politico, che secondo i sondaggi risulterebbe vincitore in un eventuale ballottaggio con il presidente (3).
Questo arresto è però solo l'ultimo di una serie di provvedimenti giudiziari contro il sindaco di Istanbul, spesso criticati per la loro infondatezza. Il giorno prima dell’arresto l’Università di Istanbul ha revocato la laurea di İmamoğlu a causa di presunte irregolarità nel suo trasferimento da un’università di Cipro Nord: si tratta di un provvedimento rilevante, in quanto essere laureati è un requisito necessario per candidarsi alla presidenza del Paese. Nel 2022 İmamoğlu poi era già stato condannato a scontare una pena di due anni e sette mesi per aver chiamato “scemo” il Ministro dell’Interno, mentre stava solo ripetendo l’epiteto che invece era stato lo stesso ministro ad attribuirgli. I procuratori avevano poi aperto un fascicolo contro il sindaco per aver mancato di rispetto alla tomba del sultano Mehmet II (avrebbe tenuto le mani incrociate dietro la schiena al suo cospetto). In totale, İmamoğlu sarebbe stato l’oggetto di ben 93 indagini (4). Erdoğan non è nuovo ad attacchi contro gli amministratori locali appartenenti all’opposizione, sia del CHP che del partito filocurdo DEM, spesso destituiti con accuse simili a quelle rivolte a İmamoğlu, ovvero corruzione e collaborazione con organizzazioni terroristiche. All’inizio di quest’anno l’arresto di un sindaco della Regione di Van ha provocato forti proteste di piazza e l’arresto di più di 300 persone tra politici, giornalisti ed accademici(5).
İmamoğlu era in carica dal 2019, quando con una storica elezione aveva strappato il governo della città più grande della Turchia all’AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo), il movimento politico di Erdoğan, che governava Istanbul da più di vent’anni. Già ai tempi il governo aveva tentato di bloccare l’elezione del membro del CHP, ordinando la ripetizione del voto. Al secondo tentativo İmamoğlu aveva ottenuto invece 6 punti percentuali in più, confermando il risultato della prima tornata e venendo rieletto nel 2024. Secondo gli accademici la popolarità del sindaco è dovuta alla sua retorica anti-populista basata sul mandare messaggi generalmente positivi (come il suo famoso slogan “andrà tutto bene”), distensivi e non polarizzanti (nel 2019 ha dichiarato di essere amico di Erdoğan), promettendo agli elettori non un brusco cambiamento ma un “nuovo inizio”. Questa strategia ha permesso a İmamoğlu di intercettare i voti di elettori che a livello nazionale voterebbero per l’AKP ed Erdoğan, garantendosi dunque il successo in tre elezioni comunali e rendendolo il candidato presidente ideale per il CHP (6).
L’arresto di İmamoğlu ha suscitato le accese proteste della cittadinanza della metropoli Euroasiatica, scesa subito in piazza per difendere la democrazia. I manifestanti hanno sfidato il governo centrale, che ha tentato di bloccare le proteste chiudendo alcune importanti arterie stradali della città e limitando i trasporti pubblici, imponendo inoltre un esplicito divieto di manifestazione. Proteste di rilievo si sono svolte in tutta Istanbul, ma principalmente davanti alla sede del Consiglio Metropolitano nell’area di Saraçhane, dove a fianco del grande drappo raffigurante Atatürk ne è stato posto uno proprio di İmamoğlu. Se tra il 19 e il 23 marzo erano circa 300 le persone arrestate, oggi i numeri parlano di circa 2000 fermi in tutto il paese. Sono stati inoltre arrestati diversi giornalisti, mentre alcuni corrispondenti stranieri occidentali sono stati deportati (7).
Il caso ha avuto rilevanza nazionale e ha portato a manifestazioni nelle principali città della Turchia, compresa la capitale Ankara, il cui sindaco MansurYavaş, anch'egli membro del CHP, si è unito alle proteste condannando l’arresto di İmamoğlu: secondo i media potrebbe essere lui il nuovo candidato del partito alla presidenza. Grandi manifestazioni si sono svolte in altre 50 città del Paese. Sia ad Istanbul che altrove la polizia ha risposto alle proteste di piazza con estrema violenza, lanciando gas lacrimogeni e usando i cannoni ad acqua contro i manifestanti, oltre che sparando spray al peperoncino e proiettili di gomma direttamente all’altezza del viso e del capo. Sia le immagini che i numeri forniti dagli organizzatori dimostrano l’ampia partecipazione della popolazione alle manifestazioni (si parla di centinaia di migliaia di persone, ma non ci sono cifre verificabili), in particolare di molti studenti, manifestazioni che secondo alcuni commentatori sono tra le più grandi tenutesi nel paese da più di dieci anni. Tra i manifestanti si possono apprezzare slogan come “I dittatori sono codardi!” e “l’AKP non ci silenzierà” (8).
In generale, le proteste sono fortemente sostenute dal CHP, il cui leader Özgür Özel ha definito l’arresto di İmamoğlu come un “golpe contro il nostro prossimo Presidente”, e si è rivolto ai manifestanti davanti al municipio invitandoli a non darsi per vinti. Secondo Özel gli arresti degli amministratori locali legati al CHP sono da intendersi come una vendetta di Erdoğan e dell’AKP per il pessimo risultato ottenuto dal movimento guidato dal Presidente alle elezioni amministrative svoltesi a marzo 2024, che avevano visto la vittoria dei candidati dell’opposizione nelle maggiori città del Paese e la rielezione di İmamoğlu a Istanbul, un risultato che è stato definito come la peggior sconfitta di Erdoğan in vent’anni(9).
Nonostante l’importante ruolo del CHP nel sostenere e organizzare le proteste, esse sono però spesso direttamente organizzate da gruppi di studenti ed attivisti non necessariamente legati al partito. L’arresto di İmamoğlu è solo l’ultimo dei numerosi soprusi messi in atto nei confronti della democrazia da Erdoğan, che negli ultimi anni (in particolare dal fallito golpe del 2016) ha sempre più accentrato il potere nelle sue mani, provocando scontento in diverse fasce della popolazione. Le proteste si concentrano infatti su temi ben più ampi, come sul futuro della democrazia in Turchia e sulla sopravvivenza dello stato di diritto, oltre che sul disastroso stato dell’economia. Sin dal 2018 la Turchia si trova in una forte crisi dovuta alla sempre crescente inflazione (che a febbraio si è attestata ad un tasso annuale del 39%), causa di disoccupazione, perdita di potere d’acquisto e di un generale impoverimento delle classi produttive del Paese. Di conseguenza, alle elezioni amministrative del 2024 i temi economici hanno dominato il dibattito elettorale andando a svantaggio di Erdoğan, sostenuto ora dal 43% della popolazione, mentre alle presidenziali del 2023 era riuscito ad ottenere il 52% dei voti (10).
Ad andare invece a vantaggio di Erdoğan è la situazione politica internazionale. Secondo diversi commentatori il Presidente si sentirebbe rassicurato dall’elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti e dal conseguente avvicinamento della nuova amministrazione a posizioni illiberali. Il governo americano ha infatti catalogato la questione İmamoğlu come puramente interna alla Turchia, una reazione simile a quella della Russia. Trump ha dimostrato di avere ottime relazioni con Erdoğan, e quest’ultimo ha anche beneficiato dell’aiuto di Elon Musk, dato che la piattaforma X ha eliminato diversi profili legati ad attivisti dell’opposizione su richiesta delle autorità turche, le quali hanno comunque fortemente limitato l’accesso a tutti i social durante le proteste. Mantenere relazioni amichevoli con Erdoğan sembra essere un punto fondamentale della politica estera americana, considerata anche la posizione strategica del Paese tra Europa e Medio Oriente, in particolare dopo i recenti sviluppi in Siria. La Turchia, che fa parte della NATO e ne costituisce il secondo esercito per grandezza, è inoltre cruciale nelle controverse trattative di pace in corso tra gli USA e la Russia per porre fine alla guerra in Ucraina. Anche l’UE si trova nella posizione di non poter essere troppo dura con la Turchia, che per la sua posizione geografica dovrebbe essere necessariamente inclusa in un eventuale nuovo framework di difesa europeo dopo l’annunciato disimpegno americano nel Vecchio Continente (11).
Erdoğan appare comunque piuttosto fragile all’interno, e come fatto notare da un parlamentare del CHP, se il governo fosse stato davvero forte non avrebbe avuto bisogno di arrestare İmamoğlu, che dal 23 marzo si trova in isolamento nel carcere di massima sicurezza di Silivri, dal quale comunica tramite note scritte. Nella stessa giornata del 23 marzo la corte ha momentaneamente messo da parte l’accusa più grave, quella per terrorismo, ma İmamoğlu è stato comunque dichiarato decaduto dalla carica di sindaco di Istanbul: il Consiglio Metropolitano di Istanbul ha tuttavia eletto un sindaco ad interim, evitando così il commissariamento e quindi il diretto controllo del governo sulla municipalità. Il leader dell’opposizione ha poi dichiarato la sua volontà di combattere e “non inchinarsi alla tirannia” ed ha espresso il suo supporto alle manifestazioni di piazza. İmamoğlu ha esortato i dimostranti a continuare a “usare il loro diritto costituzionale alla protesta democratica” e, mantenendo la sua linea politica basata sull’ottimismo, a far prevalere “l’amore e i sorrisi”. L’ex sindaco ha anche ringraziato i cittadini per la sua elezione a candidato del CHP alle prossime elezioni presidenziali nelle ormai simboliche primarie del Partito Repubblicano che si sono svolte sempre domenica 23. Al voto hanno partecipato, secondo il leader del partito Özel, più di 14 milioni di elettori, di cui solo un milione erano membri del CHP, un dato che dimostra la solidarietà di milioni di cittadini turchi alla causa dell’opposizione a Erdoğan, indipendentemente dalla loro appartenenza ai Repubblicani (12).
Il Presidente Erdoğan ha reagito alle proteste declassando a “teatrale” la reazione del CHP ai procedimenti contro İmamoğlu, accusando il partito di diffondere “terrore da strada” e dipingendo i manifestanti come “un movimento di violenza”, mentre il Ministro della Giustizia ha rigettato le accuse di politicizzazione del potere giudiziario. Diversi esperti, accademici e giornalisti hanno invece fatto notare il costante degrado che ha subito l’indipendenza della magistratura turca, sistematicamente minata dai numerosi interventi del governo mirati a portare il sistema giudiziario sotto il proprio controllo. Il governo ha anche direttamente attaccato organizzazioni legate al mondo della giustizia e della magistratura, come l’Ordine degli avvocati di Istanbul, il cui consiglio esecutivo è stato sciolto nella stessa settimana dell’arresto di İmamoğlu sempre con l’accusa di terrorismo (13).
Erdoğan e l’AKP hanno anche attaccato il nuovo metodo di protesta dell’opposizione, ovvero il boicottaggio delle aziende legate al Presidente ed al suo partito. L’elenco vede inseriti i nomi di numerose grandi aziende turche appartenenti a diversi settori (14), come media, automotive, telecomunicazione e altri servizi, spesso di proprietà del Gruppo Doğuş, legato all’AKP. Per esempio, ha destato scalpore l’inclusione della catena di caffetterie EspressoLab, a cui il governo è andato immediatamente in aiuto mandando agenti antisommossa a difendere i caffè. Il leader del CHP ha pubblicamente invitato i cittadini a sostenere il boicottaggio, ed il 2 aprile si è tenuta la prima giornata “no shopping”, che ha regalato immagini di una Istanbul deserta e di negozi vuoti o chiusi. Erdoğan ha accusato l’opposizione e il CHP di star sabotando l’economia turca, anche se stando ai dati sono state le non ortodosse politiche economiche del presidente ad affossarla. Anche dopo lo stesso arresto di İmamoğlu si sono avute gravi ripercussioni economiche: il 19 marzo la lira turca ha perso il 10% del suo valore rispetto al dollaro. I cittadini turchi, trovandosi in ristrettezze economiche a causa della situazione economica del Paese, sono dunque ancora più motivati a partecipare a boicottaggi ed iniziative simili. Questi eventi potrebbero infatti mettere in seria difficoltà il governo (che ha già fatto arrestare 11 persone accusate di incitare al boicottaggio sui social) poiché coinvolgono anche persone che normalmente sarebbero intimorite dalla partecipazione alle manifestazioni di piazza, viste anche le scene di violenza alle quali abbiamo assistito (15).
La Turchia si trova ora ad un bivio. Il ricorso da parte di Erdoğan a un metodo finora inedito per lui, ovvero il diretto arresto di un potenziale rivale alla sua carica, indirizza il Paese verso quell’autoritarismo che viene denunciato già da diversi anni. Molti parlano dunque del caso İmamoğlu come di un punto di non ritorno, la pietra tombale definitiva sulla democrazia e sullo stato diritto in Turchia. Tuttavia, l’eccezionale partecipazione alle proteste rivela qualcosa che spesso i media non fanno notare: ovvero l’enorme vivacità, passione e dedizione di ampi strati della società civile turca, che, lungi dall’accettare passivamente gli ormai del tutto espliciti piani illiberali dell’AKP, hanno reagito e continueranno a farlo nei prossimi mesi. Gli studenti, attivisti, lavoratori e cittadini si trovano a protestare non solo per la giustizia, la democrazia e lo stato di diritto, ma per il loro benessere e il loro futuro, messi a rischio anche dalla completa incompetenza economica del Presidente. Erdoğan, impoverendo la cittadinanza, ha solo alimentato il dissenso, facendo di fatto del suo Paese una polveriera. La miccia innescata dall’arresto del popolare sindaco di Istanbul rischia di diventare un processo difficile da controllare per il Sultano di Ankara: forse questo arresto potrebbe rivelarsi l’autogol definitivo di Erdoğan al proprio ventennale regime.
]]>Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha definito Papa Francesco "un punto di riferimento". Ricordato dalla premier Giorgia Meloni come un grande uomo e “un grande pastore” (2), Elly Schlein, segretaria del Partito democratico, ha sottolineato il suo impegno per la giustizia sociale e l'ambiente, definendolo "il Papa degli ultimi e degli emarginati" (3).
A livello globale, numerosi leader hanno espresso il loro cordoglio, dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, António Guterres, che ha descritto Francesco come un "difensore dei marginalizzati" (4) al Presidente francese Emmanuel Macron, che ha lodato il suo impegno per i più deboli alla Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, che ha evidenziato la sua compassione e il suo amore per i meno privilegiati (5) a Donald Trump. A queste parole si sono unite anche quelle del mondo musulmano (6) (Abu Mazen in particolare ha definito Papa Francesco “amico fedele del popolo palestinese”) e di quello ortodosso (7).
Non è mancato il cordoglio di Vladimir Putin (8) e, nonostante la posizione di Bergoglio riguardo alla guerra in Ucraina non sia stata priva di ambiguità, quelle del governo di Kyiv (9).
Papa Francesco sarà sepolto nella Basilica di Santa Maria Maggiore, in una cappella semplice, nel rispetto del suo desiderio di umiltà (10). Secondo le normative vaticane, il conclave per l'elezione del suo successore dovrà tenersi tra 15 e 20 giorni dall'inizio della Sede Vacante.
Jorge Mario Bergoglio nasce a Buenos Aires nel 1936. Dopo aver lavorato come tecnico chimico, nel 1958 entra nella Compagnia di Gesù. Viene ordinato sacerdote nel 1969 e nel 1992 viene nominato vescovo ausiliare della capitale argentina. Nel 1998 ne diventa arcivescovo e nel 2001 viene creato cardinale da Giovanni Paolo II.
Noto per il suo stile sobrio, il suo impegno pastorale nelle periferie di Buenos Aires, le sue critiche nei confronti del neoliberismo argentino e la sua attenzione ai poveri, la sua figura non è stata priva di controversie, in particolare per il ruolo assunto durante la dittatura militare (1976–1983), durante il periodo della quale, secondo alcune ricostruzioni, non avrebbe offerto sufficiente protezione ai sacerdoti progressisti, come i gesuiti Jalics e Yorio. Le accuse non hanno mai avuto riscontri giudiziari solidi, ma hanno alimentato numerosi dibattiti sulla sua figura già prima dell’elezione al soglio pontificio (11).
Nel 2013, dopo la rinuncia di Benedetto XVI, viene eletto Papa, primo gesuita e primo del continente americano. Sceglie il nome Francesco in omaggio al santo di Assisi, simbolo di povertà e pace. La caratteristica che emerge sin dai primi momenti è quella di una comunicazione spesso non convenzionale e poco istituzionale, che, se da un lato recupera un avvicinamento pastorale diretto alla chiesa dei fedeli, dall’altra ha rischiato di indebolire il ruolo del pontefice come capo di stato.
L’impegno pastorale di Francesco è ben esplicitato attraverso le sue encicliche, dalla prima, "lumen fidei" (12), co-firmata con Benedetto XVI, sul tema della fede e della sua trasmissione, a "Laudato si’" (13) sull’ecologia universale, una delle più innovative degli ultimi decenni, in cui il Papa invita a una conversione ecologica globale, a “Fratelli uniti”(14)(15) sulla fraternità, l’amicizia sociale e critica nei confronti del liberismo economico, all’ultima, “Dilexit nos” (16), sull’amore umano e divino del cuore di Cristo. I temi trattati da Papa Francesco abbracciano l’intera vita dell’individuo all’interno della comunità alla quale appartiene ed evidenziano l’immagine di un pontefice molto impegnato a livello politico nel pensare una società completamente riformata.
Punto focale del suo ministero è stato anche il rilancio della sinodalità: una Chiesa che ascolta, cammina insieme, discerne collettivamente. Questa visione ha trovato espressione concreta nel Sinodo sulla sinodalità (2021–2024) (17).
Con la Costituzione Apostolica “Praedicate Evangelium” (2022) (18), Francesco ha poi riorganizzato la Curia romana, dando priorità alla missione evangelizzatrice e promuovendo la trasparenza economica. Ha inoltre reso più inclusiva la governance vaticana, inserendo laici e donne in ruoli decisionali.
Sul piano liturgico e dottrinale, il motu proprio “Traditionis custodes” (2021) (19) ha limitato l’uso della Messa in latino, scatenando reazioni forti da parte del mondo tradizionalista, che già criticava aperture percepite come troppo «progressiste», specie su famiglia, morale sessuale e inclusività.
Il pontificato è stato segnato da tensioni con l’ala conservatrice della Chiesa. Alcuni cardinali hanno espresso pubblicamente "dubia" su documenti come “Amoris Laetitia” (2016), che ha introdotto aperture sui divorziati risposati. Il fronte tradizionalista ha inoltre criticato le aperture pastorali verso le persone LGBTQ+ e la Messa in latino, vedendo in Francesco un indebolimento dell’identità cattolica (20)(21).
Il dialogo con il Patriarcato di Costantinopoli ha vissuto un forte rilancio, grazie all’intesa personale tra Francesco e il Patriarca Bartolomeo I 22). Storico anche l’incontro del 2016 con il Patriarca Kirill di Mosca, interrotto però dopo lo scoppio della guerra in Ucraina. Francesco ha criticato apertamente Kirill per il suo sostegno a Putin, definendolo "chierichetto di Putin" (23).
Con il mondo islamico, Francesco ha firmato il Documento di Abu Dhabi sulla Fratellanza Umana (2019) (24), con il Grande Imam di al-Azhar, promuovendo una cooperazione globale per la pace e ha visitato paesi musulmani come Iraq, Marocco ed Egitto nel tentativo di rafforzare ponti tra religioni.
Nel dialogo con l’ebraismo, Francesco ha parlato degli ebrei come "fratelli maggiori nella fede" e ha condannato ogni forma di antisemitismo, visitando sinagoghe e onorando la memoria della Shoah (25).
In politica estera le prese di posizione di Francesco hanno sollevato parecchi dubbi e perplessità quando non indignazione, soprattutto in relazione alla guerra d’invasione russa in Ucraina.
Dalla primavera del 2022 Papa Francesco ha espresso sì più volte preoccupazione per la guerra in Ucraina, ma le sue dichiarazioni hanno spesso suscitato forti reazioni. Se da un lato il pontefice ha condannato l’aggressione, dall’altra ha evitato di nominare direttamente Vladimir Putin come responsabile, risultando così le sue parole insufficienti e ambigue. Una delle frasi più discusse è stata “la guerra è una pazzia. Le guerre sono sempre ingiuste. Non ci sono buoni e cattivi” (26). Questa affermazione, unita a quella di un’intervista rilasciata nel 2023 nella quale ha suggerito che la NATO avesse “abbaiato alle porte della Russia” (27), sono state interpretate come giustificazioni implicite delle azioni del Cremlino e come un tradimento dei valori democratici e occidentali. Nel 2024 Francesco ha sollevato nuove polemiche affermando che “la bandiera bianca non è resa, ma coraggio di negoziare” (28), quasi un invito all’Ucraina a cedere territori per porre fine al conflitto.
Sulla guerra in corso a Gaza Papa Francesco non ha risparmiato parole nette di condanna nei confronti di Hamas e al contempo della reazione israeliana. Nel libro “La speranza non delude mai. Pellegrini verso un mondo migliore” ha auspicato un’indagine per verificare se quanto sta accadendo nella Striscia abbia effettivamente le caratteristiche del genocidio, dubbio che ha provocato l’immediata reazione dell’Ambasciata israeliana presso la Santa sede (29). I rapporti con il governo di Netanyahu non sono mai stati in realtà completamente distesi, a partire dal massacro del 7 ottobre: il Papa come già sottolineato ha sempre avuto parole di condanna per la reazione israeliana oltre che per il rapimento degli ostaggi da parte di Hamas, evidenziando come le condizioni degli abitanti di Gaza siano inaccettabili e mantenendo un dialogo serrato con Gabriel Romanelli, parroco attivo nella Striscia (30).
Papa Francesco ha incarnato un papato "di frontiera", tra tensioni interne e aperture di rilievo, che però si sono concretizzate solo in parte. Di particolare rilievo risultano le misure sulla trasparenza economica, un inizio anche se complicato e poco incisivo l’apertura alla comunità LGBT+ e alle coppie divorziate. Il punto più dolente è certamente quello sulla guerra in Ucraina, nei confronti della quale la posizione del pontefice è risultata ondivaga e ambigua e permeata in più occasioni da vaghe note antioccidentaliste.
L’atteggiamento mite e a tratti colloquiale che emerge dalle numerose interviste rilasciate in questi anni non deve confondersi con una personalità arrendevole o disponibile ai compromessi: il pontificato di Papa Francesco ha avuto una decisa impronta politica con accenti pauperistici e con prese di posizione nette che spaziano dall’ecologia all’economia al tema dell’accoglienza fino all’inclusione dei marginalizzati.
Un papato tra luci e ombre che non ha lasciato indifferente la comunità dei fedeli.
Sarà interessante vedere chi erediterà il soglio di Pietro e in che modo il nuovo Papa si muoverà, se nel solco del suo predecessore o in rottura con esso.
]]>L’Imposta sul Valore Aggiunto (IVA) e i dazi sono entrambe imposte indirette applicate agli scambi, ma le due affliggono diversamente gli scambi su cui incidono.
L’IVA grava su tutti i beni consumati all’interno di un dato Paese, indipendentemente dal fatto che questi siano stati prodotti al suo interno o siano stati importati. Invece i dazi, focalizzandoci solamente su quelli relativi alle importazioni, affliggono solo l’importazione di beni o servizi dall’estero con lo scopo di influenzare il loro costo d’acquisto.
Proviamo a spiegarne le differenze con un esempio pratico.
Supponiamo di andare ad un ristorante per mangiare un hamburger e che:
Andiamo al ristorante, prendiamo un hamburger italiano e uno statunitense, e ci vengono chiesti 11€ per l’hamburger nostrano e 22 per quello estero. Ma come si arriva a questi prezzi?
Partendo dal costo che il ristoratore sostiene per ogni hamburger (10€ nel nostro esempio) a questo si aggiunge poi l’IVA al 10% (aliquota per i servizi di ristorazione), ma c’è una differenza importante: la c.d. base imponibile sulla quale si applica l’aliquota è superiore per quello statunitense. Mentre per l’hamburger italiano l’imposta si applicherà infatti su € 10, quello statunitense è affetto dal dazio del 100%, che porta l’ammontare su cui applicare l’imposta a 20€, sul quale poi il 10% ci fa arrivare ai totali 22€ che il ristoratore ci ha chiesto. L’IVA non fa alcuna distinzione tra i prodotti, mentre il dazio discrimina solo il prodotto straniero.
Ma allora perché Trump, insieme a tanti altri, continua a lanciarsi contro l’IVA, qualificandola come una pratica commerciale scorretta contro gli Stati Uniti ed a vantaggio delle esportazioni degli altri Paesi? Probabilmente, se non certamente, perché vuole approfittare della confusione dovuta alle differenze di funzionamento dei nostri sistemi di imposte, rifiutandosi di approcciare seriamente una questione non ovvia sulla quale va dunque fatta chiarezza.
Quasi tutti i Paesi nel mondo hanno un’imposta sui consumi, ciò che cambia è la forma.
La nostra IVA è una c.d. imposta multifase, ovvero si applica in ogni fase del ciclo di vita di un prodotto (produzione, trasformazione, commercializzazione), ma è realizzata in maniera tale da non essere un costo per le imprese coinvolte, gravando effettivamente solo sul consumatore finale. Questa caratteristica è detta tecnicamente neutralità dell’IVA ed è ottenuta tramite un processo detto rivalsa, che illustreremo ora con un esempio pratico.
Poniamo che Mario produca un paio di scarpe, tu le inscatoli e venda, e che Ascanio sia l’acquirente finale. Se operiamo in un contesto di IVA al 10% ove:
Cosa succede in termini di IVA?
L’IVA che hai pagato a Mario (1€) è un credito verso lo Stato, poiché tu l’hai versata a Mario, che è un tuo fornitore, e visto che, come abbiamo detto prima, l’IVA è concepita per essere un costo solo sul consumatore finale, tu dovrai fartela restituire.
L’IVA che tu hai incassato da Ascanio (1.50€) - invece - è un debito verso lo Stato e la dovrai versare ad esso. Dunque al momento del versamento dell’imposta salderai al fisco la differenza tra l’IVA pagata ai fornitori e quella incassata dai clienti, qui pari a 50 centesimi.
L’IVA per le imprese (cioè Mario e te) è dunque una partita finanziaria, cioè un flusso di denaro in entrata e in uscita, che poi arriva allo Stato dall’effettivo pagatore (Ascanio) (2). Ma cosa succede invece nell’ambito degli scambi con l’estero?
Negli scambi con l’estero l’IVA non è applicata sulle esportazioni, ma solo sulle importazioni. Questo è noto come “adeguamento di frontiera” (border adjustment), una caratteristica del tributo dovuta alla sua stessa natura. Capiamola procedendo punto per punto sulla base di quanto detto.
Le imposte sul consumo, che includono l’IVA, non dipendono dal luogo di produzione della merce, ma da quello dove è consumata, ergo non interessano il consumo che si verifica all’estero (export), ma solamente quello che avviene su suolo nazionale, che il prodotto sia importato o meno.
Dunque serve siano essere chiari alcuni aspetti, che spieghiamo ora con un altro esempio.
Poniamo io voglia vendere della mia merce all’estero:
Perché non assoggettare anche le esportazioni all’IVA?
Se ciò avvenisse, un americano che acquista un macchinario italiano pagherebbe l’imposta due volte: una volta verso il fisco statunitense e un’altra verso quello italiano. Visto che il macchinario sarà usato negli Stati Uniti, non Italia, e che l’IVA è un’imposta sul consumo sul suolo italiano, questa non inciderà sull’esportazione oltreoceano.
Perché invece non si “esentano” le importazioni dall’IVA?
L’IVA, come abbiamo detto, è fatta per gravare sui consumatori finali, e tutti i prodotti consumati sul suolo nazionale vi sono assoggettati, che siano importati o meno. Se così non fosse, nel caso si esentassero dal pagamento dell’IVA le importazioni dall’estero, si darebbe a queste ultime un ingiusto vantaggio, sussidiando indirettamente i produttori stranieri.
Questa è l’essenza del principio di neutralità dell’IVA applicato nel commercio internazionale: pago l’imposta dove consumo, non dove dove produco. L’IVA non impatta sul commercio internazionale, ma solo sui consumi interni.
Se io e lo statunitense Alfredo fossimo concorrenti nel vendere lo stesso tipo di scarpe in Italia, a far la differenza sarebbero solo la nostra efficienza produttiva e un potenziale maggior costo che Alfredo potrebbe dover sostenere per le sue scarpe qualora egli fosse assoggettato a dei dazi in Italia (3), senza però che vi sia alcuna discrimazione in termini IVA, poiché l’aliquota applicata sarebbe la stessa per entrambi.
Questa per gli statunitensi è una dinamica completamente diversa rispetto a ciò che accade nella loro nazione, ove invece è vigente un’imposta sulle vendite, la Sales Tax, in un complicato sistema(4) che differisce dall’IVA poiché:
Per capirlo, serve bussare alla porta della Casa Bianca. L’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), i più diversi economisti(6), nonché la normativa(7) dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), sono chiari sul tema: i dazi discriminano, e l’IVA è un’imposta nazionale che non genera alcun vantaggio competitivo.
Evitate quindi la follia di questa danza macabra dell’intelletto in catene, non è saggio prendere parte alla novella replica del ballo degli indemoniati di Strasburgo del 1518.
]]>Trovo questo tipo di ragionamento fallace, e invero esso stesso pericoloso. Si fonda su stereotipi manichei (“noi” buoni contro “loro” cattivi). Ciò impedisce di cogliere la complessità di una dinamica – quella della mobilitazione politica su base religiosa – che richiede invece estrema attenzione e preparazione. In queste righe mi concentrerò in particolare su come viene trattato il tema dell’islamismo militante o “radicalismo islamico”; e poi sulle conclusioni che possiamo trarre per casa nostra.
Partiamo dalla dicitura di “radicalismo islamico”. È fuorviante, e nella letteratura specializzata viene usata poco ormai: suggerisce infatti che andando alle “radici” dell’Islam vi si trovi militanza violenta. Ergo: i fondamenti dell’Islam sono violenti. Tesi che nessuno studioso serio dell’Islam sostiene più da anni, ovvero da quando proprio l’evento violento per antonomasia legato all’Islam (l’11 Settembre) ha generato una moltitudine di studi sull’argomento (che si sono andati ad aggiungere ad una letteratura già molto vasta per-2001). Il fatto che l’Islam possa generare – indiscutibilmente – movimenti politici violenti indica una possibilità, non una necessità. Fatto, per altro, condiviso da ogni altra religione: fanatici indù del Rashtriya Swayamsevak Sangh, Klu Klux Klan cristiano, Movimento Kach nel contesto dell’ebraismo. Ora, se anche concediamo, come espediente comunicativo, che essere “radicali” voglia dire essere inclini alla violenza, non lo possiamo però accettare come strumento analitico. Per esempio, ci possono essere posizioni “radicali” che di violento hanno ben poco: il movimento salafita, tra i più rigidi e, appunto, “radicali” nella galassia islamica, produce per la stragrande maggioranza dei casi comunità dedite alla preghiera, alla lettura del Corano e al seguire un certo stile di vita.
E qui appunto la galassia islamica: è veramente inopportuno pensare che questa rappresenti un monolite; e non è un monolite nemmeno una sua specifica configurazione, quella islamista, che a sua volta non è sempre violenta e militante – anzi, lo è in un numero veramente ristretto di casi. L’islamismo si riferisce a movimenti e gruppi che vogliono elidere la separazione tra religione e politica che, val la pena di ricordarlo, è un concetto partorito nel contesto storico della nostra società, ma non necessariamente di altre. Il lavoro di Talal Asad in tal senso è fondamentale, e Liberi Oltre se ne occuperà a breve. Voler elidere tale distinzione non vuole per nulla dire che lo si voglia fare con la violenza. Da qui, bisogna ulteriormente appunto distinguere un islamismo militante che invece, innegabilmente, abbraccia la violenza politica come strumento legittimo. Non basta: all’interno dello spazio dell’islamismo militante le differenze ideologiche, programmatiche, strategiche sono enormi. In sostanza sono gruppi che spesso si combattono l’un l’altro. Non ci potrebbe essere nulla di più frammentato dell’islamismo militante, e bisogna raccontarlo come tale. Dire che Hamas, gli Hezbollah, i Fratelli Musulmani, l’ISIS e l’Iran fanno parte di un medesimo blocco che condivide idee, valori e programmi è assurdo. Dire che tale “blocco” vuole distruggere l'intera civiltà occidentale poi dimostra una errata percezione anche delle loro capacità oltre che delle loro intenzioni.
Proviamo, in maniera limitata dato lo spazio a disposizione, a proporre alcune considerazioni. Primo: i Fratelli Musulmani non sono considerati da nessun esperto una “formazione estremista” o “radicale”. Val la pena di ricordare che hanno vinto le prime (ed uniche) elezioni libere in Egitto (nel 2012). Che siano stati inetti e incapaci al governo non suggerisce che siano estremisti. Che abbiano fornito, specie negli anni ’70, una base ideologica da cui invece sono emersi gruppi estremisti, è invece vero. Ma la rinuncia alla violenza da parte della Fratellanza data agli anni ’50, e appunto tali gruppi finivano per condannare i Fratelli Musulmani per il loro interesse nelle associazioni come sindacati, per la via parlamentare al potere, per il loro spirito riformista. Che poi l’attuale governo egiziano, tra i più repressivi della regione, li dichiari terroristi dice più di Al-Sisi di quanto non dica della Fratellanza stessa.
Hamas è una costola dei Fratelli Musulmani, un gruppo che – dato il contesto in cui opera, che è di occupazione militare – ha scelto la violenza armata. Si può peraltro ricordare che Israele ne foraggiò la crescita a fine anni ’80 come rivale dei nazionalisti laici dell’OLP. Possiamo chiamare resistenza quanto fa Hamas se condividiamo le sue posizioni; possiamo chiamarlo terrorismo se gliele contestiamo. Possiamo anche vedere un’area grigia, dove il terrorismo è una tattica e la resistenza una dichiarazione politica – parliamo di livelli di analisi diversi. Meno controverso è il fatto che Hamas si comporti come innumerevoli gruppi di stampo anti-coloniale: a torto o a ragione, credono che lo stato di Israele sia una potenza coloniale e lo vogliono scacciare. È tutta una questione di terra e nazione, tanto che vengono definiti “islamo-nazionalisti”. Per dire: Hamas nei suoi piani programmatici non lancia invettive contro l’Occidente tutto. Non ha un’agenda di califfato globale. Non ha nemmeno un chiaro progetto di cosa voglia dire “governo islamico” perché non è il suo focus principale. Che poi i suoi leader impongano le solite, tristi misure di facciata (velo obbligatorio per le donne, restrizioni sul consumo di alcol, etc.…), o che abbiano governato Gaza dal 2006 ad oggi in modo autoritario e miserevole, o che siano capaci di atti come quelli del 7 Ottobre, non cambia la loro raison d’être.
Hezbollah è invece un attore politico ancora diverso. Sciita e non Sunnita, il che implica principi teologici e cosmologici specifici da cui discende una certa organizzazione a livello sociale (vi è qualcosa di simile ad un clero, per esempio). Soprattutto, per la nostra conversazione, importa che esso sia legato all’Iran a doppio filo, in maniera molto diversa da Hamas. Hezbollah segue la dottrina (sciita) di Khomeini della “Tutela dei Giureconsulti”, un anatema a livello ideologico, teologico e programmatico sia per i Fratelli Musulmani che per Hamas. Se i suoi membri collaborano con Hamas è perché hanno un nemico in comune, Israele. Ma, come Hamas, non hanno il progetto di un califfato globale – anche loro sono “islamo-nazionalisti”: solo che il loro territorio di riferimento è il Libano e non la Palestina. A livello organizzativo e operazionale, sono simili ad Hamas in quanto, come quasi tutte le formazioni islamiste militanti, offrono servizi essenziali alla popolazione. Se vogliamo spiegare perché molti in Libano e Palestina (ma non tutti!) supportino Hamas e Hezbollah, allora dobbiamo pensare che essi gestiscono ospedali, scuole, cliniche, centri di accoglienza, offrono sussidi di disoccupazione, costruiscono (e ricostruiscono) edifici e infrastrutture. Lo fanno per proprio tornaconto? Certo – come qualsiasi attore politico nella stessa situazione; e lo fanno perché – in Palestina o in Libano, per motivi diversi – non c’è uno Stato capace di farlo al posto loro.
Quindi, l’Iran. Il quale, a differenza degli attori menzionati finora, è uno stato, non un movimento socio-politico. È l’unica teocrazia al mondo (insieme, possiamo ricordarlo con una punta di ironia, al Vaticano): vi è una classe clericale al potere. Come stato, opera come e più della Fratellanza, di Hamas e di Hezbollah nel contesto statuale regionale e internazionale. Ha una rivalità mai veramente sopita con l’Arabia Saudita (entrambi vorrebbero vantare una preminenza nel mondo Islamico); ne ha una che conosce fasi alterne di distensione e tensione con la Turchia; e ha un confronto aperto con Israele dal 1979, anno della rivoluzione islamica. È un confronto che fa comodo ad entrambi. “Perfetti nemici” li ha descritti Ali Ansari, tra i principali esperti di politica iraniana: gli iraniani possono usare lo spauracchio israeliano per giustificare repressione interna e vari programmi di armamento; gli israeliani per inquadrare come “esistenziale” la minaccia degli ayatollah e giustificare in base ad essa incursioni militari nella regione (Siria, Iraq, Yemen, e infine anche l’Iran stesso) e mantenimento dello status quo nei Territori Occupati. L’Iran dal canto suo supporta Hamas e Hezbollah in quanto incapace di rappresentare una minaccia militare convenzionale per Israele. La ricerca dell’atomica risponde a questa logica. Basta, in un certo senso, la realpolitik per spiegare come l’Iran si comporti nei confronti di Israele.
Un paio di appunti ulteriori. L’ideologia khomeinista è complessa, e non si ha qui lo spazio per approfondire i suoi tratti. Ma non è un’ideologia di califfato globale: questa locuzione appartiene al jihadismo sunnita, che considera l’Iran post-rivoluzionario peggio degli “infedeli occidentali”.
Per quanto detto finora, nessuno degli attori fin qui menzionati rappresenta un “blocco islamico” che vuole distruggere l’Occidente. Ci sono invece altri attori ancora – i cosiddetti jihadisti-salafiti – che in effetti propugnano un Califfato e la parallela distruzione del mondo occidentale. I più famosi sono Al Qaeda e il defunto Stato Islamico. La loro ideologia (ancora una volta: composita al loro interno, e vi sono studi che dimostrano la frammentazione dell’ISIS, per esempio) ha un’origine storico-intellettuale precisa: il connubio tra un Islamismo rivoluzionario propugnato da alcuni gruppi separatisi dalla Fratellanza Musulmana (cui abbiamo fatto cenno poc’anzi) e alcune istanze della corrente salafita, altrimenti apolitica e non-movimentista. Possiamo chiudere con quanto segue: ISIS e Al Qaeda predicano la distruzione, o per lo meno la lotta senza quartiere, all’Occidente. Tale minaccia si è presentata nei terribili atti terroristici che conosciamo. Ma pensare che tali atti, per quanto tragici, possano distruggere la nostra civiltà, va oltre ogni giustificato allarmismo. Sono atti criminali che vanno trattati come tali. Anche quando l’ISIS provò appunto a farsi “stato”, per sconfiggerlo militarmente bastarono milizie curde con supporto aereo americano. Non esattamente uno sforzo militare proibitivo da ultimo scontro per la sopravvivenza dell’Occidente.
Se vi è dunque un movimento mondiale islamista, tale movimento non è certo compatto. Quando anche alcuni gruppi, o uno stato come l’Iran, adottano la violenza, non è detto che lo facciano per distruggere l’Occidente. E quando anche lo vogliano fare, questa minaccia si articola come questione di polizia e intelligence; non sono gli eserciti, per essere chiari, che la devono affrontare. Criminali, non un attacco alla nostra civilizzazione.
]]>Gli studenti hanno avuto l’onore di ospitare come relatori Vittorio Emanuele Parsi, professore ordinario di relazioni internazionali all’Università Cattolica di Milano, e Federico Varese, professore specializzato in criminalità organizzata russa all’Università di Oxford.
La discussione ha avuto inizio con una breve panoramica storica: dal Memorandum di Budapest del 1994, all’invasione della Crimea nel 2014 da parte dei russi, ai successivi Accordi di Minsk, fino ad arrivare all’attuale invasione dell’Ucraina iniziata nel febbraio 2022, invasione che ha riportato la guerra in Europa per la prima volta dalla Seconda Guerra Mondiale.
Come ha spiegato il professor Parsi nei suoi interventi, la guerra tra Russia e Ucraina ha rappresentato un importante cambio di paradigma nella politica internazionale. Se storicamente sono sempre esistiti i rapporti di forza tra gli Stati, dal 1945 l’Europa ha cominciato a darsi delle regole e a costruire quello che è chiamato il “sistema internazionale liberale” che, tramite l’esistenza delle istituzioni, obbliga gli Stati più forti al rispetto di determinate regole, tra cui il divieto dell’utilizzo della guerra di aggressione. Putin ha violato tali regole – credendo di poter applicare gli stessi principi del passato per raggiungere le proprie mire espansionistiche – quando nel 2022 ha dichiarato guerra all’Ucraina.
Grazie all’intervento del professor Varese, la discussione si è potuta ampliare anche all’analisi della politica e della società russe. In particolare, si è ricordato come il processo di democratizzazione della Russia si sia interrotto sul nascere: l’apertura dell’economia russa al libero mercato non è stata accompagnata dalla presenza di uno Stato efficiente, lasciando così lo spazio a vuoti di potere che sono stati occupati dalla criminalità organizzata e dalle controverse relazioni tra la politica e gli oligarchi. Inoltre, nel 1993, il presidente della Federazione Russa Boris Nikolaevič El’cin ha iniziato a modificare la Costituzione in senso più autoritario, la qual cosa mostra come le riforme antidemocratiche di Putin non siano una novità, ma un’evoluzione della politica russa del passato.
A conclusione dell’evento è stato lasciato spazio al pubblico per rivolgere domande ai due relatori.
L’evento del 19 marzo “Oltre gli Accordi: la diplomazia come arma della propaganda” fa parte della rubrica di eventi di politica internazionale che organizziamo come associazione di Liberi, Oltre le Illusioni all’Università Cattolica di Milano.
La tua partecipazione fa la differenza! Scopri i prossimi eventi di Liberi, Oltre le Illusioni e diventa parte attiva del cambiamento.
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Ho dovuto far fuggire tutta la mia famiglia...il Myanmar non è un posto sicuro per chiunque abbia una bussola morale.
A parlare è un giornalista, le sue parole riportate da un articolo di Human Right Watch. Siamo al quarto anno di una guerra civile che si è portata appresso, secondo i dati dell’OHCHR (Office of the United Nations High Commissioner for Human Rights), tra le 5.000 e le 8.165 anime. Un tempo celebrato per la sua ricca eredità culturale e i templi dorati di Bagan, oggi il paese è un campo di battaglia, un mosaico di sofferenza e resistenza. Il regime militare vacilla sotto il peso delle proprie brutalità, mentre le forze di resistenza, pur combattendo l’intermittenza del sostegno di Pechino (1), guadagnano terreno. Come se non bastasse, un violento terremoto di magnitudo 7.7 ha di recente provocato un’altra tragedia umanitaria.
In questo brutale conflitto si gioca il destino di un popolo che, oltre ai propri valori e speranze, ha messo in discussione anche i suoi eroi.
]]>Come discusso con Giampaolo Galli qualche settimana fa (1), sono ben poche le cose sulle quali in economia vi è un consenso quasi unanime e, tra queste, vi è il giudizio sui dazi.
I dazi, qualunque sia la ragione per la quale li adottiamo, finiscono col danneggiare l’economia di un paese. E neanche gli Stati Uniti sfuggono a questo principio.
Come evidenziato dalla Tax Foundation (2), i dazi della prima presidenza Trump si sono tradotti in un danno per consumatori e imprese, hanno provocato l'aumento dei prezzi delle materie prime, dei semilavorati e delle merci, con conseguente impatto inflazionistico, minor reddito da lavoro e da capitale e una compromissione della capacità competitiva del paese, con distorsioni nell’allocazione delle risorse per gli investimenti e un trasferimento dell’impatto delle tariffe dai settori “tutelati” al resto dell’economia.
L’impatto finale sul PIL è dunque complessivamente negativo, con lo stesso bilancio statale a uscirne danneggiato a causa sia del minor conseguente gettito fiscale che della danneggiata resilienza dell’economia americana.
Ed è proprio per questo che in questi giorni abbiamo visto Borse in rosso e dati controintuitivi come la svalutazione del dollaro: gli agenti economici si aspettano la recessione, non una nuova epoca dell’oro.
Donald Trump non ha risparmiato parole e toni enfatici dietro la nuova ondata:
Oggi è il giorno della Liberazione, il 2 aprile sarà per sempre ricordato come il giorno in cui l'industria americana rinasce, il giorno in cui il destino dell'America è stato ripreso, e il giorno in cui abbiamo iniziato a rendere l'America di nuovo ricca
E in che modo i dazi perseguirebbero tale obiettivo?
il nostro paese e i suoi contribuenti sono stati derubati per più di 50 anni, ma ora non succederà più. Lo fanno a noi? Lo facciamo a loro. Molto semplice. Ora tocca a noi prosperare
Dazi reciproci.
Il dazio è un’imposta indiretta applicata sulla quantità o il valore di una merce (bene o servizio) importata nel paese che lo impone (3). Tale imposta assume il carattere di “reciprocità” quando in una situazione di scambio tra due paesi entrambi scelgono un’applicazione reciproca di pari entità.
Esempio: gli Stati Uniti impongono un dazio del 25% su l’acciaio UE? L’UE risponde con un 25% su prodotti americani importati.
Perché una tale policy?
Formalmente può essere un caso di guerra commerciale, uno strumento di pressione o un modo per riallineare una situazione di scambio commerciale percepita come sbilanciata.
Il caso odierno rientrerebbe in quest’ultimo motivo, poiché il deficit commerciale statunitense sarebbe dovuto – secondo la Casa Bianca – a una combinazione solidificata nel tempo di barriere commerciali, dazi e condizioni non daziarie quali dumping fiscale, manipolazione del cambio, leggi sull’ambiente e la sicurezza del lavoro più lasche, ecc (si noti inoltre che la traduzione corretta di tarrifs è dazi, non tariffe, n.d.a.).
Ma è davvero così? È questo quello che abbiamo visto il 2 aprile? Assolutamente no.
I nuovi dazi statunitensi non sono un caso di reciprocità, ma una scelta deliberata figlia del grottesco, ove il grottesco è tanto il modello adottato quanto la logica sottostante.
L’USTR ha pubblicato la formula adottata nel calcolare i dazi (4):
]]>Il sociologo Zygmunt Bauman, nella sua riflessione sull’identità e società, ha coniato il concetto di modernità liquida per far emergere alcune delle peculiarità delle società occidentali moderne rispetto a quelle passate. Bauman sostiene che le nostre società a partire dagli anni 80’ abbiano avviato un processo, tuttora in corso, di liquefazione dei valori che ha reso difficile per l’individuo moderno trovare punti di riferimento duraturi sia a livello culturale che personale. Le relazioni, le carriere lavorative e i valori morali possono mutare facilmente e velocemente. I punti di riferimento istituzionalizzati, che costituivano i percorsi di vita della maggioranza della popolazione, hanno perso progressivamente la loro funzione. Passaggi chiave nella vita di una persona come l’indipendenza economica, una relazione stabile, una casa di proprietà e l’avere figli non sono più percepiti come traguardi obbligatori. Al tramontare di questi valori, che erano alla base della costruzione di una identità soggettivamente e socialmente condivisa, e all’acquisizione di una maggiore libertà individuale, si è registrato un importante effetto collaterale: l'aumento del senso d’incertezza esistenziale. Senza un modello da seguire ci si deve creare una strada con le proprie forze quindi ogni scelta implica un significativo carico di responsabilità personale, terreno fertile per ansia e senso di precarietà. L’individuo moderno, libero ma incerto, ha trovato rifugio in un modello d’identità basato su criteri performativi in cui ogni individuo ha la possibilità di crearsi una propria narrazione personale, perennemente in corso d’opera, costantemente aggiornata ed esposta al pubblico.
Seguendo questa logica, il mercato dei divertissement (svago e divertimento) di cui fanno parte ogni forma d’intrattenimento dalle droghe ai social, è stato fondamentale per l'affermazione e la diffusione di questo modello. L’intrattenimento e il divertimento servono principalmente per distrarre l’individuo, provocando un temporaneo senso di appagamento e piacere. Questo meccanismo si è dimostrato particolarmente efficace per alleviare le ansie e le incertezze dell’individuo moderno. Sul breve periodo ogni forma d’intrattenimento colma quel senso di precarietà, tuttavia nel lungo periodo ha dimostrato di alimentarlo poiché non risolve alla radice il problema. I social sono l’esempio più evidente di questa dinamica: offrono uno spazio in cui le persone sperimentano versioni diverse di sé, costruendo narrazioni idealizzate. Il problema è che, invece di rafforzare l’identità, questo meccanismo porta a un confronto costante con le immagini stereotipate degli altri, generando insicurezza e alienazione. Una tecnologia che promuove queste dinamiche performative complica la percezione del sé reale mettendolo a confronto con il sé (e con altre persone) online idealizzato, evidenziando così una scissione difficilmente colmabile fra le due identità. Jonathan Haidt in La generazione ansiosa dimostra l’influenza che i social hanno sulla salute mentale delle persone, specialmente sulla generazione Z (i nati dal ‘97 al 2012). L'autore attraverso i dati evidenzia come i casi di depressione, in questa fascia di popolazione degli Stati Uniti, dal 2010 ad oggi siano aumentati del 145 per cento nelle femmine e del 161 per cento nei maschi e medesime tendenze si registrano negli altri paesi occidentali. Haidt adduce questo aumento principalmente all’uso dei social e altre forme d'intrattenimento durante l’infanzia e l’adolescenza. Questa tipologia di prodotti è così efficace perché fornisce esperienze preconfezionate, permettendo alle persone di esplorare sé stesse in totale comodità. Le esperienze vissute direttamente, fondamentali per la costruzione della propria identità, sono sempre più spesso sostituite dalle loro versioni mediate specialmente da social, TV o videogiochi. Guardare una semplice partita di calcio in TV o attraverso un videogioco è diventata la prima forma d’esperienza di una persona, sostituendo quella vissuta realmente alla stadio.
L’importanza di queste tecnologie, e di ciò che veicolano, è fondamentale nel processo di crescita personale perché riescono ad inserirsi efficacemente nei processi di socializzazione e di conoscenza della realtà. Ciò che ci intrattiene occupa il nostro tempo libero, influisce sulla nostra identità e sul nostro stile di vita: lo scrolling infinito sui social, il binge watching e il generale sovraccarico di stimoli digitali in cui siamo immersi, più o meno consapevolmente, hanno effetti evidenti sulla salute. Il calo della soglia d’attenzione degli ultimi decenni oppure il più recente fenomeno del brain rot, ovvero il deterioramento mentale dovuto all'eccessiva esposizione a contenuti multimediali superficiali e privi di senso, sono indicatori dell’influenza e dell’importanza che queste tecnologie hanno nella nostra vita.
I divertissement sono subdoli: conquistano attraverso la comodità, la facilità d’utilizzo e il piacere temporaneo. Spesso si finisce conquistati senza neanche essersene accorti e si passa la maggior parte del proprio tempo libero guardando contenuti di cui pochi minuti dopo ci si scorda. Fornire indicazioni per evitare derive di questo tipo è complicato ma spesso si offrono due soluzioni opposte: una che predica il distacco da tutto e l’altra che sostiene che non vi sia scampo poiché ormai completamente immersi in un ambiente digitale. Attraverso queste semplificazioni si perde di vista il vero obiettivo, cioè ricalibrare il consumo a favore di prodotti più complessi, meno usa e getta. Un primo passo è rendersi consapevoli dell’importanza di ciò di cui usufruiamo e crearsi di conseguenza una propria dieta mentale, per evitare che ciò che consumiamo finisca per consumarci. Ricercare prodotti più significativi e darci contemporaneamente il tempo necessario per elaborarli o approfondirli, evitando una fruizione completamente passiva, è un esercizio che va applicato quotidianamente. Trovare prodotti culturali che lasciano spazio all’interpretazione è sempre più raro poiché la tendenza è quella di fornire prodotti facilmente consumabili, dove ogni dettaglio è chiarito e ogni possibile dubbio deve venir corretto e colmato. Un esempio di prodotti facilmente digeribili è rappresentato dalla Marvel Cinematic Universe, che nei suoi film o serie tv non lascia spazio ad interpretazioni, tutto viene esplicitato allo spettatore. Al contrario film come Il ragazzo e l’airone di Hayao Miyazaki sono prodotti fortemente evocativi che impegnano lo spettatore e pretendono da lui uno sforzo interpretativo, non basta un'unica visione per poterne apprezzare appieno la complessità. La dieta mentale metaforica non deve essere stringente, qualche 'sgarro’ è normale, come in tutte le diete, ed eliminare completamente i contenuti leggeri o senza senso non è la soluzione, cercare invece di ridimensionarne il consumo può essere una linea guida utile e perseguibile nel lungo periodo. Trovare un equilibrio è una sfida individuale, senza soluzioni univoche. Tuttavia, se non impariamo a selezionare ciò che consumiamo, rischiamo di diventare spettatori passivi della nostra stessa identità.
]]>Per comprendere l'attuale stato delle cose, occorre ricordare alcuni passaggi storici fondamentali. La radice del conflitto risale al periodo del mandato britannico sulla Palestina (1917-1948), quando la Dichiarazione Balfour del 1917 promise un “focolare nazionale” per il popolo ebraico in una regione già abitata da una popolazione araba numerosa.
Con la fine della Seconda guerra mondiale, in seguito alla Shoah, nel 1948 fu proclamata la nascita dello Stato di Israele. Seguirono guerre con gli stati arabi confinanti (1948-49, 1956, 1967, 1973) e l’occupazione dei territori palestinesi, una situazione che ha creato tensioni e recriminazioni fino ai giorni nostri. Dal lato palestinese, la formazione di gruppi come l’OLP negli anni ‘60 e successivamente di Hamas nel 1987 ha accentuato la conflittualità, introducendo anche la componente del terrorismo.
Dopo decenni di tentativi di pace falliti, come gli Accordi di Oslo (1993-1995), oggi il conflitto si trova in una fase in cui ogni possibilità di negoziato sembra svanita. La radicalizzazione di Hamas da una parte e l’intensificazione della risposta militare israeliana dall'altra, che a sua volta alimenta nuove ondate di estremismo, creano un circolo vizioso di violenza, vendetta e ulteriore radicalizzazione. Ogni attacco genera una reazione che, lungi dal risolvere la questione, la esaspera, rendendo sempre più remota ogni possibilità di soluzione pacifica. Questo meccanismo perpetuo di conflitto non solo distrugge le prospettive di pace nella regione, ma rafforza l’ideologia estremista, che si nutre delle sofferenze e delle ingiustizie percepite da entrambe le parti.
Il punto chiave, però, non è più chi abbia ragione o torto, e Israele e Palestina paiono ostaggi della loro stessa storia, nel frattempo il radicalismo islamico avanza. Ora, proviamo a riflettere su una questione: una sconfitta di Israele potrebbe rappresentare un pericoloso punto di svolta nell’espansione del jihadismo, con conseguenze che andrebbero ben oltre il Medio Oriente. Eppure, mentre il pericolo cresce, alcuni sembrano più interessati a cercare giustificazioni a posteriori per una guerra che si trascina da un secolo, piuttosto che a valutare quali siano le implicazioni reali per l'Occidente e per il mondo intero.
Hamas non è semplicemente un movimento di resistenza palestinese: è un'organizzazione jihadista che persegue apertamente l’eliminazione di Israele e la creazione di uno stato islamico basato sulla Sharia. La sua ideologia è condivisa da altre formazioni estremiste come Hezbollah, i Fratelli Musulmani e dall’Iran, che lo sostiene militarmente. Se il circuito paramilitare attorno cui ruota Hamas dovesse ottenere una vittoria significativa, il segnale che ne deriverebbe sarebbe devastante: dimostrerebbe che il terrorismo e l’estremismo possono vincere, dando probabilmente nuova linfa ai gruppi jihadisti in tutto il mondo, dall'Africa al Medio Oriente fino all'Europa.
L’esperienza dell’Afghanistan ci insegna quanto il radicalismo islamico sia resiliente e pronto a riprendere il potere ogni qual volta ne abbia l’opportunità. Questo è un esempio concreto di come il fanatismo non venga estirpato con una semplice presenza militare o con strategie diplomatiche di compromesso. Dopo oltre dieci anni di occupazione statunitense e miliardi di dollari spesi per la democratizzazione del paese, i Talebani sono tornati al governo senza alcuna difficoltà, riportando con sé violenza, oppressione e il ritorno a un regime di terrore. La lezione qui è chiara: senza un cambiamento strutturale e culturale profondo, qualsiasi ritiro o cedimento viene interpretato dal radicalismo islamico come una vittoria, alimentando nuove ondate di estremismo e questo cambiamento non può essere imposto dall'esterno in pochi anni.
Questa stessa logica si applica alla Palestina e al ruolo dell’Occidente: la vittoria del radicalismo avrebbe effetti altrettanto disastrosi che si ritorcerebbero contro l’Occidente stesso, da sempre attore di spicco nello scacchiere mediorientale e il cui fallimento risulterebbe a questo punto evidente e non reversibile. Un altro aspetto cruciale che non può essere ignorato è la responsabilità della comunità internazionale nei finanziamenti concessi con troppa leggerezza. Per anni enormi somme di denaro sono state erogate senza adeguato controllo con il pretesto di aiuti umanitari e progetti di sviluppo. In troppi casi questi fondi si sono invece trasformati in tunnel sotterranei per il contrabbando di armi e infrastrutture per attività terroristiche. Questa facilità di finanziamento, spesso forse dettata da calcoli politici interni o dall’evitare di urtare sensibilità diplomatiche o persino dall’opportunismo elettorale, ha contribuito a rafforzare chi non ha alcuna intenzione di usare quei fondi per costruire una pace duratura. Ogni concessione economica senza adeguati controlli non ha fatto altro che alimentare un meccanismo autodistruttivo che ha reso il radicalismo islamico più forte e le prospettive di pace sempre più lontane.
Chi pensa che questa sia una guerra di conquista o di riconquista del territorio, secondo me, sbaglia. La verità è che Israele non è vista solo come una terra da reclamare, ma piuttosto come un corpo estraneo occidentale. È questo che Hamas combatte: la presenza stessa di una società che nella struttura istituzionale e culturale incarna un modello di vita incompatibile con la visione teocratica fondamentalista.
Ma c'è di più. Hamas non è solo un'organizzazione ideologica o religiosa, è anche un sistema gestito da signori della guerra, individui che traggono enormi vantaggi economici dalla situazione di conflitto. Il controllo su una popolazione povera e disperata, tenuta in ostaggio dal fanatismo religioso, diventa uno strumento di potere per chi governa l’organizzazione. Armi, traffici illeciti, finanziamenti esteri: tutto ruota attorno a un'economia della guerra che garantisce a questi leader una posizione di dominio assoluto. Israele rappresenta, in questo senso, una sfida diretta a quell’ordine religioso e ideologico che il radicalismo islamico vuole imporre, ed è per questo che la sua distruzione è vista come un obiettivo strategico per chi sogna l’instaurazione di un califfato islamico globale, ma anche per chi vuole perpetuare il proprio potere personale e i propri privilegi.
Il radicalismo islamico non è solo un problema per Israele, ma una minaccia globale. Già in passato, attentati come quelli dell’11 settembre 2001, gli attacchi a Madrid (2004), Londra (2005), Parigi (2015) e Bruxelles (2016) hanno dimostrato quanto l’estremismo islamico possa colpire direttamente l’Occidente. La vittoria di Hamas, o di movimenti simili, seppur assolutamente remota a livello militare, potrebbe concretizzarsi a livello mediatico facendo leva sul senso di colpa occidentale post-coloniale e ciò rafforzerebbe questa minaccia alimentando l’ideologia jihadista nelle periferie europee, dove il fenomeno della radicalizzazione è già una realtà preoccupante.
Inoltre, chi si augura un'eventuale caduta di Israele dovrebbe tenere presente che quest’eventualità destabilizzerebbe ulteriormente il Medio Oriente, rafforzando gli attori più pericolosi della regione: l’Iran, il quale sogna l’eliminazione dello Stato ebraico e l’egemonia sciita; la Turchia, che sotto Erdogan ha mostrato simpatie per Hamas; e i gruppi affiliati ad Al-Qaeda e ISIS, che vedrebbero una simile vittoria come una prova della giustezza del loro jihad. La storia ci insegna che, come accadde con il nazismo, il fanatismo non può essere arginato solo con la diplomazia: la Seconda guerra mondiale dimostrò che, di fronte a un'ideologia totalitaria e violenta, il ricorso alla forza fu necessario per scongiurare conseguenze ancora più catastrofiche. Allo stesso modo, il radicalismo islamico, se lasciato prosperare nelle simpatie occidentali, potrebbe rappresentare una minaccia esistenziale per l'Occidente, rischiando di imporre uno scontro che non si limiterebbe più ai confini del Medio Oriente.
Oggi, la vera domanda è quale futuro vogliamo costruire. Schierarsi in modo ideologico per Israele o per la Palestina senza una visione strategica del mondo è un esercizio sterile. L’unica valutazione sensata riguarda la sicurezza, la stabilità e la libertà futura dell’Occidente.
Mentre il modello occidentale si basa sulla democrazia, sulla libertà individuale e sul pluralismo, il radicalismo islamico promosso da Hamas e gruppi simili incarna l’esatto opposto. I regimi fondati sulla Sharia impongono restrizioni pesanti alla libertà di espressione, ai diritti delle donne e anche alla possibilità di professare religioni diverse dall’Islam dominante. In molti paesi dove il fondamentalismo islamico ha preso il sopravvento, si assiste alla repressione di oppositori politici, alla censura e alla negazione di diritti civili fondamentali.
Se l’Occidente non difenderà attivamente i propri principi, rifiutando qualsiasi compromesso con ideologie che ne negano l’esistenza stessa, il rischio sarà quello di assistere a una volontà di espansione di queste dottrine anche in Europa, con possibili effetti nefasti sul tessuto sociale e sulla libertà delle future generazioni. Non si tratta solo di Hamas o Al-Qaeda. Ignorare questa minaccia significa permettere che la libertà, il pluralismo e la democrazia vengano progressivamente erosi da un’ideologia che non ammette compromessi e rischiare di consegnare ai nostri figli un futuro in cui l’estremismo sarà più forte, la sicurezza più fragile e la libertà minacciata. Questo è un genere di rischio che non ho nessuna intenzione di correre e se c’è una lezione che la storia ci ha insegnato, è che il fanatismo non si ferma da solo: deve essere fermato. Non esistono guerre convenzionali "belle", la guerra sotto ogni punto di vista rappresenta il fallimento dell'umanità, ma quando però (e purtroppo) si è già dentro quel fallimento, allora bisogna avere anche il coraggio di scegliere da che parte stare e ciò si badi bene non vuol dire che si debba accettare acriticamente l'operato del governo israeliano, ma avere la forza di guardare avanti. Il vero obiettivo deve essere la tutela della propria civiltà e dei propri valori, senza lasciarsi trascinare in un tifo cieco che ignora le reali e possibili conseguenze geopolitiche ed esistenziali che ci potrebbero attendere.
]]>L’invasione porta con sé morte e distruzione, ma non solo.
Come affermato il 7 dicembre 2022 da Matilda Bogner - capo della missione di monitoraggio delle Nazioni Unite - nelle prime settimane dell’invasione su larga scala vengono uccisi numerosi civili nelle regioni di Kyiv, Chernihiv e Sumy. Tutti questi episodi sono strazianti e deplorevoli, ma uno in particolare desta sgomento per l’atrocità con cui viene perpetrato, un evento riportato dai media di tutto il mondo: il massacro di Bucha.
La ritirata delle truppe russe dalla città avverrà poi il 31 marzo 2022 grazie alla resistenza delle truppe ucraine e a questo punto giornalisti e reporter potranno documentare quanto successo nelle settimane precedenti.
Con questo articolo vogliamo mantenere vivo il ricordo di quanto accaduto attraverso la cronaca degli eventi e degli atti ormai riconosciuti come crimini contro l’umanità. Per non dimenticare. Mai.
Il 24 febbraio 2022 le forze armate russe hanno invaso l’Ucraina con l'intento di conquistare Kyiv in pochi giorni, ma la resistenza ucraina si è rivelata un ostacolo al piano di guerra putiniano.
Poche ore dopo l’inizio di quella che è stata definita da parte della Federazione Russa “operazione speciale militare”, le “Russian Airborn Forces” conquistano l’aeroporto Antonov di Hostomel, cittadina a circa 10 km da Kyiv. L’obiettivo è quello di stabilire una postazione operativa da cui far partire l’offensiva verso la capitale. Secondo i piani di Putin la città sarebbe capitolata in pochi giorni. Questi piani si sono rivelati fallimentari.
]]>In Turchia siamo alla quinta notte di proteste dal giorno dell’arresto del sindaco di Istanbul nonché principale avversario politico del presidente. Ekrem İmamoğlu, il cui nome era ben noto ai giovani turchi ancor prima delle accuse mossegli dallo stato, è presto diventato il volto della Turchia democratica. “Il suo arresto è un colpo di stato”, mi dice Ozan, uno degli studenti presenti alla manifestazione. Indossa una maglia della squadra turca del Fenerbahce e ammette, scherzando, che il suo è un inglese da ingegnere. “Tutti si sono mossi in sua difesa, perché equivale a difendere la nostra repubblica”.
Su X (il social di Elon Musk, che in questi giorni è stato accusato di censurare le proteste) girano parecchi video, alcuni di essi rivelatori di una cruda repressione: spray al peperoncino, bastonate, idranti sugli studenti. Sorprendono i metodi della polizia, che poco hanno a che fare con quelli a cui siamo abituati nei paesi democratici; le manganellate arrivano anche a fronte di provocazioni indirette, di discorsi allusivi, o di simboli di qualunque genere (è popolare in queste ore un video in cui si vede un giovane ragazzo esultare alla maniera di Cristiano Ronaldo a qualche passo dalle forze dell’ordine, che reagiscono in modo affatto proporzionato). “È una realtà a cui ci siamo abituati,” prosegue Ozan, “ma stiamo reagendo. In 15 milioni hanno votato alle primarie del CHP (il partito d’opposizione, ndr), legittimando e adulando la figura di Imamoglu. Non è più una battaglia circoscritta ad Ankara e Istanbul, la gente protesta anche nelle campagne”.
A febbraio l’inflazione nel paese era del 39,1%, il livello più basso da parecchi anni, con un picco dell’85,5% nel 2022. La lira turca è debole e la classe media, un tempo sostenuta dal governo di Erdogan, è oggi in seria difficoltà—oltre ad essere esausta. La Turchia più rurale, quella che si estende lungo l’est del paese, è stata lo zoccolo duro del presidente, le cui politiche conservatrici compiacevano l’elettorato meno occidentale. Oggi però la situazione è diversa: il terrorismo di matrice jihadista continua a far paura, i diritti umani vengono calpestati e la voce della gente comune silenziata. Dal golpe fallito nel 2016, i giornalisti fronteggiano dure leggi che limitano la libertà di stampa.
]]>Dopo lo scontro tra Zelensky e Trump nello Studio Ovale e la pausa negli aiuti militari statunitensi all'Ucraina, è ormai chiaro che l'Europa si trovi a fronteggiare una crescente incertezza riguardo al supporto militare e alla cooperazione in difesa da parte degli Stati Uniti. In questo contesto, la Commissione Europea ha lanciato il piano "ReArm Europe", una serie di misure mirate a rafforzare il riarmo dell’Europa e ad aumentare la spesa militare degli Stati membri dell'Unione. Questa proposta arriva in un momento in cui la protezione militare, che per decenni è stata garantita dagli Stati Uniti, appare sempre più incerta.
Il piano proposto dalla Commissione europea prevede due misure principali. La prima consiste in una clausola di salvaguardia che consentirà agli Stati membri di aumentare il debito per finanziare le spese militari, senza violare le disposizioni del Patto di stabilità e crescita, che limita gli eccessi di spesa. In pratica, si tratterà di un’eccezione al Patto: i paesi potranno incrementare il loro debito oltre i limiti previsti, a condizione che la spesa aggiuntiva sia destinata alla difesa, senza incorrere in procedure di infrazione da parte della Commissione. Questa eccezione avrà un limite complessivo di 650 miliardi di euro per un periodo di quattro anni, permettendo ai paesi di aumentare la loro spesa militare fino all’1,5% del PIL rispetto ai livelli attuali. La presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, aveva anticipato la possibilità di proporre questa clausola di salvaguardia circa un mese fa.
La seconda misura riguarda la creazione di un nuovo fondo da 150 miliardi di euro, che la Commissione metterà a disposizione degli Stati membri per finanziare le proprie spese militari. Sebbene non sia ancora chiaro da dove provengano i 150 miliardi, i media hanno ipotizzato che possano essere utilizzati i circa 100 miliardi rimasti inutilizzati nel Fondo europeo per la ripresa, ossia il fondo che finanzia i PNRR (Piani Nazionali di Ripresa e Resilienza), che non sono stati richiesti dai paesi membri.
Mercoledì 12 marzo il Parlamento Europeo ha espresso il suo sostegno politico tramite una risoluzione - il che significa che il Parlamento approva il piano a livello politico, ma non ha potere decisionale diretto sulla sua adozione. Infatti, la Commissione europea ha scelto di procedere bypassando il processo legislativo, facendo riferimento all’Articolo 122 del Trattato, che le consente di agire direttamente attraverso il Consiglio. L’approvazione finale del piano dipenderà dai governi dei 27 Stati membri dell'Unione Europea, che dovranno esaminare la proposta e dare il loro via libera definitivo.
L'idea di creare un esercito comune europeo non è una novità per l'Unione. Il primo progetto risale infatti all'estate del 1950, quando la crescente minaccia comunista - rappresentata dall'inizio della guerra di Corea - spinge Jean Monnet, commissario generale del Piano francese e architetto del Piano Schuman (1), a proporre un progetto di difesa europea. Il suo obiettivo era quello di creare una struttura di difesa sovranazionale che integrasse le forze armate dei paesi europei sotto un'unica autorità, simile alla proposta per la Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio (CECA).
Nell'ambito di questa iniziativa, gli Stati Uniti chiesero ai loro alleati di preparare il riarmo della Repubblica Federale di Germania (RFA), visto che il paese doveva essere riabilitato nel contesto della Guerra Fredda. Monnet, vedendo questa opportunità, presenta la sua proposta a René Pleven, presidente del Consiglio francese ed ex ministro della Difesa, che nel 1950 la sottopone all'Assemblea nazionale.
Il progetto, che prevede la creazione di una Comunità Europea di Difesa (CED), avrebbe dovuto integrare le unità tedesche all'interno di un esercito comune europeo, sotto il controllo di un'autorità militare e politica unificata. Tale struttura avrebbe offerto all'Europa una difesa comune, rafforzando la cooperazione tra gli Stati membri, con l'idea di scongiurare il rischio di un conflitto interno e rispondere alla minaccia sovietica.
Il progetto, pur riscuotendo il favore della maggior parte degli Stati occidentali, incontrò una forte resistenza in Francia, dove il dibattito politico sull'integrazione europea, in particolare in ambito militare, suscitò preoccupazioni sul controllo nazionale della difesa. Alla fine, nel 1954, l'Assemblea Nazionale Francese respinse il trattato che avrebbe istituito la CED, minando definitivamente le prospettive del progetto.
Il rifiuto di ratificare la CED comportò non solo la fine di questa iniziativa, ma anche l'abbandono del parallelo progetto di una Comunità Politica Europea (CPE), che sarebbe stata l'istituzione complementare necessaria per dare corpo all'integrazione politica dell'Europa. Così, la CED venne abbandonata, segnando un punto di stallo nella storia della cooperazione militare europea, che solo molti decenni dopo avrebbe visto nuove iniziative per la costruzione di una difesa comune.
L'istituzione di un esercito di difesa europeo comporterebbe numerosi vantaggi, tra cui una maggiore indipendenza strategica, un'ottimizzazione delle risorse e una maggiore capacità operativa. L'Unione Europea potrebbe ridurre le duplicazioni, favorire una condivisione più efficiente di equipaggiamenti e competenze e rafforzare la coesione tra gli Stati membri in ambito difensivo.
Una difesa europea potrebbe essere concepita come un insieme di strategie, capacità e risorse mirate a tutelare gli interessi e la sicurezza degli Stati membri, garantendo la protezione dei confini esterni dell'UE contro minacce quali l'aggressione militare e il terrorismo internazionale.
In particolare, la creazione di una difesa europea ridurrebbe la dipendenza dell'Unione da alleanze esterne, come la NATO o gli Stati Uniti, permettendo all'Europa di sviluppare una maggiore autonomia strategica nelle questioni di sicurezza e difesa. Questo rafforzerebbe il ruolo dell'UE sulla scena internazionale, consentendole di assumere una posizione più attiva e responsabile nella gestione delle crisi regionali e globali, oltre a contribuire alla promozione della stabilità e della pace nel mondo.
L’idea che l’Unione Europea stia creando un esercito paneuropeo in grado di arruolare cittadini degli Stati membri è spesso utilizzata per criticare la leadership e la direzione politica del blocco. Tuttavia, la possibilità concreta di dar vita a una forza militare europea unificata non è mai stata seriamente presa in considerazione, principalmente a causa di ostacoli politici ed economici significativi.
Le decisioni in materia di difesa sono estremamente sensibili poiché strettamente legate agli interessi nazionali. Pensare che 27 Stati membri, con l’aggiunta del Regno Unito, possano rapidamente creare una catena di comando centralizzata, con uno Stato Maggiore capace di coordinare le forze dei Paesi volenterosi, appare oggi più un'ipotesi da manuale di studi strategici che una possibilità concreta.
Uno degli ostacoli principali alla nascita di un esercito europeo è spesso sottovalutato: le Costituzioni dei singoli Paesi dell’UE assegnano il controllo delle forze armate ai rispettivi governi nazionali. Un esercito comune richiederebbe un comando politico unico e gerarchico, con regole d’ingaggio chiare e non ambigue. Tuttavia, un comando militare monocratico non può essere esercitato attraverso decisioni assembleari: in democrazia, l’uso della forza armata deve essere autorizzato dai Parlamenti, ma una volta dato il via libera, il comando deve essere rigido e univoco.
Oggi, in Europa, il comando delle forze armate è profondamente disomogeneo dal punto di vista istituzionale. In Francia e Italia, il comando delle forze armate spetta al Presidente della Repubblica, mentre in Germania, un paese federale, in tempo di pace è in capo al Ministrodella Difesa, ma in tempo di guerra passa al Cancelliere. In Spagna, una monarchia, il comando è prerogativa del Re, una figura non elettiva. In altri Paesi, il comando può essere affidato al Capo dello Stato o al Primo Ministro, a seconda delle specifiche strutture istituzionali. Questa varietà di modelli riflette le differenze nelle costituzioni nazionali e rende difficile concepire un sistema di comando unificato e centralizzato per un potenziale esercito europeo.
Se analizziamo la storia dell’integrazione europea e gli orientamenti delle opinioni pubbliche, risulta difficile immaginare la nascita di una vera e solida difesa comune nel prossimo futuro. Realisticamente, l’unica strada percorribile potrebbe essere il rafforzamento del pilastro europeo all’interno della NATO, piuttosto che la creazione di un esercito indipendente. La maggior parte degli Stati membri della NATO appartiene già all’Unione Europea e, anziché integrare le proprie forze sotto il comando europeo, un maggiore allineamento all’interno dell’Alleanza Atlantica potrebbe rappresentare la soluzione più efficace per la sicurezza dell’Europa.
]]>Negli ultimi anni diversi esponenti politici hanno fatto propria la difesa della dieta mediterranea, che risulterebbe, secondo la loro narrazione, sotto attacco dall’Unione Europea e dalle multinazionali, facendo passare il messaggio che da sempre in Italia si è seguito un modello alimentare salutare a base di prodotti tipici da proteggere.
Tuttavia, gli Italiani non hanno mai seguito la dieta mediterranea (1).
La dieta mediterranea prevede (2):
Il concetto di Dieta Mediterranea è stato tuttavia coniato dal biologo ed epidemiologo statunitense Ancel Keys insieme a sua moglie Margaret Keys e riportato nel loro libro “How to Eat Well and Stay Well the Mediterranean Way” (3). I due cercavano di indagare sulle ragioni del perché una popolazione con una nutrizione abbondante come quella degli Stati Uniti, soffrisse di più le patologie cardiovascolari rispetto a quelle malnutrite.
Osservando le popolazioni mediterranee trovò una correlazione positiva tra un ridotto consumo di grassi saturi e la riduzione del rischio nell’insorgenza di tali patologie (4)
Da qui è stato creato un modello, quello della dieta mediterranea, che ha oltretutto subito delle modifiche nel corso del tempo.
La dieta mediterranea, secondo la definizione riconosciuta dall'UNESCO (5), non rappresenta semplicemente un modello alimentare legato a una specifica nazione, ma un patrimonio culturale immateriale di valore universale. Tale visione olistica include pratiche alimentari, sociali e ambientali che trascendono confini geografici e nazionali, promuovendo uno stile di vita sostenibile e condiviso. Questa prospettiva è ulteriormente corroborata dalla Società Cardiologica Americana (American Heart Association) (6), che descrive la dieta mediterranea come un regime alimentare benefico per il cuore, enfatizzando la sua ricchezza in alimenti di origine vegetale, grassi sani e la riduzione di prodotti processati.
I Modelli di Dieta Mediterranea
Nel corso del tempo sono stati creati diversi modelli, alcuni basati sulle porzioni (7), altri sulla piramide alimentare (anch’essa in continuo aggiornamento).
Nel 2011 è stata proposta una piramide ampiamente accettata (8) che prevede la presenza alla base frutta e verdura, olio di oliva, pane e pasta ad ogni pasto; olive, noci, semi e formaggi a basso contenuto di grassi ogni giorno; carne bianca, pesce, legumi, uova, patata, carne rossa una volta a settimana.
]]>La legislazione ucraina è piuttosto chiara su questo tema e all’articolo 19(1) della legge ‘Sul regime giuridico della legge marziale’ [1] proibisce esplicitamente qualsiasi tipologia di consultazione elettorale (presidenziale, parlamentare, locale, referendaria, etc.) nonché qualsiasi forma di emendamento costituzionale per l’intera durata della legge marziale. Questo divieto è ribadito all’art. 20 del Codice Elettorale dell’Ucraina [2].
Contrariamente a quanto sostenuto da alcuni, la sospensione delle elezioni non comporta che il mandato della Verkhovna Rada (il parlamento ucraino) o del Presidente siano scaduti. L’Art. 83(4) della Costituzione, infatti, stabilisce che il mandato del parlamento sia automaticamente prorogato fino al giorno della prima riunione della prima sessione della Verkhovna Rada dell'Ucraina, eletta dopo la cancellazione della legge marziale o dello stato di emergenza [3].Per quanto riguarda il presidente, l’Art. 108 della Costituzione non stabilisce un termine temporale alla scadenza del mandato, bensì che il presidente resti in carica fino all'assunzione dell'incarico da parte del neoeletto Presidente dell'Ucraina [4]. Il dato giuridico è quindi netto: i mandati del presidente e del parlamento sono pienamente legittimi e le elezioni sono incostituzionali fintanto che il conflitto è in corso.
Anche volendo prescindere dall’aspetto strettamente giuridico, eventuali elezioni in tempo di guerra si scontrerebbero con un problema di legittimità dovuto alla difficoltà di garantire la possibilità da parte di tutti i cittadini ucraini aventi diritto di parteciparvi. In tal senso, vi sono almeno quattro aspetti da considerare.
1. Circa un milione di uomini e donne ucraini si trovano nelle forze armate [5]. Fintanto che il conflitto è in corso, è impossibile de-mobilitarli per consentire loro di recarsi alle urne e sarebbe obiettivamente abbastanza irrealistico allestire seggi elettorali sulla linea del fronte.
2. Si stima che circa tre milioni di cittadini ucraini [6] si trovino in territori illegalmente occupati dalla Federazione Russa e quindi impossibilitati ad esprimere il proprio voto.
3. Quasi 7 milioni di cittadini ucraini sono rifugiati all’estero [7]. Il registro ucraino degli elettori residenti all’estero non è aggiornato, ma anche se lo fosse, le ambasciate e i consolati non avrebbero le risorse o l’infrastruttura per gestire un’affluenza di questa entità [8].
4. Tra i 3 e i 4 milioni di cittadini ucraini hanno lasciato la propria residenza originaria per trasferirsi all’interno del paese. Pertanto il registro elettorale ucraino dovrebbe essere completamente aggiornato e si stima che questo possa richiedere almeno sei mesi [9].
Un'altra questione fondamentale è quella di come garantire la sicurezza del voto. Il territorio ucraino è soggetto ogni giorno ad attacchi da parte della Federazione Russa sulle infrastrutture civili. I seggi elettorali, la cui posizione dovrebbe essere pubblica per definizione, diventerebbero l’ideale bersaglio di attacchi russi al fine di destabilizzare il processo elettorale. Qualcuno potrebbe sostenere che in molte città ucraine grazie all’efficienza della difesa antiaerea vi è una vita ‘quasi’ normale: teatri, cinema, ristoranti, e musei funzionano quasi normalmente (chiunque sia stato a Kyiv sa quanto difficile sia trovare un posto libero a teatro!). Tuttavia, proprio il fatto che l’intensità degli attacchi e la capacità di difesa variano nelle diverse aree del paese crea un problema di legittimità: gli elettori residenti in zone più vicine alla linea dovrebbero correre più rischi e vedere limitato il proprio diritto di voto rispetto a quelli che si trovano in quelle più sicure del paese. Non solo, in tutto il territorio ucraino i frequenti allarmi antiaerei, che possono durare pochi minuti quanto diverse ore, renderebbero difficile se non impossibile la continuità ed integrità sia del voto che dello scrutinio. Come si garantisce agli elettori la possibilità di votare se il seggio deve essere chiuso e poi riaperto ogni volta che vi è una sirena? Come si può essere sicuri del conteggio delle schede, che secondo il codice elettorale ucraino deve avvenire in una sola seduta in presenza di tutti gli osservatori, se la sessione dev’essere ripetutamente interrotta a causa della minaccia degli attacchi russi?
Un’altra questione che molti sembrano ignorare è come garantire una campagna elettorale che sia libera, giusta ed imparziale quando il paese si trova in stato di guerra. La legge marziale, per definizione, impone delle limitazioni alle libertà e aumenta i poteri dello stato e del governo. In queste condizioni, come si garantirebbe alle forze di opposizione di avere le medesime opportunità di presentare i propri candidati e le proprie proposte politiche rispetto alle forze di governo?
Non a caso, i leader delle principali forze di opposizione si sono dichiarati contrari all’idea di tenere elezioni in stato di guerra [10].
Dall’inizio dell’invasione russa su vasta scala, i sondaggi disponibili hanno sempre indicato come la grande maggioranza dei cittadini ucraini sia contraria ad elezioni in tempo di guerra. Nell’autunno 2023, in concomitanza con quella che sarebbe stata la normale data delle elezioni parlamentari, l’81% del campione era contrario a qualsiasi elezione prima della fine della guerra [11]. Un sondaggio del febbraio 2024 (Grafico 1) mostrava come il 69% del campione fosse contrario ad elezioni fino alla conclusione della legge marziale senza variazioni significative a livello regionale (Grafico 2).
]]>Tuttavia, il loro approccio al mondo del business segue uno schema simile: attirare offrendo benefici, rendere dipendenti, persino complici, per poi scartare l’imprenditore di turno non appena smette di essere utile.
Vladimir Putin ha sviluppato questo metodo negli anni ‘90 e nei primi anni 2000, collaborando con il nascente mondo dell'imprenditoria dell’epoca tardo-post sovietica, ma anche con organizzazioni criminali, per scalare i ranghi del potere. La sua affiliazione con il sindaco di San Pietroburgo Anatoly Sobchak non era un mistero. Putin rimase fedele a Sobchak fino alla fine, ma in seguito consolidò il metodo radunando attorno a sé i più importanti imprenditori russi, promettendo prosperità e crescita economica. Durante i suoi anni al potere, ha poco a poco privato gli oligarchi del loro potere politico, talvolta sostituendoli con amici ed ex colleghi del KGB e dell’amministrazione di Sobchak, talvolta eliminandoli fisicamente o fabbricando casi legali per costringerli al carcere o all'esilio. Gli oligarchi furono degradati così a semplici uomini d'affari che eseguivano ordini. Alcuni hanno subito una sorte ancora peggiore, diventando prestanomi personali di Putin.
Similmente, Donald Trump è noto per aver corteggiato istituzioni e uomini d'affari negli anni della sua carriera imprenditoriale, ottenendo da loro ciò di cui aveva bisogno, per poi piantarli in asso. L'elenco delle persone del mondo politico ed economico abbandonate dal Presidente è lungo, dagli avvocati Michael Cohen e Rudy Giuliani, agli sponsor del partito repubblicano e della prima campagna Trump come Carl Icahn ed i fratelli Koch. L’ironia della sorte vuole che molti di questi personaggi siano gli stessi che lo hanno accompagnato nel suo primo mandato alla Casa Bianca, come Rex Tillerson, ex CEO di Exxon Mobil, nominato Segretario di Stato e poi licenziato da Trump via Twitter, e Mike Pence, il quale ha recentemente criticato Trump non solo per i dazi imposti in maniera sconclusionata a paesi alleati, ma anche per la sua posizione sulla guerra in Ucraina.
]]>L’idea in tale settore del diritto di una responsabilità individuale è del tutto inedita, e si è affermata a fronte della commissione di reati talmente gravi e odiosi, da richiedere un quid pluris che coinvolgesse direttamente le singole persone fisiche, autori di tali atti.
La storia della giustizia penale internazionale consta di tre fasi effettive (1) e una “potenziale”:
La Corte è competente a giudicare in relazione ai crimini più gravi “motivo di allarme per l’intera comunità internazionale”, codificati nello Statuto stesso, nello specifico:
È opportuno sottolineare come la competenza della Corte non sia esclusiva, bensì governata dal principio di cd. complementarietà (4), poiché in linea di principio la repressione dei gravi crimini internazionali dovrebbe essere responsabilità degli Stati in virtù del cd. principio di universalità e la CPI può intervenire solo ove un processo nazionale non sia possibile o efficace, a causa della mancanza di volontà (pensiamo all’ipotesi di un’autocrazia, ove il potere giudiziario è assoggettato al tiranno) ovvero di capacità (pensiamo all’ipotesi di un failed state ove il sistema dei tribunali sia collassato).
La competenza della Corte trova poi ulteriori limiti nel senso che sussiste la sua giurisdizione in relazione a persone fisiche, purché vi sia, alternativamente, una delle seguenti condizioni: che il singolo sia cittadino di uno Stato parte ovvero che la condotta criminale sia avvenuta sul territorio di uno Stato parte. Vi sono poi due ulteriori possibilità: che il caso venga deferito alla CPI dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU ovvero che uno Stato ne accetti la giurisdizione tramite una dichiarazione unilaterale.
In ogni caso va rigettata l’idea di talune “Potenze”, tra cui USA, Russia e Cina, secondo cui la CPI non avrebbe in alcun caso giurisdizione sui cittadini di Stati non parte: una riserva di giurisdizione in favore dello Stato di nazionalità del presunto autore di reato non esiste nemmeno nel diritto penale “comune” (5), a maggior ragione ciò deve essere escluso nel diritto penale internazionale.
Inoltre la CPI non gode di una propria forza di polizia ed è dunque costretta ad affidarsi alla cooperazione degli Stati che hanno deciso di aderire al Trattato (6), i quali, seppur cresciuti nel tempo, non includono attori fondamentali nello scenario internazionale, tra cui Stati Uniti, Cina, Russia e India. Dunque lo Statuto di Roma pone diverse obbligazioni in capo agli Stati parte, tra cui forme di assistenza in materia di svolgimento delle indagini e raccolta del materiale probatorio e, soprattutto, l’obbligo di fermare e consegnare la persona oggetto di un mandato di cattura. Va comunque sottolineato che - come spesso avviene nel diritto internazionale, ritenuto infatti da certa dottrina un diritto “monco”, privo di reale coercibilità - le sanzioni per l’inadempimento degli Stati parte non manifestano una particolare efficacia deterrente, essendo spesso limitate a rimproveri verbali.
Non è poi ovvio che Stati a “giurisdizione evoluta” siano più ben disposti nei confronti della CPI rispetto a Stati con una normativa più rudimentale, infatti spesso la scelta di cooperare o meno ha più a che fare con l’esistenza di interessi politici sottostanti, meno con la “maturità” delle istituzioni (7).
Un dato certamente sconfortante è quello per cui, alla data del 2020, vi erano pendenti, talvolta da molti anni, diversi mandati di cattura rimasti inadempiuti, tra cui quelli relativi all’ex presidente del Sudan Omar Al-Bashir e vari leader delle milizie Janjaweed, per i massacri compiuti in Darfur, regione dello stato africano (8).
]]>Il ministro dell'Agricoltura Francesco Lollobrigida ha espresso solidarietà ai ricercatori, ribadendo l'importanza dell'innovazione in agricoltura. Cia, Confagricoltura, Coldiretti e Copagri hanno anch'essi condannato l'attacco, sottolineando il valore delle TEA per una viticoltura più sostenibile, meno dipendente dai fitofarmaci e più resiliente ai cambiamenti climatici.
L’atto vandalico non ha solo interrotto una sperimentazione scientifica innovativa, ma ha anche messo in luce una contraddizione profonda: chi si oppone a certe tecnologie in nome della tutela della natura rischia di danneggiare proprio quegli strumenti che potrebbero salvaguardare il futuro dell’agricoltura.
Distruggere questi progetti significa bloccare il progresso e privarci di alternative che potrebbero ridurre l’uso di fitofarmaci, proteggere l’ambiente e preservare la salute del territorio.
Le due colture vittime di orrendi atti vandalici erano un variante di Vite Chardonnay resistente alla Peronospora e una variante di Riso Arborio resistente invece al Brusone (malattia causata dal fungo Pyricularia oryzae), entrambe ottenute tramite tecniche di editing genetico che permettono di modificare la piante senza utilizzare DNA estraneo alla pianta stessa.
]]>Lungi dall’essere un conquistatore napoleonico, Macron si sta rivelando un architetto pragmatico di un’Europa più forte e coesa, capace di affrontare le sfide del XXI secolo, dalla minaccia russa all’improvvisa instabilità delle alleanze transatlantiche. E per l’Italia questa visione offre opportunità concrete: una sicurezza condivisa, un peso maggiore sulla scena globale e un’economia più resiliente. Questo articolo ha l’ambizione di esplorare l’impegno europeo di Macron, evidenziando i suoi benefici per l’Italia e le ragioni per cui le accuse di Putin e Salvini, pur comprensibili, e curiosamente coincidenti, non reggono a un’analisi più approfondita. Qualora siate deboli di ragione, il consiglio è quello di non proseguire.
Macron ha fatto dell’integrazione europea il cuore della sua presidenza sin dal suo ingresso all’Eliseo nel 2017. Nel celebre discorso di quell'anno alla Sorbona, ha delineato un progetto ambizioso: un’Europa che non si limiti a essere un mercato comune, ma che diventi una potenza politica e militare autonoma. “Abbiamo bisogno di un’Europa che protegga i suoi cittadini e che sia sovrana nel mondo” ha detto allora, anticipando una linea che sarebbe passata dall’essere “coraggiosa” ad essere urgente di fronte al recente isolazionismo americano e all’aggressività russa.
La proposta che ha fatto più discutere, annunciata in un discorso televisivo il 5 marzo 2025, è quella di estendere l’ombrello nucleare francese all’Europa. “Dobbiamo prepararci a un mondo in cui gli Stati Uniti potrebbero non essere più al nostro fianco” ha dichiarato Macron. “La Russia è una minaccia per la Francia e per l’Europa, e dobbiamo essere pronti a difenderci da soli.” L’idea è semplice ma rivoluzionaria: la Francia, unica potenza nucleare dell’UE dopo la Brexit, metterebbe la sua force de frappe – circa 290 testate nucleari – a disposizione di una strategia di difesa collettiva europea. Questo implicherebbe una modifica della costituzione francese, che tradizionalmente riserva l’uso delle armi nucleari alla sola difesa nazionale, e un negoziato complesso con i partner europei.
Il discorso arriva in un momento di vulnerabilità per il continente. L’amministrazione Trump, rieletta nel 2024, ha sospeso gli aiuti militari all’Ucraina (per poi annunciare, almeno così sembra, una loro reintegrazione) e avviato colloqui di pace con Mosca, lasciando l’Europa a fare i conti con una Russia sempre più assertiva. Come riportato dal Telegraph, la mossa di Macron è stata accolta da alcuni come un “deterrente molto serio” contro Putin, mentre altri, come il cancelliere tedesco Olaf Scholz, hanno espresso cautela, chiedendo “un dialogo più ampio” prima di procedere. È probabile che la prossima cancelleria, guidata da Friedrich Merz, possa essere più aperta rispetto all’alleato socialdemocratico.
Per l’Italia, la visione di Macron non è solo un esercizio teorico: porta con sé benefici tangibili. Ecco i principali.
1. Una difesa condivisa per costi ridotti
L’Italia spende attualmente circa l’1,5% del suo PIL in difesa, corrispondenti a circa 30 miliardi di euro all’anno (SIPRI 2024), una cifra che, pur rispettando gli impegni NATO, grava su un bilancio già sotto pressione. Una cooperazione europea più stretta, come quella proposta da Macron, potrebbe ridurre questi costi attraverso la condivisione di risorse e tecnologie. Un ombrello nucleare comune, per esempio, eliminerebbe la necessità per l’Italia di sviluppare sistemi di difesa avanzati autonomi, permettendo di riallocare fondi verso priorità interne come la sanità, l’istruzione o la transizione ecologica.
Secondo un’analisi del Centro Studi Internazionali (CeSI), un sistema di difesa integrato potrebbe far risparmiare all’Italia fino al 20% della sua spesa militare annuale entro il 2035. Questo non significa abdicare alla sovranità, ma ottimizzare le risorse in un contesto di minacce globali che nessun paese europeo può affrontare da solo, come ha ricordato in un recente tweet il Ministro della Difesa Guido Crosetto – il cui raziocinio è spesso ignorato dagli alleati.
2. Postura nelle negoziazioni globali
Come membro fondatore dell’UE, l’Italia ha sempre sostenuto l’integrazione europea, ma spesso si è trovata in una posizione subordinata rispetto a Francia e Germania. Ce lo hanno ricordato i nostri politici, dicendo di temere un nuovo asse franco-tedesco. La proposta di Macron potrebbe riequilibrare questa dinamica. Una politica estera europea più coesa offrirebbe all’Italia l'opportunità di avere maggior peso in dossier cruciali, come la gestione delle crisi migratorie nel Mediterraneo o i negoziati commerciali con Cina e Stati Uniti. Ad esempio, un approccio coordinato alla sicurezza marittima potrebbe rafforzare la posizione dell’Italia nel contrastare i flussi migratori irregolari, un tema su cui Roma si è spesso sentita lasciata sola, nonostante le rassicurazioni di Bruxelles. Peraltro, un rapporto che appare più che buono, quello di Giorgia Meloni col PM inglese Keir Starmer, permetterebbe all’Italia di allungare una mano anche nelle relazioni al di là della Manica.
3. Opportunità economiche e innovazione
Il presidente francese Emmanuel Macron ha proposto di aumentare la spesa per la difesa dell’Unione Europea al 3-3,5% del PIL collettivo: un piano ambizioso che porterebbe il budget militare europeo dagli attuali 250 miliardi di euro (1,7% del PIL, Eurostat 2024) a 450-525 miliardi annui. Per l’Italia adeguarsi significherebbe un incremento di 25-30 miliardi, arrivando alla soglia di circa 60 miliardi l’anno. Un investimento aggiuntivo di 30 miliardi potrebbe stimolare l’economia italiana grazie a un moltiplicatore fiscale di 0,8 (Barro e Redlick, 2011), generando circa 24 miliardi di PIL aggiuntivi e fino a 300.000 nuovi posti di lavoro, soprattutto al Sud, dove la disoccupazione è più elevata. Ad esempio, potenziare lo stabilimento di Leonardo a Grottaglie potrebbe creare 5.000-10.000 impieghi diretti e 15.000- 20.000 indiretti, secondo alcune stime prodotte dal centro studi di Confindustria. Inoltre, l’integrazione delle catene di approvvigionamento europee, riducendo i 178 sistemi d’arma diversi attualmente in uso (Corte dei Conti Europea, 2023), potrebbe tagliare i costi di procurement del 20-30%, risparmiando 50-75 miliardi a livello UE. Il successo di questo schema, ad ogni modo, dipenderà dalla capacità dell’Italia di negoziare un ruolo di peso in Europa, evitando che Francia e Germania monopolizzino i benefici (com’è auspicio del governo), e trasformando così un aumento della spesa militare in un’occasione di crescita economica, occupazione e innovazione tecnologica per il Paese.
Torniamo alla provocazione di Putin. Paragonare Macron a Napoleone è un esercizio retorico che colpisce l’immaginario, ma crolla sotto il peso dell’analisi storica. Napoleone era un autocrate che usò la forza per imporre il suo dominio sull’Europa, spesso schiacciando le sovranità nazionali. Macron, al contrario, opera in un quadro democratico e multilaterale, proponendo una cooperazione volontaria tra stati sovrani. “Macron non sta cercando di conquistare l’Europa, ma di salvarla dalla sua stessa inerzia” ha scritto lo storico Pierre Nora su Le Monde. Napoleone peccò di tracotanza, arrivò a Mosca e la conquistò senza fare bene i conti: la Russia era ed è immensa. Qui nessuno sta parlando di arrivare neanche a Smolensk.
La proposta dell’ombrello nucleare non è un atto di imperialismo, ma una risposta pragmatica a un mondo in cui la deterrenza è essenziale. Putin, con il suo commento, vuole furbescamente sfruttare le divisioni interne all’Europa, dipingendo Macron come una minaccia per seminare sfiducia. Come ha osservato il ministro degli Esteri lituano Kęstutis Budrys, “La Russia ha interesse a mantenere l’Europa debole. Macron, invece, punta a rafforzarsi."
In Italia, Matteo Salvini ha colto l’occasione per rilanciare la sua narrativa nazionalista. “Macron vuole trasformare l’Europa in un protettorato francese” ha twittato il 6 marzo 2025. “L’Italia non può accettare di essere una colonia di Parigi.” È una retorica che fa leva su un sospetto storico verso la Francia, ma che ignora i benefici pratici della proposta.
Le preoccupazioni di Salvini sulla sovranità sono legittime: nessuno vuole un’Europa dominata da un solo paese. Ma la sua critica è eccessiva, e lo è coscientemente. La proposta di Macron non implica una cessione di sovranità, bensì una condivisione di responsabilità, simile a quanto già avviene con l’euro o la politica agricola comune. Come ha sottolineato l’economista Carlo Cottarelli, “L’Italia non può isolarsi. La nostra sicurezza e la nostra economia dipendono dalla solidarietà europea.”
Salvini tocca un nervo scoperto – il timore di perdere autonomia – ma offre poche alternative concrete. In un mondo di potenze come Stati Uniti, Cina e Russia, l’Italia da sola ha poco margine di manovra. E dalle sue parole pare trasparire l’attore davanti al quale dovremmo inchinarci. La cooperazione europea, pur imperfetta, è la via più realistica per contare qualcosa, e lo sa anche il generale Vannacci, le cui dichiarazioni non reputo degne d’esser commentate.
Emmanuel Macron non è Napoleone né un egemone in cerca di sudditi. È un leader che, con tutti i suoi limiti, sta provando a rispondere a una domanda cruciale: come può l’Europa sopravvivere in un mondo sempre più ostile? La sua proposta di un ombrello nucleare europeo è audace, controversa e tutt’altro che perfetta. Ma per l’Italia rappresenta un’occasione: meno costi, più influenza, un futuro più sicuro: la possibilità di lavorare sulle nostre tecnologie e sviluppare i nostri know-how, che nessun rivoluzionario alla Casa Bianca potrà ritirare un giorno o l’altro.
Le critiche di Putin e Salvini, pur radicate in paure comprensibili, non reggono alla prova dei fatti. La prima è un tentativo di dividere, la seconda un riflesso populista che guarda al passato anziché al futuro. Come ha detto Macron il 5 marzo, “Siamo a un punto di svolta. Possiamo essere spettatori o attori del nostro destino.” L’Italia, con la sua storia e il suo potenziale, ha tutte le carte per scegliere la seconda strada, senza dover chinare il capo all’inquilino dell’Eliseo, ma collaborando e divenendo attori mondiali. La sfida ora è trasformare questa visione in realtà, insieme.
]]>1) Attivazione della General Escape Clause, già sperimentata durante il covid, consentirà di scorporare spese e investimenti in difesa degli Stati Membri senza incorrere nella procedura per deficit eccessivo.
La Commissione fa un esempio: se gli Stati Membri aumentassero (tutti insieme) le spese per difesa dell'1,5% del PIL, lo spazio fiscale ammonterebbe a circa 650 miliardi in 4 anni (162,5 miliardi l'anno spalmati, e ponderati, per tutti i 27 Stati Membri). Per l'Italia sarebbero complessivamente 32 miliardi a prezzi di mercato. Curiosamente 32 miliardi di maggior debito sono esattamente quanto il governo Conte II chiese come scostamento di bilancio nel gennaio 2021. Complessivamente il suo governo fece scostamenti di bilancio per complessivi 145 miliardi. In ogni caso la scelta di fare debito extra bilancio è dei singoli Paesi e non è un obbligo perché il debito va approvato dai parlamenti nazionali.
2) 150 miliardi verranno dalla possibilità di usufruire di prestiti. Si sa ancora poco su questo nuovo strumento ma è probabile che segua le linee guida del Recovery Plan con debito emesso dalla Commissione. Questa dotazione va a completare il coordinamento fra gli Stati Membri attraverso una centrale unica di acquisti.
3) Usare il bilancio europeo che alimenta i fondi di coesione. Qui lo strumento è poco chiaro ma è certo che sarà facoltativo e se uno Stati Membri non vorrà usare i fondi per difesa potrà non farlo
4) L'ultimo strumento prevede l'intervento della BEI (o Banca europea per gli investimenti) per mobilitare capitali privati. La Commissione calcola che complessivamente si potrebbero attivare risorse per 800 miliardi, ma è una stima.
]]>I socialdemocratici dal canto loro, più aperti a far debito, hanno colto “l’occasione Trump” per far accettare agli alleati di centro destra guidati da Merz la fine della politica dell’austerità. Dai colloqui tra i tre partiti della futura coalizione (CDU, CSU e Spd) è uscita infatti la proposta di un pacchetto di spesa di 1.000 miliardi di euro. Per rafforzare e modernizzare le infrastrutture, la rete dei trasporti e dell’energia, gli ospedali, le scuole e gli asili e la digitalizzazione sarà istituito un fondo speciale di 500 miliardi di euro spalmato in dieci anni. Di questa somma, 100 miliardi di euro andranno ai Länder e alle autorità locali. Il riarmo tedesco sarà finanziato attraverso l’allentamento dei vincoli di bilancio fissati dalla Costituzione. Il freno al debito, in vigore dal 2011, sarà sospeso per tutte le spese militari che superano l'1% del prodotto interno lordo. In altre parole si tratta di un assegno in bianco alla Bundeswehr (le Forze Armate Federali) per far fronte alla minaccia rappresentata dalla Russia di Putin.
Attualmente la Germania soddisfa l'obiettivo del due per cento della NATO ma solo perché è incluso l'attuale fondo speciale di 100 miliardi di euro annui istituito dal Cancelliere dimissionario Olaf Scholz, all’indomani dell’aggressione russa all’Ucraina del 24 febbraio 2022. Sin qui le intenzioni. Per varare il pacchetto ci sarà però bisogno della maggioranza qualificata dei due terzi del Bundestag, il Parlamento Federale. E qui la situazione si complica per via della complessità del quadro politico. Il 21esimo Bundestag, che si riunirà per l’inizio dei lavori della legislatura il prossimo 25 marzo, non promette nulla di buono per la Grande Coalizione a causa dei veti incrociati del partito di estrema destra, AfD (Alternative für Deutschland) e di quello del partito di estrema sinistra (Die Linke). Questi ultimi, paladini del pacifismo, sono contrari al riarmo ma aperti al debito per modernizzare il paese, mentre il filoputiniano AfD si oppone al riarmo negando il pericolo russo e non è neanche disposto ad aprire i cordoni della spesa per fare investimenti. Anche se diversi osservatori la giudicano discutibile sotto il profilo dell’opportunità politica, la sola strada percorribile in tempi brevi che abbia una discreta possibilità di successo è quella di fare approvare il pacchetto in tutta fretta in questa legislatura dall’uscente Bundestag entro fine marzo convocando due sessioni speciali al fine di evitare il blocco da destra e da sinistra nella prossima legislatura. Dal punto di vista costituzionale sembra non esserci nulla da eccepire visto che la Legge Fondamentale della Repubblica Federale prevede che il Parlamento uscente possa legiferare sino all’ultimo giorno in cui rimane in carica. L’imbarazzo è, come dicevamo, di opportunità politica, ovvero è corretto davanti agli elettori che un Bundestag espressione di una volontà popolare che non esiste più si riunisca per prendere una decisione così importante per non sottoporla al voto del neoeletto Parlamento? Fatte queste considerazioni, Merz e i suoi alleati proveranno comunque a forzare i tempi cercando l'appoggio dell’unica forza possibile disposta a votare in questa legislatura il pacchetto: i verdi. Sconfitti alle elezioni del 23 febbraio scorso e all’opposizione, i verdi, sin da quando governavano con socialdemocratici e liberali, hanno sempre sostenuto la necessità di rimuovere il freno costituzionale al debito per favorire gli investimenti e il riarmo. Bloccati dal partito liberale, il partner di governo custode del mantra dell’austerità, e criticati aspramente per la stessa ragione dall’opposizione guidata da Friedrich Merz, categoricamente contrario al debito fino a due settimane fa, i verdi sono ora essenziali per cambiare le regole del gioco. Per loro è arrivato il momento di consumare una piccola vendetta nei confronti del cristiano democratico Friedrich Merz e del suo alleato bavarese, il cristiano sociale Markus Söder. Entrambi i leader di centro destra, durante tutta la campagna elettorale, non hanno lesinato dichiarazioni al veleno contro i verdi. Markus Söder (CSU) ha dichiarato senza mezzi termini “che non hanno la capacità di governare” e che mai avrebbero formato un governo con loro, mentre Friedrich Merz alla vigilia del voto inneggiava all’imminente fine di “verdi e pazzi di sinistra”. Il giorno successivo il cambiamento di rotta di Merz, uno dei leader dei verdi Felix Banaszak ha accusato il prossimo Cancelliere di aver conquistato la vittoria “con le bugie” assicurando che avrebbe finanziato il riarmo e gli investimenti senza ricorrere a debiti e che ora improvvisamente “si è svegliato di fronte alla realtà dei fatti”. I verdi, indispettiti dall’atteggiamento di Merz che annunciando ai giornalisti il Whatever it takes non ha fatto alcun cenno al “soccorso verde” di cui ha bisogno, da una parte non possono dire no a misure che avrebbero voluto varare loro, ma allo stesso tempo chiederanno alla nuova coalizione di governo investimenti anche nel settore delle energie rinnovabili e della transizione ecologica, tematiche scivolate in fondo alle priorità dell’agenda politica della Grande Coalizione.
Al di là delle ruggini tra i partiti, l’Amministrazione Trump sta avendo il merito di aver svegliato la Germania dal torpore dell’austerità dopo venticinque anni di immobilità targato Angela Merkel. Il mondo imprenditoriale, i sindacati e gli economisti hanno salutato favorevolmente gli investimenti. Sebastian Dullien, direttore scientifico dell'Istituto per la Macroeconomia e la Ricerca sul Ciclo Economico (IMK) spera in una spinta economica: “Se l'accordo avrà successo, la stagnazione dell'economia tedesca dovrebbe essere rapidamente superata”, ha detto. “La Germania sarà di nuovo in grado di agire economicamente e militarmente”.
Ma anche l’opinione pubblica tedesca sembra aver colto la drammaticità del momento storico e l’urgenza di fare qualcosa, subito. Dal sondaggio ARD-DeutschlandTrend svoltosi dal 4 al 5 marzo scorso su un campione di 1.325 aventi diritto al voto per conto del primo canale televisivo di diritto pubblico ARD, emerge che il 66% del campione è favorevole all’aumento delle spese militari per rafforzare la difesa e le Forze Armate. Per quanto riguarda gli investimenti per le infrastrutture il consenso sale al 78%. Donald Trump ha svegliato la Germania, solo il tempo ci dirà fino a che punto.
]]>Quanto alla seconda affermazione del presidente americano, i fatti parlano chiaro, è già passato più di un mese dal suo insediamento e il conflitto è ancora in corso. Ciò detto, le recenti dichiarazioni e decisioni di Trump indicano che sta effettivamente cercando di far terminare la guerra, in modo vigliacco e riprovevole, facendo leva sull’Ucraina, cioè la vittima nonché parte più debole del conflitto.
Riassumendo brevemente le principali azioni della sua amministrazione nei confronti di Russia e Ucraina di queste settimane, tutto ha inizio il 12 febbraio, quando il Segretario della Difesa Hegseth è a Bruxelles per il suo primo incontro NATO. In contrasto con qualsiasi logica di negoziazione, Hegseth dichiara che tornare ai confini pre-2014 dell’Ucraina e l’accessione di quest’ultima alla NATO sono obiettivi irrealistici (3). La prova della scarsa lungimiranza di tali parole è arrivata il giorno dopo quando lo stesso SecDef (4) ha dovuto far marcia indietro precisando che sarà Trump a guidare i negoziati e a deciderne le condizioni (5).
Tornando al 12 febbraio, il Segretario del Tesoro Scott Bessent si trovava a Kyiv per un bilaterale con il Presidente Zelenskyy, ovvero il primo incontro tra il leader ucraino e un membro della seconda amministrazione Trump. Il motivo della visita è la proposta di Washington di siglare un accordo economico sull’estrazione delle risorse minerarie in territorio ucraino (6). Il documento non contiene garanzie di sicurezza da parte statunitense, per cui Zelenskyy rifiuta (7). I dettagli della proposta americana vengono approfonditi successivamente.
Infine, in serata arriva la conferma che le comunicazioni telefoniche tra Casa Bianca e Cremlino sono riprese già da alcuni giorni (8)(9). Questo è un fatto notevole in quanto rappresenta il primo gesto di riavvicinamento diplomatico concesso da Trump a Putin. L’ultima telefonata tra Biden e Putin risale infatti al 12 febbraio 2022, pochi giorni prima dell’invasione (10).
Due giorni dopo, giovedì 14 febbraio, il Vicepresidente J.D. Vance è a Monaco di Baviera per l’annuale conferenza sulla sicurezza e, con un discorso di circa 20 minuti, il numero due della Casa Bianca afferma che a suo parere le più grandi minacce del momento non sono esterne, quali la Russia o la Cina, bensì interne all’Occidente, identificabili principalmente con la presunta diminuzione della libertà d’espressione e le politiche migratorie degli ultimi anni (11).
Il martedì successivo, 18 febbraio, due nuovi sviluppi.
Primo, il Segretario di Stato Marco Rubio e il suo omologo russo, Sergej Lavrov, si incontrano a Riyad e, tra le altre cose, emerge la volontà di entrambe le parti di ripristinare appieno il personale presso le rispettive ambasciate (12), segnando così un ulteriore riavvicinamento diplomatico tra USA e Russia.
Secondo, in serata Trump tiene una conferenza stampa dalla sua residenza a Mar-a-Lago. Questa ha marcato l’inizio degli attacchi verbali del presidente statunitense verso l’omologo ucraino. È in questa occasione, infatti, che Trump accusa Kyiv di essere responsabile per lo scoppio della guerra (13).
Zelenskyy replica affermando che Trump è “intrappolato in una bolla di disinformazione” (14) e, a sua volta, la risposta non si fa attendere. Il giorno seguente, mercoledì 19 febbraio, Trump pubblica un post sul suo social network Truth, nel quale essenzialmente definisce Zelenskyy un “dittatore senza elezioni” (15).
Poco più di una settimana dopo, il 27 febbraio, giorno in cui Trump accoglie il primo ministro britannico Starmer alla Casa Bianca, alla domanda di un giornalista se pensasse ancora che Zelenskyy fosse un dittatore, il presidente risponde: “l’ho detto io? Non posso credere di averlo detto” (16).
Sempre verso la fine di febbraio, non è chiaro esattamente quando (17), il Segretario della Difesa Hegseth ordina di cessare tutte le operazioni informatiche offensive contro la Russia (18). Ufficiali del Pentagono hanno specificato che il provvedimento è temporaneo e limitato alle tempistiche delle trattative ed esperti del settore confermano che una mossa del genere non è inusuale e in linea con le procedure del caso (19). Ciò nonostante, rimane una scelta rischiosa e controversa vista la mancanza di alcun tipo di reciprocità da parte russa.
Giungendo così al penultimo evento di questa ricostruzione, lo scorso venerdì, 28 febbraio, Zelenskyy è in visita alla Casa Bianca per firmare il sopra citato accordo sulle terre rare. Sebbene l’incontro inizialmente si svolga in modo cordiale, la conferenza stampa nello studio ovale sfocia in un’accesa discussione. Oltre ai due presidenti, sono presenti anche il VP Vance e il Segretario di Stato Marco Rubio. Mentre quest’ultimo interviene solo in maniera minore, il vice di Trump è colui che causa l’alzata di toni. La conferenza stampa dura poco meno di un’ora, il canale ufficiale della Casa Bianca ha pubblicato l’intera registrazione su YouTube (20).
Al minuto trentotto, un giornalista polacco chiede a Trump cosa direbbe ai polacchi che un tempo vedevano negli Stati Uniti un modello di libertà e progresso occidentale, ma che ora assistono a una politica estera statunitense sempre più allineata a quella dei peggiori regimi autoritari, come quello russo di Putin.
Trump risponde dicendo di non essere allineato con nessuno, se non con il suo Paese, gli Stati Uniti, e che è necessario mantenere buoni rapporti con entrambe le parti affinché i negoziati abbiano successo.
Al termine della sua risposta, Trump chiede alla folla di giornalisti se vogliano porre un ultimo quesito, e in questo istante Vance fa cenno al suo superiore di voler rispondere anche lui alla domanda del giornalista polacco.
Ottenuto il via libera da Trump, Vance afferma che la politica “delle armi e di battersi i pugni sul petto” è già stata adottata dalla precedente amministrazione e che si è col tempo rivelata fallimentare. Conclude aggiungendo che adesso l’amministrazione Trump farà la cosa giusta scegliendo invece la diplomazia. Zelenskyy è visibilmente scettico nei confronti delle parole di Vance, a cui fa notare che dal 2014, anno in cui l’aggressione russa contro l’Ucraina è iniziata con l’invasione della Crimea, ben quattro amministrazioni americane si sono susseguite. Obama, Trump, Biden e infine di nuovo Trump. Con nessuna di queste – Zelenskyy precisa – Putin ha mostrato rispetto per la diplomazia e chiede dunque a Vance di che diplomazia stia parlando, visto il totale sprezzo che il presidente russo ha per essa. Da qui, la discussione degenera, in una situazione in cui sia Trump che Vance umiliano Zelenskyy, in palese difficoltà linguistica, con false accuse e menzogne sull’invasione. La visita giunge così ad una brusca fine e ovviamente la firma dell’accordo salta.
Questo infausto evento ci porta all’ultimo degli sviluppi qui riportati: la sera del 3 marzo Trump decide di interrompere il flusso di tutti gli aiuti militari all’Ucraina (21) (22).
È notizia di poche ore fa che Zelenskyy ha pubblicato un lungo post su X in cui ribadisce per l’ennesima volta la propria gratitudine nei confronti degli Stati Uniti, aggiungendo che è un dispiacere che l’incontro alla Casa Bianca sia andato come è andato e che l’Ucraina è pronta a firmare in qualunque momento, in qualsiasi contesto (23).
In cosa consiste questo famigerato accordo? Il Center for Strategic & International Studies offre un’analisi concisa ed efficace (24) secondo cui l’accordo bilaterale che Zelenskyy avrebbe voluto firmare il 28 febbraio, e che è tuttora disposto a siglare, si discosta in modo significativo dalla proposta iniziale presentata dal Segretario del Tesoro Bessent. Quest’ultima prevedeva che l’Ucraina utilizzasse le proprie risorse minerarie per rimborsare agli Stati Uniti 500 miliardi di dollari in aiuti militari ricevuti in precedenza. Il nuovo quadro concordato non assegna agli Stati Uniti i diritti sui ricavi derivanti da minerali per un valore di 500 miliardi di dollari, non prevede altresì garanzie di sicurezza per l’Ucraina. Piuttosto, l’intesa stabilisce la creazione di un fondo di investimento per la ricostruzione, con proprietà congiunta tra Stati Uniti e Ucraina. Quest’ultima sarà tenuta a destinare al fondo il 50% di tutti i ricavi futuri derivanti dalla monetizzazione delle risorse naturali di proprietà statale, comprese le riserve minerarie, il petrolio, il gas naturale e le relative infrastrutture. Faranno eccezione le risorse che già rappresentano una fonte di entrate per il Paese, come le attività di Naftogaz e Ukrnafta, le due principali aziende ucraine nel settore dei combustibili fossili. È importante sottolineare che di conseguenza la redditività del fondo dipenderà interamente dal successo dei nuovi investimenti nelle risorse ucraine.
Ma se l’accordo non contiene garanzie di sicurezza, perché Zelenskyy vuole firmarlo? Ci sono più ragioni. Primo, firmare appagherebbe Trump, aumentando le probabilità che decida di continuare a supportare l’Ucraina, possibilmente riaprendo il flusso di aiuti militari. Secondo, anche se non dirette, in realtà l’accordo potrebbe portare ad avere delle garanzie di sicurezza. Domenica scorsa, 2 marzo, Trump condivide sul suo social Truth un post di tale Michael McCune (25), un blogger amatoriale, in cui veniva avanzata l’argomentazione che il genio di Trump sia riconoscibile nel fatto che l’accordo costringerebbe Washington a proteggere l’Ucraina riducendo al minimo il rischio di guerra. Questo perché – spiega McCune – un attacco da parte della Russia metterebbe in pericolo la vita dei lavoratori americani presenti in territorio ucraino, costringendo pertanto gli Stati Uniti a intervenire. Questa ipotesi non è una certezza, ma è pur sempre meglio di niente, e ancor di più di un Trump ostile che blocca qualsiasi tipo di aiuto.
Data l’imprevedibilità di Trump e la rapidità con cui la situazione evolve, è possibile che alcune, o potenzialmente anche tutte le considerazioni a seguire, vengano smentite dai fatti in futuro. Ciò detto, al momento è ragionevole ritenere che Trump non sia segretamente allineato con Mosca, almeno non completamente. Questo perché se fosse stato così, non avrebbe rinnovato sanzioni contro la Russia a fine febbraio (26) e non ci sarebbe stato motivo di aspettare per interrompere il flusso di aiuti a Kyiv. D’altra parte, è anche vero che in queste ore la Casa Bianca sta prendendo in considerazione l’annullamento delle sanzioni (27). In ogni caso, conoscendo il carattere del presidente americano, l’ipotesi più plausibile è che le sue azioni siano guidate da scopi elettorali e di ego, è infatti risaputo che una delle sue ambizioni sia ricevere il premio Nobel per la pace (28). In altre parole, le evidenze attuali suggeriscono che è improbabile che Trump sia un asset russo, fermo restando che è una possibilità non totalmente escludibile per quanto remota.
Infine, alcuni analisti hanno persino ipotizzato che Trump stia tentando un cosiddetto “reverse Nixon”. Anche in questo caso, è molto improbabile che sia così (29). In breve, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, l’allora presidente Nixon sfruttò le tensioni tra Mosca e Pechino per avvicinarsi a quest’ultima applicando la logica de “il nemico del mio nemico è mio amico” e isolare il proprio nemico principale, l’Unione Sovietica. La teoria di questi giorni è quindi che Trump stia cercando di “sfilare” la Russia alla Cina, ma la realtà dei fatti sembra negare questa tesi. Nixon ebbe successo perché al tempo Russia e Cina erano in pieno scontro economico e militare, per cui fu relativamente facile per Washington convincere Pechino a collaborare in chiave antisovietica. Oggi le cose sono ben diverse. Mosca e Pechino sono molto vicine da un punto di vista economico e militare, e a nessuna delle due converrebbe recidere questo rapporto, soprattutto alla luce del lungo confine di terra che condividono che, come è accaduto durante la guerra fredda, potrebbe diventare terreno di spiacevoli scontri.
]]>Attraverso un’estetica rigorosa e minimale, The Brutalist utilizza l’architettura brutalista come metafora della rigidità delle istituzioni sociali e delle difficoltà che gli immigrati incontrano nell’adattarsi. Le strutture imponenti e inamovibili del Brutalismo evocano le barriere che regolano l’integrazione: offrono protezione, ma impongono rigide condizioni. László, intrappolato tra la sua visione artistica e le esigenze del mercato, incarna la tensione tra il desiderio di successo e la volontà di preservare la propria identità culturale.
L’arrivo dell’immigrato nella cosiddetta “terra promessa” del progresso è un viaggio che si snoda tra illusioni e costrizioni, un percorso che non ha mai tratti netti ma piuttosto sfumature di incertezza e tensione. Assimilazione o integrazione? Assimilazione e integrazione. Due facce della stessa medaglia, due modi di decifrare il codice di un’appartenenza sempre sfuggente.
Nel tentativo di addomesticare la differenza, l’assimilazione appare come un processo di erosione dell’identità originaria. Una dissoluzione lenta e inesorabile che si consuma nell’adozione di una lingua, di costumi, di abitudini che non appartengono all’esperienza di partenza. Il “melting pot” americano l’ha elevata a principio, un amalgama che prometteva unità e che invece ha spesso generato alienazione. Un’adesione forzata, dove il prezzo della nuova appartenenza è la rinuncia a quella passata, lasciata sul confine come un bagaglio ingombrante. Dall’altro lato, l’integrazione. Meno dogmatica, forse più tollerata nei discorsi istituzionali europei. Un equilibrio precario tra l’essere e il diventare, dove il riconoscimento della diversità coesiste con la richiesta implicita di adeguarsi almeno in parte. Paradossale il suo gioco di specchi. Un’inclusione che, nella pratica, lascia trasparire l’ombra della selezione, dove l’adeguamento diventa necessaria condizione all’essere accettati.
L’architettura dell’esperienza migratoria non è solo una questione di geografia urbana, ma di forma e struttura dell’identità. Il brutalismo di un’integrazione forzata, spigolosa e senza compromessi, si contrappone alla fluidità di una cultura che può stratificarsi senza cancellare ciò che l’ha preceduta. Le città non sono solo contenitori di esistenze, ma matrici di esperienze. E in questa architettura sociale, l’appartenere non è mai un atto compiuto, ma una continua negoziazione tra spazio, identità e memoria.
L’appartenenza è un cavo teso tra due luoghi, un ponte sospeso tra radici e futuro. Nel contesto migratorio, questa condizione si fa ancora più complessa, in quanto implica una continua negoziazione tra il mantenimento della propria identità e le aspettative della società ospitante. Tomaney (2014) lo sottolinea bene: l’appartenenza è storicamente legata ai luoghi, ma la mobilità contemporanea sfida questa connessione. Non è solo questione di geografia, ma di riconoscimento, di interazioni, di accesso alle opportunità economiche e sociali.
L’assimilazione promette forse un’accettazione più rapida, ma a quale costo? La cancellazione progressiva della propria storia, il sacrificio di pezzi di sé per conformarsi al modello dominante. Eppure, come mostrano gli studi di Gonzales et al. (2013), anche chi si sforza di adattarsi può trovarsi in un limbo, accettato a livello culturale ma escluso da una reale partecipazione. Il "non appartenere" non è solo una condizione sociale, ma uno stato psicologico che può tradursi in un senso di estraneità profonda. L’integrazione permette invece teoricamente di esistere tra le due dimensioni. Il confronto tra Barcellona e Stoccolma, analizzato da Hellgren (2019), conferma che il senso di appartenenza dipende anche dall’ambiente: più spazi di interazione, più apertura alla diversità, più agevolazione nel sentirsi parte di un tutto senza rinunciare alla propria specificità.
Ma in questo percorso, dove ci si colloca? Lo spazio fisico diventa simbolo di un’identità in transito. La segregazione urbana racconta più di ogni manifesto politico: periferie e ghetti, la distanza geografica riflette il distacco sociale. Eppure, gli spazi pubblici, i parchi, le biblioteche, ovvero le infrastrutture sociali di cui parla Klinenberg (2018) possono essere fessure in cui l’appartenenza si fa concreta, tangibile. Luoghi di incontro in un paesaggio altrimenti frammentato, dove la vita si mescola senza bisogno di sottomettersi a una categoria.
Eric Klinenberg (2018) sottolinea come le città siano il tessuto dove si giocano le dinamiche dell’appartenenza e di come, in questo tessuto, le social infrastructures, nonché biblioteche, parchi, centri comunitari, rappresentino il collante sociale.
Un caso esemplare è quello di Elmhurst-Corona, quartiere di New York che, in pochi decenni, è passato da un’enclave bianca a un mosaico multiculturale. Negli anni '70, la mancanza di spazi di aggregazione aveva acuito le tensioni etniche e il degrado urbano aveva contribuito a rafforzare l’alienazione degli immigrati. Solo grazie all’intervento delle istituzioni locali, attraverso la creazione di spazi di dialogo e incontro, si è potuto avviare un processo di integrazione progressiva. Questo esempio sottolinea come la resilienza delle comunità dipenda dalla qualità delle infrastrutture sociali.
Ma come interagiscono questi spazi con le diverse modalità di appartenenza e partecipazione sociale? L’integrazione è spesso vista come un processo di inserimento armonioso nella società ospitante, mentre l’assimilazione suggerisce l’erosione dell’identità originaria per conformarsi a un modello dominante. Tuttavia, questa distinzione si complica nel contesto urbano, dove le infrastrutture sociali possono fungere da catalizzatori per un’integrazione più fluida e meno gerarchizzata. L’esperienza di Chicago, riportata da Klinenberg, dimostra come i quartieri con più biblioteche, parchi e centri comunitari abbiano registrato una mortalità inferiore durante una specifica ondata di caldo estremo. La presenza di questi spazi ha incentivato la formazione di reti di supporto tra vicini, contrastando l’isolamento sociale. Al contrario, nei quartieri privi di tali infrastrutture, l’assenza di connessioni comunitarie ha esacerbato le disuguaglianze e aumentato la vulnerabilità.
Simili considerazioni emergono da studi condotti su città europee come Stoccolma e Barcellona. A Stoccolma, la segregazione economica e razziale crea barriere invisibili che limitano la capacità degli immigrati di sentirsi parte della città, mentre a Barcellona il problema principale è la precarietà economica, che ostacola l’accesso a risorse abitative e lavorative. Questi fattori dimostrano che l’appartenenza non è solo un concetto culturale, ma anche uno spazio negoziato attraverso l’accesso a infrastrutture e opportunità.
Un modello alternativo alla segregazione e alla gentrificazione è rappresentato dalle pratiche di placemaking partecipato, che coinvolgono direttamente le comunità nella progettazione degli spazi pubblici. Malmö e Singapore hanno sperimentato con successo politiche di urbanistica partecipata per creare ambienti più inclusivi. A Rotterdam, la creazione di parchi multifunzionali nei quartieri popolari ha migliorato l’inclusione delle comunità migranti, mentre a Woodburn, in Oregon, lo sviluppo di spazi per il commercio locale ha rafforzato il senso di appartenenza degli immigrati latini. Queste esperienze suggeriscono che l’infrastruttura sociale non è solo un meccanismo di protezione nei momenti di crisi, ma può diventare un catalizzatore di opportunità economiche e sociali, facilitando l’incontro tra diverse classi e gruppi etnici. Tuttavia, perché ciò avvenga, è necessario progettare spazi che siano accessibili e realmente inclusivi, evitando il rischio che diventino esclusivi o subordinati a logiche di mercato che penalizzano le fasce più deboli.
Il concetto di appartenenza è storicamente radicato nei luoghi, ma la crescente mobilità della società contemporanea lo rende sempre più fluido. Secondo Tomaney (2014), la sfida attuale è ridefinire l’appartenenza non solo come connessione a un territorio, ma come partecipazione attiva alla vita comunitaria. Questo è particolarmente rilevante nei contesti migratori, dove l’integrazione non è un processo lineare, ma una negoziazione continua tra mantenimento dell’identità e adattamento alla nuova realtà. Klinenberg e altri studiosi sottolineano che le infrastrutture sociali possono agire da spazi di appartenenza, creando connessioni tra gruppi diversi e favorendo processi di identificazione reciproca. Tuttavia, questi spazi devono essere progettati in modo che la loro funzione non venga distorta da logiche di esclusione. Ad esempio, mentre la presenza di biblioteche e parchi pubblici può incentivare l’interazione interculturale, la loro gestione e accessibilità economica sono fattori chiave per evitare che diventino strumenti di segregazione.
L’integrazione non è un evento, ma un processo che si svolge nello spazio e nel tempo. Le città, se progettate consapevolmente, possono diventare laboratori di appartenenza, in cui l’identità non viene imposta, ma si costruisce attraverso l’incontro, il confronto e la partecipazione.
Perché appartenere non significa soltanto presenziare in un luogo, bensì essere riconosciuti quale parte di esso.
E se giustamente The Brutalist si allontana da potenziali semplificazioni del tema, strizza l’occhio alla concettualizzazione dello spazio, dell’architettura e dell’urbanistica quali vettori ideali per un severo studio di integrazione.
]]>Contrariamente a quanto politici e commentatori schierati dicono, ieri non si discuteva alcuna pace, alcun cessate il fuoco, alcun accordo fra Russia e Ucraina, si discuteva il “prezzo” che l’Ucraina avrebbe dovuto pagare affinché Trump si facesse intermediario di un processo di pace. Non c’era agli atti nessuna piattaforma per la definizione dei confini o per la cessazione dell’invasione. A ben vedere non c’era neanche nessuna base negoziale per lo sfruttamento delle risorse minerarie ucraine. C’erano delle cifre gettate a caso sul tavolo da Trump che indicano la sola volontà del tycoon di massimizzare un ipotetico profitto disimpegnandosi dal fronte russo-ucraino. Per farlo Trump ha utilizzato due strategie con le quali anche l’Unione Europea deve pensare di confrontarsi:
1. La totale irrilevanza dei fatti e dei numeri
2. L’aggressione (non solo verbale) e la minaccia di ritorsione.
Trump ha ribadito anche a Zelenskyy un costo di 350 miliardi per le casse federali a seguito degli aiuti umanitari e militari. È un numero fuori da ogni logica, smentito non solo da Macron ma anche dallo stesso Dipartimento di Stato, il quale riporta nella già citata pagina che gli aiuti militari forniti dal 24 febbraio 2022 corrispondono a 65.9 miliardi di dollari, a cui si aggiungono 69.2 miliardi forniti a partire dal 2014 e 31.7 miliardi di scorte del Dipartimento della Difesa. Trump ha poi citato i Javelin, che ammontano a 150 e sono registrati alla voce vendita diretta del 2019.
Dicevamo però che i numeri reali per Trump sono irrilevanti e non ha paura (anzi forse è una precisa strategia) di citarli a caso.
La scena a cui abbiamo assistito è stata una vera e propria aggressione al termine della quale è come se due gangsters avessero fornito a Zelenskyy una pistola con un solo proiettile prima di congedarlo e farlo accompagnare alla porta. Non c’era nessuna volontà negoziale perché non c’era nessun negoziato da portare a termine: il Presidente ucraino doveva consegnare il suo Paese.
I margini per recuperare un programma di aiuti sono ridotti all’osso, ma ci sono e prima di considerare l’Ucraina perduta è opportuno ricordarli.
L’Unione Europea, sia in termini di risorse proprie che in tema di accordi bilaterali con Kyiv stipulati dai singoli Stati Membri, ha fatto più degli Stati Uniti sia in termini assoluti che in termini relativi.
Il Kiel Institute, il più affidabile e aggiornato dei think tank che tengono traccia del military aid, calcola che dall’inizio dell’invasione l’impegno finanziario complessivo dei 27 Stati Membri UE più il Regno Unito è stato pari a 132.3 miliardi di euro contro i 114.2 americani; l’impegno complessivo, comprese le risorse da allocare, è pari a 247 miliardi contro 119. In rapporto al GDP lo sforzo maggiore è stato fatto da Paesi baltici (fra 1,5% e il 2,2%), Danimarca, Svezia, Finlandia, Olanda e UK. Gli Stati Uniti sono solo dodicesimi in questa classifica con lo 0.53% del GDP. A titolo di cronaca l’Italia è ventisettesima in termini di percentuale su GDP (0.12%) e tredicesima in valori assoluti.
]]>Putin ha cercato di uccidere la speranza, ma non ci è riuscito. Alexey ha sempre creduto che la Russia potesse essere un paese libero, e il nostro compito è far sì che il suo sacrificio non sia stato vano
Questi risultati i sondaggi li avevano pronosticati e sotto questo punto di vista le sorprese non ci sono state. Non si è verificato lo sfondamento dell’estrema destra dell’AfD oltre all’atteso 20% e c’è stata la debacle della socialdemocrazia. L’unica piccola sorpresa è stata il 28,52% di voti raccolti dai partiti cristiani dell’Unione (CDU/CSU) da cui ci si aspettava almeno il 30% e qualcosina in più che apre a una serie di riflessioni su cui torneremo. La portata storica di questa tornata elettorale la danno due elementi: l’affluenza al voto, alta come non si vedeva da decenni (l’82,5% degli aventi diritto al voto si è recato alle urne), che testimonia quanto i tedeschi abbiano colto l’importanza del voto in questo difficile momento storico; e il non ingresso nel Bundestag, il Parlamento Federale, di liberali (FDP) e del partito di estrema sinistra BSW, entrambi sotto alla soglia di sbarramento del 5%.
Dopo una notte al cardiopalma vissuta in attesa dei risultati definitivi, a scrutini ultimati, sono stati appena 14.000 i voti che hanno spostato l’ago della bilancia a favore della governabilità. Con un Parlamento ridotto da sette a cinque forze politiche si è scongiurato il pericolo della frammentazione che avrebbe dato vita a coalizioni di governo deboli, male assortite e destinate a durare poco come quella uscente. Questi preziosi 14.000 voti hanno fatto sì che nel riconteggio dei voti dei due partiti che non hanno superato la soglia di sbarramento del 5%, ci siano i numeri per formare una coalizione di governo tra i partiti dell’Unione e i socialdemocratici.
Esattamente lo scenario desiderato da Merz e che con ogni probabilità si realizzerà: coalizione a due con l’Unione forza trainante per realizzare quel “radicale cambio di passo voluto dai tedeschi” rispetto alla sfiduciata e deludente coalizione guidata da Scholz. Grande coalizione per Merz significa: accordarsi con un solo alleato partendo da una posizione di forza, trattative tra alleati e decisioni più veloci, maggiore stabilità dell’esecutivo al lavoro per rilanciare la terza economia del mondo, provvedimenti più restrittivi per quanto riguarda immigrazione e diritto d’asilo e maggiore attenzione alla sicurezza, temi questi ultimi cavalcati abilmente dalla destra radicale dell’AfD. I socialdemocratici certamente non accetteranno ogni proposta di Merz, ma in seguito al tracollo targato Scholz dovranno seguire la linea del neocancelliere e fare i conti interni a livello di strategie e personale.
Visto il difficile contesto internazionale, ieri sera, dopo la chiusura delle urne, in una tavola rotonda televisiva con tutti i leader presenti, Merz ha mandato messaggi chiari all’opinione pubblica tedesca. Alla luce del disimpegno statunitense in Europa, entro Pasqua Merz intende formare un nuovo governo che sia capace di assumere in Europa un ruolo guida per favorire la cooperazione a livello politico e militare. Merz ha detto senza mezzi termini che la Germania continuerà ad appoggiare militarmente ed economicamente l’Ucraina, che Putin rappresenta un serio pericolo per la stabilità, la sicurezza, la pace e la libertà del Vecchio Continente e che l’Europa dovrà imparare, da subito, a fare a meno della protezione incondizionata degli Usa. Per queste ragioni Merz ha posto l’accento sul fattore tempo (“l’Europa sta aspettando la Germania”), sulla stabilità del suo esecutivo, che cercherà l’appoggio degli alleati europei e soprattutto di tre Paesi che lui considera fondamentali per agire insieme nel delicatissimo contesto internazionale: Francia, Polonia e Gran Bretagna, anche se quest’ultima non fa parte dell’Ue. Nonostante ieri sera la leader dell‘AfD Alice Weidel abbia dichiarato, rivolgendosi a Merz, che “Unsere Hand ist ausgestreckt”, la nostra mano è tesa, ovvero ha offerto la disponibilità a formare una coalizione interamente di destra, a suo avviso la sola capace di risolvere i problemi legati all’immigrazione e la sola che soddisferebbe la volontà della maggioranza dei tedeschi, ha dovuto subire la secca replica di Merz.
Il Cancelliere designato ha replicato senza mezzi termini che il suo partito non si alleerà mai con un partito come l’AfD che vuole la Germania fuori dall’Ue, dall’Euro, dalla Nato e che non ha mai condannato l’aggressione di Putin all’Ucraina. Coi filoputiniani che vogliono distruggere l’Ue Merz non tratta e neanche il suo elettorato intende trattare, anche se sulla linea dura contro l’immigrazione clandestina e dell'inasprimento del diritto d’asilo l’AfD e l’Unione hanno idee simili. La narrazione dell’AfD, ovvero che la maggioranza dei tedeschi chiedono un governo tra loro e la CDU/CSU e che i politici tradiscono la volontà del popolo, non corrisponde al vero. Da un sondaggio è infatti emerso che il 73% degli elettori sono contrari a coalizioni con l’AfD a fronte di un 21% che vede nell’AfD un possibile partner. In altre parole la grande maggioranza dei tedeschi, da destra a sinistra, non vuole allearsi con l’estrema destra. Il cordone sanitario, ovvero il muro eretto da tutti i partiti per evitare un’alleanza con l’AfD, ha retto. L’interrogativo che pone ripetutamente la candidata alla Cancelleria Alice Weidel “sino a quando potranno isolarci?” resta però intatto. Merz ne è ben cosciente e proprio per questo intende agire velocemente e con determinazione per risolvere i problemi (immigrazione e economia in testa) togliendo così ossigeno all’AfD. Seppur vincitore, Merz non è riuscito come si aspettavano i suoi sostenitori a raccogliere almeno il 30% dei voti. I motivi di questo pallido successo sono da imputare a due fattori: la scarsa simpatia che suscita soprattutto tra i giovani e le donne a cui Merz non scalda i cuori e la pesante e negativa dote sulla politica migratoria lasciata dalla ex Cancelliera Angela Merkel, notoriamente ostile a Merz sino a emarginarlo nel partito e costringendolo a prendersi una pausa dalla politica per poi rientrarvi una volta uscita di scena lei. La scelta di Angela Merkel di accogliere nel 2015 un milione di profughi siriani in Germania è stata vissuta da numerosi elettori di destra come un tradimento dei propri valori, tradimento che si è consumato con l’AfD. Merz, che ha criticato apertamente la ex Cancelliera per l’apertura delle frontiere, ha spostato la barra verso destra cercando di recuperare l’elettorato deluso che però aveva ormai scelto l’AfD. La mossa non ha convinto pienamente e gli è costato sicuramente qualche punto percentuale che avrebbe trasformato la vittoria da sbiadita a fulgida.
La prossima mossa di Merz sarà quella di intavolare trattative con la Spd per formare al più presto un nuovo governo. Ma ancora più velocemente dovrà trovare una maggioranza entro le prossime quattro settimane, ovvero prima dell’insediamento del nuovo Parlamento, per approvare la riforma del freno al debito (Schuldenbremse) per cui è prevista costituzionalmente una maggioranza qualificata pari ai due terzi. La riforma del debito servirà per finanziare le spese militari che servono alla Germania per dotarsi delle forze armate moderne. Vista l’opposizione ad allentare i vincoli di bilancio da parte di AfD e del partito di estrema sinistra, Die Linke (che ha raggiunto un sensazionale 8,7% dei voti), Merz cercherà di far approvare la riforma dall’attuale Bundestag dimissionario prima che si insedi il neoeletto. Per raggiungere lo scopo ha già chiesto l’appoggio di socialdemocratici, verdi e liberali che si sono dimostrati disponibili vista la gravità della situazione internazionale. Per Merz e la Germania la corsa contro il tempo è iniziata.
]]>Ma, se contiamo la guerra ibrida: gli attentati a uomini politici, la corruzione, i partiti eterodiretti, la disinformazione, possiamo dire che la guerra della Federazione Russa contro l’Ucraina dura da almeno trent’anni.
La lunga striscia di sangue del regime putiniano inizia nel 1999 con la seconda guerra cecena. Seguono venticinque anni di corruzione, omicidi, incarcerazioni, repressioni, massacri, bombardamenti, sparizione della democrazia e alleanze con regimi criminali.
È stata questa la vera escalation, tollerata dalle diplomazie occidentali e ignorata da un pezzo di opinione pubblica, con una sinistra somiglianza alla parabola della Germania nazista negli anni ’30.
Altrettanto tollerata è stata la guerra ibrida contro l’Occidente. Una campagna di disinformazione calibrata su pregiudizi e paure delle opinioni pubbliche, una campagna di bugie, sabotaggi, denigrazioni, minacce, di un finto dibattito alimentato da interlocutori virtuali, di corruzione tramite gli oligarchi.
Gli Ucraini non “disputano un territorio”, difendono sé stessi, la loro vita e la loro libertà. E allo stesso tempo difendono anche la vita e la libertà dell’Europa. E dirlo non è retorica.
Noi società civile italiana e persone che credono nei valori di democrazia e libertà, riconosciamo nel popolo ucraino un alleato, l’alleato che sopporta oggi il prezzo più doloroso e pesante, di una lotta per la democrazia e la libertà, contro le autocrazie e contro i nuovi aspiranti autocrati.
La Storia sembra oggi andare in una direzione contraria. Ma gli esseri umani, i popoli, le società civili trovano sempre le strade e le alleanze per la loro liberazione.
L’intellettuale Adriano Sofri così definisce Donald Trump in un articolo
…Il palo americano al capobanda russo.
E continua:
Non c'è stato, nella storia del dopoguerra da ottant'anni a questa parte, niente di simile quanto a cinismo e viltà. E ottusità, anche: perché una volta che i commensali si siano accordati sul bottino, l'Ucraina metterà in campo le più imprevedibili e intrattabili obiezioni di coscienza e di corpi.
Un'Ucraina umiliata sarà una santabarbara di irredentismo ottocentesco quanto allo spirito, - ultramoderno quanto alle risorse materiali. Guai ai vincitori.
Ma non saranno vincitori. Non vinceranno.
Lo dico chiaro a chi deve intendere: gli Ucraini si difendono con le armi. Chi non dà le armi agli Ucraini, non è degno di chiamarsi antifascista.
Slava Ukraïni 🇺🇦
]]>Nonostante lo sbarramento al 5%, che non consente a un partito che non superi questa soglia di entrare al Bundestag, il processo di frammentazione politica in Germania, seppur più lento rispetto agli altri Paesi europei, ha “condannato” il Paese all’immutabile grande coalizione tra CDU/CSU e SPD, “marchio di fabbrica” di 12 dei 16 anni complessivi dell’era Merkel (2005-2021). Già dal giro di boa dei quattro Governi Merkel in poi si era intuito che la stabilità del sistema si reggeva su uno schema fisso e rigido, la Große Koalition, la grande coalizione che non poteva durare in eterno e che soprattutto mostrava segni di stanchezza e di scarsa forza innovativa. Il post Merkel ha sancito il crollo del mito della “stabilità tedesca” nel momento in cui la coalizione semaforo a tre (socialdemocratici, verdi e liberali) guidata dal Cancelliere Scholz nel dicembre 2021 è implosa dopo poco più di tre anni a causa di un cocktail fatto di incapacità e di incompatibilità tra le tre forze politiche, litigiose e divise su quasi tutto. Il risultato è stata la paralisi su temi cruciali come economia e, soprattutto, immigrazione, a cui è seguita l’inevitabile sfiducia a Scholz lo scorso dicembre, che ha aperto la via a elezioni anticipate con grande sollievo della maggioranza dell’opinione pubblica tedesca, che ha bollato il Cancellierato Scholz come il peggiore dal secondo dopoguerra a oggi. Con un Bundestag così frammentato, dove neanche la soglia di sbarramento del 5% ha arginato l’ingresso di partiti populisti di destra e di sinistra, formare un governo stabile, ovvero con non più di due partiti, è diventato un miraggio. Eccoci allora alle matrioske che aprono una dopo l’altra incognite e sfide per il prossimo Cancelliere. Esclusi a priori i partiti di estrema sinistra e all’estrema destra l’AfD, data dai sondaggi seconda forza politica al 20%, Merz potrà coalizzarsi potenzialmente solo con socialdemocratici, verdi e liberali. Ma il rebus non finisce qui. I liberali, dati al 4% dai sondaggi, rischiano di non entrare nel Parlamento Federale e quindi saranno probabilmente fuori dai giochi o, in caso contrario, comunque con ogni probabilità percentualmente troppo deboli per assicurare a Merz una coalizione a due. Coi verdi, Merz ha dichiarato di non voler coalizzare. Troppo distanti su temi quali immigrazione (tema caldissimo di queste elezioni), economia e transizione ecologica. È anche vero però che, se dalle urne uscisse un quadro estremamente frammentato, non si può escludere a priori l’ingresso anche dei verdi nel prossimo governo, senza i quali non ci sarebbero i numeri per una maggioranza. Tolti verdi e liberali resta l’opzione di una grande coalizione tra CDU/CSU e gli “eterni alleati” dell’era Merkel, ovvero i socialdemocratici, dati al 15% dai sondaggi. Ma queste sono ipotesi. A oggi, se i sondaggi venissero confermati dalle urne, Merz non avrebbe i numeri per formare un governo di coalizione a due forze (né con i socialdemocratici, né coi verdi dati al 13% e men che meno coi deboli liberali). Gli resterebbero due opzioni: una coalizione a tre (CDU/CSU con Spd, più o liberali o se proprio non ci fosse alternativa coi verdi) debole e a rischio ingovernabilità o un monocolore democristiano di minoranza, che di volta in volta cercherebbe voti al Bundestag, sotto il ricatto dell’AfD e gli aut aut di socialdemocratici e verdi. Entrambe le opzioni significherebbero sia per Merz che per la Germania instabilità, con il rischio di nuove elezioni anticipate. Merz si trova dunque nella paradossale condizione di sperare che i sondaggi sottostimino la percentuale del suo partito, nonché quella dei socialdemocratici, che dovrebbero uscire sì sconfitti ma non con una eccessiva batosta dalle urne; ovvero quel tanto che basterebbe a Merz per mettere in piedi una grande coalizione numericamente forte e stabile. Infine, a destabilizzare, e non poco, il quadro, oltre che la spina nel fianco dell’AfD con cui Merz non intavolerebbe alcuna trattativa, si aggiunge il pericoloso e instabile quadro internazionale.
La matrioska tedesca si aprirà domenica 23 febbraio a partire dalle 18:01 e a quel punto vedremo quante altre ne conterrà. Merz, nella migliore delle ipotesi dovrà affrontare e risolvere una serie di questioni non proprio irrilevanti: la crisi economica, il caro energia, gli immigrati e il diritto d’asilo in un contesto internazionale da far tremare i polsi. Nella peggiore delle ipotesi dovrà governare con una coalizione debole con la spada di Damocle dell’estrema destra dell’AfD che dall’opposizione farà di tutto per gettare benzina sul fuoco, forte dell’appoggio diretto e indiretto di due pesi massimi del calibro di Trump e Putin. Per la Germania si prepara un futuro pieno di incognite. Per Merz una prova di forza e di responsabilità. Ne sarà all’altezza?
]]>Questa spaccatura tra Est e Ovest diventa ancora più rilevante alla luce della crescita dell’estrema destra di Alternative für Deutschland (AfD) negli stati orientali. Infatti, nonostante AfD stia crescendo in tutto il paese, solo nell’ex DDR è capace di trovare i consensi necessari a formare un governo statale, faticando ancora ad imporsi a livello federale.
Le differenze tra Germania Est e Germania Ovest non sono scomparse con la caduta del muro di Berlino nel 1989. Sebbene siano stati fatti significativi investimenti in infrastrutture, i dati socio-economici ci mostrano come continui a esistere un importante spaccatura tra le due parti dell’odierna Repubblica Federale di Germania. Le regioni dell’ex DDR, rispetto al resto del paese, sono caratterizzate da una popolazione più anziana e con meno stranieri, nonché da un peggiore quadro economico inficiato da un più alto livello di disoccupazione giovanile e salari più bassi.
I partiti tradizionali che hanno sempre dominato la politica nell’ovest, come SPD e CDU, sono meno radicati nell’Est a causa del passato comunista della regione. Questo contesto ha aperto la strada alla crescita di nuovi attori politici, come l’estrema destra di AfD e l’estrema sinistra rappresentata dal Die Linke.
Secondo diversi ricercatori, la mancanza di consenso verso i partiti tradizionali sarebbe anch’essa causata dai fattori socio-economici sopra citati , in grado di influenzare le scelte dell’elettorato, generando sfiducia nei confronti dei partiti dell’establishment. Inoltre studi recenti hanno evidenziato come parte di questo malcontento sia dovuto alla carenza di rappresentanti dell’ex Germania Est nei posti chiave dell’apparato politico-economico federale.
Tutto questo crea nella popolazione dell’est un senso di “second-class citizenship”, ovvero la convinzione di essere trattati come cittadini di serie B rispetto ai loro pari occidentali. AfD, pur non presentandosi esplicitamente come un partito regionale, con le sue battaglie sfrutta questo senso di isolamento dell’elettorato orientale, puntando su una narrazione di rivincita anti-establishment. Intervistato qualche mese fa dal Guardian, il sociologo Steffen Mau ha collegato il successo di AfD nell’ex DDR anche al cosiddetto processo di “ossifikation”, un irrigidimento delle posizioni politiche e culturali dell’elettorato orientale.
Un'altra importante dinamica della divisione Est-Ovest è la maggiore propensione dell’elettorato dell’ex DDR a sostenere politiche accomodanti nei confronti della Russia di Putin. Questo spiegherebbe i maggiori consensi per i partiti con posizioni filo-russe, a prescindere dal loro collocamento sullo spettro politico. Proprio tra questi si è fatta notare ultimamente anche la Sahra Wagenknecht Alliance (BSW), un movimento populista capace di ottenere ottimi risultati nelle ultime elezioni europee e statali grazie alla sua carismatica leader di estrema sinistra.
Contattato da POLITICO, il politologo Martin Elff ha descritto la BSW come una combinazione unica di elementi ideologici, in grado di unire posizioni tradizionalmente di sinistra sui temi economici con una feroce opposizione all’immigrazione tipica dei movimenti di destra. Tuttavia la sorprendente crescita della BSW non sembra realizzarsi a discapito dell’AfD, che continua a rimanere sorprendentemente forte nei sondaggi, nonostante i due partiti si muovano su piattaforme elettorali simili.
E proprio la forza di AfD in questa regione potrebbe, paradossalmente, aumentare il senso di isolamento percepito dagli elettori dell’Est. Infatti la crescita dei parlamentari di AfD dovrebbe avvenire a spese di molti rappresentanti della CDU, partito attualmente in testa nei sondaggi a livello federale e probabile perno del prossimo governo tedesco. Questo inevitabilmente ridurrà il numero di esponenti dell’Est nella nuova coalizione di governo, un’eventualità che non farà che rafforzare il malcontento dell’elettorato della regione.
Esprimendosi a riguardo sul The Guardian, il sociologo Steffen Mau e la storica Christina Morina hanno suggerito come l’unico modo per fermare l’avanzata di AfD nella regione sia combattere proprio questo senso di isolamento degli elettori, cercando di coinvolgerli direttamente con nuovi strumenti, come l’istituzione di assemblee cittadine locali. Per i due ricercatori la politica può agire su questa spaccatura politico-culturale solo uscendo dagli schemi convenzionali del passato, interagendo con i cittadini in modo più diretto.
]]>Ma quali saranno i costi per le economie, almeno nel breve periodo? Che ruolo avrà la Politica Monetaria nel supporto alla transizione verde?
Con il termine “Climateflation” ci si riferisce all’aumento dei prezzi relativi dovuto agli effetti del cambiamento climatico, come per esempio quanto avvenuto per alcuni generi alimentari a base di colture la cui produzione è minacciata da schemi erratici delle precipitazioni e del clima. E’ il caso dell’inflazione dei beni alimentari che secondo le stime della BCE, è aumentata dello 0,7% nel 2022 in Europa a causa delle temperature estreme.(4)
La “Fossilflation” invece si riferisce ad un generico aumento dei costi delle fonti fossili (carbone, petrolio e gas). E’ stata solo di recente affiancata al cambiamento climatico in quanto una parte della transizione verde consiste nel rendere più costoso l’utilizzo di queste fonti e rendere visibile il danno ambientale, internalizzandolo nelle decisioni economiche di imprese e consumatori.
Infine, con “Greenflation” si intende l’aumento dei prezzi relativi derivante dall’adattamento dei processi produttivi ad un’economia decarbonizzata. Ciò è riconducibile, oltre che alle politiche ambientali analizzate in seguito, all’aumento del costo di alcune materie prime critiche quali nickel, cobalto, litio e altri, per le tecnologie verdi. Per esempio il prezzo del litio, componente chiave nella produzione di batterie elettriche, è aumentato di 6 volte dal 2009(3). In generale i fattori che esercitano una pressione al rialzo sui prezzi di queste materie sono molteplici: la concentrazione delle riserve nelle mani di pochi Paesi ( ad esempio Australia, Cina e Cile per il litio), la rigidità dell’offerta dovuta a costi elevati, le spesso rilevanti difficoltà nei processi d’estrazione e la continua crescita della domanda.
]]>Per questo secondo articolo dedicato alla proprietà intellettuale nel mondo del Cinema esploreremo lande meno remote: invece che vagare dalla Transilvania a Hollywood, infatti, resteremo a Roma. La vicinanza geografica non deve, però, ingannare: siamo distanti anni luce da quel mondo. Nel Secondo Dopoguerra, infatti, Hollywood, anche a causa dell’aumento dei costi dei suoi kolossal, vedeva in Cinecittà e in Roma il pied-à-terre perfetto per realizzare i film in costume ambientati nell’antichità greca e romana di moda a quell’epoca (i cosiddetti peplum), contenendo al contempo i costi. Un effetto secondario di questa scelta fu che le maestranze italiane del settore ebbero la possibilità di confrontarsi con il meglio del meglio dei registi, degli attori e degli sceneggiatori made in USA. Questa fortunata “tresca” diede vita a quella che, sinora, è considerata l’Età dell’Oro della Settima Arte nostrana: un periodo in cui non solo in termini di qualità autoriale e tecnica, ma anche di risonanza all’estero -e quindi, di potenziale ritorno economico- il nostro cinema gareggiava con il mercato americano e quello europeo da pari a pari. Figli di questo idillio sono certamente mostri sacri del settore quali Fellini, Risi, Scola, Rossellini, De Sica e Visconti. Tra la metà degli Anni ‘60 e i primi anni dei Settanta, però, il sistema delle major entrò in crisi, complice la fine dei kolossal e dei western classici, che determinò il progressivo allontanarsi di Hollywood dal Tevere. Fu così che molti dei figli dell’epoca d’oro, negletti dal genitore più facoltoso, si dovettero arrangiare, diventando veri e propri filibustieri del copyright.
Intendiamoci: non saranno nè i primi, nè gli ultimi, né gli unici. In un settore così competitivo e bisognoso di prodotti sempre nuovi come quello del cinema, gli “omaggi”, i plagi e gli adattamenti “non autorizzati” -sia in Italia sia all’estero- sono sempre stati un modo per continuare a produrre film senza troppo attendere la sceneggiatura del secolo -come del resto abbiamo compreso già nel primo capitolo della nostra storia.
Detto ciò, la particolarità dei casi di cui parleremo sta nel fatto che tutti hanno sfruttato la legislazione sul diritto d’autore in Italia per realizzare film a basso budget, falsi seguiti di opere statunitensi più note.
Il primo “corsaro” degno di menzione è Lucio Fulci (1). Nel 1979 venne distribuito in Italia Dawn of the Dead di George A. Romero, merito del successo internazionale. Per l’occasione, il capolavoro del regista statunitense fu editato da Dario Argento e musicato dai Goblin con il nome Zombi (2). Anche l'incasso italiano fu ottimo e, naturalmente, ciò portò una casa produttrice italiana ad acquistare una sceneggiatura depositata con il nome Gli Ultimi Zombi. Dopo una prima selezione di registi, alla fine fu scelto come director il nostro “corsaro”. Durante le riprese, la produzione decise di cambiare il titolo del film in Zombi 2. Le intenzioni della produzione erano palesi: cavalcare l’onda del successo di Dawn of the Dead, creando un suo falso sequel. Il regista però, a dispetto delle intenzioni dei produttori, decise di realizzare un’opera completamente diversa dalla pellicola americana, da cui si distingue per trama, ambientazione, personaggi e origine dell’apocalisse zombie, da virus a maledizione soprannaturale. Nonostante ciò, il nome e la tagline del film “Quando i morti usciranno dalla tomba, i vivi saranno il loro sangue” - che riprende “Quando non ci sarà più posto all’inferno, i morti cammineranno sulla Terra” di Zombi - non dava adito a dubbi sull’intento ingannevole dell’operazione.
L’inganno ebbe successo: in Italia, infatti, il finto seguito incassò più del “precedente”, posticipando la produzione e distribuzione di The Day of the Dead (Il Giorno degli Zombi) fino al 1985 e diventando esso stesso un cult movie, con tanto di omaggio da parte di Quentin Tarantino.
Dieci anni dopo, nel 1989, esce nelle sale italiane Terminator 2, ovvero Spettri a Venezia, come probabilmente riportato sulla sceneggiatura regolarmente depositata (3), sequel non ufficiale Terminator diretto dal nostro secondo “corsaro”, Bruno Mattei (4).
Nonostante il titolo, trae ispirazione soprattutto da un altro film di James Cameron, Aliens, ambientandolo però nei sotterranei di Venezia.
L’operazione stavolta non ottenne il successo sperato, complice anche un pubblico ormai più smaliziato rispetto agli anni ‘70; nonostante ciò, anche in questo caso il regista e la produzione non incorsero in cause per violazione di copyright, sebbene la pellicola fu distribuita negli Stati Uniti solo nel 2018.
Il nostro terzo e ultimo “film corsaro” si ispira in realtà proprio al primo: l’idea di girare Alien 2 - Sulla Terra(5) venne infatti al regista Ciro Ippolito notando per le strade di Roma un poster di Zombi 2.
Il regista campano decise dunque di realizzare l’unofficial sequel di Alien (1979), con protagonisti però un gruppo di speleologi intrappolati in un complesso di grotte sotterranee insieme ad una creatura aliena. Il regista si avvalse anche di un collaboratore d’eccezione agli effetti speciali, cioè Mario Bava (6); il collaboratore non poteva essere più adatto, poiché diversi critici hanno riscontrato evidenti somiglianze tra Terrore nello spazio (1965)del regista romanoe la pellicola di Scott, suggerendo quindi il film degli anni ‘60 come una delle fonti di ispirazione per il capolavoro del regista britannico (7).
La 20th Century Fox non perse tempo, facendo causa alla produzione per violazione di copyright; ma il collegio difensivo del film riuscì a dimostrare l’esistenza di un racconto ottocentesco intitolato Alien, cosa che minò la pretesa originalità del titolo di Scott portando alla rapida conclusione del processo con una vittoria per l’opera di Ippolito.
Dato che le buone idee, come abbiamo visto, hanno una lunga vita, Alien 2-Sulla Terra divenne a sua volta fonte di ispirazione per il successivo The Descent (2012) di Neil Marshall; ironia delle ironie, il corsaro era stato a sua volta depredato.
Alla luce di quanto già detto nel primo articolo, com’è possibile che il “povero” Albin Grau abbia perso la sua battaglia legale contro la vedova Stoker pur non usando Dracula come titolo del suo film, mentre i nostri tre “corsari” sono riusciti in larga parte a farla franca?
Tra i molti fattori che hanno giocato un ruolo nelle vicende narrate, il più importante è sicuramente il fatto che il titolo di una pellicola cinematografica non era considerato all’epoca equivalente al marchio commerciale (8) -cosa che avverrà in seguito- e quindi non era protetto allo stesso modo, specie se tale titolo era abbastanza generico da non essere associato per forza all’opera protetta -come abbiamo visto nel caso di Alien 2. Era dunque molto più importante evitare similitudini di trama e ambientazione per sfuggire alla scure dei legali hollywoodiani, accortezza rispettata in tutti i casi citati.
C’è quindi l’elemento economico: il mercato italiano, a differenza di quello tedesco, non era così fruttuoso per le major da giustificare una lunga e costosa controversia legale internazionale, soprattutto contro produzioni a basso budget, destinate quasi sicuramente al fallimento in caso di battaglia legale -come accadde alla Prana Films.
In ultimo, il titolo stesso non restava identico in tutti i Paesi in cui veniva distribuito, proprio per evitare ancora di più problemi con gli studios a stelle e strisce: ecco quindi che Zombi 2 negli Stati Uniti fu distribuito come Zombie Flesh Eaters, Terminator 2 diventò Shocking Dark, mentre Alien 2: sulla Terra fu ribattezzato Alien Terror.
Ma, così come la Tortuga seicentesca dei Fratelli della Costa, anche quella filmica nostrana conobbe la sua fine; determinata tra l’altro, come vedremo nel prossimo articolo, dalla strana alleanza tra il marito di Cher e un noto Topo dalle Grandi Orecchie...
]]>La sospensione della patente è una sanzione accessoria che consiste in primo luogo nel ritiro del documento da parte dell’autorità che abbia accertato la violazione, in secondo luogo nell’ordinanza di sospensione emessa dal prefetto: l’utente sarà inidoneo alla circolazione per un arco di tempo che risulta dal secondo atto. Per conciliare l’esigenza di pubblica sicurezza stradale - e quindi l’efficacia deterrente della sanzione - con il diritto dell’utente al raggiungimento quotidiano del luogo di lavoro è prevista la concessione (più restrittiva possibile) di fasce orarie durante le quali l’efficacia della sanzione viene inibita. Questo sistema non ha riscontrato modifiche significative a seguito della riforma. L’innovazione più interessante riguarda invece il nuovo art. 218-ter, che introduce la cosiddetta sospensione breve della patente: si tratta di una novità peculiare, che va collegata - secondo le motivazioni di cui al ddl - al sistema basato sulla decurtazione dei punti della patente; quest’ultima misura, introdotta nel 2003, si era dimostrata idonea - sempre secondo il Ministero proponente - a ridurre in modo rilevante il numero di incidenti, di morti e feriti. Questa stessa incisività sarebbe venuta sempre meno a partire dal 2007 in poi, in quanto la sanzione di mera revisione tecnica della patente - in caso di azzeramento dei punti - non si sarebbe rivelata così deterrente con il passare degli anni. Su questo punto vanno fatte alcune precisazioni: in primo luogo è vero che, in corrispondenza della riforma del 2003, il numero di incidenti, morti e feriti è calato drasticamente (1); è anche corretta l’affermazione per cui si è giunti ad uno stazionamento dei dati, anche se ciò si è verificato molti anni dopo rispetto a quanto affermato (2). Sicuramente la ragione di questa riduzione più che decennale non è riconducibile alla sola riforma del 2003, essendosene nel frattempo susseguite altre, tuttavia è innegabile la sua incidenza.
Entrando nel merito della sospensione breve, la previsione dunque rafforza il sistema della decurtazione dei punti: nel caso in cui l’utente sia dotato di un punteggio inferiore ai 20 punti, all’accertamento di una delle violazioni elencate nel medesimo articolo (3) consegue - in aggiunta alle altre sanzioni già previste - anche una sospensione della patente di 7 giorni; nel caso in cui il punteggio di partenza sia già inferiore ai 10 punti, la sospensione sarà di 15 giorni. Le sospensioni sono raddoppiate se a causa della violazione contestata (e accertata) è derivato un incidente. Data la brevità del termine di sospensione, si è preferita l’adozione di una procedura più semplificata, derogando alla solita competenza del prefetto: la sospensione non deriverà dunque da un’ordinanza ma sarà contestuale al ritiro del documento da parte dell’agente. L’inerzia abusiva al divieto consegue un trattamento sanzionatorio molto gravoso (lo stesso della sospensione ordinaria): sanzione pecuniaria, revoca della patente e fermo amministrativo del veicolo (che si tramuta in confisca a seguito di reiterazione).
Il legislatore inoltre ha voluto chiarire il problema di coordinamento che si pone tra questo articolo e le recidive nel biennio per il singolo tipo di violazione: se l'illecito specifico prevede - in caso di recidiva nel biennio - una sospensione ordinaria (un esempio su tutti il semaforo rosso), il concorso tra quella breve e quella ordinaria si risolverà con la sola applicazione della seconda. Problemi interpretativi si pongono tuttavia per l’inserimento - tra queste condotte specifiche - dell’art. 173 comma 3-bis: l’uso del cellulare alla guida; i dubbi riguardano il fatto che tutte le condotte elencate nell’art. 218-ter - nella forma base - portano di per sé a sanzioni pecuniarie: solo nella forma di recidiva nel biennio si prefigura una sospensione ordinaria (con la soluzione individuata sopra). A seguito di questa stessa riforma invece l’uso del cellulare alla guida è punito - anche in forma semplice - con la sospensione ordinaria da 15 giorni a 2 mesi (prima era prevista la sola pena pecuniaria): dunque, nel caso in cui sia applicabile anche la sospensione breve, quale delle due si adotta? A ben vedere, l’aggiunta di questa condotta all’elenco è stata effettuata in sede parlamentare (nella versione originaria del ddl non è presente): si suppone quindi che vi sia stata una svista, con conseguente applicazione della sola sospensione ordinaria.
Per concludere, questa riforma va accolta con una certa riserva, perché si tratta di una misura che può limitare fortemente la libertà di circolazione del cittadino, soprattutto a causa della lunghezza dell’elenco di illeciti inclusi. Un’introduzione del genere sarà dunque giustificabile solo laddove conduca nel futuro ad una forte riduzione degli incidenti, ravvivando la tendenza cui la riforma del 2003 aveva dato inizio. In caso contrario dovrà essere ritenuta eccessivamente gravosa, con dei conseguenti dubbi sulla sua effettiva opportunità: sarebbe giusto dunque attendere le prossime rilevazioni Istat in modo da formulare un giudizio più consapevole.
Per quanto riguarda le disposizioni sull’educazione stradale dei giovani, l’art. 230 si è sempre proposto l’obiettivo di diffondere - nelle scuole di qualsiasi ordine e grado - la conoscenza dei principi della strada e di tutto ciò che ruota attorno ad essa, con particolare riferimento all'uso della bicicletta, e delle regole di comportamento degli utenti, [...] all'informazione sui rischi conseguenti all'assunzione di sostanze psicotrope, stupefacenti e di bevande alcoliche. Inutile rimarcare la mancata effettiva implementazione di queste norme, per via delle scarse risorse e della mancanza di incentivi: la riforma interverrebbe su questo secondo problema, con la promessa di un premio di 2 punti sulla patente ai giovani - frequentanti istituzioni scolastiche secondarie di secondo grado - che partecipino a queste iniziative extracurricolari. In merito si possono trarre le medesime conclusioni effettuate sull’alcolock nella prima parte di questa disamina: riflessioni sulla fattibilità potranno esserci solo alla luce del regolamento attuativo - sempre se sarà effettivamente emanato - da adottare in teoria entro metà febbraio.
Più immediate sono invece le limitazioni per neopatentati di cui all’art. 117. La qualifica di neopatentato era ed è tuttora di durata pari a tre anni dal conseguimento della patente. Una limitazione che tuttavia durava un solo anno era quella legata alla potenza del veicolo, per cui allo scadere del primo anno ogni limite in tal senso veniva meno. A seguito della riforma, anche in questo caso il termine è stato esteso a tre anni. Al fine di scongiurare equivoci, questa modifica non ha efficacia retroattiva, per cui chi ha conseguito la patente prima del 14 dicembre è destinatario della precedente disciplina.
Infine una misura protezionistica - cui questa maggioranza è avvezza - nei confronti delle autoscuole: secondo la precedente disciplina, all’aspirante patentato era sufficiente il foglio rosa per esercitarsi alla guida, sempre che fosse accompagnato da un altro soggetto infra-sessantacinquenne, con la medesima patente da almeno dieci anni (o di livello superiore). Da ora in poi sarà necessaria un’ulteriore certificazione che garantisca l’adempimento alle esercitazioni in autostrada o su strade extraurbane e in condizione di visione notturna. Gli unici soggetti idonei ad attestare formalmente tale adempimento sono esclusivamente le autoscuole: viene dunque imposto all’aspirante patentato di iscriversi previamente alle stesse. Di fatto questa misura riduce di gran lunga i margini di autonomia del cosiddetto privatista e garantisce alle autoscuole la completa istruzione degli utenti.
La velocità troppo elevata alla guida è - come emerge pacificamente dai report Istat - una delle maggiori cause di incidenti. Si tratta dunque di una circostanza su cui è più facile trovare terreno fertile per misure normative più dure. La modalità più efficiente - ma anche più discussa - per l’elevazione di questo illecito è senza alcun dubbio l’autovelox, specie se fisso, proprio per la sua configurazione elettronica, idonea a combinare al meglio precisione e continuità della sorveglianza. Per il principio non scritto per cui - come in tutti gli ambiti - a maggiori poteri corrispondono più stringenti limiti, la legge in primis ed i giudici in coda hanno elaborato nei confronti degli autovelox una serie di cautele, tra cui primeggia incontrastata la dicotomia omologazione ed approvazione: il singolo dispositivo elettronico infatti, ai fini di una regolare elevazione per il preconfezionamento di una prova certa, deve essere sia approvato che omologato, pena la possibilità di far dichiarare illegittimo il verbale di contestazione. Dalla lettura delle varie sentenze in merito emerge un certo tentativo da parte delle autorità di controllo di aggirare questo doppio ostacolo, rivendicando l’alternatività tra questi due termini, per cui sarebbe più che sufficiente il compimento del procedimento di approvazione, che tra i due è certamente quello più snello. Nei tribunali (4) invece si ravvisa non solo un mantenimento, bensì una consacrazione della suddetta dicotomia, in quanto interpretazione corretta quella che valorizza una distinzione sia nei procedimenti sia nelle funzioni.
La prima posizione, a favore della sufficienza dell’approvazione, trova seguito in quanto nel testo normativo i due termini sono spesso collegati dalla congiunzione disgiuntiva “od” piuttosto che da quella copulativa “ed”: anziché approvazione ed omologazione si trova scritto approvazione od omologazione. Tuttavia, a ben vedere questa conclusione si scontra con le due disposizioni cardine: l’art. 142 comma 6 del Codice della strada e l’art. 192 del Regolamento attuativo del medesimo codice. La prima fonte afferma: [p]er la determinazione dell'osservanza dei limiti di velocità sono considerate fonti di prova le risultanze di apparecchiature debitamente omologate; è evidente che non si faccia riferimento alla precedente approvazione, dunque l’efficacia probatoria scatta soltanto dal compimento del secondo procedimento. Dalla seconda fonte emerge invece la differenza di natura e funzione, palesata da una sentenza del Tribunale di Asti (5): l'omologazione ministeriale autorizza la riproduzione in serie di un apparecchio testato in laboratorio [...], mentre l'approvazione consiste in un procedimento che non richiede la comparazione del prototipo con caratteristiche [...] o con particolari prescrizioni [...]. L'omologazione, quindi, consiste in una procedura che - pur essendo amministrativa al pari dell'approvazione, ha anche natura necessariamente tecnica e tale specifica connotazione risulta finalizzata a garantire la perfetta funzionalità e la precisione dello strumento [...].
Questo era dunque il quadro, sempre più pacifico, prima della riforma: alla luce dell’intervento normativo si sono sollevate voci che vedrebbero una soppressione della dicotomia; a ben vedere si può invece affermare che il quadro sia rimasto il medesimo. Certamente il tentativo del Ministero proponente è quello di contrastare la ferrea posizione dei giudici: come risulta evidente da una lettura delle argomentazioni di cui al ddl, la richiesta inderogabile dell’omologazione, ulteriore e susseguente rispetto alla semplice approvazione, da parte dei tribunali non viene vista dal Ministero come la ricerca di una rilevazione corretta e precisa (risultato che può essere garantito solo con l’omologazione), bensì come una soluzione a sfavore della sicurezza stradale: [la necessità dell’omologazione ha] di fatto reso vano il rilevamento automatico delle infrazioni. Questa ricostruzione logica non può essere considerata condivisibile: l’invalidità dei verbali per mancata omologazione degli autovelox non è dovuta ad inutili e dannose riflessioni dei giudici, quanto all’inerzia dell’amministrazione nel completamento del secondo procedimento. Non è ammissibile che in un sistema garantista come quello italiano la colpa riguardo alla mancata celerità in sede di omologazione venga fatta ricadere sui cittadini, esposti di conseguenza a rilevazioni potenzialmente imprecise.
Dunque: per quale motivo non è cambiato il quadro normativo? La risposta risiede nel fatto che nel ddl si proponeva di modificare l’art. 142 comma 6, che - come già affermato in precedenza - identifica come fonti di prova solo gli autovelox omologati. La rettifica consisteva nell’aggiunta della frase: o, nelle more dell’emanazione di un regolamento specifico, approvate dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti; di fatto concretizzando quel trasferimento di responsabilità dall’amministrazione ai consociati. La disposizione non ha tuttavia superato il vaglio parlamentare, che con un emendamento ha eliminato questa proposta. Di quella volontà governativa di rimuovere la distinzione resta la semplice reiterazione della congiunzione disgiuntiva “od”, la quale però, come già affermato, non è considerata in tal senso significativa dalla magistratura.
Ultimo punto rilevante in materia riguarda il nuovo comma 1-quinquies dell’art. 201. Al comma 1-bis viene elencata una serie di violazioni - tra cui l’eccesso di velocità - per cui è idonea, ai fini probatori, l’adozione di strumenti di controllo da remoto. Il comma 1-quinquies afferma che gli strumenti elettronici approvati od omologati per la rilevazione contemporanea di più tipologie di violazioni (di cui al comma 1-bis) possano costituire prova valida per tutte queste. Non si ha alcuna alterazione del principio di necessaria omologazione, potendosi riproporre i medesimi ragionamenti riguardo alla congiunzione “od”. Lo stesso comma però continua, affermando che, in caso di più violazioni (di cui al comma 1-bis) compiute con la stessa azione od omissione, sia sufficiente in astratto un dispositivo approvato od omologato per anche un solo tipo di rilevazione: così a titolo esemplificativo attraverso l’accertamento di violazioni del limite di velocità o del segnale di semaforo rosso, realizzato con dispositivi omologati per quelle violazioni, sarà possibile accertare anche la mancanza di revisione o la mancanza di assicurazione. Anche in questo caso il concetto di base non cambia, essendo necessaria l’omologazione per la violazione principale. Il problema tuttavia si pone quando l’eccesso di velocità non sia l’illecito preminente, quanto quello accessorio della medesima azione: è opinione di chi scrive che si possa configurare una deroga alla necessità di omologazione, ma solo in presenza di una violazione così grave e palese da rendere insignificante l’esigenza della precisione.
]]>Alcune persone danno la colpa ai Savoia. Tuttavia, decidere che il malfunzionamento della sanità e di altri settori sia colpa loro è ovviamente sbagliato. Si può risalire alle cause storiche antiche pre seconda guerra mondiale, ma non aiuteranno in alcun modo a trovare una soluzione per i problemi moderni. Se da una parte è utile guardare alle radici storiche dell’arretratezza dall’altra bisogna stare attenti a non confondere l’analisi storica con quella attuale. Per trovare la risposta al da farsi ora occorre chiedersi che cosa manca ora e non guardare al passato. Un esercizio utile da fare è quello di chiedersi: come hanno fatto regioni vicine a noi a recuperare ed uscire da una condizione d’arretratezza economica e sociale simile a quella Siciliana o Calabrese?
Un’area d’Italia avente autonomia simile a quella Siciliana è l’Alto Adige, o Sudtirolo. il Sudtirolo è autonomo e presenta un’autonomia differenziata con una popolazione poco più di un decimo superiore rispetto a quella Siciliana. Negli anni 40’ e 50’ era una regione molto povera, agricola, isolata e dotata di una forte componente religiosa. Caratterizzata da una diffusa cultura di attaccamento alle tradizioni e con un reddito non particolarmente differente rispetto a quello Siciliano, a distanza di circa 70/80 anni, se paragonati, i livelli di reddito sono più del doppio in confronto a quelli siciliani. Senza considerare altri indicatori di benessere, quali sanità e scuola, che stanno in cima alle classifiche italiane.
La regione, attraverso la specializzazione in settori strategici quali le tecnologie alpine, le energie rinnovabili e l'industria alimentare ha intrapreso un processo di crescita e sviluppo, che ha significativamente migliorato le condizioni di vita della popolazione.
Il secondo esempio di recupero è quello della provincia dell’Almeria. Appartenente alla regione dell'Andalusia, estremamente povera e avente circa 11 milioni di abitanti, l’Almeria, che negli anni 60’ era una zona pressoché totalmente desertica e con livelli di povertà ancora più accentuati della Sicilia, ad oggi è una delle provincie più ricche della Spagna.
L’Almeria è riuscita in questa trasformazione principalmente grazie all’iniziativa privata, che ha avviato un processo di rivoluzione industriale endogena. Sfruttando le caratteristiche del territorio come il terreno sabbioso, per coltivare ortaggi e frutta, e il basso costo del lavoro, dovuto dalla forte presenza di lavoratori dequalificati, è stato possibile cambiare le condizioni di questo territorio. Successivamente agli anni 2000, infatti, l’Almeria è passata dall’essere desertica a diventare una zona ad alto livello tecnologico e di elevata efficienza nella produzione di ortaggi e frutta di prima qualità, superiore alla floricoltura e all'orticoltura olandese. La sua crescita ha portato anche a tensioni fra Spagna e Francia dato che negli anni 90’ i camion provenienti dalla regione, carichi di ingenti quantità di frutta, venivano regolarmente bloccati al confine francese. Gli agricoltori francesi, non riuscendo a competere con la produttività degli spagnoli, cominciarono a sabotare le celle frigorifere dei camion distruggendone il contenuto. Questa dinamica proseguì fino all'intervento del governo francese che, per via delle pressioni del governo spagnolo, decise di tutelare i camion attraverso l’uso dell’esercito.
L'Irlanda è un'isola di dimensioni leggermente superiori a quelle della Sicilia ma con una popolazione inferiore. Negli anni 80’ presentava condizioni economiche e sociali comparabili a quelle della Sicilia. La popolazione, principalmente povera e religiosa, presentava elevati tassi d’emigrazione verso gli Stati Uniti e manifestava una marcata presenza di criminalità organizzata. Nel giro di quarant’anni, tuttavia, l'Irlanda ha vissuto un'imponente crescita economica, arrivando a generare i livelli di reddito pro capite (reddito medio per individuo) più alti d'Europa, quattro volte superiore a quello attuale siciliano.
Questo cambiamento ha avuto un impatto profondo anche sull’emancipazione femminile. Grazie ai meccanismi di crescita economica si sono creati posti di lavoro produttivi e ben retribuiti che hanno incentivato la partecipazione femminile, offrendo alle donne prospettive di vita migliori. Nel momento in cui vengono creati posti di lavoro produttivi che attraggono le donne più istruite e professionalizzate, si genera di conseguenza una nuova domanda di servizi legati alla cura della casa. Questo fenomeno offre, di conseguenza, nuove opportunità occupazionali per donne con minori livelli di istruzione, innescando un circolo virtuoso che favorisce l'inclusione lavorativa, lo sviluppo economico e l’emancipazione.
Il Sudtirolo ha ricevuto, da parte dello stato italiano, gli stessi fondi di cui ha usufruito la Sicilia mentre l’Irlanda è stata finanziata a livello europeo attraverso i fondi strutturali NUTS, nati per rispondere alla crisi dello shock petrolifero del 73’. L'Irlanda ha beneficiato di questi finanziamenti per circa quindici anni, ma a partire dagli anni 2000, non essendo più in crisi economica, ha smesso di usufruirne. L’Almeria ha invece ricevuto la stessa quantità di fondi che hanno ricevuto le altre province dell’Andalusia.
Al contrario, le regioni meridionali italiane non sono mai riuscite a sfruttare i fondi strutturali non tanto per colpe storiche quanto invece a causa delle amministrazioni regionali. L'incapacità di queste ultime di elaborare progetti idonei all'ottenimento dei fondi strutturali, è stata ulteriormente aggravata da un provvedimento politico introdotto nel 1994 dal primo governo Berlusconi. Tale misura attribuiva al Ministero del Bilancio la responsabilità della progettazione, contribuendo a deresponsabilizzare ulteriormente le amministrazioni regionali.
In Andalusia, al contrario, i fondi sono stati utilizzati con razionalità e lungimiranza, consentendo la realizzazione di infrastrutture strategiche come autostrade, linee ferroviarie, porti e numerose altre opere di pubblica utilità.
L’evidenza storica, infatti, sottolinea come le cause del mancato sviluppo in molte parti del mondo, soprattutto per quanto riguarda territori con un clima favorevole e condizioni fortunate come le regioni del Mediterraneo, derivino principalmente dalla classe dirigente e dalle norme di comportamento che queste contribuiscono a generare pur di mantenere il loro potere rispetto al popolo. Per porre rimedio al mancato sviluppo, è necessario che una parte della classe dirigente trovi la forza intellettuale per avviare un cambiamento sociale, rivoluzionando le abitudini dannose radicate nel territorio. Questo meccanismo, tuttavia, fatica ad attivarsi in Sicilia perché a livello culturale non vi è la volontà di rischiare, pur essendo in difficoltà economiche e sociali. L’orgoglio impedisce sia di riconoscere l’oggettiva difficoltà sia la necessità di agire per cambiare la propria situazione.
La classe dirigente è fondamentale per avviare questo processo di trasformazione. In Irlanda, sono infatti riusciti ad introdurre positivamente, nel corpo sociale addormentato e stantio, l’elemento imprenditoriale offrendo ad Apple condizioni fiscali migliori per stabilire la loro sede all’interno del territorio. Per ottenere questo risultato, tuttavia, hanno dovuto tagliare parte dell’enorme spesa pubblica, riducendo i trasferimenti monetari ai cittadini stessi. Grazie a questo tipo di approccio politico è stato possibile attrarre nuove imprese, che hanno scelto di stabilirsi in Irlanda attirate sia dalla tassazione vantaggiosa che dai risibili salari derivanti dalla condizione di povertà diffusa nel paese. Questa serie di tasselli ha avviato così una rivoluzione culturale radicale.
In Italia, a causa del sistema di contrattazione collettiva nazionale, non è possibile sfruttare il basso costo del lavoro in regioni come la Sicilia, nonostante questa potrebbe rappresentare una strategia efficace per attrarre nuovi investimenti imprenditoriali. Se un'azienda in Sicilia è tenuta a offrire gli stessi salari di un'impresa situata nelle regioni settentrionali, quest'ultima sarà maggiormente incentivata a stabilirsi al nord, dove il contesto produttivo e le opportunità di sviluppo sono migliori. La Sicilia necessiterebbe di un movimento politico in grado di promuovere l'autonomia contrattuale, seguendo l'esempio della Spagna.
In Spagna, a partire dagli anni 2000, attraverso progressivi interventi normativi, il contratto nazionale si è limitato a stabilire principi giuridici generali, come il divieto di discriminazione e altre garanzie minime previste dal codice civile, mentre aspetti come l’orario di lavoro e la retribuzione sono decisi attraverso una contrattazione aziendale.
Il sindaco di una qualsiasi regione del sud, in un contesto di questo tipo, dovrebbe contattare le aziende per convincerle a stabilirsi sul territorio, valorizzando i vantaggi economici e geografici. Attraverso l’attrazione di aziende e persone altamente qualificate si può dar vita a un’ecologia sociale ed economica in cui le menti più brillanti e propense al rischio possano interagire e prosperare, avviando così un processo di crescita collettiva. Se, al contrario, i migliori emigrano, lo sviluppo si arresta e impoverisce ulteriormente l'intera comunità. La perdita del 30-40% delle menti più brillanti di ogni generazione, come avviene, rappresenta una dinamica profondamente negativa, che compromette il potenziale di crescita e di innovazione del territorio. La strategia migliore per interrompere questo circolo vizioso risiede nello sfruttare il vantaggio comparato che questi territori possiedono, come hanno dimostrato gli spagnoli e gli irlandesi. Partendo da livelli salariali bassi, è possibile innescare un processo di crescita economica che, nel tempo, conduce ad un aumento progressivo dei salari. Attraverso l’attrazione di imprese e la creazione di condizioni favorevoli allo sviluppo, si genera un ciclo virtuoso in cui l’espansione economica e il miglioramento dell’ecosistema lavorativo procedono di pari passo.
]]>Uno degli aspetti principali della politica estera della Thatcher fu l'atlantismo e il suo forte impegno nei confronti dell'alleanza anglo-americana. Lo stretto rapporto tra la Thatcher e il Presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan, fu fondamentale per definire non solo le relazioni internazionali della Gran Bretagna, ma anche lo scenario generale della Guerra Fredda. Il comune sentimento ideologico preparò il terreno per la loro relazione politica. La Thatcher ammirava la filosofia di Reagan: "Soprattutto, sapevo che stavo parlando con qualcuno che istintivamente sentiva e pensava come me; non solo sulle politiche, ma su una filosofia di governo” (1). D'altra parte, Reagan condivideva un'opinione simile, affermando nelle sue memorie che "gli piacque immediatamente - era calda, femminile, gentile e intelligente - e fu evidente fin dalle nostre prime parole che eravamo anime gemelle quando si trattava di ridurre il governo ed espandere la libertà economica" (2). Questo allineamento si tradusse anche sul terreno militare. Il sostegno della Thatcher al dispiegamento di missili da crociera statunitensi sul suolo britannico, come parte della strategia di deterrenza della NATO nel 1983, fu l'esempio più chiaro della sua cooperazione nel contenimento dell'Unione Sovietica (3).
]]>Un parametro utilizzabile (seppur non completo) è quello dell’apporto calorico medio per individuo. I dati più utilizzati sono quelli della FAO, periodicamente aggiornati dal 1961.
Chiunque abbia subito un intervento chirurgico dovrebbe essere familiare con questo tipo di effetti, poiché gli oppioidi si utilizzano continuamente per la copertura del dolore post-operatorio.
La potenza dell'effetto psicotropo e analgesico varia fra i diversi oppioidi. La morfina viene spesso presa come punto di riferimento (1); l'eroina è considerata dalle 3 alle 5 volte più potente della morfina mentre il fentanyl dalle 50 alle 100 volte più potente.
Parentesi: come si calcola la potenza, visto che parliamo di effetti psicotropi e analgesici? Dosi equivalenti vengono confrontate somministrandole ai volontari e registrandone la risposta su scale standardizzate per il dolore. Si registrano anche risposte del sistema nervoso autonomo, come il cambiamento dei parametri vitali, che in tutta una serie di contesti possono essere correlati all'effetto del farmaco.
È un metodo con un certo grado di limitazioni, visto che anche sulle scale di valutazione permane soggettività, ma una vasta letteratura lo ha certificato attendibile nella maggioranza dei casi.
Il fentanyl viene tuttora usato in numerosi ambiti clinici (2).
Per anni è stato un farmaco utilizzato per la chirurgia da sveglio (awake surgery), più spesso in congiunzione con altri farmaci, al fine di rilassare e contemporaneamente anestetizzare il paziente durante la stimolazione intra-operatoria. Nella fattispecie, durante la chirurgia da sveglio si stimolano alcune regioni del cervello per identificarne con precisione la posizione.
Il cervello non sente dolore, ma tutto ciò che lo circonda e i vasi sanguigni che lo irrorano sì, per cui una buona copertura anestetica e ansiolitica è essenziale in questi casi.
Nei decenni passati, alcuni studi hanno evidenziato l'inferiorità del fentanyl rispetto al remifentanil (un altro oppioide), per una serie di proprietà farmacocinetiche, tra le qualila sua clearance, ovvero quanto rapidamente viene “espulso” dal metabolismo, la sua minore efficienza, nonché il fatto che si accumuli maggiormente, che potrebbe provocare una maggiore incidenza di problemi respiratori e varie altre valutazioni tecniche che lascio ai colleghi anestesisti (3).
Tornando al fentanyl illegale, questo viene parzialmente prodotto in US, ma più spesso viene importato o prodotto a partire da precursori essi stessi importati.
Il sito della DEA, Drug Enforcement Administration americana (sì, quella di Breaking Bad) offre un'ampia panoramica sul problema.
Le dosi cliniche del fentanyl si calcolano in microgrammi (ovvero 0,000001 grammi), laddove, come riportato sul sito della DEA, il 42% delle dosi sequestrate ne contiene almeno 2 milligrammi (quindi 2 x 0,001 grammi), ovvero potenzialmente un ammontare letale. La morte per overdose avviene tipicamente per arresto respiratorio.
]]>Italia, 2025.
Debutta nelle sale cinematografiche Nosferatu, remake del regista Robert Eggers del precedente film di Werner Herzog Nosferatu il Vampiro, a sua volta rifacimento di Nosferatu, una sinfonia del Terrore, del maestro F. W. Murnau del 1922. Solo alcuni degli spettatori in sala sanno però che l'opera di Eggers, così come il Conte Orlok agli occhi attoniti delle sue germaniche prede di metà Ottocento, in base al diritto d’autore, non dovrebbe esistere.
Serbia, 1916. Prima Guerra Mondiale.
Un contadino locale rivela ad Albin Grau, soldato tedesco con la passione per l’occulto, che suo padre è un vampiro e un non-morto. Da quel momento in poi, per Grau, realizzare un film sui vampiri diventa un’ossessione. (1)
Berlino, 1922.
Esce nelle sale della Repubblica di Weimar Nosferatu, una sinfonia del Terrore, prodotto dalla Prana Films di Albin Grau. L’opera è un grande successo di pubblico, tra i primi esperimenti di film dell’Orrore nella storia della Settima Arte. Del resto il conte Orlok (il cui aspetto, simile ai ratti, era stato plasmato dallo stesso Grau (2)), vampiro straniero giunto nella città di Wisborg per diffondere la Peste e cibarsi della bella Ellen, non poteva non colpire l’immaginario dei tedeschi coevi, da poco sconfitti dalle potenze dell’Intesa nel corso della Grande Guerra e colpiti duramente dalla pandemia di Spagnola del 1918-1920. Il problema è che molti dei personaggi del film e gran parte della trama (come il “trasloco” del Nosferatu dal castello alla città a bordo della nave Demetra) sono copiati dal romanzo Dracula (1897)di Bram Stoker; Si dice che Grau, non potendo permettersi di pagare i diritti agli eredi dello scrittore irlandese, nel frattempo morto nel 1912, abbia modificato apposta il film (cambiando la città da Londra a Wisborg e modificando i nomi dei personaggi, da inglesi a tedeschi), sicuro così di evitare una probabile futura causa legale. È più probabile che il produttore non si sia preoccupato affatto del problema, nella convinzione che un semplice “liberamente ispirato a…” -effettivamente presente nelle prime versioni della pellicola- inserito nei titoli di testa bastasse per evitare problemi. (3)
Florence Balcombe, vedova Stoker e manager dei diritti d’autore del marito scomparso, non è dello stesso parere.
]]>Nel passato, le guerre mondiali erano caratterizzate da battaglie convenzionali e dichiarazioni formali. Oggi, la guerra ha assunto nuove forme, focalizzandosi su conflitti economici, cyberattacchi, manipolazione delle informazioni e guerre per procura. In questa evoluzione, si inserisce la dottrina PMESII (Politico, Militare, Economico, Socio-culturale, Infrastrutturale, Informativo), che individua sei domini fondamentali in cui si sviluppano i conflitti moderni. L'analisi di questi domini richiede competenze interdisciplinari, evidenziando come la complessità della guerra contemporanea vada ben oltre il tradizionale campo di battaglia. In questo scenario, la Cina emerge come un protagonista centrale. Storicamente abile nella guerra economica, la Cina utilizza una combinazione di strategie di soft power, investimenti infrastrutturali (come la Belt and Road Initiative) e pratiche commerciali per influenzare e controllare il panorama globale.
Proprio la Belt and Road Initiative (BRI), nota anche come "Nuova Via della Seta", era un ambizioso progetto infrastrutturale e commerciale lanciato dalla Cina nel 2013. L'obiettivo principale della BRI è quello di creare una vasta rete di rotte commerciali terrestri e marittime che colleghino la Cina all'Asia, all'Europa, all'Africa e oltre. Attraverso investimenti in infrastrutture come ferrovie, porti e strade, la Cina punta a consolidare la propria influenza economica e geopolitica, promuovendo al contempo il proprio modello di sviluppo. Tuttavia, questo progetto è stato criticato da molti paesi per i rischi legati all'indebitamento e alla dipendenza economica. Per un'analisi approfondita della Belt and Road Initiative vedi qui.
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Al di là dell’evoluzione storica del Ministero è però interessante notare ai fini di questa trattazione il ruolo che questo ricopre oggi e le sue specifiche in merito al turismo. Nella sezione “Piano strategico del turismo (PST)” del sito web si parla appunto di "documento chiave per la pianificazione e lo sviluppo del turismo in Italia", che delinea le priorità e le azioni strategiche per promuovere un turismo sostenibile, innovativo e competitivo a livello internazionale, che affronta sfide come la digitalizzazione, la sostenibilità ambientale e l’inclusione.
Sarà quindi la premessa di questo documento a guidarci nell’analisi della tematica. Come prima cosa viene detto che il turismo è un
settore economico prioritario, trainante (1) e non ancillare ad altri [...], un volano per la crescita di numerose nazioni, tra cui certamente l’Italia, traducendosi in fattore di sviluppo capace di amplificare l’impatto degli investimenti effettuati in termini di PIL (1) occupazione (2) reputazione del marchio Italia.
Partendo dal presupposto che è difficile definire il turismo in sé (3), occupiamoci dell’affermazione secondo la quale il turismo è un settore trainante (e non trainato) dell’economia. Un interessante spunto di riflessione è quello fornito da Pagella Politica (4). La questione è posta in primis sul piano metodologico e pone il problema di cosa significhi essere un settore trainante dal punto di vista economico. Ragionando per ipotesi, se il turismo fosse un settore trainante allora dovrebbe soddisfare una di queste due condizioni:
L’11 novembre in occasione del Forum internazionale del turismo tenutosi a Firenze la ministra Santanchè ha dichiarato che
il settore [turistico] aiuta in modo straordinario il Paese: nel 2023 la spesa complessiva nel comparto del turismo ha raggiunto la quota record di 155 miliardi di euro. E questo si traduce in un incremento complessivo di 366 miliardi, pari quasi al 18 per cento dei pil. Ecco, quei 366 miliardi rappresentano l'impatto del mondo turistico sull'economia italiana, certificato dalla Banca d'Italia».
Affermazioni forti, decise e, qualora vere, porterebbero a spiegare il perché bisognerebbe investire nel turismo. Ma la situazione, come si poteva immaginare, non è proprio questa: salta subito all’occhio come, facendo qualche ricerca su internet, non esista al momento nessuno studio di Banca d’Italia che confermi le affermazioni della ministra e che lo studio dell’Università Tor Vergata di Roma, rilanciato da diversi giornali come base di queste affermazioni, non sia in realtà ancora accessibile perché privo dell'autorizzazione del Ministero per la sua diffusione (Pagella Politica (5)). Presumibilmente si parla di una disponibilità prevista per febbraio 2025, in vista del G7 sul turismo e, fino ad allora, dovremo accontentarci delle dichiarazioni del Ministero che non avendo basi non risultano verificabili.
Al di là della correttezza o meno dei numeri e della mancata trasparenza della questione - questione gravissima su cui, in realtà, andrebbe dedicato tutto un intero articolo poiché si tratta di un gesto che va contro i principi di responsabilità e trasparenza, cardini della democraticità - e, data la mancanza di una definizione chiara di turismo, risulta difficile metodologicamente capire se il turismo sia settore trainante o meno. In questa sede ci limitiamo a commentare i - pochi - dati che attualmente sono disponibili.
Secondo l’ISTAT nel 2017 il valore aggiunto del turismo in Italia si aggirava attorno ai 100 miliardi(circa il 6% del PIL totale (6)): cifre che risultano quindi molto distanti dai 155 (che con il moltiplicatore diventano 366) e dal famoso 18% (7).
L’impatto poi del turismo a livello occupazionale apre un’altra importante questione. Secondo una ricerca del 2011 condotta dalle università di Clemson e Michigan (8), quando si parla di turismo e di mondo del lavoro l’idea è spesso quella che generare posti di lavoro sia utile di per sé, al di là delle condizioni qualitative e salariali. È vero che spesso il turismo è capace di creare molti posti di lavoro, andando ad influenzare sì a livello quantitativo, ma si tralascia però il fatto che la qualità del lavoro stessa è solitamente bassa, caratterizzata da salari precari e contratti part-time o stagionali. Nonostante il turismo possa sembrare una soluzione politica facile e popolare perché capace di generare impatto nel breve periodo e migliorare l’immagine del Paese, questa visione non è sostenibile nel lungo periodo soprattutto perché in realtà non si concretizza né in una crescita effettiva né in migliori condizioni di vita o mobilità sociale per chi lavora nel settore (a meno che non si ricoprano mansioni imprenditoriali che però lasciano spazio a pochi lavoratori).
Torniamo al discorso sulle retribuzioni. Come mostra un’elaborazione di Riccardo Trezzi sui dati ISTAT, è possibile notare come nel settore manifatturiero e della ricerca e sviluppo queste abbiano visto negli ultimi anni una crescita del 40-45%, mentre quelle del settore prettamente turistico (servizi di ristorazione ed hotel) una crescita tra il 24 e 27% (9).
]]>Le accuse contro Njeem Osama Almasri Habish, noto anche semplicemente come Almasri, si inseriscono in una più ampia indagine della Corte Penale Internazionale sulla situazione in Libia, avviata nel 2011 su mandato del Consiglio di Sicurezza dell'ONU.
Almasri è accusato di crimini contro l'umanità e crimini di guerra, tra cui omicidio, tortura, stupro e violenza sessuale, presumibilmente commessi dal febbraio 2015 presso il carcere di Mitiga a Tripoli. In qualità di capo della polizia giudiziaria libica e membro delle Forze Speciali di Deterrenza (RADA), Almasri avrebbe personalmente commesso, ordinato o facilitato questi crimini contro detenuti, imprigionati per motivi religiosi, presunta immoralità o affiliazione a gruppi armati rivali.
Sulla base di queste accuse la CPI il 18 gennaio 2025 ha emesso un mandato d'arresto, che non è ancora pubblico per proteggere le indagini in corso e prevenire la distruzione di prove o l'intimidazione di testimoni (una pratica comune della CPI per casi sensibili).
La CPI ha poi trasmesso formalmente il mandato d’arresto a sei Stati parte, tra cui l'Italia, coordinandosi preventivamente con le autorità nazionali per garantirne la corretta esecuzione. La richiesta, trasmessa tramite i canali ufficiali, è stata accompagnata da aggiornamenti in tempo reale sui movimenti del sospettato nell'area Schengen ed è stata seguita dall’emissione di una "Red Notice" emessa attraverso INTERPOL per facilitare l’individuazione e il fermo del generale libico.
Sabato 18 gennaio, poche ore prima che la CPI emettesse il mandato di arresto, Almasri era arrivato in Italia dalla Germania, forse per assistere alla partita Juventus-Milan. La sera stessa il generale libico viene arrestato dalla Digos mentre alloggiava all'hotel Holiday Inn di Piazza Massaua 21, a Torino.
Il mattino dopo viene portato nel carcere torinese delle Vallette. Meno di 48 ore dopo, il 21 gennaio 2025 la Corte d’Appello di Roma dichiara l’irritualità dell’arresto del generale e ne dispone l’immediata scarcerazione. Almasri è stato rimpatriato a bordo di un volo di Stato italiano lo stesso giorno: l'aereo è atterrato all'aeroporto internazionale di Mitiga a Tripoli intorno alle 21:45 ora locale del 21 gennaio.
Per comprendere e inquadrare correttamente la vicenda in questione, è necessario inquadrare, sia pure brevemente, la normativa applicabile al caso di specie, rappresentata principalmente dalla Legge nr. 237/2012, che recepisce nell’ordinamento italiano lo Statuto della Corte Penale Internazionale.
Va anzitutto osservato che, ai sensi dell’art. 2, comma 1 di tale legge, i «rapporti tra lo Stato italiano e la Corte penale internazionale sono curati in via esclusiva dal Ministro della Giustizia». La norma in questione aggiunge anche che è competenza del Ministro della Giustizia «ricevere le richieste provenienti dalla Corte e (...) darvi seguito».
Ciò significa che quando il 21 gennaio la cancelleria della CPI trasmette il mandato d’arresto «attraverso i canali designati da ciascuno Stato» (come si legge nel comunicato stampa di ieri della CPI), lo stesso viene ricevuto dal Ministro Nordio.
Ai sensi dell’art. 11, comma 1, della stessa Legge, il procuratore generale presso la Corte d'appello di Roma, una volta ricevuta la richiesta (s’intende, dal Ministro a cui è stata trasmessa in prima istanza) «chiede alla medesima corte d'appello l'applicazione della misura della custodia cautelare nei confronti della persona della quale è richiesta la consegna».
Sennonché, come scrive il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Roma nel parere trasmesso ai giudici romani, il Ministro Nordio «ad oggi [21 gennaio, n.d.r.] non ha fatto pervenire nessuna richiesta in merito».
Ma perché, allora, il generale Almasri era stato arrestato?
A spiegarlo è la stessa Corte di Appello di Roma, nell’ordinanza con cui ha ordinato l’immediata liberazione dello stesso. La Polizia Giudiziaria, evidentemente male interpretando la normativa in questione (che sul punto, a dire la verità, è suscettibile di diverse interpretazioni) ha applicato la disciplina di cui all’art. 716 del codice di procedura penale, che consente alla polizia giudiziaria di procedere all’arresto nei casi di urgenza di un ricercato internazionale, salva la convalida dell’autorità giudiziaria: la stessa che qualche settimana prima era stata applicata – allora, correttamente – per l’arresto di Mohamed Abedini, di cui pure è stato scritto.
Sennonché, come ha osservato la Corte di Appello di Roma, l’art. 716 del codice di procedura penale non era applicabile al caso di Almasri, perché l’esecuzione dei mandati di arresto della Corte Penale Internazionale è specificamente regolamentata da un’altra legge (la 237/2012, per l’appunto), che prevede una procedura diversa e che pone il dovere di iniziativa in capo al Ministro della Giustizia, anziché alla Polizia Giudiziaria.
Poiché nel diritto italiano vige il principio per cui una norma speciale (l’art. 11 della Legge nr. 237/2012) prevale su quella generale (l’art. 716 c.p.p.), e vista l’assenza di richieste da parte del Ministro Nordio, il Procuratore Generale non ha potuto fare altro che prendere atto della irritualità dell’arresto e conseguentemente chiedere alla Corte di Appello di non convalidarlo. Quest’ultima ha, dunque, disposto il non luogo a provvedere sull’arresto di Almasri e ne ha ordinato l’immediata scarcerazione.
Come si evince da questa ricostruzione, pertanto, nessun errore è stato fatto dalla Corte di Appello di Roma né dalla Procura Generale. Prendendo per vere le dichiarazioni della Corte Penale Internazionale – e non v’è ragione di fare altrimenti – il Ministro Nordio è stato informato il 18 gennaio dalla cancelleria della C.P.I., ma ha deciso di restare inerte.
Ma v’è di più: leggendo l’ordinanza della Corte di Appello di Roma si apprende anche che lo stesso Procuratore Generale – pur privo di un dovere specifico in tal senso – ha sollecitato una richiesta da parte del Ministro della Giustizia in data 20 gennaio, non ricevendone tuttavia alcuna risposta.
La scelta di rimanere inerti, dunque, è stata deliberata e non è frutto – come pure si è tentato di far passare – di alcun cavillo giuridico né di alcun errore dei magistrati.
]]>Liberale in alcune battaglie, ma conservatore – talvolta persino reazionario – in molte altre; paladino della law and order, eroe della Seconda guerra mondiale ma decisamente meno incisivo durante la Prima; accusato di simpatie fasciste in gioventù, ma strenuo difensore dell’Inghilterra contro il nazismo. Il figlio del Duca di Marlborough fu un uomo dalle innumerevoli contraddizioni e molto più di un semplice Primo Ministro passato alla storia per il celebre discorso “We shall fight on the beaches” all’indomani della Battaglia d’Inghilterra.
Dietro i riflettori delle sue gesta più celebri – il viaggio a Mosca del 1942, il patto delle percentuali di influenza in Europa con Stalin, o la sua retorica instancabile durante la Guerra Fredda – si nascondono altre vite precedenti gli anni ’30 del Novecento, meno conosciute ma tutt’altro che marginali. È proprio su queste che ci soffermeremo in questo articolo: quattro episodi che tracciano un ritratto più sfaccettato di Churchill, ma uniti da un filo rosso comune: una mente pragmatica, talvolta cinica, sempre guidata da un opportunismo calcolato.
L’approccio di Churchill alla questione dell’Home Rule irlandese fu fondamentalmente opportunistico, modellato dalle sue ambizioni politiche e dal burrascoso contesto delle relazioni irlandesi-britanniche. Fin dall’Atto di Unione del 1800, che formalmente integrò l’Irlanda nel Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda, le tensioni tra le due parti non cessarono mai. La grande carestia degli anni ’40 dell’Ottocento, che causò la morte di circa un milione di persone e l’emigrazione di altrettante, aggravò i rapporti tra Dublino e Londra: molte figure di spicco accusarono il governo britannico di non aver fatto abbastanza per alleviare la crisi. Questo evento devastante, combinato con la persistente povertà e la stagnazione economica dell’isola, rese sempre più pressanti le richieste di autogoverno.
Nel 1870, le rivendicazioni nazionaliste iniziarono a organizzarsi politicamente con la formazione della Home Rule League, guidata da Isaac Butt e successivamente da Charles Stewart Parnell. Il movimento mirava a ottenere un parlamento irlandese decentrato a Dublino, pur mantenendo l’Irlanda sotto la Corona britannica. Tuttavia, le proposte di Home Rule trovarono forte opposizione da parte degli unionisti, specialmente nell’Ulster, la provincia settentrionale dove la popolazione protestante, discendente dai coloni britannici del XVII secolo, temeva la dominazione della maggioranza cattolica. Gli unionisti, che si identificavano come difensori del protestantesimo e dell’identità britannica, divennero una potente forza politica e sociale, opponendosi a qualsiasi concessione di autogoverno.
]]>Tra i casi di ‘’russofobia’’ Stefano elenca anche le Crociate Baltiche dei Cavalieri Teutonici, fatto storico che per sua stessa ammissione precede l’esistenza di uno stato e di un popolo russo. La sua battuta di chiusura ‘’Sorprendentemente, la russofobia precede l’esistenza della Russia!’’ tempi comici mediocri. Spacciare un fatto che precede l’esistenza di uno stato e di un popolo come segno per l’odio verso questi ultimi non fa ridere, Stefano.
Una digressione sugli autori citati nel video, che teoricamente servirebbero a rafforzare le tesi e renderle imparziali ed autorevoli. Uno tra gli autori citati nel video è Guy Mettan, giornalista e politico svizzero autore del libro ‘’Creating Russophobia…’’. Un intellettuale occidentale posato ed imparziale, no? Peccato che basti una rapida ricerca su internet per scoprire che il signore ha ricevuto nel 2017 la medaglia dell’Ordine dell’Amicizia della Federazione Russa niente popò di meno che da… Vladimir Putin. Come dicevamo, una fonte “imparziale”.
Ma torniamo ai contenuti. La definizione di ‘’russofobia’’ presentata nel video è ‘’paura irrazionale della Russia e dei russi’’. Nessuno degli episodi storici descritti è però irrazionale.
Vengono mostrati a schermo poster della propaganda britannica dell’epoca della Guerra di Crimea che dipingono la Russia come un orso violento contro l’uomo bianco britannico. Ad onor del vero va detto che è comune tra paesi in guerra o in situazioni di tensione fare propaganda per dipingere in maniera caricaturalmente negativa il nemico, gli inglesi hanno fatto lo stesso coi tedeschi, i giapponesi lo fecero coi russi, i russi coi popoli dell'Asia Minore, e così tanti altri paesi in altri momenti storici. Nulla di irrazionale.
]]>Fondata nel 1948, la WHO è un'agenzia mondiale che promuove la salute globale. Si occupa inoltre di far fronte alle emergenze sanitarie e di aiutare i paesi membri nel costruire o perfezionare i programmi di salute pubblica.
A titolo esemplificativo, la classificazione dei tumori cerebrali dal 1979 e successive edizioni è stilata dal WHO. Altro esempio: prima di un qualsiasi intervento chirurgico, si esegue o si dovrebbe eseguire la WHO checklist. Si controlla chi c'è in sala operatoria, si confermano i dati del paziente (prima e dopo averlo addormentato), si conferma che la strumentazione sia pronta e sterile. Al termine dell'operazione si esegue la conta delle garze e degli strumenti, si verifica che eventuali campioni patologici siano stati etichettati e inviati ai laboratori, si comunicano le istruzioni post-operatorie al team che si prende carico del paziente.
In termini di salute pubblica, la WHO promuove programmi di prevenzione e trattamento per diverse patologie. In diversi casi è anche coinvolta in operazioni di bonifica e igienizzazione nell’ambito di quella branca della medicina che in italia si chiama, appunto, salute pubblica.
Veniamo al punto: la volontà di distaccarsi dal WHO da parte degli USA inizia ad Aprile 2020. Trump era al termine del primo mandato e la sua amministrazione era scontenta della gestione della pandemia, accusando l'organizzazione di una serie di negligenze. Alcune accuse erano false, altre si rivelarono in seguito più fondate di quanto inizialmente ritenuto. Qui un fact-checking di allora. Uno dei nodi principali contestati fu la possibile ingerenza cinese sia come gestione che come copertura.
Prima fra tutte, semplice e indiscutibile: il budget.
Il governo USA, solo nel 2022-2023, era il top contributor dell'organizzazione. Un dato interessante tuttavia, è che anche fondazioni private, spesso americane, hanno contribuito in maniera sostanziale, vedi Bill and Melinda Gates foundation (1).
Per coprire un miliardo e 200 milioni di dollari di mancati contributi, servirà un notevole sforzo combinato degli altri paesi. L'Europa in generale e la Germania in particolare sono alle prese con seri problemi di bilancio: difficile capire quanto riusciranno a colmare il gap.
Ulteriori contributi potrebbero arrivare da fondazioni private. È possibile che in parte questo possa avvenire, ma è molto azzardato, ora come ora, ipotizzare in che misura.
Seconda implicazione: stop immediato o rallentamento dei programmi US-funded di vaccinazione, cure e/o igienizzazione in vari paesi emergenti.
Anche qui, difficile dire se l'organizzazione riuscirà a mantenerli, molto dipende dal budget di cui sopra. Rimane il fatto che questo effetto sarebbe estremamente problematico per la salute locale e globale - pensiamo ai programmi di contenimento della tubercolosi, della malaria, dell'HIV, e così via.
Terza implicazione: controllo delle potenziali pandemie ridotto sia in termini di workforce sia in termini di cooperazione internazionale.
Sul secondo effetto sono, personalmente, meno preoccupato. Sul primo lo sono abbastanza. È infatti verosimile ipotizzare che la cooperazione internazionale continuerà nonostante tutto, perché così funziona la comunità scientifica nel 2025. Ne risulterà indebolita/ostacolata? Forse, e bisognerà capire in che misura, ma un impatto significativo rimane improbabile. Riguardo al controllo delle pandemie c’è margine per maggiori preoccupazioni in quanto si tratta della classica situazione in cui la cooperazione non solo è necessaria, ma deve essere veloce e quanto più priva possibile di ostacoli sia finanziari che logistici.
Un paese grande e importante come gli USA uscendo dal WHO e pertanto ponendo limiti sia alla comunicazione che all'adozione di misure di contenimento, è potenzialmente un problema significativo (2).
Quarta implicazione: perdita di fiducia nelle organizzazioni internazionali.
Questa è probabilmente quella da temere maggiormente e che lascia più perplessi. Benché il WHO sia fallibile come tutte le istituzioni umane e benché le critiche alla gestione della pandemia siano legittime, così come legittimo è chiedere più trasparenza su pressioni politiche e finanziamenti, il WHO ha meno potere di quanto si possa credere. Nella fattispecie, il WHO ha ottenuto negli anni ottimi risultati al netto del fatto che le sue raccomandazioni NON hanno valore legale vincolante per nessuno dei paesi membri (3).
Le decisioni prese durante la pandemia del 2020 erano e rimangono ad esclusiva responsabilità delle amministrazioni locali e nazionali.
Da questo punto di vista lo sfilarsi dal WHO ha un significato molto più simbolico che pratico. Forse, vista la posizione di "vantaggio" da un punto di vista di budget, gli USA potrebbero molto più facilmente operare pressioni per cambiare l'organizzazione anziché lasciarla. Perché non lo fanno? Qua si entra nell'ambito della pura speculazione politica che lascio a chi ne sa più di me. Presumibilmente, siamo in linea con la deriva pseudo-isolazionista del nuovo GOP sotto Trump, che comprende, tra l'altro, i dazi e differenti relazioni internazionali.
Quinta e ultima implicazione: allontanamento dalle linee guida su varie altre patologie. Qua urge una certa dose di scetticismo.
Le linee guida WHO sono stilate da fior di professionisti da tutto il mondo al top del top nel loro campo. Essere fra gli autori delle WHO guidelines è uno di quei risultati che si aggiungono volentieri fra i punti salienti del proprio curriculum vitae. Dal punto di vista medico-legale la popolazione statunitense è tra quelle che avviano più cause. In USA le cure mediche sono viste come uno strumento che deve permetterti di ricominciare a correre quanto prima. La negligenza medica, presunta o reale, è vissuta malissimo anche relativamente a complicanze tutto sommato lievi, le denunce sono estremamente frequenti (soprattutto in alcuni stati) e i risarcimenti, quando ottenuti, stratosferici. Chiunque si occupi di problematiche medico-legali sa benissimo che la prima cosa che un avvocato controlla in cartella clinica è il rispetto delle linee guida WHO. È realistico prevedere che uno Stato così importante, di punto in bianco, si metta a fare esclusivamente di testa propria? No, a mio parere.
In conclusione, con questa mossa, se ratificata dal Congresso (e vista la maggioranza potrebbe), entriamo in uncharted territory. Le conseguenze potrebbero essere meno drammatiche del previsto, ma sono possibili cambiamenti di:
Interesting times ahead.
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Il 6 gennaio 2021, sostenitori di Donald Trump hanno preso d'assalto il Campidoglio degli Stati Uniti a Washington D.C. nel tentativo di bloccare la certificazione ufficiale della vittoria elettorale di Joe Biden. L'evento è stato preceduto da un comizio in cui Trump ha ripetutamente sostenuto accuse di frode elettorale e ha esortato i suoi sostenitori a "combattere come matti".
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Uomo dietro la fondazione del Front National, Jean-Marie Le Pen è morto Martedì 7 Gennaio all’età di 96 anni a Garches, a ovest di Parigi. Capace di far gelare il sangue per le sue affermazioni figlie di una retorica, nonché propaganda, razzista, neonazista, e antisemita, giunge al termine di una carriera politica particolarmente influente nella recente storia francese ed europea tutta, considerando il recente andamento delle politiche interne degli stati membri.
Nato a La Trinité-sur-Mer il 20 Giugno 1928, figlio di un pescatore e di una sarta, vive un’infanzia segnata dalla perdita del padre nel 1942, morto per una mina esplosa nella sua rete da pesca durante la seconda guerra mondiale. A 16 anni cerca di unirsi senza successo alle Forze Francesi dell’Interno e posteriormente si arruola nella Legione Straniera partecipando volontariamente alle guerre di Indocina e in Algeria, conflitto quest'ultimo violentissimo che vide il governo francese confrontarsi con il movimento indipendentista algerino, durante il quale viene accusato di torture ai prigionieri, accuse che egli stesso definì parte di una cospirazione governativa proveniente dalla sinistra. Il percorso accademico di Le Pen inizia presso l'Università di Parigi dove studia giurisprudenza e scienze politiche, mostrando fin da giovane uno spiccato interesse per il nazionalismo e le ideologie di matrice identitaria. Durante questo periodo si unisce a gruppi studenteschi di destra impegnandosi in attività politiche che riflettevano le sue convinzioni ultranazionaliste. Parallelamente, inizia a costruire legami con figure influenti della destra francese, tra cui Pierre Poujade, leader del movimento populista e corporativista, il quale finirà per giocare un ruolo cruciale nella sua carriera.
La carriera politica inizia negli anni Cinquanta, quando viene eletto deputato dell’Assemblea Nazionale ad appena 27 anni. Subito prima di fondare il Front National Le Pen diventa una figura chiave del movimento Poujadista, guidato dallo stesso Poujade, corrente volta a rappresentare gli interessi dei commercianti e degli artigiani dal loro punto di vista vittime del nuovo corso di politiche fiscali e della modernizzazione economica. Il movimento Poujadista, che inglobava un misto di elementi in grado di spaziare dai più classici cliché populisti e nazionalisti a preponderanti coefficienti di critica al centralismo statale, ebbe un'influenza significativa sulla formazione politica di Le Pen. Attraverso Poujade, Le Pen affina la sua capacità di mobilitare l’elettorato sfruttando il malcontento economico e sociale, una strategia che avrebbe poi perfezionato alla guida del Front National. Quando si candidò per le elezioni parlamentari del 1956 sotto la bandiera del movimento di Poujade, durante la campagna elettorale, fu immortalato in una fotografia mentre portava una scatola con la scritta "Un nuovo voto contro il governo". L'immagine, divenuta iconica tra i sostenitori poujadisti, rappresentava simbolicamente la lotta del movimento contro la tassazione eccessiva e la modernizzazione forzata. Durante questo periodo, Le Pen riesce a costruire anche una rete di alleanze con una vasta rete di intellettuali, militanti e di altri movimenti di destra, inclusi quelli più vicini al colonialismo francese e opposti alla decolonizzazione.
Nel 1972 co-fonda il Front National, in grado di mettere d’accordo nostalgici del periodo coloniale, fondamentalisti del cattolicesimo, pétainisti e nazionalisti di vario genere. Il partito, eretto a difensore di un’ideologia ultranazionalista, si opponeva di fatto fortemente ad immigrazione, globalizzazione e integrazione europea, ovvero elementi che porterà avanti Le Pen stesso e che verranno assimilati nel partito della figlia Marine nonostante i tentativi di “dédiabolisation”. Tra le sue dichiarazioni più controverse vi è la minimizzazione dell’Olocausto, definito da lui “un dettaglio della storia”. Queste parole, insieme ad altre affermazioni incendiarie, gli valsero numerose condanne per incitamento all’odio razziale e negazione dei crimini contro l’umanità.
La militanza di Le Pen nella destra revisionista si intensifica negli ultimi due decenni del Novecento, quando diviene figura di spicco dei movimenti politici in cerca di una riscrittura storica e della memoria collettiva francese rispetto alla Seconda Guerra Mondiale e al periodo coloniale. Le Pen si associa più volte ad accademici revisionisti il cui obiettivo era proprio quello di ridimensionare l’entità dei crimini nazisti e di riesumare in chiave positiva l’operato del regime di Vichy. Le sue dichiarazioni, tra le quali l’affermazione riguardante le camere a gas definite “un dettaglio della storia”, scatenarono indignazione sia a livello nazionale che internazionale, consolidando la sua reputazione di figura divisiva, nonché di leader pungente, carismatico e capace di catalizzare un’ampia base elettorale insoddisfatta.
Jean-Marie Le Pen tenta cinque volte di correre per la presidenza francese, senza mai riuscire a vincere, arrivando addirittura nel 2002 al ballottaggio contro l’allora presidente Jacques Chirac, superando il candidato socialista Lionel Jospin. In quel caso, nonostante la schiacciante sconfitta con quasi l’80% dei voti a favore di Chirac stesso, il fatto di essere comunque arrivato così in alto rifletteva un crescente sentimento di radicato malcontento che portò a normalizzare temi precedentemente marginali e che finiranno per entrare e quasi totalizzare la “quotidianità politica” odierna.
Quello che l’ex leader del Front National rappresentava era quanto di più anomalo per i tempi e per la cosiddetta politica tradizionale francese, basando la sua stessa figura pubblica su di una retorica saldamente pronta a rifarsi alla presunta “grandeur” francese minacciata da forze globali e domestiche. Il suo linguaggio, spesso provocatorio, era studiato a pennello per poter attirare i riflettori mediatici e polarizzare il dibattito politico. Questa strategia gli consentì di consolidare una base elettorale fedele, composta principalmente da lavoratori scontenti, pensionati e giovani nazionalisti. Allo stesso tempo, il suo stile di leadership autoritario e la sua riluttanza a cedere il controllo del partito, crearono tensioni interne che esplosero definitivamente con l’ascesa di Marine Le Pen.
Lo stesso Eliseo, nella sua dichiarazione ufficiale, ha in qualche modo riassunto la sua carriera politica definendolo “Figura storica dell’estrema destra, ha giocato un ruolo nella vita pubblica del nostro paese per quasi 70 anni, che ora spetta alla storia giudicare”. Il Front National, d’altro canto, ha dichiarato come Le Pen abbia difeso “l’idea della grandezza francese con tutta la sua anima e a costo della sua stessa vita” mentre Jean-Luc Mélenchon, leader della sinistra radicale, ha commentato rispettando la dignità dei defunti ma sottolineando che “la battaglia contro l’odio, il razzismo e l’antisemitismo che Le Pen ha diffuso continua”.
Jean-Marie Le Pen era noto per il suo stile oratorio unico, caratterizzato da sarcasmo, provocazioni e da un tono quasi teatrale. Questo gli permetteva di attirare sia consensi che feroci critiche e, pur essendo un politico polarizzante, non mancava di astuzia e pragmatismo. Egli comprese infatti presto l'importanza dei media, imparando a sfruttarli per amplificare il messaggio del suo partito. Fisicamente imponente e dotato di una voce baritonale e potente, Le Pen era maestro nel costruire slogan e narrazioni di matrice populista. Dipingeva se stesso come il difensore della "vera Francia", ostacolata da élite globaliste, immigrati e burocrati europei. Il suo marchio ideologico era costruito su fondamenta di matrice ultranazionalista e nostalgica, idealizzante il passato coloniale francese e di forte rigetto verso il multiculturalismo, inquadrato come una vera e propria minaccia esistenziale nei confronti dell’identità nazionale.
Durante i comizi, Le Pen era solito portare con sé un piccolo taccuino in cui annotare gli interventi del pubblico e le domande che gli venivano poste. Questo strumento gli permetteva di rispondere con precisione e di dimostrare un atteggiamento empatico verso gli elettori. Si dice che spesso esagerasse volutamente le richieste più stravaganti degli elettori, usandole come esempi per denunciare il "fallimento dello Stato centrale". Questa tecnica, che imparò osservando Pierre Poujade, divenne una caratteristica del suo stile politico. Uno degli elementi distintivi del movimento di Pierre Poujade era infatti la presenza costante nei mercati locali per potersi avvicinare a piccoli commercianti e artigiani. In linea con questa strategia, Le Pen passava ore tra le bancarelle, distribuendo volantini e discutendo con i venditori. In un’intervista, Le Pen ricordò un episodio in cui Poujade gli disse che “la politica è come un mercato, devi conoscere i tuoi clienti e dare loro ciò che desiderano".
Spesso criticato per la controversia delle sue dichiarazioni riguardanti razza, Olocausto ed immigrazione, Jean Marie Le Pen è arrivato ad essere condannato almeno sette volte per incitamento all’odio razziale e per aver proposto una versione distorta degli avvenimenti storici avendo definito le camere a gas come “un dettaglio” della storia e minimizzando crimini e occupazioni naziste (tra le quali quella della stessa Francia) durante la Seconda Guerra Mondiale come non “particolarmente disumane”. Le sue posizioni hanno reso difficile per il partito, sotto la guida della figlia Marine, distanziarsi e far digerire alla popolazione un’eredità costellata da tale visione estremista, violenta e di pura propaganda.
Nel 2012 la stessa Marine Le Pen prende infatti in mano le redine del Front National, cercando di avviare il già citato processo di “dédiabolisation”, volto a tentare di ripulire il volto del partito dalle posizioni più estreme del padre. Questo nuovo corso di trasformazione ha portato al successivo cambio di nome del partito in Rassemblement National nel 2018 e al tentativo di Marine di misurare determinate politiche e posizioni del partito, tra le quali l'accettazione delle unioni civili per coppie dello stesso sesso, l'abolizione della pena di morte e il rifiuto pubblico dell’antisemitismo di suo padre. Tuttavia, Le Pen ha continuato a rimanere una figura controversa all’interno del partito, tanto da portare alla sua espulsione definitiva nel 2015 dopo ripetute divergenze con la figlia.
La sua capacità di mobilitare l’elettorato sfruttando l’insoddisfazione economica, la “paura dell’immigrato” e il risentimento verso le élite politiche ha aperto la strada a una nuova generazione di leader populisti. Nonostante la rottura con la figlia, l’eredità politica di Jean-Marie Le Pen è evidente. L’impronta del pacchetto di posizioni che figure come Jean Marie Le Pen hanno rappresentato per la ribalta dell’estrema destra in numerosi paesi europei è netta in molti dei governi oggi al potere, il che evidenzia quanto tali posizioni abbiano influenzato il panorama politico. Le sue idee anti-immigrazione e anti-élite sono ora integrate nel discorso politico di molti partiti tradizional-nazionalisti in Europa, contribuendo a una normalizzazione di tematiche precedentemente considerate marginali. L’influenza di Le Pen è evidente nel successo di partiti simili in diversi paesi europei, dove l’estrema destra ha guadagnato terreno nelle elezioni nazionali e nelle coalizioni di governo. Il suo impatto è evidente nell'ascesa di partiti populisti come l'AfD in Germania, la Lega in Italia, l’FPO in Austria e Vox in Spagna. Tutti condividono con Le Pen l'uso di una retorica che mescola nazionalismo, critica all’immigrazione e scetticismo verso le istituzioni europee. Le Pen può essere considerato uno dei pionieri di un movimento più ampio che ha contribuito a ridisegnare il panorama politico europeo.
La morte di Jean-Marie Le Pen chiude un capitolo importante della storia politica francese. La sua figura rimane divisiva: per alcuni, è stato un difensore della sovranità francese, mentre per altri è stato un simbolo di odio e intolleranza. Con il RN consolidato come una delle principali forze politiche in Francia, l’eredità di Le Pen persiste, influenzando le dinamiche politiche e sociali del paese. La sfida per la Francia sarà quella di affrontare le divisioni e le tensioni generate dalle idee che Le Pen ha promosso, cercando di costruire un futuro più inclusivo e sostenibile.
Se la figura di Jean-Marie Le Pen rappresentava una versione più rozza e provocatoria dell’estrema destra, Marine Le Pen ha cercato di adattarla ai tempi moderni. Le sue performance nelle elezioni presidenziali del 2017 e del 2022, in cui ha ottenuto rispettivamente il 34% e il 41% dei voti al secondo turno, dimostrano quanto il movimento sia ormai radicato. Oggi, il Rassemblement National è il più grande partito parlamentare in Francia e Marine è la principale candidata per le presidenziali del 2027.
Il riscaldamento globale sta già provocando gravi danni sugli ecosistemi, e si prevede che le condizioni climatiche peggioreranno ulteriormente nei prossimi decenni.
Per quasi un milione di anni, il clima terrestre ha mantenuto un equilibrio delicato, con concentrazioni di CO2 tra 200 e 280 ppm (parti per milione di anidride carbonica). Le attività umane hanno radicalmente alterato tale equilibrio, facendo aumentare la concentrazione di CO2 sino a 420 ppm e causando un aumento della temperatura globale di oltre 1 grado.
]]>I dettagli dei risultati delle elezioni di Luglio non sono mai stati resi pubblici dalla coalizione di governo, al contrario di quanto fatto dall’opposizione e i suoi leader Gonzalez Urrutia e Machado. Dopo le elezioni, quest’ultima si è nascosta in Venezuela mentre Gonzalez è dovuto fuggire in Spagna. Nel frattempo, decine di figure di spicco dell’opposizione e numerosi manifestanti sono stati arrestati. Machado, in un video diffuso sui social media, ha esortato Gonzalez a non tornare in Venezuela, affermando che il momento non è opportuno per il suo rientro: "Edmundo tornerà per essere insediato come presidente costituzionale del Venezuela al momento giusto…". Il neo firmatario governo ha infatti promesso l’arresto di Gonzalez in caso di un suo ritorno e ha offerto una ricompensa di 100.000 dollari per chiunque fornisca informazioni utili alla sua cattura.
Durante il suo discorso di insediamento, Maduro ha invocato figure storiche come Guaicaipuro, leader indigeno del XVI secolo, nonché l’ex presidente Hugo Chávez, promettendo di garantire un mandato caratterizzato da pace, prosperità ed equità. Alla cerimonia, a cui hanno partecipato delegazioni di 125 Paesi, erano presenti alleati di Maduro quali il presidente cubano Miguel Díaz-Canel e il presidente nicaraguense Daniel Ortega. Gli stessi rappresentanti di Russia e Bolivia hanno espresso sostegno. Infine, il presidente Maduro ha dichiarato come Venezuela, Cuba e Nicaragua si stiano attrezzando per farsi trovare preparati qualora vi sia la necessità di difendere il diritto alla “pace” e alla sovranità storica: «Il Venezuela si sta preparando, con Cuba insieme al Nicaragua, con i nostri fratelli maggiori nel mondo, affinché se un giorno dovremo prendere le armi per difendere il diritto alla pace, il diritto alla sovranità e i diritti storici della nostra patria, potremo combattere la battaglia per vincerla di nuovo. Combattere nella lotta armata e riconquistarla. Non siamo nati nel giorno dei vigliacchi o dei pusillanimi. Non siamo leader tiepidi, siamo la rivoluzione bolivariana del 21° secolo».
Nel frattempo in Venezuela continua a dilagare una crisi economica devastante, con inflazione a tre cifre e oltre 7 milioni di persone emigrate per cercare opportunità altrove. Nonostante alcune misure per contenere l’inflazione, i problemi legati a lavoro, servizi pubblici e costo della vita restano al centro delle preoccupazioni della popolazione. Durante la cerimonia di inaugurazione a Caracas, il presidente ha dichiarato: “Giuro sulla storia!” promettendo appunto un futuro di “pace, prosperità e nuova democrazia”. Nonostante ciò l’opposizione, sostenuta da numerose organizzazioni internazionali, denuncia una repressione crescente. Oltre ciò, il suo discorso ha trovato scarso riscontro tra i cittadini venezuelani, stremati da carenze alimentari e sanitarie e da blackout diffusi.
Come già sopracitato è stata aumentata a 25 milioni di dollari la taglia da parte degli Stati Uniti nei confronti di Maduro, già accusato di narcotraffico e corruzione, rispetto ai 15 milioni precedentemente fissati. Nonostante questo “aggiornamento”, Washington non ha revocato le autorizzazioni emesse in passato che permettono a Chevron e varie altre aziende statunitensi di operare in Venezuela. Un funzionario statunitense ha dichiarato che eventuali raccomandazioni sulle licenze saranno lasciate all’amministrazione entrante. Si tratta di un’ulteriore mossa dell’uscente amministrazione Biden contro il governo di Maduro, il cui insediamento è stato definito "illegittimo" dal Segretario di Stato Antony Blinken. In una ulteriore dichiarazione ufficiale, Blinken ha nuovamente ribadito come gli Stati Uniti "non riconoscano Nicolás Maduro come presidente del Venezuela."
Tra gli obiettivi delle sanzioni spiccano figure chiave del regime quali il nuovo capo dell’azienda petrolifera statale PDVSA Hector Obregon e il ministro dei Trasporti Ramon Velasquez, nonché altri elementi di spicco del corpo di polizia e militare. L’iniziativa statunitense sorge nel contesto di un coordinato quadro di simili misure annunciate da Regno Unito, Unione Europea e Canada, le quali hanno sanzionato complessivamente 15 funzionari venezuelani. Lo stesso Bradley Smith, sottosegretario al Tesoro USA ad interim, ha dichiarato come "Gli Stati Uniti, insieme ai nostri partner, sostengono il voto del popolo venezuelano per una nuova leadership e respingono la rivendicazione fraudolenta di vittoria di Maduro."
Sulla sponda opposta, Maduro e i suoi alleati continuano a respingere le sanzioni definendole strumenti di una "guerra economica" destinata a danneggiare il Venezuela. Durante il suo discorso di insediamento, Maduro ha di fatto accusato gli Stati Uniti di vendetta politica, pur senza menzionare direttamente le sanzioni.L’ufficialità dell’insediamento di Maduro ha aggiunto un ulteriore tassello verso quello che diventerà un pressoché totale isolamento internazionale. Leader regionali di sinistra, quali il presidente colombiano Gustavo Petro e il brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, hanno espresso dissenso non palesandosi alla cerimonia.
La gestione del dossier venezuelano resta però ora incerta mentre l’amministrazione Biden si avvia alla conclusione del suo incarico e Donald Trump si prepara ad avviare il suo secondo mandato il 20 gennaio. Durante il suo primo mandato, Trump aveva imposto le sanzioni più dure mai attivate nei confronti del Venezuela, andando a colpire in particolare l’industria petrolifera. Pur avendo in un primo momento ridotto alcune restrizioni, Biden le aveva poi ripristinate dopo aver accusato Maduro di non aver rispettato gli impegni per assicurare un voto democratico. Le decisioni del nuovo operato di Trump potrebbero essere però ora influenzate da preoccupazioni riguardanti l’immigrazione, considerando l’elevato numero di migranti venezuelani presenti negli Stati Uniti.
Le strade di Caracas sono pattugliate giorno e notte da forze di sicurezza in assetto antisommossa. Il numero di manifestazioni contro il governo è calato drasticamente a causa del rischio di violenze e arresti. La sorveglianza e la repressione sono aumentate, con giornalisti, attivisti e cittadini comuni sotto costante minaccia. Nonostante ciò, molti venezuelani, in particolare giovani, continuano a manifestare.
Parallelamente, il regime di Maduro sta utilizzando prigionieri stranieri come leva di scambio e di pressione diplomatica. Secondo il gruppo di monitoraggio Foro Penal, almeno 50 stranieri, tra cui nove cittadini statunitensi, sono stati arrestati negli ultimi mesi con accuse spesso prive di fondamenta. Tra i detenuti figurano un ex Navy SEAL, Wilbert Castaneda, e Aaron Logan, un tecnico informatico, entrambi accusati senza prove di complotti contro il governo. Maduro utilizza questi arresti come "moneta di scambio" per ottenere concessioni dagli Stati Uniti e da altri Paesi, ad esempio in particolare la rimozione delle sanzioni economiche che hanno accentuato la devastazione economica venezuelana. Gli analisti sottolineano come questa strategia sia stata rafforzata da recenti accordi tra Stati Uniti, Russia e Iran per lo scambio di prigionieri.
Maria Corina Machado, una delle figure di spicco dell'opposizione venezuelana e nota per la sua opposizione decisa al presidente Nicolás Maduro, è stata brevemente arrestata durante una manifestazione anti-governativa a Caracas nel pomeriggio di giovedì 9 Gennaio. L'arresto è avvenuto mentre il Paese si stava preparando all'inaugurazione del terzo mandato presidenziale di Maduro, avvenuta Venerdì 10 Gennaio.
Secondo Magalli Meda, una collaboratrice di Machado, la leader è stata “violentemente intercettata” al termine della manifestazione. Meda ha infatti dichiarato su X che “il personale del regime ha sparato contro le motociclette che trasportavano María Corina Machado”, prelevandola successivamente con l’uso della forza. Durante la sua breve detenzione, Machado sarebbe stata costretta a registrare “diversi video”, il cui contenuto rimane sconosciuto, prima di essere rilasciata.L’episodio ha segnato il ritorno in pubblico della “Iron Lady” Venezuelana dopo mesi di latitanza forzata a causa delle minacce di arresto da parte delle autorità venezuelane. Da agosto, Machado aveva evitato di apparire in pubblico, ma la crescente indignazione popolare contro l’inaugurazione di Maduro l’ha spinta a riemergere per guidare in protesta la gente della capitale. La stessa manifestazione a Caracas ha visto migliaia di sostenitori scendere in piazza, nonostante il rischio di arresti e violenze da parte delle forze di sicurezza. Machado, circondata dalla folla, è salita su un camion per arringare i manifestanti, i quali hanno risposto intonando voci di libertà. Machado ha recentemente organizzato una serie di comizi in tutto il Venezuela e all’estero per mobilitare l’opposizione contro Maduro e per denunciare la repressione del regime. Tuttavia, la sua popolarità e il sostegno crescente da parte della popolazione l’hanno resa un bersaglio diretto del governo, che ha intensificato la sorveglianza e le azioni contro di lei e i suoi collaboratori.
Secondo i rappresentanti di Machado, l’episodio è stato orchestrato da membri delle forze di sicurezza statali, spesso supportate da gruppi armati noti come colectivos, milizie paramilitari fedeli al regime di Maduro. La presenza massiccia di forze governative alla manifestazione ha reso difficile identificare chi abbia effettivamente ordinato e condotto l’arresto.
L’iconica e irrefrenabile figura che il coraggio di Maria Corina Machado rappresenta è una delle poche voci di dissenso rimaste attive nel Paese, e il suo seppur breve arresto può senza ombra di dubbio essere visto come un tentativo del regime di intimidire e sabotare il coraggioso movimento di opposizione da lei costantemente alimentato.
In un video pubblicato venerdì sera e rivolto ai suoi sostenitori, González Urrutia ha denunciato l’operato di Maduro come una flagrante violazione della costituzione e della volontà sovrana del popolo venezuelano: “Maduro ha eseguito un colpo di stato e si è proclamato dittatore. Il popolo non è con lui, e nessun governo considerato democratico lo sostiene, ad eccezione delle dittature di Cuba, Congo e Nicaragua,”. Nel suo discorso, il 75enne ex diplomatico, attualmente in esilio, ha descritto il regime di Maduro come “codardo e senza scrupoli” e lo ha ritenuto responsabile della devastazione economica del Paese, che ha portato il Venezuela a vivere una delle peggiori crisi migratorie nella storia moderna dell’America Latina. “Presto, molto presto, qualunque cosa facciano, torneremo in Venezuela e metteremo fine a questa tragedia”, ha dichiarato inoltre Gonzáles, aggiungendo: “Vi assicuro che non vi deluderemo.” L’ex diplomatico ha affermato che l’opposizione si sta “coordinando con tutti gli attori indispensabili per garantire il rapido ritorno della libertà” in Venezuela. Pur non rivelando la sua posizione attuale, González ha lasciato intendere di essere localizzato “molto vicino al Venezuela” e ha promesso di tornare concludendo affermando che “Laddove c’è tirannia, la libertà prevale sempre”.
Diversi governi, tra cui quelli di Argentina, Canada, Stati Uniti e Perù, hanno riconosciuto González come legittimo presidente eletto del Venezuela. Gli stessi Unione Europea, Regno Unito, Brasile e Colombia hanno rifiutato di riconoscere la vittoria di Maduro. Nonostante ciò, l’appoggio internazionale non è bastato a invertire l’effettiva situazione sul campo. Il controllo delle forze armate, della polizia e dell’apparato giudiziario hanno permesso a Maduro di mantenere saldamente il potere. Durante una cerimonia televisiva svoltasi venerdì e alla quale hanno partecipato migliaia di “combattenti anti-imperialisti”, i leader delle forze armate e della polizia hanno rinnovato il loro giuramento di lealtà a Maduro. Nel suo discorso, il presidente venezuelano ha proclamato: “Siamo immortali. Siamo invincibili. Siamo indistruttibili.”
Maduro si trova ora in una posizione sempre più precaria. La sua presidenza è costernata da accuse di corruzione, violazioni dei diritti umani e crisi umanitarie. L’economia venezuelana è al collasso. Milioni di cittadini costretti a emigrare a causa della carenza di cibo, medicinali e opportunità lavorative. Nonostante le concrete barriere e le colossali sfide che l’opposizione venezuelana si trova ad affrontare, quest’ultima continua a spingere per fare appello alla comunità internazionale e mobilitare i venezuelani ancora presenti nel Paese. La determinazione di González e dei suoi sostenitori lascia intendere che la lotta per la democrazia in Venezuela è tutt’altro che terminata.
]]>Prendiamo Dwight D. Eisenhower: per molti americani, è un nome che ispira fiducia bipartisan. L’ex generale e Presidente è celebrato come un leader stabile, uno di quelli che sapeva “fare le cose giuste” senza suscitare troppe polemiche. Sotto i suoi otto anni di presidenza, il Paese sperimentò un periodo di notevole crescita economica. Poi c’è John F. Kennedy, il cui mito, amplificato dalla sua tragica fine, spesso oscura le ombre del suo operato – dall’escalation in Vietnam alla crisi cubana. Anche i molti meriti legati alle politiche sui diritti civili degli afroamericani furono successi attribuibili più a Lyndon B. Johnson che a JFK. Persino Ronald Reagan, divisivo per molti progressisti, è ricordato da una larga fetta della popolazione come un simbolo di forza e prosperità, l’uomo che ha messo fine alla Guerra Fredda senza cedere alle pressioni dell’Unione Sovietica, ribattezzata da quest’ultimo “the evil empire”.
Ma non tutti i presidenti finiscono sotto i riflettori dorati del consenso popolare. Harry S. Truman, per esempio, ebbe la sfortuna di succedere a Franklin D. Roosevelt, una figura quasi divina agli occhi degli americani. Il confronto fu spietato, e Truman venne percepito come un pallido erede, nonché responsabile dell’utilizzo dei due ordigni sviluppati dal Progetto Manhattan. George W. Bush, invece, ha visto la sua reputazione crollare dopo l’euforia patriottica post-11 settembre, diventando sinonimo di conflitti interminabili e decisioni discutibili se non addirittura criminali. Jimmy Carter, l’ex-Presidente venuto a mancare lo scorso 29 dicembre all’età di cento anni, compare anch’egli nella lista – nella Wall of Shame.
Come spesso accade, la celebre serie TV The Simpsons riesce a cogliere con sorprendente lucidità il sentire dell’opinione pubblica americana, regalandoci una scena memorabile. Durante l’inaugurazione di una statua dedicata al Presidente Carter (scelta economica, visto che quella di Lincoln era fuori budget), la folla reagisce con rabbia e disprezzo: fischi, sassi e bottiglie piovono sul monumento, mentre il sindaco, deluso e preoccupato per la propria sicurezza, viene scortato via in fretta. Sulla base della figura recita la scritta “malaise forever” (malessere per sempre). A sigillare il momento, uno degli abitanti di Springfield si rivolge alla statua e grida: “He’s history’s greatest monster!”.
]]>La strage, motivata dalla pubblicazione di vignette satiriche raffiguranti il profeta Maometto, scosse profondamente la Francia e il mondo intero, accendendo un dibattito sulla libertà di espressione e i suoi limiti.
A dieci anni di distanza, Charlie Hebdo si prepara a commemorare le vittime con un numero speciale, un'edizione che non vuole solo ricordare, ma anche riflettere sull'evoluzione del dibattito intorno alla libertà di stampa e di satira. Le anticipazioni suggeriscono che il settimanale proporrà una raccolta di vignette inedite, commenti e analisi sullo stato attuale della società francese e globale, cercando di mantenere quello spirito provocatorio che è sempre stato la sua cifra distintiva.
7 gennaio 2015: l’attentato
Il 7 gennaio 2015, Parigi fu teatro di uno degli attentati più brutali nella storia recente della Francia. Due uomini armati, i fratelli Saïd e Chérif Kouachi, fecero irruzione nella redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo, situata al numero 10 di rue Nicolas-Appert. I due, affiliati al gruppo terroristico Al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP), agivano in risposta alla pubblicazione di vignette satiriche raffiguranti il profeta Maometto, considerate blasfeme da molti musulmani.
Poco dopo le 11:30 del mattino, i fratelli Kouachi entrarono nell'edificio armati di kalashnikov, aprendo il fuoco contro i dipendenti. Tra le vittime, dodici persone persero la vita, inclusi i vignettisti Charb (direttore del giornale), Cabu, Wolinski e Tignous, e il giornalista Bernard Maris. Durante l'attacco, i terroristi gridarono "Allah Akbar" e proclamarono di aver vendicato il profeta. Una delle vittime fu l'agente di polizia Ahmed Merabet, assassinato a sangue freddo mentre cercava di fermarli.
La fuga e la caccia ai responsabili
Dopo il massacro, i Kouachi si diedero alla fuga, dando il via a una delle più grandi operazioni di polizia nella storia francese. Per due giorni, la loro localizzazione rimase incerta, seminando il panico tra i cittadini. Il 9 gennaio, i fratelli si rifugiarono in una tipografia a Dammartin-en-Goële, a circa 35 chilometri da Parigi, dove presero un ostaggio.
La polizia circondò l'edificio e, dopo ore di negoziazioni fallite, lanciò un assalto. I due attentatori furono uccisi nel conflitto a fuoco, e l'ostaggio fu liberato illeso. Parallelamente, un altro attacco terroristico colpì Parigi: Amedy Coulibaly, affiliato ai Kouachi, prese in ostaggio i clienti di un supermercato kosher a Porte de Vincennes, uccidendo quattro persone prima di essere abbattuto dalle forze speciali.
La Francia ferita dagli attentati
L'attacco a Charlie Hebdo non è stato un evento isolato. Nel corso degli anni, la Francia è stata colpita da una serie di attentati terroristici, come quello al Bataclan e ai bistrot parigini il 13 novembre 2015, che causò 130 morti, o l'attacco a Nizza del 14 luglio 2016, quando un camion travolse la folla riunita per celebrare la Festa Nazionale, provocando 86 vittime. Questi eventi hanno lasciato un segno indelebile nel tessuto sociale del Paese, alimentando paure, divisioni e un crescente dibattito sulla necessità di bilanciare sicurezza e libertà individuali.
Un evento che ha scosso il mondo
L'attentato a Charlie Hebdo suscitò una reazione globale. Il 10 gennaio, milioni di persone parteciparono a marce in tutta la Francia per condannare il terrorismo e sostenere la libertà di espressione.
Lo slogan "Je suis Charlie" divenne il simbolo della solidarietà internazionale.
L'attacco sollevò anche domande complesse sulla sicurezza nazionale, il ruolo della satira e i limiti della libertà di espressione. La Francia ha da allora rafforzato le misure antiterrorismo, ma le ferite di quel giorno restano aperte.
I fratelli Kouachi e Coulibaly rappresentano un capitolo oscuro della storia contemporanea, un monito alla fragilità della democrazia di fronte alla violenza ideologica. Ricordare quegli eventi è essenziale per non dimenticare le vittime e per continuare a difendere i valori fondamentali della società.
Libertà di espressione e confini morali
Il tema della libertà di espressione resta al centro delle discussioni e fa emergere delle riflessioni importanti che meritano attenzione.
Se da un lato è fondamentale difendere il diritto di esprimere opinioni e critiche, dall'altro emerge la questione dei limiti di tale libertà. È infatti molto importante sottolineare come la libertà di espressione non debba diventare libertà di offendere. Questo non significa censurare, ma promuovere un uso responsabile della parola e delle immagini, capace di tenere conto delle sensibilità altrui senza rinunciare al diritto di critica.
In questo contesto, è interessante richiamare le riflessioni di Tiziano Terzani, che nelle sue “Lettere contro la guerra” sottolinea l'importanza di un dialogo che sappia andare oltre il conflitto e le contrapposizioni. Terzani ci invita a riflettere su come ogni atto di comunicazione abbia conseguenze, sollecitando una forma di espressione che costruisca ponti anziché muri.
La sfida del decennale
Il decennale dell'attentato di Charlie Hebdo rappresenta un'occasione per guardare al passato con rispetto e al futuro con consapevolezza. La libertà di espressione rimane un pilastro fondamentale della democrazia, ma richiede un equilibrio tra il diritto di provocare e la responsabilità di non alimentare odio o divisioni. In un mondo sempre più polarizzato, ricordare le vittime di quel tragico giorno e riflettere sul significato di ciò che è accaduto è un imperativo morale.
Come disse uno dei sopravvissuti di Charlie Hebdo, "Essere vivi è già una forma di resistenza." Che questa resistenza si traduca in un impegno collettivo per una libertà di espressione che sappia essere al servizio della verità e del dialogo.
A distanza di dieci anni cosa ci ha lasciato l’attentato al settimanale satirico Charlie Hebdo?
La prima, e probabilmente la più importante lezione (o comunque tra le più importanti) che ci ha insegnato l’attentato a Charlie Hebdo, è il bisogno di tolleranza.
Il bisogno di tolleranza si rende doveroso, nel momento in cui viviamo in un mondo in cui siamo tutti diversi, in cui nessuno è uguale a un altro.
Parafrasando Gandhi, possiamo immaginare il mondo come un grande albero e proprio come un albero ha un milione di foglie, così il mondo ha miliardi di persone. Tutti apparteniamo allo stesso mondo. Tutti proveniamo dallo stesso albero e condividiamo lo stesso albero.
La tolleranza dell’altro, dunque, è un requisito necessario per passare dal vivere al convivere con l’altro.
Tolleranza dell’altro che passa necessariamente dalla comprensione (dell’altro), perché, solo comprendendo, è possibile conoscere l’altro e capire a fondo le motivazioni che lo spingono a compiere determinate azioni.
Accanto alla tolleranza, ciò che ci ha lasciato l’attentato al settimanale satirico è la necessità di una cultura diffusa, perché soltanto attraverso una diffusione generalizzata di cultura è possibile combattere la violenza.
Quasi sempre, infatti, gli atti di violenza sono il frutto dell’ignoranza.
Diffondendo cultura, dunque, è possibile combattere l’ignoranza e arrivare a sconfiggere anche il fondamentalismo religioso (sia esso islamico, ebraico o cattolico), che rappresenta il vero cancro di ogni religione.
Ultima, ma non per importanza, è la difesa della libertà di espressione.
La libertà di espressione, come anche riconosciuto dall’ Organizzazione delle Nazioni Unite, rappresenta sia un diritto umano fondamentale sia un abilitatore di altri diritti e rappresenta un elemento imprescindibile di una società democratica.
La libertà di espressione, però, deve sempre muoversi nei limiti del rispetto (dell’altro, delle idee altrui, etc.), perché, come soprascritto, libertà di espressione non deve mai diventare libertà di offendere.
Questo non ha nulla a che fare con la censura, ma significa piuttosto fare un uso responsabile della parola e delle immagini, che deve essere in grado di tenere conto delle sensibilità altrui.
Conclusione
Tolleranza, comprensione, libertà di espressione e rispetto.
Dieci anni fa, come oggi, davanti a noi abbiamo una buona occasione.
Una buona occasione, come direbbe Tiziano Terzani, “per pensare diversamente da come abbiamo fatto finora, l’occasione per reinventarci il futuro e non rifare il cammino che ci ha portato all’oggi e potrebbe domani portarci al nulla. Mai come ora la sopravvivenza dell’umanità è stata in gioco” (Lettere contro la guerra – Tiziano Terzani, pag. 23).
Come scrisse lo stesso Terzani nella lettera da Firenze – Il sultano e San Francesco del 4 ottobre 2001, ci rivorrebbe un san Francesco. “Anche i suoi erano tempi di crociate, ma il suo interesse era per «gli altri», per quelli contro i quali combattevano i crociati. Fece di tutto per andarli a trovare… Finalmente, nel corso della quinta crociata, durante l’ assedio di Damietta in Egitto, amareggiato dal comportamento dei crociati («vide il male ed il peccato»), sconvolto da una spaventosa battaglia di cui aveva visto le vittime, San Francesco attraversò le linee del fronte. Venne catturato, incatenato e portato al cospetto del Sultano...dopo una chiacchierata che probabilmente andò avanti nella notte, al mattino il Sultano lasciò che San Francesco tornasse, incolume, all’accampamento dei crociati. Mi diverte pensare che l’uno disse all’altro le sue ragioni, che San Francesco parlò di Cristo, che il Sultano lesse passi del Corano e che alla fine si trovarono d’ accordo sul messaggio che il poverello di Assisi ripeteva ovunque: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Mi diverte anche immaginare che, siccome il frate sapeva ridere come predicare, fra i due non ci fu aggressività e che si lasciarono di buon umore sapendo che comunque non potevano fermare la storia”.
]]>L’LDP ha ottenuto soltanto 191 seggi, perdendone 56 rispetto a prima, mentre il Partito Costituzionale Democratico, maggiore partito di opposizione, è passato dal controllo di 98 seggi a ben 148, costringendo l’LDP a negoziare una maggioranza.
]]>Il 19 ottobre 2023, ancora una settimana prima che Israele iniziasse l’invasione della Striscia di Gaza, dallo Yemen sono stati lanciati i primi missili e droni sullo Stato ebraico. In parte sono stati abbattuti da un cacciatorpediniere della US Navy nella prima azione militare statunitense in difesa di Israele dall’inizio della guerra. Esattamente un mese più tardi, il 19 novembre, l’obiettivo si è spostato sul mare con il dirottamento del mercantile Galaxy Leader, il cui abbordaggio ha aperto di fatto la crisi del Mar Rosso. Gli Huthi hanno dichiarato che avrebbero da allora iniziato a sostenere la causa palestinese colpendo navi battenti bandiera israeliana o di proprietà israeliana. Nella terza fase hanno preso di mira qualsiasi nave diretta nei porti israeliani, con un intensificarsi degli attacchi a partire dal 9 dicembre. Proclameranno anche l’inizio di una quarta e una quinta (attuale) fase, sostenendo di voler porre crescente pressione su Israele per fermare la guerra di Gaza. Intanto hanno attaccato oltre 130 navi, affondandone due e danneggiandone molte altre, come nel caso della petroliera Sounion, incendiata rischiando il disastro ambientale. Molte di esse in realtà non hanno legami con Israele. Pur risparmiando navi di proprietà russa e cinese, hanno colpito anche mercantili caricati in Russia o diretti in Cina e addirittura diretti in Iran.
Gli Huthi sono riusciti in questo modo a realizzare quanto sembrava improbabile fino a pochi anni fa: minacciare e chiudere uno stretto fondamentale come Bab el-Mandeb ("porta delle lacrime" in arabo) e quindi il canale di Suez, riportando il commercio marittimo al 1869. Il traffico commerciale per Bab el-Mandeb è diminuito di circa il 70% rispetto ai livelli pre crisi, con transiti di portacontainer calati dell’88%, di petroliere del 55%, di portarinfuse del 62% e di navi passeggeri del 100%. Il canale di Suez, fondamentale fonte di valuta estera per lo Stato egiziano, ha visto diminuire i ricavi dai 9,4 miliardi di dollari dell’anno fiscale luglio 2022 - giugno 2023 ai 7,2 miliardi del 2023-24. In un discorso tenuto a settembre il presidente egiziano Al-Sisi ha dichiarato che il Canale aveva già perso oltre 6 miliardi di dollari. Un effetto indiretto è stato anche il ritorno della pirateria nell’Oceano Indiano dopo anni di inattività, permesso dalla distrazione di alcune unità delle insufficienti flotte militari europee. Gli attacchi nel Mar Rosso hanno importanti ripercussioni sul commercio e la logistica globali, con conseguenze distribuite sotto forma di inflazione.
Specialmente danneggiati sono i paesi mediterranei, Italia su tutti. Per il Mar Rosso passava il 40% del nostro traffico commerciale, e da un anno a questa parte i costi di trasporto medi dei container sulla rotta Shanghai-Genova sono più che triplicati. Se i tempi di transito medi dall’Asia al Nord Europa si sono allungati di massimo un 25%, quelli per il Mediterraneo centrale sono cresciuti del 40%. La crisi ha inoltre interrotto la tendenza che vedeva il Mediterraneo diventare più centrale nel commercio globale, con i porti italiani che negli ultimi anni avevano sfruttato il vantaggio della loro posizione geografica per intercettare una parte del traffico marittimo proveniente da Suez e destinato ai mercati europei. Il traffico nei 6 maggiori porti italiani è già calato di circa il 7%, perdendo quasi il 70% delle navi che prima li sceglievano per scaricare le merci dirette in Nord Europa. (dati IMF PortWatch)
Gli Huthi (o più propriamente Anṣār Allāh, "Partigiani di Dio") governano oggi de facto dall’antica capitale Sana’a buona parte di quello che fu lo Yemen del Nord, compreso un lungo tratto della costa yemenita che si affaccia sul Mar Rosso. Si tratta della parte più importante della storica Arabia Felix, per il resto prevalentemente desertica e poco abitata. Vi vivono oltre tre quarti dei 40 milioni di yemeniti, giovanissimi e in rapida crescita nonostante la difficile situazione umanitaria.
Nel conquistare la Capitale i miliziani si sono fatti Stato, mantenendo le strutture e le burocrazie preesistenti e spesso affiancandovi negli uffici supervisori fedeli a controllarne le attività, in una struttura di potere informale che si mischia a quella formale. Pur non essendo un’organizzazione tribale, gli Huthi hanno saputo muoversi con grande abilità nel complesso mosaico delle tribù yemenite per conquistarne il supporto, spesso appoggiandosi alla rete di alleanze del deposto presidente Saleh. Hanno esteso capillarmente il proprio controllo avvalendosi di un’amministrazione autoritaria e hanno implementato sistemi amministrativi e giudiziari che ormai riflettono un’ideologia spesso in contrasto con le pratiche tribali tradizionali, che gli Huthi stanno iniziando a superare rivoluzionando la società yemenita. Hanno promosso nelle aree sotto il proprio controllo una rigida interpretazione della Sharia, che ha influenzato molti aspetti della vita quotidiana, dall'abbigliamento alle norme sociali. Controllano cibo, acqua e sanità, che utilizzano sia come strumento di potere che di coercizione. Raccolgono le tasse, stampano moneta e sono in grado di condurre azioni di guerra all’estero, con armi iraniane ma anche nuovi missili, droni e mine navali che possono produrre autonomamente. Nonostante rimangano ancora segni di resistenza, gli Huthi stanno ormai vincendo la decennale guerra civile yemenita, durante la quale ai crimini di guerra della coalizione a guida saudita hanno contrapposto continue violazioni dei diritti umani, come il reclutamento di bambini soldato, l’uso di mine antiuomo, il blocco di aiuti umanitari, arresti arbitrari e rapimenti di intellettuali, giornalisti, attivisti.
L’organizzazione politica e militare sciita zaidita degli Huthi è nata negli anni ’90 intorno alla città di Sa’da, cuore nell’estremo nord dello Yemen primigenio e tradizionale. Hanno preso il nome di Huthi dal fondatore Hussein al-Huthi (leader religioso ritenuto discendente del Profeta), dopo che questi fu ucciso nel 2004 dall’Esercito yemenita durante la prima delle sei rivolte armate contro il regime di Saleh. Accusavano il governo di aver negletto la loro comunità, di essere corrotto e manovrato da sauditi e americani (da questo nasce nel 2003 il loro slogan violentemente antiamericano e antisraeliano). Sono cresciuti sul modello di Hezbollah, di cui condividono la storia di gruppo di resistenza con una guerra come momento fondativo, un’analoga propaganda populista contro la corruzione e una proposta politica elaborata costantemente contro qualcuno. Ne condividono anche la figura religiosa del leader, decisore ultimo ma senza ruoli formali nel governo e nelle istituzioni (l’attuale capo Abdul-Malik al-Huthi potrebbe essere visto come la versione yemenita del libanese Nasrallah, per alcuni aspetti anche della guida suprema iraniana). Ma, nonostante tali similarità, il movimento degli Huthi non è una creazione dell’Iran e il rapporto che ha sviluppato con la Repubblica Islamica è molto diverso da quello di totale soggezione che caratterizza Hezbollah o le milizie filoiraniane di Siria e Iraq. Per quanto gli Huthi siano un gruppo sciita, essi non fanno riferimento alla corrente duodecimana (che raggruppa almeno il 90% degli sciiti, tra cui la grande maggioranza degli sciiti iraniani, iracheni e libanesi) ma a quella zaidita, diffusa nel solo Yemen e considerata più moderata. In Yemen le divisioni tra sciiti e sunniti sono poi meno marcate che altrove, l’identità religiosa non è quella più importante in una società tribale a maggioranza sunnita riunita per molti secoli sotto il governo di Imam sciiti zaiditi.
]]>Come sapete ci sarà un nuovo ambasciatore ucraino in Italia. Yaroslav Melnyk proseguirà la sua missione diplomatica in Belgio. Non voglio soffermarmi sulla figura dell’ambasciatore uscente, ma come ho riscontrato da più parti, la sua partenza è un occasione per poter cambiare in meglio le relazioni fra Посольство України в Італії/ Ambasciata d'Ucraina in Italia e la diaspora ucraina, così come con gli italiani che hanno a cuore il nostro paese.
Io mi appello di nuovo ai miei connazionali in Italia: siate uniti, usate le esperienze passate, anche quelle amare, per creare un organo consultativo e di rappresentanza, che sia d’appoggio alla missione diplomatica ufficiale. C’è un enorme potenziale inespresso, il vostro, che per uscire alla luce ha bisogno di una cosa più fondamentale dei finanziamenti: la fiducia ed il rispetto reciproco.
So che ve le siete detti di tutti i colori in questi anni, che la fiducia è labile fra i gruppi esistenti, ma in trincea ci sono finiti sia gli elettori di Poroshenko, così come quelli di Zelensky, e si coprono le spalle a vicenda. Le piazze, gli eventi per promuovere gli interessi della vostra prima patria, i palazzi del potere, i dibattiti pubblici…queste sono le vostre trincee. Così come i soldati non hanno altra via per sopravvivere, che fidarsi dell’altro, perché il nemico è più numeroso, così è anche voi: dovete ritrovare la fiducia nell’altro, ma anche in voi stessi. Perché non ci sono altri ucraini che possono sostituirvi, o prendere il posto di quelli che vi stanno antipatici.
Tutti gli ucraini, indipendentemente da dove si trovino, sono in un momento cruciale: la penna con la quale si scrive la storia è molto pesante, e per poterla usare serve la forza di tutto il popolo. Possiamo essere autori del nostro destino, o stare in disparte, offesi ed incompresi, mentre altri continueranno a scrivere la nostra storia da Mosca.
Dalle nostre azioni dipenderà se l’appellativo “ucraino” sarà sinonimo di fierezza, forza e dignità, oppure uno stereotipo per definire quello che non ce l’ha fatta perché sconfitto da se stesso, prima che dal nemico.
Ivan Franko, uno dei pilastri della cultura ucraina, 119 anni fa, si rivolgeva ai giovani con questa esortazione:
“dobbiamo imparare a sentirci ucraini: non galiziani, non bucoviniani, non ruteni, ma ucraini senza confini ufficiali".
L’esame è in corso, dobbiamo dimostrare di aver imparato la lezione, e poter andare avanti.
]]>“For the greatest benefit of humankind”, Alfred Nobel
Ogni anno la premiazione dei Nobel si tiene il 10 dicembre, anniversario della scomparsa di Alfred Nobel, il filantropo svedese che volle lasciare parte della sua eredità per premiare le personalità che si fossero distinte nei vari campi del sapere.
Come da consuetudine e secondo le volontà testamentarie di Alfred Nobel, la cerimonia si è divisa in due parti: la prima per il conferimento del Premio Nobel per la Pace, la seconda riservata agli altri premi.
Particolarmente significativa è la scelta che ha portato al conferimento del Premio Nobel alla Pace alla “Confederazione Giapponese delle Organizzazioni delle Vittime della Bomba Atomica e delle Bombe a Idrogeno”, nota con il nome di Nihon Hidankyo. Durante la cerimonia di premiazione si è posto più volte l’accento sulle responsabilità morali nell’uso delle armi nucleari che, se è vero che non vengono utilizzate da quasi un secolo, è vero anche che evolvono in sofisticazione e nuovi paesi si affacciano alla loro produzione. Un monito per il futuro, che appare incerto e pieno di insidie potenzialmente distruttive per l’uomo e per il pianeta. Non sono mancati riferimenti alla guerra israelo-palestinese (Gaza e l’evocazione dell’uso delle armi nucleari) e pregnante è stata la sentita testimonianza sull’orrore del momento dell’esplosione della bomba H in Giappone durante la Seconda Guerra Mondiale al fine di rendere evidente che l’uso delle armi nucleari non deve essere più considerato accettabile.
In leggero ritardo rispetto alla timeline è iniziata alle ore 16:20 circa del 10 dicembre 2024 la cerimonia di premiazione dei restanti Nobel 2024.
All’interno del Konserthuset Stockholm la platea era al completo. Familiari, colleghi ed amici erano in trepidante attesa. Per noi spettatori è possibile solo ipotizzare che l’emozione della premiazione dei Nobel non dev’essere solo dovuta al coronamento di tanti sforzi da parte dei vincitori, da ore ed ore di studio e di attività di ricerca, ma anche per i familiari che spesso supportano - e sopportano - gli sforzi degli scienziati.
La famiglia reale svedese ha fatto il suo ingresso ed ha occupato la prima fila centrale.
Dirimpetto a loro e a metà del fondo palco è posizionata la mezza colonna su cui è collocato il busto di Alfred Nobel. Sembra che stia guardando le sedie che attendono i diplomati quasi a simboleggiare la lungimiranza che il filantropo ebbe anche in vita. La statua è poi circondata da fiori che riempiono anche le altre zone del palco. Fiori di San Remo - rigorosamente come da tradizione - coloratissimi e quasi a ricordare che questa è una giornata di festa non solo per i laureati ma anche per la conoscenza umana.
Tutto è pronto e l’orchestra sul soppalco ha intonato la marcia in D maggiore di Jean-Pierre Rampal ad accompagnare l'ingresso dei laureati.
“It lies in our hand to change the world”, Astrid Soderbergh Widding
Non appena il clarinetto ha suonato l’ultima nota, è salita sul palco Astrid Soderbergh Widding, Professore di Studi di Cinema presso l’università di Stoccolma e Chair della fondazione Nobel. Questo è stato il suo ultimo discorso in tale ruolo. La carica è in scadenza il prossimo 31 gennaio.
Nel suo discorso si è allacciata alla premiazione per il Nobel della Pace e alla lotta contro la proliferazione nucleare. Ed ha espresso un monito che ben si riallaccia alla già avvenuta premiazione del Nobel per la Pace: “La bomba atomica ricorda che la ricerca di base non è solo per il bene”. Frase molto importante, un macigno che riassume in sé decenni di discussione fra scienza e filosofia. Discussione tutt’oggi in corso, anche alla luce delle innovazioni scientifiche e comunque un caveat non tanto per la scienza, quanto per la sua applicazione. Mai come adesso è fondamentale valutare le implicazioni etiche - e non solo - della scienza e delle scoperte scientifiche.
Soderberg ha altresì ricordato che “è attraverso la ricerca fondamentale e libera che la conoscenza può continuare a espandersi per il futuro delle conoscenza", quasi a ricordarci che gli investimenti in ricerca - soprattutto di base - sono fondamentali ma frequentemente disattesi.
“La scienza deve continuare ad esplorare e espandere le frontiere della conoscenza umana, mettendo le basi per le future applicazioni”, Astrid Soderbergh Widding
Il suo discorso è continuato con un excursus sui vari premi ed ha sottolineato l'importanza delle implicazioni pratiche ma anche la necessità di una gestione delle nuove tecnologie - come genetica ed AI - in un contesto di collaborazione internazionale.
“La scienza deve continuare ad esplorare e ad espandere le frontiere della conoscenza umana, gettando le basi per le future applicazioni” ha affermato. Il bello della scienza è proprio questo: mantenere la curiosità ed allargare gli orizzonti, che è un po’ la legge alla base dell’evoluzione umana.
Evoluzione umana che fortunatamente ci ha portato a sviluppare la capacità di introspezione e di analisi dell’essere umano. Quest’anno, ha continuato Soderbergh, il premio della letteratura è stato dato “a una esplorazione della vulnerabilità umanità e quindi accende la luce alla situazione fragile dell’uomo”.
Essenza dell’uomo che è tanto forte quanto fragile. Fragilità dell’uomo e povertà dell’uomo che grazie alle istituzioni - come dimostrato dal Nobel per l'economia - è stato possibile superare in molti paesi, garantendo maggiore prosperità.
Soderbergh ha infine terminato con una constatazione: “viviamo in un momento di volatilità, di ambiguità, di incertezza, anche dovuto alla situazione geopolitica e ai cambiamenti climatici” ma “scienza, letteratura e pace offrono un percorso diverso per risolvere i problemi attuali.”
La premiazione è continuata con l’introduzione del premio per la Fisica. Speaker è stata la Prof.ssa Ellen Moons, presidente del Comitato Nobel per la fisica, che ricorda le parole pronunciate da Donald Hebbs nel 1949 “neurons that fire together, wire together” per descrivere l'attivazione neuronale.
E quest’anno il premio della fisica è stato assegnato per l’applicazione della fisica nell'allenamento della intelligenza artificiale, basata sulle reti neuronali.
“The Nobel Prize in Physics 2024 was awarded jointly to John J. Hopfield and Geoffrey E. Hinton "for foundational discoveries and inventions that enable machine learning with artificial neural networks" (1)
Hopfield è professore emerito presso la Princeton University. La sua carriera accademica e scientifica ha attraversato il multiverso della conoscenza umana, “vagando liberamente negli spazi interstiziali tra le discipline” (2).
Laureato alla Cornell, Hopfield ha svolto ricerca nel campo della fisica della materia, ha studiato la modellazione della superficie lunare presso la NASA, i diodi ad emissione di luce conosciuti come LED. Ha cavalcato il suo interesse per la biologia e per la chimica, i suoi studi gli hanno permesso di capire che l’interazione della materia con l’elettricità potevano anche spiegare l’interazione nella nostra mente e ha sviluppato un modello dinamico per la memoria associativa. Ancora: ha sviluppato le “reti di Hopfield”, che permettono di salvare e creare pattern e che sono alla base delle reti neurali. L’idea della rete è derivata dall'applicazione del concetto di spin atomico alle reti neurali.
Grazie a questa scoperta Hopfield si evidenzia come scienziato a tutto tondo, dimostrazione vivente dell'importanza della interdisciplinarietà nell'attività di ricerca.
La sua attività lo ha portato a pubblicare numerosi articoli con 90000 citazioni totali ed un h-index di 94. Il suo articolo più citato (28168) è “Neural networks and physical systems with emergent collective computational abilities.” del 1982.
Il secondo vincitore del Nobel per la fisica è Geoffrey Hinton, che ha avuto un percorso completamente diverso rispetto a Hopfield.
Laurea in psicologia sperimentale a Cambridge nel 1970, PhD in Intelligenza artificiale , ha svolto un lavoro fondamentale per l'implementazione del modello di Hopfield e per lo sviluppo della macchina di Boltzman, capace di riconoscere patterns all’interno dei dati, alla base dello sviluppo dell’apprendimento automatico ovvero il “machine learning”.
Il suo articolo più citato è “Imagenet classification with deep convolutional neural networks”.
Nel dibattito pubblico spesso ricorre la cifra dei 14.000 morti causati dalla guerra nel Donbas tra il 2014 e il 2022. Alcuni, per ignoranza o malafede, spesso presentano questa cifra come rappresentativa delle vittime civili, quando in realtà essa include sia le vittime civili che quelle militari di entrambe le parti.
Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, tra primavera 2014 e fine dicembre 2021, il numero complessivo delle vittime era stimato fra 14.200 e 14.400 [1]. Come possiamo vedere nel grafico alla Figura 1 tre quarti delle vittime erano militari e un quarto civili.
]]>Nel 1985 fu Sinsheimer RL ad organizzare un workshop sull'argomento genoma umano presso l’università della California a Santa Cruz. Al termine dei lavori gli scienziati coinvolti dichiararono il progetto come fattibile (1).
L’anno successivo (1986) Renato Dulbecco (premio Nobel Medicina e Fisiologia 1975) pubblicò su Science un articolo nel quale ipotizzava che “il sequenziamento del genoma umano sarebbe stato un punto di svolta per la ricerca sul cancro” ; in particolare per la maggiore comprensione degli oncogeni ed oncosoppressori (2).
Tuttavia l’impeto per la sua attuazione arrivò dal Dipartimento dell’energia (DOE, oggi Office of Energy Research) che intravedeva l’opportunità di studiare gli effetti delle radiazioni nucleari sul DNA. Gli Istituti Nazionali di Salute (National Institute of Health - NIH) nel primo periodo assunsero una posizione poco proattiva che fu, tuttavia, bilanciata da un congresso americano propenso allo sviluppo del progetto, non solo per i possibili risultati scientifici ma anche per l’acquisizione di un notevole know-how - in termini di spin-off industriali - e benefici economici. Nel 1988 arrivò l’endorsement anche dal comitato dell’Accademia Nazionale di Scienza (National Academy of Science).
Nei successivi anni si susseguirono altri importanti eventi come la pubblicazione del memorandum di intesa fra NIH e DOE (1988), la nascita del National Center for Human Genome research a Bethesda (Maryland) (1989) e la definizione dei principi etici, legali e le implicazioni sociali del progetto (ELSI) (1989).
Il progetto genoma prese il via nel 1990 sotto la guida del premio nobel 1962 James Watson, considerato insieme a Francis Crick il padre della doppia elica del DNA.
I centri coinvolti nel progetto furono 20 così distribuiti: 12 in USA, 2 in Germania, 2 in Giappone, 1 in Cina, 1 in Francia, 1 in Inghilterra, con l’obiettivo di sequenziare il genoma umano ovvero determinare l’esatto ordine delle basi del DNA e localizzare i geni umani che, all’epoca, erano stati previsti in numero di 100.000. Il progetto aveva anche il fine di sequenziare il genoma di altri organismi utilizzati come modello di studio - ad esempio Escherichia Coli e Caenorabdithis Elegans - per comparare i genomi a fini di studio evoluzionistico (3).
Il tutto fu coordinato a livello centrale - per ottimizzare il lavoro - e finalizzato a condividere i risultati con tutti gli scienziati mondiali attraverso l’informatizzazione dei risultati in un dataset liberamente accessibile.
Gli step del progetto erano i seguenti: determinare una mappa genetica del genoma umano, quindi produrre una mappa fisica del genoma ed infine eseguire il sequenziamento (3). La tecnologia disponibile all’epoca era “di prima generazione” e con alcuni limiti ma si pensava che il progresso strumentale sarebbe arrivato proprio grazie alla spinta data dal progetto genoma. A questo punto per capire meglio il sequenziamento può risultare utile un breve ripasso di biologia e genetica.
Il genoma umano è l’insieme di tutto il DNA presente all’interno delle cellule. Il DNA può essere paragonato ad una “scala a pioli” formato da due sequenze di mattoncini chiamati nucleotidi, costituiti da un pentoso, un gruppo fosfato ed una delle quattro basi azotate: adenina, timina, guanina, citosina (A, T, C, G) (3).
L’obiettivo del progetto genoma umano era sequenziare il DNA di Homo Sapiens (e degli altri organismi selezionati), quindi capire come queste quattro basi si susseguissero nel genoma. Il metodo era noto e si chiama sequenziamento di Sanger dal nome dello scienziato che lo sviluppò.
]]>Nell’arco di circa 300 dense pagine e forte di una bibliografia sterminata, conclude che uno dei fattori, forse quello determinante, di questo primato, è da ricercare in definitiva nella caduta dell’Impero Romano d’Occidente. A partire da quell’evento infatti, nell’arco di secoli e con molte alterne vicende, si sono venuti a creare in Europa gli stati-nazione, fatto che oggi diamo per scontato ma che in realtà a livello storico, in the very long run, è un elemento unico e distintivo della cultura e della politica europee.
Le culture asiatiche che vengono prese in esame (quella ottomana, indiana, cinese e giapponese) non hanno attraversato infatti le stesse fasi di quella europea e, soprattutto, hanno mantenuto la loro costituzione di imperi nel periodo in cui l’Europa, grazie ad una congerie di elementi in parte fortuiti (es. la posizione geografica) e in parte indotti (gli avanzamenti tecnologici in primo luogo), raggiungeva le Americhe e si accingeva a surclassare e poi a dominare le altre economie.
In estrema sintesi, quindi, il successo dell’Europa risiede nel fatto di aver “rinunciato” ad essere impero e nell’aver sintetizzato una modalità di scambio competitivo-collaborativo tra una serie di entità socio-politico-economiche, nessuna delle quali aveva la capacità di soggiogare tutte le altre e farsi impero, nonostante i generosi tentativi fatti da vari sovrani nel corso dei secoli (ultimo Carlo V nel Cinquecento).
Il libro di Jones è del 1981, con aggiornamenti fino all’ultima edizione del 2003. Il quadro geo-politico nel quale è stato scritto è quello dell’ordine post-bellico uscito dalla Seconda guerra mondiale. Risente quindi un po’ del clima da “fine della storia” nel quale la cultura europea e americana erano immerse, con la contrapposizione tra due imperi informali, quello americano e quello sovietico, che con buona approssimazione si erano spartiti il mondo a Jalta. Ognuno “sovrano” sul proprio pezzo di mondo, con una serie di paesi cosiddetti non-allineati a fare da cuscinetto.
Cos’è accaduto dopo? Lo stiamo capendo soltanto oggi che il mondo è ripiombato nella logica dello scontro tra superpotenze e nel momento in cui l’Europa si è ritrovata la guerra nei propri confini.
Il crollo dell’Unione Sovietica rappresentava in termini storici (il very long run di Jones) il contenimento dell’impero russo, che aveva ereditato da quello zarista il territorio e la missione di civilizzazione spirituale del mondo che troviamo in Dostoevskij, Tolstoj e altri eminenti autori, seppur nella consapevolezza che il periodo zarista fu - dal punto di vista autarchico ed imperialista - una conseguenza più o meno diretta del Giogo Mongolo e della distruzione dello status sociale preesistente e della reinterpretazione endogena di cosa dovesse essere la Russia, impersonata nella figura di Ivan III le cui conquiste e sistema di governo rappresentano di fatto il prodromo della svolta imperialista ed autarchica del Paese. Quella umiliazione imposta dall’Occidente non è stata mai dimenticata dal popolo russo, che ha dato la colpa di questa resa all’uomo che in Europa e in America ancor oggi è celebrato come l’uomo della pace e della fine del comunismo, Michail Gorbačëv.
La Cina, o per meglio dire l’impero cinese, ha attraversato un periodo di declino (in buona parte endogeno come sostiene Jones) ben prima che arrivassero gli europei. Soltanto verso la metà dell’Ottocento, tuttavia, questo declino ha permesso alla potenza europea in ascesa in Asia, quella britannica, di ridurre di fatto lo stato Qing a vassallo, con strumenti che hanno precipitato la Cina in quasi due secoli di torpore politico ed intellettuale. C’è voluta la Lunga Marcia, una sanguinosa guerra civile e poi la costituzione della Repubblica Popolare per risvegliare questa cultura millenaria, che si è da poco (in termini storici) rimessa in condizioni di competere con l’Occidente. Per questo motivo ancor oggi Mao Zedong, nonostante gli orrori del grande balzo in avanti e della rivoluzione culturale, è celebrato come il fondatore della Cina moderna e Presidente eterno.
Non stupisce come, a seguito di questo risveglio, la Cina abbia ripreso a compiere operazioni politiche (e non solo) volte a reintegrare Taiwan, Hong Kong, le isole Diaoyu, il Mar Cinese Meridionale ecc., quali parti costitutive di quello che considera il proprio impero.
Insomma, basta dare un’occhiata ad una cartina del mondo per rendersi conto che, in chiave geopolitica, l’epoca degli imperi è tornata, anzi più propriamente, forse non era mai davvero tramontata. La “fine della storia”, un’epoca in cui gli Stati Uniti avrebbero dominato, o quantomeno influenzato, il mondo senza rivali era una notizia grandemente esagerata.
La sempre minor preminenza USA sulla scena internazionale, unitamente all'ascesa cinese e non solo, ha spinto molti analisti a parlare di quest'epoca come l'era del "multipolarismo" geopolitico, proprio ad evidenziare come il binomio USA - Russia del periodo della Guerra Fredda non sia ad oggi sufficiente per descrivere con efficacia la complessità dello scenario geopolitico mondiale.
L’impero americano, va peraltro detto, è nato per reazione e in contrapposizione all’impero britannico. Non bisogna dimenticare che i coloni americani erano inglesi, alcuni anche per nascita e avevano in mente di sostituire l’impero britannico con un impero americano, tanto che ne “copiarono” molte caratteristiche (cfr. Francis Jennings, La creazione dell'America). Gli Stati Uniti d’America si possono considerare dunque l’ultima manifestazione di un impero europeo. Non a caso sono intervenuti per ben due volte in trent’anni nel secolo scorso per salvare dal suicidio il vecchio continente, imponendovi la “pax americana” (haec tibi erunt artes/pacisque imponere morem).
Anche se la radice è europea, tuttavia, è sempre più chiaro che gli interessi geostrategici americani non sono allineati con quelli europei, Basterebbe considerare il predominio di Internet che gli USA possiedono rispetto all’Europa, che in quasi trent’anni non è riuscita a produrre un solo “gigante” della rete, mentre gli altri imperi o hanno chiuso le loro frontiere ai colossi a stelle e strisce oppure hanno costruito i loro campioni in contrapposizione a quelli americani. Questo divario si riverbera in molti altri campi. Basti pensare alla difesa, che gli europei hanno delegato in grandissima misura all’alleato d’oltre Atlantico, lasciandogli implicitamente anche la leadership tecnologica di interi settori, si pensi ai droni, alle reti satellitari o al “cyber warfare”.
Riavvolgendo la matassa della Storia e svolgendola a velocità aumentata, appare dunque chiaro che il gesto di Odoacre fu davvero gravido di conseguenze, che perdurano tuttora. Rimandando a Bisanzio all’imperatore Zenone le insegne imperiali, il generale sciro si assunse la responsabilità di dire al mondo che l’Europa non aveva più bisogno di un impero e che da allora le diverse coalizioni di tribù, prevalentemente -ma non certo esclusivamente- germaniche avrebbero governato ciascuna i propri territori in base agli interessi e alle necessità dei singoli gruppi. Da questo magma sarebbero nati il popolo tedesco, quello francese, quello spagnolo, da ultimo anche quello italiano. Avrebbero mantenuto accesa la fiaccola della civiltà romana, perpetuata e sublimata da quella cristiana, attraverso un continuo scambio culturale ed economico che li avrebbe portati, una volta verificatesi diverse condizioni, a conquistare un mondo ben più vasto dell’Europa e in alcuni casi ben più ricco. Questo sviluppo avrebbe avvalorato l’idea che gli imperi non sono necessari anzi sono un freno all’industrializzazione e allo sviluppo, mentre le nazioni europee, nel frattempo divenute democrazie liberali, avrebbero garantito benessere e stabilità.
Tale rappresentazione del mondo, già messa in crisi dalle due guerre mondiali, è entrata definitivamente in crisi nel ventunesimo secolo, allorché la globalizzazione ha permesso a giganti dormienti (la Cina) e a stati molto ricchi di fonti energetiche (la Russia) di riaffermare il proprio status di potenze imperiali, sfidando apertamente il modello occidentale.
In questo nuovo contesto, il modello dello stato-nazione, che ha costituito come abbiamo visto un irripetibile vantaggio europeo nella “conquista” del mondo, si rivela improvvisamente un handicap. L’Europa si trova circondata da imperi ostili e con l’unico impero “amico” in crisi di identità (e di vocazione), nonché separato da un oceano, che per secoli era stato poco più di un lago, che torna ad allargarsi.
]]>I processi democratici stanno di fatto venendo ingolfati dall’identity politics (IP), a destra come a sinistra. L’IP è tra i fenomeni più rilevanti della politica contemporanea, proprio perché all’interno dei processi democratici, che teoricamente fanno del pluralismo la loro forza, ne è visibile l’impronta. Quello che in sociologia è noto come “Othering process” - ossia quel processo tramite cui un gruppo enfatizza le caratteristiche che lo differenziano da un altro gruppo (1) - è il pane quotidiano della retorica politica e partitica delle democrazie occidentali, con echi assai sinistri di un passato buio. In Europa così come negli States il tema dell’identità è l’ago della bilancia dei processi elettivi: “Io sono Giorgia”, il motto-meme identitario del nostro Presidente del consiglio; “non tutti gli SS erano criminali”, il goffo tentativo di Maximilian Krah di riabilitare parte del passato nazista tedesco (2); “ho ucciso io Roe v. Wade”, l’appropriazione ideologica, politica e identitaria di Donald Trump sul diritto federale di abortire (3); le tessere con il volto di Berlinguer promosse da Elly Schlein per tracciare una linea di continuità tra il PCI e il PD (4). Queste rivendicazioni identitarie ben prima che ideologiche occupano uno spazio smodato del vivere politico, specie se si considera la vuotezza del contenuto non-simbolico di questi slogan.
Si parla di identità e non di ideologia proprio per via del fatto che, in ciascuno degli esempi sopracitati, sarebbe impossibile estrapolare del contenuto operazionalizzabile in termini politici. Ciononostante, i simboli di questi slogan impegnano il discorso politico e sono perciò importanti da tenere in considerazione almeno come segnali di una possibile direzione che il leader che li pronuncia vorrebbe dare alla propria comunità.
Sebbene il panorama politico internazionale ci fornisca quotidianamente spunti per ridefinire e identificare possibili nemici della democrazia - da Putin, in guerra contro l’occidente at large, a Kim Jong-un, passando per l’Iran di Khamenei, solo per citarne alcuni, - come esemplificato dal goffo e recente tentativo di Trump,
“I think the bigger problem are the people from within. We have some very bad people. We have some sick people. Radical left lunatics”(5).
Che il futuro presidente degli Stati Uniti utilizzi certi termini scandalistici non fa notizia; infatti, ciò che veramente colpisce l’osservatore politico è l’assenza di scandalo tra i repubblicani, ormai assuefatti a questa belligeranza continua ed estrema, nonché soprattuttointroversa.
Non è un caso isolato, e nemmeno solo americano. Mentre Trump attaccava persone e funzionari americani a lui invisi, in Italia il Presidente del Senato La Russa suggeriva di cambiare la Carta Costituzionale. Il motivo? La magistratura aveva appena bocciato l’espatrio dei 12 immigrati in Albania (dopo che aveva ordinato il rientro di altri 4)(6). La Russa ha affermato che “La destra, che vuole governare, vorrebbe rispetto per le prerogative della politica”(7). Insomma, la magistratura non può fare quello che vuole, soprattutto se non è in linea col governo. O meglio, la magistratura non può e non deve differenziarsi dal governo.
Soffermarsi sui nemici interni infatti fa sì che le istanze identitarie trasbordino il veicolo del conflitto sociale per finire su quello istituzionale: se i nemici sono interni, ed è chiaro che lo sono, normali regole non possono bastare. La separazione dei poteri risuona ormai come un lusso di tempi di pace ormai andati. A chi alza il dito e sommessamente fa notare che la guerra, quella vera, è fuori, viene mostrata la porta. L’Europa è in guerra con il proprio vicino, storicamente ingombrante per l’autodeterminazione del suo continente. Eppure un nemico come quello personificato dalla Russia - nemico vero che quotidianamente minaccia e uccide i nostri vicini la cui unica ambizione è quella di essere “un po’ più come noi e un po’ meno come loro” - politicamente non vende. La Federazione Russa, anzi, “compra” a suon di simboli e contanti larghe frange del tessuto sociale Europeo. Come ad esempio i Patrioti di Europa, che sono infatti, più o meno direttamente, a libro paga dell’orso russo (8), che tra la guerra in Ucraina e le mazzette in Moldavia (9), e i TikTok in Romania (10), trova tempo per continuare le proprie relazioni ufficiali ed ufficiose con i maggiori partiti di estrema destra e sinistra del continente.
In uno scenario internazionale sempre più precario e con nuovi fronti che minacciano di aprirsi (11), l’attenzione della politica è fin troppo indirizzata a sbarazzarsi dei nemici interni, con la possibilità che la politica estera Europea - o quello che vagamente vi somiglia - muoia definitivamente. L’approccio claudicante del vecchio continente nei confronti delle esplicite minacce esterne mette di fatto in luce come la nostra comunità politica sia stanca, impegnata spesso a battibeccare su temi di quart’ordine (12) - anche questi non raramente identitari - e ormai svuotata ormai di qualsiasi tipo di lungimiranza. In questo “vannacciano” mondo al contrario, i filorussi europei sono dipinti come patriottici, nonché vicini all’uomo e alla donna comuni; la pace ad ogni costo, calcio negli stinchi ai valori caposaldo dell’occidente libero, è spacciata come panacea contro le crisi economiche e valoriali. L’Unione Europea, che all’interno di questi scenari è l’unica forza che disporrebbe delle risorse per influire positivamente sul conflitto Russo-Ucraino, è anch’essa svuotata di potestà e spesso indaffarata a condurre battaglie ideologiche contro i mulini a vento, di cui le case green e il ban ai motori a combustione entro il 2035 sono solo recenti esempi.
In questo quadro che il neo-ministro della cultura Giuli definirebbe intriso di apocalittismo, c’è però una battaglia identitaria che forse varrebbe la pena combattere. L’elefante nella stanza è infatti quel filo rosso valoriale che accomuna i Paesi UE e gli States, e che rappresenta l’unica alternativa per uscire in piedi da questa situazione. Quei valori più o meno lascamente definiti e operazionalizzati nelle varie comunità - libertà, democrazia, pluralismo, secolarismo, ecc. - non sono orpelli secondari delle democrazie liberali occidentali: essi sono direttamente responsabili del benessere economico-sociale che le nostre comunità hanno esperito dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi. Ed è qui che giace il problema.
La battaglia culturale che i promotori dell’IP stanno combattendo - e vincendo - mira a distruggere uno o più di questi aspetti paradigmatici delle società aperte. Dalle nostre parti cresce quotidianamente la convinzione che sia l’Occidente stesso ad essere finito (13): da analisti “geopolitici” che decantano la fine dell’impero a stelle e strisce, ad improbabili giornalisti che osannano più o meno velatamente l’operato di Vladimir Vladimirovich, uomo forte per eccellenza che tutti dovremmo temere dati i suoi “missili ipersonici” e il suo infinito arsenale atomico. L’Europa e gli Stati Uniti nella retorica che domina questi gruppi sono responsabili direttamente di tutti i mali del mondo - dall’Ucraina allo Yemen - e, soprattutto, sono incapaci di garantire benessere pure a se stessi. La narrativa insomma ci vede schiacciati, destinati ad un ridimensionamento che ne simboleggi la supposta mediocrità. Il mondo fuori è pericoloso e noi non siamo - secondo alcuni - all’altezza della difficoltà; secondo altri è invece giusto e desiderabile che ci si faccia da parte, essendo noi appunto i responsabili di tutti i problemi, indipendentemente dal fatto che questi siano nostri o meno.
Ovviamente tutto questo ha delle briciole di verità qua e là. L’operato Europeo ed Americano in tema di Esteri lascia a desiderare. Infatti, neppure le frange più convinte del sostegno all’Ucraina sembrano essere in grado di agire in maniera incisiva; sul conflitto Israelo-Palestinese, il mondo si divide verticalmente tra chi ascolta solo le ragioni dei primi, e chi unicamente quelle dei secondi, generando una serie di attesi risultati quali la devastante e continua distruzione di Gaza, l’allargamento del conflitto verso Libano e Iran, e nessun piano di rientro dalle pluri-emergenze in vista per le Cancellerie Europee.
Eppure delle alternative ci sarebbero, senza neanche dover scomodare modelli che non ci appartengono. L’Occidente, un tempo dipinto come baluardo dei diritti umani, della libertà e della democrazia, dovrebbe cercare di tenere fede a quegli stessi precetti che nel secondo dopoguerra ne hanno fatto la fortuna. Lo svuotamento continuo dell’ONU di qualsivoglia autonomia è anche responsabilità nostra, ma non è irreversibile. La risposta non la troveremo tornando indietro, rifacendoci a modelli isolazionisti o di stampo nazionalista, ma rinnovando con forza la volontà di estendere la cooperazione a chi si impegna di tenere fede a quelle regole internazionali già menzionate e che ha le nostre stesse ambizioni. Perché questo accada, bisognerebbe riconoscere che le nostre società, pur non esenti da problemi, sono costruite su regole e valori che ci permettono di vivere in pace, che ci garantiscono la possibilità di prosperare economicamente e socialmente, che solo gli stolti potrebbero mai voler cambiare.
]]>Ogni persona ha diritto a un’istruzione, a una formazione e a un apprendimento permanente di qualità e inclusivi, al fine di mantenere ed acquisire competenze che consentono di partecipare pienamente alla società e di gestire con successo le transizioni nel mercato del lavoro.
Con queste parole inizia il documento di raccomandazione della comunità europea sul “lifelong learning”, considerato il primo pilastro dei diritti sociali europei ed inserito negli obiettivi nelle “pari opportunità e l’accesso al mercato del lavoro”.
Con apprendimento permanente (“ lifelong learning” - LLL) si intendono “tutte le attività di apprendimento intraprese nel corso della vita con l’obiettivo di migliorare conoscenze, abilità e competenze, all’interno di prospettive personali, civiche, sociali o legate all’occupazione” (1) e che vengono intraprese dopo la fine dell’istruzione iniziale. Tali attività sono classificate in formali (corsi che rilasciano titoli di studio o certificati), non formali (attività che non rilasciano titoli o certificati ma organizzate con orario e tutor) e informali (attività di apprendimento non organizzate) (2).
In pratica il lifelong learning spazia dai corsi professionali ai corsi senza certificazione fino all’aggiornamento autonomo (es. leggere un libro).
I fini dell’apprendimento permanente riguardano la realizzazione personale, lo sviluppo di uno stile di vita sano, l’occupabilità, la cittadinanza attiva e l’inclusione sociale (fonte: key competences for lifelong learning) e l’UE si propone di raggiungere tali obiettivi fra i cittadini attraverso otto competenze chiave: alfabetizzazione, linguistica, STEM, digitale, personale e sociale, di cittadinanza, imprenditoriale, culturale ed espressiva.
Ogni stato europeo è tenuto a mettere in atto attività finalizzate al raggiungimento di una percentuale di cittadini dotati di tali competenze. Tali target sono stati fissati dall’EU: entro il 2025 il 47% della popolazione adulta (25-64 anni) dovrebbe svolgere LLL durante il precedente anno solare, per il 2030 il target sale al 60% (3).
Questi obiettivi hanno un senso. Infatti, l’apprendimento permanente è importante a livello individuale (aumento dell’employability, del benessere fisico e mentale, del benessere sociale), economico (aumento della capacità di innovazione, della competitività, aumento della contribuzione fiscale ) e societario (aumento della salute della popolazione, riduzione della criminalità, aumento della sostenibilità, promozione sociale, aumento delle attività di cittadinanza) (4).
I dati sulla formazione degli adulti in Europa vengono raccolti dalla “Adult Education Survey - AES” e presentati da Eurostat. Per l’Italia è l’Istat (2) a fornirci un quadro della situazione.
Il trend di partecipazione al LLL in Europa è leggermente in aumento nel decennio 2013-2023. Il dato annuale più recente è quello relativo al 2023 e pubblicato da Eurostat nel maggio 2024.
In media, in Europa il 47.2% delle donne ed il 46% degli uomini partecipano al LLL. I valori più alti sono raggiunti da Svezia, Olanda, Ungheria. I più bassi sono stati registrati in Polonia, Bulgaria, Grecia. L’Italia è al 21° posto, dopo il Belgio e prima della Lituania.
Un dato interessante è quello della formazione tra gli adulti che non lavorano; solo il 14% ha avuto una esperienza di apprendimento nel 2023; l’obiettivo dell’EU al 2025 è del 20%. Tale obiettivo è stato raggiunto da sei paesi (Svezia, Danimarca, Olanda, Lussemburgo, Finlandia, Estonia) mentre sono sotto al 10% nove paesi, Italia compresa (1).
Considerato il fatto che molte volte l’apprendimento è legato all’attività lavorativa, risulta interessante analizzare i dati anche in una prospettiva diversa: quant’è il tasso di partecipazione ad attività di apprendimento informali, ovvero quelle che non rilasciano certificazioni e che - potremmo dire - si svolgono solo per il piacere della conoscenza o per arricchire la vita personale?
Per rispondere a tale domanda ci viene in aiuto l’analisi dei dati disponibili sul sito dell'UE (5). Sul podio troviamo: Cipro (92.9%), Serbia e Francia. La media EU27 è del 64.2%, valore superato dall’Italia con un 67.4%. Questi dati però devono essere valutati considerando che sono frutto di una valutazione con questionario e senza un controllo in quanto attività non istituzionalizzata. Inoltre l’attività è molto variabile: dal partecipare ad una visita al museo, fino alla lettura di un libro o la lettura su device elettronici.
Tuttavia, considerato il dato dall’altro punto di vista e con tali premesse, fa riflettere il fatto che in media in Europa quasi quattro cittadini su dieci (35,8%) negli ultimi 12 mesi dichiarino di non aver svolto nessun tipo di attività di apprendimento.
Risalgono ad aprile 2024 gli ultimi dati Istat (2) sulla formazione degli adulti per l’anno 2022.
L’Italia è carente per la partecipazione ad attività di formazione - formale e non formale - e ricopre la 21° posizione in Europa a 27 stati, con una percentuale, nei 12 mesi di riferimento, del 35,7% (-11% rispetto alla media europea). Il target da raggiungere entro il 2025 è del 47%.
Ad una analisi più approfondita, si evince che è minore la partecipazione in caso di più bassa istruzione dei genitori o del cittadino stesso; se in Europa tale dato è del 25%, in Italia si attesta al 18%. In pratica 1 solo cittadino su 6 (fascia 25-64 anni) con basso livello di istruzione partecipa ad una attività di formazione.
A latere è significativo citare anche il dato della fascia 18-24 anni, nella quale il 31% non partecipa ad alcun percorso di istruzione o formazione (20,2% la media europea) a dimostrazione che il problema interessa anche la fascia immediatamente più giovane.
Non bene neanche la partecipazione alle attività formative da parte dei disoccupati (20,5%) rispetto agli occupati (44,1%) (Ndr. riferita alla fascia 18-74 anni). Pertanto, come riporta Istat, “coloro che avrebbero più bisogno di acquisire, sviluppare, aggiornare le competenze, per tenere il passo con i cambiamenti del mercato del lavoro e ridurre così il rischio di fuoriuscita, sono quindi proprio coloro che si formano di meno” (2).
Dieci milioni di abitanti (6), tasso di occupazione del 75% (tra 15-64 anni), un tasso di NEET del 5,8% (in Italia siamo al 19%), il 50% dei giovani fra i 25 ed i 34 anni laureati (in Italia il 30%). Partiamo da questa fotografia per analizzare la Svezia, che risulta il paese più virtuoso quando si parla di apprendimento permanente. Proviamo a capire quali potrebbero essere le motivazioni di tale “virtuosismo”, con una premessa: la Svezia ha una tradizione acclarata e di lungo corso nell’educazione (7), soprattutto in quella non-formale negli adulti.
Nel 2007 il Ministero dell’Educazione e della ricerca svedese ha pubblicato un documento che definiva la “strategia per la lifelong learning” sottolineando il diritto per ognuno a ricevere una buona educazione, basandosi sulla qualità, sull’accessibilità e sul coordinamento.
Policy should be directed to both supporting adult learning, and promoting the development of structures for greater coordination between different players supporting learning. Responsibility for adult education in a broad sense thus becomes the responsibility of the individual, the state and the employer (8)
Secondo gli autori, l’educazione degli adulti dovrebbe essere supportata per rispondere ai bisogni dell'individuo e della società. Il razionale della strategia mette al centro i cittadini ed il supporto della loro formazione in base alle loro opportunità, motivazioni e potenziali (9) ed indipendentemenre da background o risorse finanziarie.
Prima considerazione: gli svedesi sono virtuosi e molto propensi all’apprendimento informale; solo il 26% dichiara di non aver partecipato ad una forma di educazione nell’ultimo anno (3).
Seconda considerazione: al fine di perseguire gli obiettivi di cui sopra la Svezia propone una serie di modalità di apprendimento formali e non-formali.
In particolare, è attivo il programma “Komvux” ovvero “educazione degli adulti” che è un sistema di educazione offerto dai comuni per chi non ha completato il percorso di studi o vuole implementare la propria preparazione (“Municipal adult education (Komvux)”).
Particolarmente interessanti sono anche le Folk High School o “folkhogskola”. Sono delle “scuole superiori popolari” con l’obiettivo di migliorare le risorse umane di ogni individuo attraverso un’educazione civica generale e con studi orientati per problemi e tematiche. Vi possono accedere tutti dai 18 anni (“Aim and ideology of the Folk High School - folkhogskola.nu”). Le Folk High School fanno parte, insieme alle associazioni di studio (studieforbund), della “folkbildning” ovvero della “educazione adults liberale” e, specifichiamo, rientrano nella “educazione non-formale” (“3.3 Adult education and training funding”). Sono quindi separate dal sistema educativo tradizionale e sono gestite per i due terzi da organizzazioni non governative, anche se ricevono dei finanziamenti statali (“An introduction to the Folk High School - folkhogskola.nu”).
E questo ci porta a valutare il terzo aspetto “virtuoso” della Svezia: il finanziamento del longlife learning per gli adulti.
La gestione del supporto finanziario è gestito dal Consiglio svedese per le finanze degli studenti, che si occupa di assegnare il supporto finanziario in forma di borse di studio o prestiti. Per la formazione degli adulti sono previsti dei sussidi in forma di borsa di studio o prestito. Da sottolineare che sopra i 25 anni e per studi al livello di scuola obbligatoria o formazione professionale gli studenti possono ottenere una borsa di studio più elevata.
Anche gli studenti delle Folk High School hanno diritto ad un sostegno che eventualmente può essere integrato dal comune (10).
Deriva quindi un quadro di supporto dallo stato non solo in termini politici/programmatici ma anche economici. Tuttavia, è difficile quantificare i veri finanziamenti della lifelong learning; non risultano pubblicati dossier specifici ed è difficile calcolare i valori indiretti perchè i vari paesi utilizzano finanziamenti diversi e modalità diverse per sostenere il LLL. E questo vale parzialmente anche per la Svezia.
Istruzione | Svezia | Italia |
---|---|---|
Spesa pubblica [% PIL] | 6,5% | 4% |
Spesa pro-capite [€] (OCSE) | 1200-1500 | 500-700 |
FSE [miliardi €] | 4 | 43 |
Spesa per la formazione post-secondaria non-terziaria (% PIL, anno 2020) (fonte: UNESCO) | 0.07 | n.r. |
Possiamo, però, fare un confronto con l’Italia mediante un’analisi indiretta, meno accurata ma indicativa: la Svezia presenta una spesa pubblica, pro-capite e dell’FSE per l’istruzione maggiore rispetto all’Italia (vedi tabella). Mancano i dati italiani sulla spesa per la formazione post-secondaria non terziaria (che è una categoria molto ampia e quindi non accurata), pertanto non è possibile fare un confronto fra i due paesi per tale capitolo di spesa, ma - a logica - non può che essere inferiore. Quindi non solo in Svezia è presente un’organizzazione strutturata ma anche investimenti in educazione molto più alti. È auspicabile, quindi, la futura disponibilità di maggiori dati al riguardo per capire il reale finanziamento economico da correlare con i risultati.
In Svezia non si finisce mai di studiare. In Italia sì. E questo è un male considerando che l’apprendimento permanente è importante perché ha una serie di ricadute positive in termini personali, societari ed economici. Sicuramente la predisposizione dei singoli cittadini è importante - come dimostrato dal dato relativo ai non occupati italiani - ma una considerazione ulteriore è possibile: il dato economico sulla spesa in educazione per l’Italia è basso rispetto al benchmark svedese ed è un dato oggettivo da non ignorare.
Evidentemente, non abbiamo un apprendimento permanente rispetto ai paesi che si organizzano meglio e performano meglio in Europa. Per l’ennesimo aspetto. Ed ancora una volta.
Il Teatro alla Scala, diretto da Dominique Meyer, è uno degli esempi più evidenti di come l’Occidente abbia contribuito a legittimare questa narrazione. Sotto la guida di Meyer, il teatro ha accolto artisti russi noti per il loro sostegno al regime di Vladimir Putin. Tra questi spiccano nomi come Anna Netrebko, Dmitry Korchak e Ildar Abdrazakov, figure che non solo partecipano attivamente alla propaganda del Cremlino, ma rappresentano simbolicamente il potere autoritario russo.
Dominique Meyer ha spesso giustificato queste scelte sostenendo che "l’arte è fuori dalla politica". Ma questa posizione è una menzogna pericolosa. Quando Anna Netrebko si esibisce nei teatri occidentali e poi appare nei territori ucraini occupati dalla Federazione Russa, l’arte non è più neutrale. Quando Dmitry Korchak partecipa al Petrovsky Opera Ball a San Pietroburgo per raccogliere fondi destinati alla "culturalizzazione" delle "nuove regioni della Russia" – una terminologia che maschera l’occupazione illegale – l’arte diventa uno strumento di propaganda.
]]>Nel corso dell'ultimo anno, la Siria è tornata ad essere un punto focale per la convergenza di diversi conflitti attivi e latenti nel Medio Oriente. Dall’inizio della guerra tra Israele e Hamas, il 7 ottobre 2023, le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno avviato una campagna militare (1) a bassa intensità contro le postazioni siriane legate alle milizie proxy iraniane, tra cui la Forza QUDS (2) (parte del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica) ed Hezbollah (3), che a loro volta colpivano regolarmente obiettivi militari statunitensi in Siria e in Iraq (4). In corrispondenza dell’escalation tra Israele ed Hezbollah, culminata con l’invasione di terra del Libano da parte dell’IDF lo scorso 1° ottobre, il nord della Siria ha visto un intensificarsi delle violenze tra le forze governative e diverse fazioni di opposizione armata. Secondo i dati ACLED, nelle settimane precedenti l’attuale offensiva le forze di Assad e le forze armate russe avrebbero effettuato 684 attacchi aerei e di artiglieria in oltre 120 località diverse nei territori settentrionali controllati dall’opposizione, causando almeno 39 morti, tra civili e combattenti.
]]>Non si potrebbe ritenere compiuta e soddisfacente un’analisi che non dedichi uno spazio di riflessione alle motivazioni, che dovrebbero giustificare - a parere del Ministero - un intervento normativo così ingente in un ambito settoriale come quello stradale. Il disegno di legge n. 1435 (da cui è partito l’iter legislativo), dopo il consueto incipit Onorevoli deputati!, comincia con un’elencazione di dati raccolti dalle rilevazioni Istat: si tratta dei tassi riguardanti il numero di incidenti stradali, di vittime e di feriti. Il proponente del ddl ha posto a confronto i dati del 2020 e del 2021, evidenziando un sensibile aumento di sinistri, vittime e feriti e quindi la necessità di una normativa più aggressiva e deterrente: in particolare un aumento tra il 20% e il 30% di tutte e tre le voci. I dati di riferimento sono corretti, perché effettivamente un aggravio dei numeri è parzialmente confermato dalle rilevazioni seguenti: se nel 2021 gli incidenti stradali erano stati 151.875, nel 2022 sono stati perfino 165.889, mentre il 2023 ha raggiunto la quota di 166.525. L’utilità di questi dati è tuttavia vanificata se si considera l’avvento della pandemia (COVID): il dato più basso di incidenti (118.298) è infatti riconducibile al 2020, durante il quale la libertà di circolazione era stata fortemente compressa. Meno limitazioni, ma comunque significative, nel 2021 (di qui il sensibile aumento statistico). Nel 2022 e nel 2023 si è invece tornati ad una situazione di normalità: questo diverso assetto spiega perciò l’ulteriore aggravamento del 2022 ed il conseguente stazionamento del 2023. Ad avvalorare queste conclusioni, i dati pre-pandemia: 172.553 sinistri nel 2018 e 172.183 nel 2019. Si può concludere dunque che non solo - a parità di legislazione - non si è verificato un aumento, ma si è perfino verificata una diminuzione di incidenti. Ondulamenti analoghi si ravvisano anche per il numero di morti e di feriti. Di qui le conclusioni di chi scrive, per cui nel ddl in questione sarebbe stata perpetrata una narrazione che non rispecchia assolutamente l’andamento reale dei sinistri nel nostro Paese: sorge perciò spontaneo il dubbio sull’effettiva necessità di questo intervento normativo.
Nel ddl presentato dal Ministero, sempre con riferimento ai dati del 2020 e del 2021, viene ammesso che le cause maggiori di incidente stradale rimangano la distrazione, il mancato rispetto della precedenza e la velocità troppo elevata: statistica da considerare corretta ed attuale alla luce dei report Istat 2022 e 2023, all’interno dei quali è affermato che questa egemonia è sempre stata stabile nel tempo,con un valore compreso tra il 35% e il 40% degli incidenti. Tuttavia il ddl procede a considerare come uno dei comportamenti più pericolosi il fenomeno della guida in stato di ebbrezza o in stato di alterazione per l’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope: non si negherà in questo articolo la veridicità di tale affermazione; tuttavia su questo punto vanno fatte delle precisazioni. Le rilevazioni Istat non sono in grado ad oggi di stabilire in maniera completamente esaustiva la percentuale di incidenti legata alle alterazioni psicofisiche, anche a causa della possibilità di rifiuto, da parte dei conducenti coinvolti, di sottoporsi agli accertamenti: si tratta di una mera possibilità e non di un diritto, in quanto detto comportamento integra reato ai sensi dell’art. 186 comma 7 del Codice della strada; tuttavia, qualora vi sia stata opposizione all’esame, non è inviata l’informazione all’Istat, rendendo quindi sottostimata qualsiasi misurazione in merito. I dati disponibili restano dunque in primo luogo (in valori assoluti) le contravvenzioni elevate da Polizia stradale, Arma dei Carabinieri e Polizia locale: per quanto riguarda l’ebbrezza alcolica durante la guida, le contravvenzioni (tra il 2018 e il 2023, periodo pandemico escluso) si aggirano tra le 37-39 mila, con un picco nel 2019 (42 mila); sull’uso di sostanze stupefacenti - sempre durante la guida - il dato - considerando lo stesso periodo - risulta essere in diminuzione, dalle 5 mila del 2018 e alle 4 mila del 2023. In secondo luogo le percentuali - sulla correlazione tra alcol/droga ed incidenti con lesioni - rilevate dai tre suddetti Organi: anche a livello relativo non si registrano scostamenti dalla media. Medesime le considerazioni per quanto riguarda i controlli effettuati indipendentemente dall’occorrenza di un incidente stradale.
Concludendo: è innegabile che la guida in stato di alterazione psicofisica sia un problema di notevole importanza, specialmente durante le ore notturne; tuttavia la narrazione portata avanti dal Ministro proponente risulta essere maggiormente assimilabile ad una battaglia ideologica piuttosto che ad un tentativo di trovare una soluzione, con alcune irragionevoli ripercussioni sull’aspetto normativo.
Nel quadro normativo vigente, la guida in stato di alterazione psicofisica è sanzionata agli artt. 186 (alcol) e 187 (sostanze stupefacenti) del Codice della strada. Le discussioni in merito non sono certamente iniziate alla luce di questa riforma, ma hanno radici ben più profonde: in particolare i punti critici si articolano in primo luogo nel diverso livello di tolleranza e in secondo luogo nella qualificazione penalistica degli illeciti. L’assunzione di alcol è tollerata per tutti gli utenti (e quindi lecita) fino ad un tasso alcolemico di 0,5 grammi per litro, ad eccezione dei neopatentati e dei conducenti di veicoli con massa superiore a 3,5 tonnellate oppure adibiti al trasporto di persone o merci, casi per cui è prevista una sanzione amministrativa pecuniaria; quando il tasso alcolemico è compreso tra 0,5 e 0,8 grammi su litro, il fatto integra illecito amministrativo, con una sanzione pecuniaria maggiore e la sospensione della patente; il fatto si trasforma in reato quando il tasso alcolemico supera 0,8 grammi su litro, sanzionato con arresto e ammenda (sanzioni penali) e sospensione della patente (sanzione amministrativa), con un ammontare ed una durata che variano a seconda che il tasso alcolemico superi o meno gli 1,5 grammi su litro. Per quanto riguarda l’assunzione di sostanze stupefacenti vale invece la famigerata tolleranza zero, per cui il livello di alterazione psicofisica non rileva ai fini della sanzione, che sarà sempre corrispondente a quella per il tasso alcolemico maggiore di 1,5 grammi su litro. I penalisti ravvisano in queste previsioni normative una palese lesione del criterio di ragionevolezza, che sarebbe sanabile soltanto con l'inserimento di uno scaglionamento anche nell’art. 187: oltre che per un fattore meramente politico, la parificazione di trattamento è tuttavia fortemente ostacolata sia dalla maggiore difficoltà di rilevare una soglia tossicologica al di sotto della quale l’utente possa essere considerato idoneo alla guida, sia dalla minore capacità dei test orali (la cui affidabilità è controversa) di escludere o meno l’alterazione psicofisica durante il fatto. In secondo luogo si discute sull’opportunità di continuare a sanzionare penalmente questi comportamenti: non si discute il fatto che l’alterazione psicofisica sia fortemente pericolosa durante la guida, in quanto aumenta in modo rilevante il rischio di incidenti, soprattutto notturni; si tenta di riflettere invece sul fatto che la minaccia dell’arresto o dell’ammenda non riesca in concreto ad assolvere al proprio compito di deterrenza, anche alla luce della possibilità di convertire la pena nel lavoro di pubblica utilità oppure di assolvere l’imputato per particolare tenuità del fatto. Le medesime perplessità sono poste anche dallo stesso ddl: i tempi del procedimento penale e l’incertezza della pena, [...]l’applicazione dell’istituto del lavoro di pubblica utilità [...]la causa di esclusione della punibilità della particolare tenuità del fatto [...] finiscono per incidere sull’operatività dei citati articoli 186 e 187 e [...] sull’efficacia general-preventiva delle sanzioni [...]. Di qui la necessità di scegliere tra la valorizzazione di questi reati - con le conseguenze di gravare ulteriormente sulle carceri e sui tempi processuali - oppure la depenalizzazione in illeciti amministrativi, facendo affidamento sull’effetto deterrente della sospensione della patente. A scanso di equivoci, la depenalizzazione comprenderebbe il semplice fatto di guidare in stato di alterazione psicofisica: eventuali omicidi e lesioni colposi - da ciò derivanti - integrano invero i diversi reati di cui agli artt. 589-bis e 590-bis del Codice penale.
Per quanto riguarda la guida sotto l’influenza di alcol - e quindi l’art. 186 del Codice della strada - le modifiche non riguardano gli illeciti in sé - che rimangono invariati - quanto l’aggiunta di una sanzione ulteriore: l’alcolock. Si tratta di un dispositivo - installato sul veicolo a motore - che ha la funzione di impedirne la marcia qualora il tasso alcolemico del conducente sia superiore ad un livello preimpostato. Prima di illustrare le potenzialità e le criticità dell’alcolock, è necessario analizzare l’intervento normativo: questa sanzione verrà applicata ai condannati dei reati di cui all’art. 186 comma 2 lettere b) e c), cioè gli utenti (che siano ordinari, neopatentati o professionisti) colti alla guida con un tasso alcolemico superiore agli 0,8 grammi su litro. L’obbligo dunque non potrà essere imposto a coloro che non sono stati condannati - in via definitiva - per tali reati. A seguito della condanna, sul retro della patente (sotto alla colonna con il n. 12 facente capo, in corrispondenza della/e categoria/e di patente conseguita/e) verranno apposti i codici unionali 68 e 69: si tratta di indicazioni supplementari o restrittive ed in particolare riportanti le prescrizioni Niente alcol e Limitata alla guida di veicoli dotati di un dispositivo di tipo alcolock conformemente alla norma EN 50436; la permanenza dei codici è di minimo 2 o 3 anni, a seconda che il tasso alcolemico rilevato sia stato minore o maggiore di 1,5 grammi su litro. L’adeguamento della patente ai predetti codici viene effettuato a seguito dell’ordine di revisione della patente di guida: sembra si tratti tuttavia di una revisione tecnica, da distinguere dall’obbligo di visita medica prescritto - sempre dal prefetto - in relazione alla sospensione della patente. Dunque, alla luce della riforma, l’utente della strada, che sia stato colto con un tasso alcolemico compreso tra gli 0,5 e gli 0,8 grammi su litro (illecito amministrativo), sarà obbligato alla sola visita medica conseguente all’ordinanza di sospensione della patente; l’utente che invece sia condannato per i reati (quindi illeciti penali) legati ad un tasso alcolemico superiore, oltre alla visita medica legata alla sospensione della patente, una volta condannato dovrà risultare idoneo anche in sede di revisione tecnica, ai fini dell’adeguamento del documento ai codici.
In cosa consiste effettivamente l’alcolock? Si è anticipato che sia un dispositivo installato all’interno di un veicolo a motore, al fine di impedirne l’accensione nel caso in cui venga superato dal conducente un determinato tasso alcolemico (in concreto: un etilometro fisso), nel qual caso sarebbe - alla luce del nuovo art. 125 - pari a zero grammi su litro (tolleranza zero). In primo luogo è da definire veicolo a motore per cui - secondo la nuova normativa - questa installazione sarebbe obbligatoria soltanto per i veicoli di categoria M (destinati al trasporto di persone ed aventi almeno quattro ruote) ed N (destinati al trasporto di merci ed aventi almeno quattro ruote). In secondo luogo l’installazione dell’alcolock, il cui prezzo si aggira intorno ai 1500 euro, sarebbe da effettuare a spese del conducente (o del proprietario del veicolo su cui il conducente circola). In caso di circolazione su strada con un dispositivo alterato, manomesso, non funzionante o dal quale siano rimossi i sigilli (prescritti al fine di evitare compromissioni del suo funzionamento), l’utente responsabile andrà incontro a varie sanzioni amministrative.
La riforma in questione va accolta positivamente, perché si tratta di un rimedio fortemente vincolante sia per deterrenza sia per prevenzione: inoltre, sebbene la condanna penale sia presupposto per l’installazione del dispositivo, a ben vedere la nuova misura può ritenersi svincolata dalla qualifica di reato, anche in vista di una eventuale futura - anche se molto improbabile - depenalizzazione (basterebbe infatti cambiare il presupposto). Tuttavia sorgono alcune criticità. In primo luogo, per l’attuazione di questo rimedio risulta necessario un ulteriore decreto del Ministero che specifichi quali debbano essere le caratteristiche dell’alcolock, le modalità di installazione e le officine autorizzate: la riforma ha posto un limite temporale - ai fini dell’emanazione - di massimo sei mesi, ma non sarebbe una novità un’inerzia del Ministero in tal senso. Non meno importante il problema che in Italia, come risulta dal Report Acea Vehicles on European Roads del 2024, il parco auto, nonostante sia in linea con la media UE, risulti essere anziano mediamente di 12,5 anni: con questo presupposto è evidente che saranno necessari anni, se non decenni, per raggiungere la compatibilità di tutte le automobili con un’eventuale installazione dell’alcolock; quali obblighi (ed esborsi) dovranno sorgere in capo al conducente nell’ipotesi di incompatibilità? Infine, dubbia è anche la modalità con cui dovrebbe essere assicurata l’effettività della misura: si dovrà fare affidamento sulla buona volontà del singolo o si effettueranno controlli a tappeto (con inevitabili ed ingenti spese pubbliche)? A queste domande non seguono risposte: per evitare che questa misura crolli nel dimenticatoio, saranno necessarie soluzioni esigibili e credibili agli occhi dei consociati.
A questo punto si affronta il punto più critico della riforma: la modifica del reato di guida in stato di alterazione psicofisica per uso di sostanze stupefacenti (art. 187). Emblematica è la soppressione - nella rubrica e nei commi dell’art. 187 - delle parole in stato di alterazione psicofisica. La conseguenza ovvia è che il nuovo reato sarà quello di guida dopo l’assunzione di sostanze stupefacenti: dunque, non solo continua a non rilevare il livello di alterazione psicofisica, ma addirittura neppure rileva se in quel momento vi sia effettivamente o meno una qualche alterazione. Il motivo di tale scelta è da ricondurre alle difficoltà operative riscontrate nella contestazione dell’illecito della guida: dato che la Cassazione ha ribadito nel 2015 che - ai fini della condanna penale - debba essere provata non solo l’assunzione delle sostanze, ma anche che la guida materiale sia avvenuta in stato di alterazione (di qui la necessità assoluta di una visita medica che lo accerti), la maggioranza parlamentare avrebbe voluto facilitare il compito probatorio dell’accusa, rimuovendo il secondo elemento. Necessità che la stessa maggioranza non ha riscontrato invece per quanto riguarda l’ebbrezza alcolica, in quanto sufficiente la prova del superamento di uno dei predetti tassi alcolemici. Questo diverso onere probatorio richiesto dai giudici è imputabile al fatto che la positività delle analisi tossicologiche - a differenza dell'ebbrezza - non fornisce piena prova di un’alterazione nel momento della guida, ma soltanto di un pregresso uso delle sostanze, che si convertono, diverse ore dopo l’assunzione, in metaboliti inattivi. Di qui la futura soluzione parlamentare - piuttosto discutibile - di ritenere sufficiente la mera assunzione di sostanze: nelle motivazioni di cui al ddl, le tutele elaborate dai tribunali non vengono infatti viste nella chiave di non colpevolizzare un imputato lucido durante l’atto della guida, quanto in un perdòno di condotte particolarmente pericolose per l’incolumità pubblica. Questo atteggiamento rinunciatario da parte della maggioranza parlamentare si rinviene anche nella decisione di sopprimere il decreto attuativo - fantasma - del Ministero: nella riforma nel 2010 del Codice della strada, all’art. 187 comma 2-bis era prevista l’emanazione - entro 60 giorni - di un decreto attuativo, che avrebbe dovuto introdurre il cosiddetto drogometro, con l’obiettivo di effettuare rilevazioni più puntuali; questo dispositivo ad oggi, a distanza di 14 anni, non è stato ancora inventato e il decreto mai emanato: in data 14 dicembre si ufficializza perciò la rinuncia ad individuare un sistema affidabile.
Cosa cambia per quanto riguarda i controlli? Prima della riforma, la sottoposizione dei conducenti ad accertamenti clinico-tossicologici o analitici su campioni di mucosa del cavo orale poteva essere compiuta soltanto a cura del personale sanitario ausiliario delle forze di polizia; qualora non fosse stato possibile, gli agenti avevano l’obbligo di accompagnare il conducente presso strutture sanitarie. A seguito della riforma invece sono gli stessi agenti di polizia ad essere autorizzati al prelievo dei campioni di fluido (che sembra essere più economico del corrispettivo su mucosa) del cavo orale: l’autorizzazione deriva dall’esito positivo degli accertamenti preliminari non invasivi (gli unici fino ad oggi permessi alle forze dell’ordine) oppure quando vi sia ragionevole motivo di ritenere che il conducente del veicolo si trovi sotto l’effetto conseguente all’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope. Alle strutture sanitarie spetta ormai la mera analisi dei campioni (oppure il prelievo ma soltanto quando questo non sia stato possibile nel luogo di elevamento). Procedure analoghe si effettuano in caso di incidenti. Infine, nel caso in cui l’accertamento richieda più tempo, gli organi di polizia possono disporre il ritiro della patente per un massimo di 10 giorni, come fosse una sorta di presunzione di pericolosità.
Vi sono d’altra parte conseguenze anche nelle ipotesi in cui gli accertamenti più approfonditi - del cavo orale o sanitari - non fossero possibili: sempre in una chiave di presunzione di pericolosità, si farebbe affidamento sui soli accertamenti del comma 2, cioè su quelli preliminari e non invasivi, tutt’altro che affidabili, il cui esito positivo in teoria sarebbe utile ai soli fini di procedere ad esami più precisi (ed invasivi). I controlli del comma 2, in questo caso, attribuirebbero di per sé il potere agli organi di polizia di vietare al conducente la conduzione del veicolo, imponendo il trasporto dello stesso presso la più vicina autorimessa. Inoltre, a prescindere dall’esistenza o meno degli accertamenti più approfonditi (dunque è sempre sufficiente la base del comma 2), il prefetto ordina la sottoposizione a visita medica, il cui esito negativo comporta la revoca della patente, oltre al divieto di conseguire una nuova patente prima di tre anni dal provvedimento di revoca. Infine la sanzione per cui al conducente minore di ventuno anni, nel momento in cui siano accertati (non è necessaria quindi a tal fine la condanna) i reati di guida dopo l’assunzione di sostanze stupefacenti o di rifiuto di sottoposizione agli esami di accertamento, è fatto divieto di conseguire la patente prima del ventiquattresimo anno di età.
Si può concludere che non sia assurdo qualificare tutte queste modifiche dell’art. 187 come persecutorie di una certa fascia della popolazione. Si tratta di misure che sanzionano irragionevolmente i consociati sia a livello penale che amministrativo, senza che ci sia stato un apprezzabile aumento degli incidenti a ciò imputabile. Si comprendono le difficoltà di raggiungimento della prova, ma è inaccettabile - in un sistema democratico come il nostro - che una mancanza dello Stato ricada totalmente sui cittadini. Sarebbe perciò auspicabile un intervento della Corte costituzionale.
]]>Secondo Salvini, Unicredit è una banca straniera visto chi ne detiene il capitale.
Guardando ai dati forniti dalla stessa Unicredit, il suo capitale in effetti è detenuto in misura determinante da soggetti esteri (1):
]]>Ma andiamo con ordine.
Premessa: Servizio Civile Nazionale è difesa della Patria? Sì, parola di Costituzione.
Articolo 52, comma 1 della Costituzione italiana:
La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino
Senza esigenza di completezza su un tema giuridico pluridecennale come quello dei rapporti tra il dovere di difesa, il servizio militare, l’obiezione di coscienza ed il servizio civile, chi afferma che citare tale articolo della Costituzione sia un’azione sconsiderata, ovvero espressione della peggio retorica, è ideologicamente accecato: il concetto di difesa della Patria include anche il Servizio Civile (1).
Il significato di “difesa della Patria” si è evoluto nel corso del tempo, assumendo un significato che non si esaurisce nell’impegno militare, ma si declina anche in quello sociale non armato costituito da attività personali di solidarietà verso la comunità, agendo non solo in via coattiva ma anche spontanea.
Corte Costituzionale, legislatore e dottrina hanno portato avanti nel tempo un’azione che si fonda sul legame tra l’art. 52 e l’art. 2 della Costituzione, in forza della quale si è passati dall’originaria visione di “dovere inderogabile di solidarietà politica”, a quella ulteriore dei doveri di solidarietà economica e sociale, un principio guidato anche dalla volontarietà e che mira alla collaborazione di tutti i cittadini per perseguire beni comuni fondamentali, realizzando quella uguaglianza sostanziale prevista dall’art. 3 della Costituzione.
Ma se dunque il Servizio Civile – come precisato nella legge delega di riforma 106/2016 – è finalizzato alla difesa non armata della patria e alla promozione dei valori fondativi della Repubblica, questo non vuol dire che ogni iniziativa ad essa riconducibile sia in tal senso meritevole.
E lo SCAG, ne è il perfetto esempio.
Lo SCAG: si sta deviando dallo scopo del Servizio Civile Universale?
Sono due i presupposti di partenza:
Se dunque lo SCAG non novella in alcun modo quanto sancito dalla legge di riferimento, cosa vi sta di diverso? Quali sono i problemi? Essenzialmente due.
Il primo è la gestione del progetto, che diventa più complessa.
Lo SCAG non è infatti nelle mani di un solo ministero, bensì è figlio della collaborazione tra il dicastero di Abodi (Sport e Giovani) e quello di Lollobrigida (Agricoltura, Sovranità Alimentare e Foreste), con quest’ultimo ad inserirsi provocando uno spacchettamento per categorie di servizio.
Il secondo è l’ambiguità delle attività previste dal Protocollo d’Intesa (3).
Questo è un Programma quadro sperimentale di 3 anni attuato mediante bando a cui potranno accedere gli enti iscritti all'albo del Servizio Civile (tra i quali la Coldiretti).
Quali sono le finalità perseguite?
Tralasciando la parte delle Premesse dedicata al ruolo del Servizio Civile come processo formativo per i giovani operatori volontari, il Protocollo si rifà ai principali obiettivi dell’Agenda delle Nazioni Unite 2030 per lo sviluppo sostenibile, dei quali – nell'ispirare il Piano triennale 2023-25 del Servizio Civile – sono qui considerati ad esempio:
Finalità certamente importanti che vengono declinate in programmi d’intervento sul territorio nazionale (art. 3 comma 3), da dove sorge il problema dell’ambiguità.
Se nel programma originario del Servizio Civile si fa di fatto riferimento all’agricoltura sociale, cioè un’attività di inclusione ed educazione (per esempio su temi come economia circolare ecc), nel Protocollo dello SCAG si prevede attività che spaziano da tali ambiti fino ad arrivare alla promozione di prodotti agricoli nel contesto di eventi, inserendo così la possibilità di finalità commerciali che nulla hanno a che vedere con lo scopo del Servizio Civile Universale.
Lo SCAG e la realtà: tra fondi e rilevanza del settore agricolo
Alla luce di ciò, possiamo fare due ulteriori considerazioni, a decorrere dai fondi impiegati.
Per un anno di attività, l’attuale bando del Servizio Civile prevede (4) un assegno mensile di 507,30 euro e, per lo SCAG, il protocollo tra i Ministeri prevede un finanziamento complessivo (diviso a metà tra i due) di 7 milioni, cifra che:
E tale impiego di fondi, si inserisce sullo sfondo di un’agricoltura i cui dati sono chiari (5):
A Settembre 2024 il mercato del lavoro ha presentato un tentennato rallentamento, mostrando -0,3% di occupati rispetto al mese antecedente e soprattutto interrompendo il positivo trend registrato negli ultimi trimestri. Calano principalmente lavoratori dipendenti permanenti e a termine, con gli autonomi tendenzialmente stabili. Lo stesso tasso di occupazione scende al 62,1%, perdendo 0,2 punti percentuali rispetto al mese di Agosto.
Su base annua il mercato del lavoro rimane comunque in netta crescita, con un incremento di 301.000 occupati.
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La carriera politica
La carriera politica di Craxi è una combinazione di successi, controversie e scandali. Giunto a divenire leader del Partito Socialista Italiano (PSI) e Presidente del Consiglio dei Ministri, già da bambino fu a stretto contatto con la politica(1) , prendendo la tessera del PSI a 17 anni.
La sua crescita nel partito fu graduale e costante, maturando un peso politico che lo porterà a divenire prima assessore al comune di Milano, poi segretario provinciale di partito, venendo eletto deputato del collegio Milano-Pavia nelle elezioni del 1968, secondo a preferenze solo a Pietro Nenni. (Craxi, pag. 75)
Se tale elezione evidenziò il suo controllo del PSI milanese, a livello nazionale era considerato come una figura di scarso peso, un giudizio che non cambiò neanche quando venne nominato vicesegretario del partito (1970). Una valutazione che gli spianerà la strada per diventarne il segretario nel 1976, nel periodo di crisi del centrosinistra.
Gli anni del segretariato di Craxi si caratterizzano per i molteplici cambiamenti alla struttura del partito all’interno di un periodo storico complesso che vedrà la discesa di consensi della Democrazia Cristiana e la nascita del pentapartito, giungendo a divenire il secondo Presidente del Consiglio nominato al di fuori dell'ambito della Democrazia Cristiana nel 1983.
Tra i cambiamenti più importanti va certamente segnalata la svolta anticomunista, una novità non figlia della contingenza ma di una scelta maturata anni prima, visto che già nel 1966 si dichiarava convinto di come “ai socialisti unificati spettasse il compito di intervenire positivamente nella crisi che travaglia molte forze di sinistra, rifiutando seccamente le tradizionali formulazioni frontiste propagandistiche e pseudo unitarie tipiche del comunismo togliattiano e posttogliattiano, ma promuovendo le chiarificazioni, le demistificazioni, sollecitando una presa di coscienza delle reali prospettive di trasformazione della società italiana”. (B. Craxi, Problemi del Socialismo, in ID., Socialismo e realtà, Milano, Sugar, 1973, pp 45-46) e (Craxi, Musella, p.66).
Per cosa si caratterizzarono gli anni del craxismo?
Craxi portò una novità sostanziale all’interno della politica italiana: la sua capacità di essere protagonista gettò le basi di quello che oggi conosciamo come leaderismo, l’atteggiamento di supremazia tipico degli accentratori e dei capi di partito.
Craxi è stato probabilmente il primo leader ad identificarsi con una classe dirigente e ancora oggi viene ricordato come un decisore, un accentratore, una persona di pugno e di grande piglio.
A esempio di ciò si è soliti richiamare la lotta intrapresa contro l’inflazione, che giungerà all’approvazione del contestato decreto di San Valentino del 1984 sulla scala mobile, un evento che però di fatto è stato più uno spettacolo politico che una misura d’effetto sull’inflazione (vedasi infra).
Un leaderismo che si pone a sfondo di due tumori il cui prezzo tuttora paghiamo.
Il primo fu la corruzione e il finanziamento illecito dei partiti, che in quegli anni trovano la loro massima espressione. Un sistema criminale autoalimentante mai disconosciuto dallo stesso Craxi e per il quale si è sempre pilatescamente assolto dalle sue responsabilità con il noto “lo facevamo tutti”. Nel suo ultimo discorso alla Camera (3 luglio 1992) lo stesso Craxi disse: “Ciò che bisogna dire, che tutti sanno del resto è che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale...Se gran parte di questa materia, deve essere considerata materia puramente criminale, allora, gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale”
Il secondo tumore fu invece la disastrosa gestione dell’economia, che a fronte di una stabilità politica priva di precedenti aprì il baratro dei conti pubblici nel quale tutt’oggi stiamo cadendo.
Il costo economico di Craxi: l’esplosione della spesa pubblica e del debito pubblico, l’aumento della pressione fiscale, la menzogna del merito della disinflazione
Nel comune parlare è molto diffuso il mito secondo il quale gli anni ‘80 siano stati un decennio di benessere, gli anni senza crisi, dei mondiali del 1982 e della Milano da bere.
Se non fosse che quel “bere”, quel “benessere”, era figlio delle più becere illusioni: la crescita degli anni ‘80 era infatti drogata da una combinazione di svalutazione, debito pubblico e artifici contabili.
E particolare attenzione va proprio data al debito pubblico, il quale negli anni ‘80 ha la sua esplosione sotto l’egida dei governi di Craxi, passando dal 62,6% nel 1982 all’ 84,1% nel 1986 (2)
]]>Il metodo più utilizzato dai sondaggisti per costruire una proiezione di voto rappresentativa del risultato finale delle elezioni è il campionamento casuale: gli analisti estraggono randomicamente un gruppo di partecipanti da liste telefoniche e/o postali, oppure conducendo sondaggi online, e li sottopongono ad un questionario(1). Per evitare di sovrarappresentare alcuni gruppi demografici e sottorappresentarne altri, i pollster intervengono con un processo di aggiustamento statistico, detto weighting (ponderazione), correggendo il campione sulla base di fattori come età, etnia, genere, livello di istruzione e provenienza geografica dei suoi membri. Il concetto alla base è molto semplice: non è necessario collezionare le informazioni di tutti i votanti per farsi un’idea precisa delle tendenze politiche della popolazione generale, ne basta un campione. Tuttavia, gli ostacoli che si interpongono all’esattezza dei rilevamenti statistici sono molteplici e, come vedremo, inevitabili.
Il primo ostacolo alla costruzione di un campione di voto affidabile ed equilibrato è strettamente legato all’indisponibilità degli elettori ad essere interpellati: la proliferazione negli ultimi anni di messaggi e chiamate spam ha fatto sì che pochissime persone rispondano ai sondaggi quando non sollecitate. Secondo quanto riportato da UPI, per raccogliere 1.000 risposte, i sondaggisti effettuano più di 20.000 chiamate(2), talvolta accusando il “bias di risposta non partigiana”: un fenomeno per cui i risultati di studi sociologici diventano non rappresentativi perché i partecipanti possiedono in modo sproporzionato determinate caratteristiche che invalidano il risultato dell’indagine, siano queste politiche o demografiche. Nel contesto delle Presidenziali statunitensi, i Repubblicani risultano meno inclini dei Democratici a partecipare ai sondaggi, complice il calo di fiducia tra i conservatori nelle organizzazioni giornalistiche e nelle stesse agenzie di indagine statistica. Specularmente, gli elettori più inclini a compilare i sondaggi online sarebbero i giovani democratici, come riportato dal sondaggista James Johnson al Times of London.
Un’altra sfida significativa consiste nel prevedere chi, tra gli individui selezionati, manterrà la propria parola presentandosi al seggio, tenendo a mente che circa un terzo dei cittadini statunitensi idonei non vota e che gli individui presi in considerazione potrebbero mostrare il bias di risposta per desiderabilità sociale: un fenomeno per cui gli intervistati che non voteranno affermano il contrario, ritenendo la risposta accondiscendente più socialmente accettabile; per gli stessi motivi, rilasciano dichiarazioni false su chi hanno votato alle elezioni precedenti. In questo caso, la desiderabilità sociale peggiora l’accuratezza già precaria del metodo di ponderazione del “voto di richiamo”, ovvero l’integrazione alle risposte degli intervistati delle preferenze elettorali che questi hanno espresso quattro anni prima. Anche nell’ipotesi idealistica di poter ottenere la massima onestà dalle dichiarazioni dei membri del campione, la morfologia generale dell’elettorato di un partito e dell’altro evolve significativamente da un’elezione all’altra: gli elettori deceduti vengono sostituiti dai giovanissimi, spesso difficili da quantificare; inoltre, nel contesto di una Federazione di Stati come gli Stati Uniti d’America, molti cittadini migrano internamente, cambiando, talvolta in modo imprevedibile, gli equilibri assodati nella distribuzione geografica delle preferenze, anche dove queste sono storicamente più omogenee(3). Lo sforzo dei sondaggisti è duplice: non solo è fondamentale includere nei campioni percentuali realistiche per ciascuna categoria di elettori: è cruciale individuare gli “elettori giusti”.
]]>La vita lenta è spesso idealizzata come uno stile di vita autentico, sostenibile e ricco di significato (1)(2), ma questa visione cela profonde contraddizioni. Paradossalmente, ciò che viene celebrato come un ideale di semplicità e connessione alla natura è, in realtà, la condizione che caratterizza soprattutto molte aree del Mezzogiorno: territori a vocazione agricola, con bassi livelli di produttività, poche opportunità e gravi problematiche socio-economiche.
Questa retorica romantica finisce per nascondere le difficoltà reali che, seppur diffuse a tutto il Paese, colpiscono maggiormente queste zone, come lo spopolamento, l’invecchiamento, la mancanza di infrastrutture ed il limitato accesso al lavoro, specialmente per i giovani. Continuare a venerare questo stile di vita non farà altro che peggiorare la qualità della vita ed abbassare gli standard di sviluppo anziché affrontare le vere sfide che affliggono il Sud Italia. La narrazione della vita lenta, per quanto attraente, rischia di trasformarsi in una "coperta" che copre problemi urgenti anziché risolverli.
Fatta eccezione per il 2020 a causa del COVID, i dati forniti dall’Istat(1) ci indicano un interscambio fra Italia e Stati Uniti in crescita e a nostro favore:
]]>Questo articolo della riforma - il 32 - non esisteva al momento della presentazione del disegno di legge, ma è stato inserito in corso d’opera dalla maggioranza parlamentare. La disciplina vigente in materia di comunicazioni elettroniche è contenuta all’interno del d.lgs. 259/2003. Per effetto di questo disegno di legge, all'art. 30 verrebbe aggiunto il comma 19-bis e poi sarebbe inserita una frase all’interno dell’art. 98-undetricies: è in quest’ultimo articolo che la legge attualmente impone alle imprese di telefonia mobile l’obbligo di identificare gli utenti che vogliano acquistare una scheda elettronica (S.I.M.). Con la riforma, qualora l’utente non fosse cittadino di uno Stato dell’UE, gli verrebbe richiesto anche il rilascio di una copia del titolo di soggiorno: in caso di inadempimento, l’impresa sarebbe impossibilitata a rilasciare la scheda elettronica. A pagare le conseguenze di eventuali contravvenzioni al divieto sarebbe l’impresa stessa alla quale verrebbe inflitta una pesante sanzione amministrativa pecuniaria, nonché una pena accessoria di chiusura dell’attività per un periodo da 5 a 30 giorni.
La riforma in questione è piuttosto singolare, tuttavia presenta numerose insidie. La ratio che sta dietro a questo ulteriore onere identificativo è da ricondurre al tentativo di ostacolare le organizzazioni criminali, le quali si servono talvolta di stranieri irregolari per svolgere compiti da manovale, riconducibili ad operazioni commerciali sommerse - e quindi illegali: è valutazione della maggioranza che attualmente siano le stesse imprese a facilitare - ovviamente in modo incolpevole - le comunicazioni all’interno dei piani bassi delle organizzazioni, proprio fornendo le S.I.M. Il divieto troncherebbe perciò a monte la presunta fonte di questo rifornimento. D’altra parte l’impatto che questa riforma avrebbe sulla libertà di comunicazione, tutelata dall’art. 15 della Costituzione, non è da sottovalutare. Verrebbe infatti in essere una disparità di trattamento tra cittadini dell’UE e cittadini stranieri. È necessario dunque verificare in primo luogo se questa privazione di libertà sia o meno giustificata dalla lotta ai commerci illeciti; in secondo luogo se la misura proposta sia effettivamente idonea allo scopo. A sentire le accese polemiche da parte delle opposizioni, è molto probabile che - in caso di entrata in vigore del ddl - su questo argomento verrà chiamata a pronunciarsi la Corte costituzionale.
Gli artt. 26 e 27 del disegno di legge verranno trattati insieme per comunanza di tematiche. A causa dei problemi di sovraffollamento e di degrado che affliggono sia i centri di detenzione per i carcerati che le strutture di trattenimento e accoglienza per i migranti, negli ultimi tempi sono aumentate le attività sovversive e le rivolte degli internati a danno delle autorità addette alla sorveglianza.
Non si mette in discussione il fatto che qualsiasi atto che possa compromettere l’ordine all’interno degli istituti detentivi debba essere bloccato e sanzionato a dovere, così come non si può negare la necessità di tutela delle forze pubbliche di sorveglianza. Tuttavia è vitale essere consapevoli del fatto che il diritto penale non sia l'unica risposta alle criticità: è sensata l’introduzione di nuovi reati (o l’aggravamento delle pene), ma soltanto nel momento in cui a queste misure ne vengano affiancate altre, dirette ad agire (non a valle ma) a monte della disfunzionalità. L’inasprimento del diritto penale avrà perciò la sua utilità nel breve
periodo, con la propria sfumatura intimidatoria; a medio e a lungo termine invece si deve intervenire in senso opposto sui reati meno gravi, riducendo in primo luogo il carattere carcero-centrico della pena e in secondo luogo ricorrendo ad un utilizzo più frequente delle sanzioni civili e amministrative. Il panpenalismo, al contrario, avrà la sola funzione di cura palliativa, con il preoccupante effetto collaterale - oltre ad aggravare i sovraffollamenti - di aumentare i processi e, conseguentemente, allungarne ancora maggiormente i tempi.
Tornando alla riforma, l’art. 26 inserisce una circostanza aggravante nell’art. 415 del Codice penale, rubricato Istigazione a disobbedire alle leggi: La pena è aumentata se il fatto è commesso all’interno di un istituto penitenziario ovvero a mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone detenute. Il significato letterale è molto chiaro, il senso dell’intervento molto meno: questo articolo del Codice è da decenni fonte di discussioni tra i tecnici del settore, culminate nel 1978 con una pronuncia di incostituzionalità parziale da parte di una - perfino timida - Corte costituzionale. Le ragioni delle perplessità sono da ricondurre alla parola leggi nella rubrica dell’articolo. Cosa si intende con questo termine? Certamente non si può intendere “leggi penali”, perché in quel caso verrebbe applicato un altro articolo, ovvero il 414. Quindi si dovrà far riferimento alle altre leggi: ha senso dunque punire penalmente l’istigazione a disobbedire a leggi amministrative e civili? Non molto. Se già quindi il reato base è poco ragionevole, ancora meno può esserlo l’aggravante dell’art. 26.
Più significativo l’inserimento dell’art. 415-bis: una fattispecie inedita per punire la rivolta in carcere. In questo caso, ha scatenato molte discussioni l’inclusione - tra le condotte rilevanti - della resistenza passiva, che, in quanto tale, di per sé non sarebbe abbastanza pericolosa da essere meritevole di punizione. Tuttavia, è opinione di chi scrive che bisogna sempre considerare il contesto: il termine rivolta presuppone un gruppo più o meno consistente di individui; a maggior ragione in un carcere, dove le condizioni del luogo sono purtroppo spesso degradanti per il condannato, è molto probabile che l’idea di una rivolta acquisisca molta popolarità tra i detenuti. Non è perciò assurdo affermare che, nel marasma generale, anche una condotta passiva possa essere di forte intralcio a chi deve sedare una rivolta. In più, se si osserva con attenzione la formulazione della norma, il giudice deve sanzionare la resistenza passiva solo quando impedisc[e] il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza, avendo avuto riguardo del numero dei rivoltosi e del contesto spazio-temporale. Quindi una condotta passiva non idonea ad ostacolare gli atti d'ufficio non potrà essere punita dall'art. 415-bis.
Non devono infine spaventare le aggravanti legate alla morte e/o lesione grave o gravissima non volute: da decenni è ormai pacifico (come si può notare dal simile reato di rissa) che per imputare un omicidio e una lesione non voluti è necessaria quanto meno una rimproverabilità riconducibile alla colpa, intesa come mancata diligenza del soggetto agente. Perciò, se dalla rivolta deriva la morte di un soggetto, difficilmente potrà esserne imputato il rivoltoso che si è limitato a porre una resistenza passiva, a meno che nel concreto il giudice non vi ravvisi una colpa o contributo effettivi. Sull’art. 27, che estende lo stesso reato alle strutture di trattenimento per i migranti, si facciano le medesime considerazioni.
Per ragioni umanitarie, il nostro ordinamento prevede un sistema differenziato - rispetto al comune condannato - dell’esecuzione di una pena detentiva per le donne in stato di gravidanza o con prole di età inferiore a tre anni. L’art. 146 del Codice penale infatti obbliga il giudice a rinviare l’esecuzione della pena quando il condannato sia una donna incinta o con prole di età inferiore a un anno. L’art. 147 dà invece il potere al giudice di rinviare l’esecuzione della pena quando il condannato sia una donna madre avente prole di età inferiore a 3 anni. Con la riforma, il primo sottoinsieme verrebbe abrogato e spostato all’art. 147: si avrebbe, perciò, in tutti e tre i casi un rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena. Verrebbero inoltre aumentate le cause di revoca del provvedimento di rinvio: oltre alle ipotesi oggi previste - quali morte, abbandono o affidamento a terzi del figlio oppure decadenza dalla responsabilità genitoriale - verrebbe aggiunta la situazione in cui durante il periodo di differimento, [la madre] pon[ga] in essere comportamenti che causano un grave pregiudizio alla crescita del minore. Inoltre, sempre per effetto della riforma, se il giudice dovesse ravvisare il pericolo di commissione di ulteriori delitti, sarebbe obbligato a negare il differimento: in questo caso, se la donna dovesse essere incinta o con prole di età inferiore a un anno, sarebbe obbligatorio allocarla in un istituto a custodia attenuata per detenute madri; se la prole fosse di età inferiore a 3 anni, la stessa collocazione sarebbe facoltativa.
Se la riforma ha certamente il merito di restituire una certa flessibilità all’ordinamento, tuttavia farebbe ricondurre una decisione così importante - come il rapporto madre-figlio neonato/nascituro - ad un singolo organo, quale il giudice, anziché alla volontà popolare del Parlamento. Inoltre, una valutazione sul futuro criminoso della donna potrebbe portare a negare il beneficio alle fasce sociali più esposte alla criminalità quotidiana. Quindi, un’arma a doppio taglio.
L’art. 13 del disegno di legge prevede alcune modifiche al d.l. 14/2017, il cui articolo 10 sviluppa la tematica del Daspo urbano, cioè del divieto di accesso a determinati luoghi per alcuni soggetti: la ragione di questa prescrizione sta nel fatto che in certi casi il mancato impedimento di accesso aumenterebbe la possibilità di pericolo per la sicurezza urbana. I luoghi all’interno dei quali è rilevante il divieto all’accesso, di cui all’art. 10, sono elencati all’art. 9 dello stesso decreto: aree interne delle infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, e delle relative pertinenze.
Per comprendere l’entità del futuro intervento normativo, bisogna prima comprendere la disciplina vigente. Il divieto di accesso richiede tre elementi, due dei quali necessari ed uno eventuale: come primo, la possibilità di pericolo per la sicurezza, intesa quest’ultima parola in senso restrittivo e quindi associata ad un concreto pericolo di commissione di reati; poi il compimento reiterato - e quindi adottato almeno due volte - di una delle condotte di cui all’art. 9: impedi[re] l'accessibilità e la fruizione delle predette infrastrutture oppure manifestare l’ubriachezza in luogo pubblico o aperto al pubblico o ancora (sempre in pubblico) compiere atti contrari alla pubblica decenza - e altri ancora. L’elemento eventuale è, invece, un presupposto, quale la condanna (definitiva o anche di appello) ad un reato - contro la persona o il patrimonio - entro i 5 anni precedenti il compimento della condotta. Si tratta di un’eventualità perché serve semplicemente ad aumentare la durata del Daspo: se manca il presupposto, il divieto può essere di massimo 12 mesi; in caso contrario, da 12 mesi a 2 anni.
La riforma manterrebbe identico questo schema. La modifica consisterebbe in un’aggiunta particolare: affinché il questore possa disporre il Daspo, sarebbe necessaria e sufficiente una semplice denuncia o condanna (anche non definitiva) - nei 5 anni precedenti - per un qualsiasi reato contro la persona e per alcuni reati contro il patrimonio. Se questo presupposto (la denuncia o condanna non definitiva) fosse di per sé veramente sufficiente, vorrebbe dire che - in presenza dello stesso - gli elementi spiegati in precedenza (la possibilità di pericolo per la sicurezza e il compimento di una delle condotte dell’art. 9) non sarebbero più necessari. Tuttavia, alla luce della recente pronuncia della Corte costituzionale n. 47/2024, il Daspo urbano vigente si può considerare costituzionalmente orientato soltanto se si valorizza il nesso di pericolosità. Chi scrive è perciò dell'idea che, nell’aggiunta della riforma, affinché questa non sia palesemente incostituzionale, oltre al presupposto della denuncia sia anche necessaria una valutazione della concreta pericolosità. Dunque è da considerare erronea - in quanto costituzionalmente illegittima - la lettura secondo la quale sarebbe sufficiente la sola denuncia.
Di qui, lo scenario finale: se il soggetto non è denunciato o condannato per i reati sopra citati, oltre al nesso di pericolosità serve anche il compimento della condotta dell’art. 9 (con un Daspo di massimo 12 mesi); se il soggetto è denunciato o condannato (non in via definitiva) per i reati sopra citati, basta il semplice nesso di pericolosità, anche senza aver adottato la condotta dell’art. 9 (con un Daspo di massimo 12 mesi); se il soggetto, oltre a soddisfare il nesso di pericolosità, ha compiuto la condotta e in più è condannato in via definitiva o anche in appello, il Daspo sarà da 12 mesi a 2 anni.
L’art. 25 della riforma prevede una serie di modifiche al Codice della strada, in particolare all’art. 192. Nell’articolo si può individuare una serie di obblighi e poteri: al comma 1, l’obbligo di fermarsi all’invito dei funzionari, agenti o ufficiali; al comma 2, l’esibizione della carta di circolazione e della patente di guida; al comma 3, i poteri delle autorità di ispezionare il veicolo, di impedire la marcia per difetti o irregolarità dell’illuminazione o dei pneumatici, di ordinare l’arresto ai veicoli sprovvisti di mezzi antisdrucciolevoli (es. i pneumatici invernali); al comma 4, il potere per le autorità di formare posti di blocco per arrestare i veicoli che non si fermino nonostante l’ordine intimato con segnali idonei; infine al comma 5, l’obbligo di ottemperare alle segnalazioni del personale militare nei casi individuati dalla legge.
Quello che interessa è che attualmente è prevista una sanzione amministrativa pecuniaria (da 87 a 344 euro) per le violazioni di cui ai commi 1, 2, 3, 5; un’altra sanzione amministrativa pecuniaria (da 1362 a 5456 euro) per la violazione di cui al comma 4. Con la riforma si avrebbe un leggero aumento delle sanzioni pecuniarie ma con tre regimi differenziati: meno severo per i commi 2, 3, 5; poco più elevato per il comma 1 (se recidivo nel biennio, accessoriamente la sospensione della patente fino a 1 mese); il più severo è previsto per il comma 4, a cui però si segnala l’aggiunta della sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente (da 3 mesi a 1 anno). Per quanto riguarda la decurtazione dei punti: restano 3 nei casi dei commi 2, 3, 5; aumentano a 5 per il comma 1 (10 se recidivo nel biennio); restano 10 per il comma 4.
]]>I lavori della COP28 sono iniziati basandosi su due questioni. Primo: la progressione degli obiettivi nel quadro degli accordi di Parigi è stata lenta negli anni. Secondo: durante la COP27 del 2022 era stata affrontata la questione adattamento ai cambiamenti climatici, analizzando i temi della mitigazione, finanziamento dei paesi più vulnerabili e collaborazione con condivisione del know-how anche tecnologico (3).
La COP 28 ha avuto come obiettivo quello di definire le modalità per velocizzare la lotta contro il cambiamento climatico attraverso tre pilastri fondamentali: riduzione delle emissioni, incremento della resilienza nei confronti dei cambiamenti climatici e sviluppo del supporto finanziario e tecnologico soprattutto per i paesi in via di sviluppo (1).
Da questo sono derivate una serie di documenti finalizzati alla transizioni e all'emancipazione dai fossili “iniziando la fine dell'era dei combustibili fossili” (4).
Uno dei temi centrali è stato il bilancio globale (global stocktake - GST) ovvero una revisione a medio termine dei progressi che gli stati membri hanno fatto verso gli obiettivi degli accordi di Parigi (5). L'analisi della situazione e del ritardo sulla tabella di marcia hanno portato i negoziatori a convergere su alcuni punti fondamentali come: riduzione rapida e sostenuta dell'emissione dei gas serra (attraverso l'abbandono dei combustibili fossili in modo giusto, ordinato ed equo); triplicare la capacità globale di energia rinnovabile (obiettivo 11.000 GW); raddoppiare il tasso annuale di efficientamento energetico entro il 2030; ridurre le emissioni di gas serra diversi dalla CO2 (in particolare il metano) (5).
La COP28 ha indicato la necessità di una accelerazione negli sforzi verso un "phase-down" (quindi non phase-out ma "riduzione graduale") dell'energia da carbone e dei "inefficient fossil fuels subsidies" ovvero nella eliminazione graduale dei sussidi inefficienti ai combustibili fossili. (6).
La firma del documento sul Global Stocktake è considerata un risultato storico (7) e c'è di più: per la prima volta è stato inserito all'interno di un documento COP il termine "carburanti fossili". Da ciò deriva la dichiarazione che con COP28 "è iniziata la fine dell'era dei combustibili fossili" e che dovrà portare - se perseguita - alla neutralità climatica entro il 2050.
Come riportato da alcune fonti, sembra che un ruolo importante nell'inserimento dei combustibili fossili all'interno del documento definitivo sia stato giocato dall'europa che ha spinto ad una modifica della penultima bozza. Viene pertanto considerato come segno di una vittoria del multilateralismo e della diplomazia europea (8).
Rimangono tuttavia una serie di questioni aperte che hanno generato critiche: quali tempistiche per la "fuoriuscita" dai combustibili fossili? Quali obiettivi in termini quantitativi? con quali tecnologie?. Le prime due domande non hanno visto risposte certe. Per l'ultima, il documento ha introdotto una tassonomia delle fonti da utilizzare in tal senso, ponendo come prioritarie il solare, l'eolico e le batterie. Nucleare, cattura e stoccaggio di carbonio e idrogeno sono invece state considerate di minor peso (7), cosa che ha portato a sollevare alcuni dubbi al riguardo.
Da qualche anno non si parla di una sola crisi bensì di "triplice crisi planetaria", dovuta rispettivamente a cambiamento climatico, inquinamento dell'aria e perdita di biodiversità (9). L'obiettivo della COP28 è stato quello di sviluppare una progettualità volta a combattere il cambiamento climatico in modo "olistico" agendo anche sulla conservazione della natura.
Dalla conferenza è scaturita la necessità di conservare, proteggere e restaurare la natura e gli ecosistemi, attraverso riduzione di degradazione e deforestazione, auspicando in un'inversione del trend entro il 2030 e nell'obiettivo di aumentare la capacità naturale di smaltimento della CO2.
Pertanto i vari paesi dovranno tenere conto degli ecosistemi, della biodiversità e dei carbon store (foreste) quando in procinto di sviluppare le loro politiche di azioni climatica (2). Gli stessi stati saranno inoltre richiamati a finalizzare gli sforzi riguardanti la conservazione, protezione e restaurazione degli ecosistemi in natura. In particolare sarà necessario ridurre la deforestazione e degradazione forestale entro il 2030 per permettere una riduzione del 14% delle emissioni ed un aumento dello store di CO2.
Quello della deforestazione è un problema molto serio perché circa un terzo delle foreste sono scomparse nel mondo (10). Basandosi sugli ultimi dati disponibili (anno 2015) la maggiore perdita assoluta si è verificata in paesi come Brasile, Tanzania, Indonesia (11) nonostante il fenomeno interessi in generale molti paesi della fascia tropicale ed in via di sviluppo.
Ma il problema delle foreste non è il solo. Un altro ecosistema particolarmente rilevante è quello delle mangrovie che gioca un ruolo importante nel sequestro della CO2, nell'adattamento al cambiamento climatico e nel mantenimento della biodiversità (12). Tuttavia è un ecosistema molto vulnerabile e per il 50% sono a rischio per cause antropogeniche (13). Già nella COP27 l'alleanza per le mangrovie (14) ha formalizzato l'obiettivo di proteggere quindici milioni di ettari di mangrovie (15). Durante COP28 sono stati finanziati altri 2,5 miliardi di dollari da impiegare in tale progetto (5), curiosamente anche da paesi che presentano tutt'altro che mangrovie sulle proprie coste, quali la Norvegia, ma che riconoscono l'importanza di tali ecosistemi e dimostrano la vitalità di un qualche senso di collaborazione per affrontare queste problematiche ambientali (12).
Negoziato durante la COP27, il "loss and damage fund" è stato uno degli argomenti affrontati durante tutto l'evento COP28.
Rendere centrale il tema è stato importante perché ha formalizzato il secondo cambio di paradigma ovvero la messa in campo delle azioni - anche finanziarie - per fronteggiare le conseguenze dei cambiamenti climatici. In particolare sono stati fatti passi avanti nella "loss and damage agenda" con l'obiettivo di "catalizzare l'assistenza tecnica per i paesi in via di sviluppo particolarmente vulnerabili agli effetti avversi dei cambiamenti climatici".
Questo si è concretizzato con gli "accordi di finanziamento per far fronte a perdite e danni". La Conferenza delle parti dell'accordo di Parigi (CMA) e COP hanno definito accordi di finanziamento per i paesi vulnerabili ed un fondo da cui attingere, attuando il "fondo per la risposta a perdite e danni" (FRLD) e nominado Cheikh Diong come direttore a partire dal 1 novembre 2024. Il finanziamento di 700 milioni di dollari di aiuti è stata una prima vittoria per i paesi in via di sviluppo ma è una goccia nel mare. Con una stima di 400 miliardi di dollari necessari, l'ammontare stanziato da COP28 risulta solo lo 0,2% di quanto necessario (16).
La COP28 ha permesso anche una convergenza sugli obiettivi di adattamento e le implementazioni finanziare per gestire i finanziamenti per il fondo "loss and damage".
L'impostazione tenutasi durante la conferenza è stata quella di guardare ad obiettivi futuri piuttosto che basarsi su quanto raggiunto in passato (2).
Attraverso il Global Goal on Adaptation (GGA) - sempre nel contesto del Paris Agreement - è stata stilata una serie di goal per adattarsi entro il 2030 ai cambiamenti climatici. Fra gli obiettivi ricordiamo: gestione delle risorse idriche, riduzione degli effetti sulla salute (mortalità e morbilità), riduzione dellimpatto sugli ecosistemi e biodiversità (vedi sopra), riduzione dell'impatto sul patrimonio culturale, incremento della resilienza delle infrastrutture e degli insediamenti umani, riduzione dell'impatto del clima sulla riduzione della povertà.
Ma la questione riduzione emissioni è particolarmente importante anche per il settore agro-alimentare che per le caratteristiche delle filiere risulta essere un "moltiplicatore di impatto"; un solo investimento può produrre molteplici effetti di riduzione (5). Dall'altra parte la lotta ai cambiamenti climatici deve garantire adeguati approvvigionamenti per le popolazioni. La FAO ha presentato in discussione una "roadmap" che prevede una riduzione del 25% delle emissioni dall'agro-alimentare entro il 2030, a fianco di una serie di riforme quali il cambiamento del sistema di tassazione alimentare per incentivare diete sane, ottimizzare le varie fasi della filiera e garantire un accesso equo alle risorse (17). COP28 ha riconosciuto il ruolo centrale dello sviluppo di un'agricoltura resiliente ai cambiamenti climatici ed una produzione alimentare che riduca il rischio di malnutrizione in importanti quote di popolazione mondiale. Durante COP28 è stato firmato un documento che riporta gli obiettivi per gestire gli effetti del clima sull'industria alimentare con una mobilizzazione di 2,5 miliardi di dollari (18). I 134 firmatari del documento rappresentano il 70% della produzione mondiale di cibo e sono responsabili per il 76% delle emissioni del sistema alimentare. La firma del documento è finalizzata ad un rafforzamento del sistema alimentare, un aumento della resilienza ai cambiamenti climatici, una riduzione delle emissioni, nonché alla lotta alla fame. Tuttavia, sono state sollevate critiche sul fatto che nella negoziazione finale il tema alimentare non sia entrato all'interno del documento definitivo (17).
Altre critiche sono state sollevate all'impianto generale del Global Goal on Adaptation in quanto ritenuto poco "quantitativo" negli obiettivi da raggiungere (7).
Il problema della "quantificazione degli obiettivi" è stato parzialmente affrontato in COP28 riconoscendo, inoltre, la necessità di sviluppare nuovi "reporting tools" da sfruttare per avere maggiore trasparenza sui progressi raggiunti dai vari paesi.
Tuttavia - e come già accennato precedentemente - la questione finanziaria è chiave per l'azione sul clima (18). Durante COP28 il Green Climate Fund - che è il fondo multilaterale per il clima più grande al mondo - ha ottenuto la firma di sei nuovi impegni (da parte di Australia, Estonia, Italia, Portogallo, Svizzera e Stati Uniti d'America) ed un incremento del fondo a 12,8 miliardi di dollari (19). La banca mondiale ha comunicato un incremento di 9 miliardi di dollari fino al 2025 ed ha già incrementato la percentuale di finanziamenti annuali per cause climatiche rispetto a quanto previsto dal 2021 (20).
Quindi se la finanza climatica è considerata il "great enabler of climate action", durante COP28 si è quantomeno provato ad inquadrare il problema. Ma le aspettative in tale senso sono tutte focalizzate su COP29 che ha come obiettivo un “nuovo collettivo goal quantificabile sulla finanza climatica".
La prossima conferenza si svolge a Baku, capitale dell'Azerbaijan, dall'11 al 22 novembre 2024. Da alcuni, questa COP29 è già stata definita come "finanziaria" proprio perché, in linea con quanto previsto in COP28, ha come obiettivo principale quello di definire meglio i parametri finanziari legati alla lotta al clima, oltre che adeguate coperture (2).
Uno degli obiettivi principali è il Nuovo Obiettivo Collettivo Quantificato (NCQG), già concepito nell'Accordo di Parigi. Il suo fine? Definire i goal finanziari per il supporto dei paesi in via di sviluppo attraverso collaborazioni internazionali.
Già con il Summit di Copenaghen del 2009 i paesi firmatari si sono impegnati a fornire 100 miliardi l'anno per il supporto ai paesi in via di sviluppo. Dopo la sua negoziazione, l'NGQG definirà la portata delle risorse finanziarie da mobilizzare.
Inoltre, l'attivazione del NGQG permetterà di affrontare le lacune ai finanziamenti, mantenere le promesse di supporto ai mercati emergenti ed a rischio delle conseguenze dei cambiamenti climatici, rafforzare la cooperazione globale, includere gli investimenti dei privati, incrementare responsabilità e trasparenza (21) . Dovranno essere quindi discussi molti punti aperti come le quantità di contribuzione ed una rendicontazione trasparente.
Gli altri aspetti della COP saranno la definizione di un mercato del carbonio più efficiente, la crescita del fondo Loss and Damage, pone ancora più al centro il concetto e le strategie di adattamento ai cambiamenti e incrementando l'assistenza finanziaria e tecnica (22).
Durante COP 28 è stato centrale il dibattito sulla progressione nella lotta ai cambiamenti climatici ed è stato evidenziato un ritardo negli sforzi rispetto agli accordi di Parigi. Da tale ennesima presa di coscienza deriva la formalizzazione nel documento definitivo della necessità di una fuoriuscita dalle fonti fossili, cosa che non era mai stata riportata nei documenti di COP. Dall'evento è inoltre scaturita la necessità di una maggiore attenzione alle problematiche circa la conservazione degli ecosistemi come parte integrante della lotta al cambiamento climatico. E' stato tema centrale anche la necessità di aiutare i paesi in via di sviluppo che subiscono le conseguenze dei cambiamenti climatici ma che sono incapaci di fronteggiare i danni e trovare gli investimenti per ridurre il loro impatto ambientale. Da COP28 è rimasta aperta la questione degli obiettivi da raggiungere - non sempre ben definiti - e dei finanziamenti che sono considerati da molti insufficienti. La questione finanziaria sarà proprio al centro della prossima COP29, insieme alla definizione di un mercato del carbonio efficiente e degli obiettivi di adattamento climatico. Riuscirà COP29 a raggiungere tali obiettivi?
]]>La gestazione per altri, comunemente chiamata “maternità surrogata” o, con un termine più dispregiativo, “utero in affitto,” è una tecnica di procreazione assistita in cui una persona porta avanti una gravidanza per conto di altri. La gestazione per altri (GPA) consente a una persona o a una coppia impossibilitata a portare avanti una gravidanza di affidarsi a un’altra persona per farlo, adottando poi il bambino dopo la nascita.
Esistono due tipi di GPA: tradizionale (l’ovulo fecondato appartiene alla donna che porta la gravidanza) e gestazionale (l’ovulo proviene dalla madre intenzionale o da una donatrice). In questo secondo caso, l’ovulo viene fecondato in vitro e l’embrione impiantato nella donna che porterà avanti la gravidanza, senza alcun legame genetico col bambino.
La gravidanza può essere portata avanti da una parente, un conoscente o una persona estranea, e, nei paesi dove è regolamentata, la GPA può prevedere un contratto ed un compenso — considerato un aspetto controverso dai critici —. In alcuni paesi, invece, è consentito solo il rimborso delle spese mediche.
La nuova legge introduce un solo articolo che modifica la normativa precedente, estendendo il divieto di gestazione per altri anche ai casi realizzati all’estero. Fino a mercoledì, la GPA era vietata in Italia dalla legge 40 del 2004, che punisce chi vi ricorre con pene fino a due anni di reclusione e multe fino a un milione di euro. Tuttavia, per aggirare il divieto, molte coppie italiane si recavano all’estero, chiedendo poi il riconoscimento dei figli una volta rientrate in Italia.
La modifica apportata consiste in un’unica aggiunta: “Se i fatti di cui al periodo precedente sono commessi all’estero, il cittadino italiano è punito secondo la legge italiana”. Con questa estensione, la legge punisce quindi anche i cittadini italiani che ricorrono alla GPA fuori dai confini nazionali.
Il disegno di legge, già approvato dalla Camera a luglio 2023, entrerà ufficialmente in vigore nei prossimi giorni, una volta promulgato dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e pubblicato in Gazzetta Ufficiale. È importante precisare che la norma non è retroattiva, quindi si applicherà solo ai casi futuri, senza effetto su quelli precedenti alla sua emanazione.
La possibile incostituzionalità della proposta di legge è stata messa in evidenza da alcuni parlamentari di opposizione, tra cui la senatrice Ilaria Cucchi di Alleanza Verdi-Sinistra. Anche il senatore Ivan Scalfarotto di Italia Viva ha espresso preoccupazioni, sostenendo che la proposta potrebbe violare alcuni principi costituzionali, tra cui l’articolo 3, che tutela l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. In passato, Scalfarotto aveva proposto un disegno di legge per regolamentare la “gravidanza solidale per altri”, insieme all’attuale segretario di Più Europa, Riccardo Magi.
L’eventuale costituzionalità della nuova legge potrebbe essere valutata dalla Corte Costituzionale - che in una sentenza del 2021 aveva già invitato il Parlamento a intervenire per definire lo status giuridico dei bambini nati all’estero tramite gestazione per altri - riconoscendo una “situazione di insufficiente tutela degli interessi del minore”. Non è ancora chiaro se la legge recentemente approvata dal Senato risponda effettivamente alle richieste della Corte, che già nel 2017 aveva descritto la gestazione per altri come una pratica che “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina profondamente le relazioni umane”.
Mentre l'opinione pubblica si confronta animatamente sulla recente modifica di legge, le prime pagine delle testate giornalistiche tornano a focalizzarsi sul report ISTAT 2023 riguardante la natalità e la fecondità della popolazione residente. Questo rapporto mette in luce un nuovo record negativo per le nascite in Italia: nel 2023 sono nati 379.890 bambini, con un calo del 3,4% rispetto all’anno precedente. Si conferma così una tendenza ininterrotta dal 2008, anno in cui il tasso di natalità — il rapporto tra nuovi nati e popolazione — aveva raggiunto il livello più alto degli anni Duemila, pari a 9,7 nati ogni mille abitanti, con oltre 570 mila nascite. Tuttavia, anche il dato del 2008 deve essere contestualizzato all'interno di un trend decennale di diminuzione: il calo delle nascite interessa in modo uniforme tutto il territorio italiano, risultando leggermente più marcato nel centro e nel nord del paese.
]]>Applicare un programma dal così limitato orizzonte rappresenta l’ennesimo “calcio alla lattina” alle molteplici falle strutturali che colpiscono l’Italia.
La manovra destina oltre il 50% dei suoi 28,5 miliardi di euro alla riduzione del cuneo fiscale e alla rimodulazione dell’IRPEF. Questo è supportato dalla crescita delle entrate fiscali, aumentate del 6% nel secondo trimestre dell’anno in corso. Tuttavia, l’impatto di queste misure rimane parzialmente incerto. La riforma dell’IRPEF si è concretizzata con una riduzione da quattro a tre scaglioni, ma l’abbassamento dell’aliquota mediana, originariamente previsto, è stato accantonato per mancanza di risorse. L’idea iniziale di ridurre l’aliquota marginale dal 35% al 33% si è infatti rivelata insostenibile, mentre l'introduzione di un concordato preventivo, assimilabile a un condono, dovrebbe generare entrate straordinarie utili a ridurre il secondo scaglione.
La riforma dell’IRPEF contenuta nella nuova legge di bilancio propone infatti una riduzione delle aliquote fiscali a tre scaglioni ( 23%, 35% e 43%) rispettivamente per redditi fino ai 28.000, tra i 28.000 e i 50.000 e oltre i 50.000 euro. Questa manovra punta ad alleggerire il sistema fiscale, nonché a ridurne la pressione, in particolare per quanto riguarda i redditi medio-bassi. Il sistema attuale, prevede detrazioni soggette a soglie di reddito (come 28.000 o 36.000 euro), e presenta delle rigidità che, superate tali soglie, limitano la convenienza fiscale e penalizzano alcuni contribuenti. La proposta tenta di rispondere a questi squilibri introducendo nuove detrazioni. La modifica a tre scaglioni comporta una riduzione delle entrate fiscali IRPEF di circa 5,1 miliardi di euro per il 2025 e di 5,3 miliardi per il 2026, reindirizzando particolari benefici ai redditi fino a 28.000 euro. Tuttavia, restano incertezze sulla sua applicabilità e sui possibili effetti distorsivi che questa manovra potrebbe generare per le diverse categorie di contribuenti (singoli, famiglie con o senza figli).
Sono inoltre previste specifiche detrazioni per i lavoratori dipendenti. Per chi presenta redditi annui fino ai 15.000 euro la detrazione sarà di 1.955 euro, con una quota garantita di 690 euro e 1.380 euro aggiuntivi qualora il contratto sia a tempo determinato.
Per quanto riguarda i contribuenti tra i 15.000 e i 28.000 euro la detrazione sarà progressiva mentre per chi va dai 28.000 ai 50.000 euro questa sarà decrescente.
L’impatto complessivo della riforma IRPEF e del bonus per le fasce di reddito inferiori a 20.000 porterà ad una perdita complessiva di entrate fiscali di 12,9 miliardi di euro annui. La problematica relativa alle classi medie ritorna anche in questo caso essendo che, nonostante la significativa contribuzione alle entrate fiscali nazionali, queste godono di limitati vantaggi rispetto all’incremento dei costi della vita e delle imposte indirette.
La relazione tecnica sottolinea inoltre come questa riduzione del gettito IRPEF possa avere potenziali effetti oltre il 2027. La manovra solleva interrogativi sulla sua sostenibilità, essendo che in un contesto di strabordante debito pubblico, la perdita di entrate a lungo termine potrebbe portare ad ulteriori misure correttive e discrezionali in futuro. Infine, secondo l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, le prospettive economiche a breve termine non mostrano segnali di ripresa industriale, generando ulteriori dubbi sull’efficacia della riduzione delle aliquote IRPEF.
La rimodulazione delle detrazioni finisce inoltre per aumentare la base imponibile IRPEF, andando a causare effetti complessivi poco chiari. Nello specifico, la totale assenza di stime e simulazioni volte a illustrare l’effettivo impatto sui redditi compresi tra i 26.000 e i 36.000 euro, rende alquanto arduo il valutare con precisione le ricadute che questa manovra avrà su queste fasce di contribuenti.
ART. 199, comma 1 | SALDO NETTO DA FINANZIARE* | FABBISOGNO / INDEBITAMENTO NETTO* | ||||
---|---|---|---|---|---|---|
2025 | 2026 | 2027 | 2025 | 2026 | 2027 | |
Riduzione spesa Ministeri - Parte corrente | -697,2 | -689,7 | -639,4 | -697,2 | -698,7 | -639,4 |
Riduzione spesa Ministeri - Conto capitale | -1.943,1 | -1.910,7 | -1.896,3 | -1.258,9 | -1.873,4 | -1.698,5 |
Infine, ricollegandomi al concetto di condono sopracitato, una misura particolarmente discussa riguarda la tassazione degli extraprofitti, la cui definizione rimane sfuggente. Il compromesso proposto dal Ministro Giorgetti prevede una rimodulazione delle imposte differite attive delle banche, risalenti al 2011 e allora introdotte per far fronte alle perdite derivanti da crediti deteriorati. Con questa misura, si anticipano 3,5 miliardi di euro di gettito che, tuttavia, verranno a mancare a partire dal 2026. Anche il bollo sulle assicurazioni dei rami 3 e 5, anticipato per questo biennio, dovrebbe generare circa 1,3 miliardi di euro.
Un tema rilevante è quello della Web Tax, originariamente introdotta nel 2019 per tassare i colossi digitali quali Google, Amazon, o Meta, questa viene ora estesa a un numero maggiore di aziende che lavorano sul web, incluse piccole realtà e startup. Inizialmente prevista solo per le aziende con un fatturato di almeno 5,5 milioni di euro in Italia, la soglia minima viene eliminata, andando ad ampliare la platea delle imprese soggette ad una tassa del 3% sui ricavi. L’eliminazione della soglia comporta un rischio per le nuove imprese del settore, penalizzando le aziende web di piccole dimensioni, per le quali la tassa sui ricavi potrebbe rappresentare un carico fiscale sproporzionato rispetto ai margini di profitto effettivi. Nonostante questa estensione, il gettito previsto resta limitato, nonché di circa 51,6 milioni di euro. Questo porta a chiedersi il perché di una misura che non fa altro che scoraggiare l’innovazione in cambio di un ritorno economico modesto.
Inoltre, l’estensione della Web Tax in assenza di un chiaro coordinamento con le normative europee potrebbe generare una sovrapposizione normativa che aumenta il rischio di doppie imposizioni per le aziende digitali che operano in Italia. Questo rischio è particolarmente elevato se si considera che la tassazione dei servizi digitali è già regolata da direttive dell’UE, e una sovrapposizione tra imposte nazionali e comunitarie potrebbe disincentivare ulteriormente le aziende tecnologiche estere dall insediarsi in Italia, riducendo la già risibile attrattiva del mercato domestico per gli operatori internazionali.
La manovra di bilancio riporta inoltre una tassazione del 42% su tutte le plusvalenze derivanti dalle cripto-attività e colloca l’Italia nell'olimpo dei paesi europei con il più elevato carico fiscale rivolto a questo specifico settore. Quanto di rivedibile è anche a questo giro l’esiguo incremento di gettito di 16,7 milioni di euro derivanti dall’aliquota in questione. Questo va inoltre a ridurre potenzialmente la base imponibile effettiva e, di conseguenza, a spingere potenziali investitori altrove. Ecosistemi come quello fintech, negli ultimi anni particolarmente incentivati e attrattivi, finiscono così nell’occhio del ciclone e saranno colpiti per primi come cavie di questa eccessiva aliquota.
La mancanza di un sistema di tassazione progressivo o scalare per le plusvalenze da cripto-attività impatta negativamente anche su piccoli investitori e startup innovative che operano in ambito blockchain. Questo potrebbe rallentare lo sviluppo dell’ecosistema digitale italiano, riducendo le opportunità di crescita per imprese emergenti e giovani imprenditori, categorie potenzialmente beneficiate da una tassazione più agevolata e incentivante.
La Manovra di Bilancio 2025 introduce una serie di misure volte a migliorare la trasparenza fiscale, con particolare attenzione alla tracciabilità dei pagamenti elettronici e alla digitalizzazione della registrazione delle transazioni. Tali misure mirano a ridurre l’evasione fiscale tramite un monitoraggio più preciso delle transazioni economiche. L’obbligo di integrazione dei sistemi di pagamento con registratori telematici è stimato comportare un costo di adeguamento di circa 500 milioni di euro a livello nazionale.
Un capitolo rilevante è dedicato alla deducibilità delle spese, in particolare quelle di vitto, alloggio, e trasporto. Per combattere l'evasione fiscale, il governo introduce l'obbligo di tracciabilità dei pagamenti come condizione per poter dedurre questi costi. Questa misura intende contrastare l'evasione connessa alla mancata fatturazione e altre pratiche scorrette. Il fatto che le stime economiche messe in campo in questa manovra siano basate su modelli piuttosto semplici e lontane dall’essere aggiornate (come l'aver utilizzato dati al 2019), limitano l’accuratezza delle previsioni. La mancanza di metodologie di calcolo statistico quali modelli econometrici o tecniche di regressione avanzata fa dubitare dell'efficacia delle stime.
]]>Solo dopo l’una, ora italiana, invece sarà possibile avere i primi dati relativi allo spoglio elettorale. Ricordiamo che per aggiudicarsi la Casa Bianca bisogna raggiungere il numero minimo di 270 Great Electors.
Nella giornata delle votazioni non sono mancate sorprese indesiderate. Falsi allarmi bomba, molti dei quali sembravano provenire da domini email russi, hanno causato momenti di tensione in seggi elettorali in stati chiave come Georgia, Michigan e Wisconsin. Nel Queens, un candidato repubblicano all'Assemblea dello Stato di New York, Jonathan David Rinaldi, è stato preso in custodia dalla polizia dopo aver molestato gli elettori.
]]>Una delle regioni più controverse della Moldova è la Transnistria, una stretta striscia di terra lungo il fiume Dnestr (Nistro in italiano). Durante l’era sovietica, la Transnistria divenne il centro industriale della Repubblica Socialista Sovietica Moldava, con una popolazione composta da una significativa percentuale di russi e ucraini. Questo sviluppo industriale portò lavoratori da diverse parti dell’URSS (1), contribuendo alla russificazione della regione. Di conseguenza, il russo divenne la lingua predominante (2), e la cultura sovietica esercitò una forte influenza sull’area.
Nel 1992, la Transnistria dichiarò unilateralmente l’indipendenza dalla Moldova, scatenando un conflitto armato. Nonostante un cessate il fuoco, la regione rimane de facto indipendente, con una presenza militare della Federazione Russa significativa. Attualmente, circa 1.500 soldati della 14ª Armata russa sono stanziati in Transnistria (3), ufficialmente come forza di mantenimento della pace, ma la loro presenza è semplicemente un mezzo per esercitare influenza sulla Moldova.
Nonostante queste sfide, nel giugno 2022 la Moldova ha ottenuto lo status di paese candidato all’adesione all’Unione Europea, un passo significativo verso l’integrazione europea. Questo progresso è avvenuto nonostante la situazione irrisolta in Transnistria e le pressioni continue da parte della Federazione Russa. La presidente Maia Sandu ha guidato il paese verso riforme democratiche e una maggiore cooperazione con l’UE, affrontando al contempo le interferenze esterne e le sfide interne.
La situazione in Moldova presenta somiglianze con quella dell’Ucraina, dove la Federazione Russa ha reagito con forza alle aspirazioni europee del Paese, culminando con l’annessione della Crimea nel 2014 e con il sostegno - tramite forze regolari della Federazione Russa - al movimento separatista nell’est del paese, anche esso alimentato da Mosca. In entrambi i casi, il Cremlino ha cercato di mantenere la propria influenza sulle ex-repubbliche sovietiche, utilizzando una combinazione di pressioni politiche, economiche e militari.
Nonostante il referendum del 20 ottobre 2024 abbia confermato l’aspirazione europea dei cittadini moldavi, inclusi quelli della regione separatista della Transnistria, la Moldova si trova ora a un bivio critico.
]]>Le elezioni presidenziali negli Stati Uniti si svolgono il martedì successivo al primo lunedì di novembre, una scelta adottata per evitare che l’Election Day coincida con il 1° novembre, giorno di Ognissanti.
Gli elettori scelgono 538 membri dell’Electoral College, l’organo istituzionale che a sua volta elegge il Presidente e il Vice Presidente degli Stati Uniti. Questo numero corrisponde alla somma dei membri della House of Representatives e della House of Senate, più tre rappresentanti eletti dalla capitale Washington D.C. Ogni Stato elegge 2 Great Electors, a cui si aggiunge un numero variabile di altri elettori basato sulla popolazione dello Stato secondo l’ultimo censimento [la somma rispecchia esattamente il numero di senatori e rappresentanti che ogni Stato elegge alle due Camere].
Prima delle elezioni i partiti politici selezionano i candidati per il ruolo di grandi elettori. Il giorno delle elezioni i cittadini votano per una coppia di candidati alla presidenza ed alla vicepresidenza. Il candidato che ottiene anche solo un voto in più in uno Stato vince tutti i seggi elettorali di quello Stato.
L’Electoral College si riunisce a metà dicembre per votare ufficialmente il Presidente ed il Vice Presidente, che hanno bisogno di 270 voti per essere confermati. Se durante le votazioni nessun candidato ottiene il numero minimo di preferenze, il voto viene rinviato ed affidato al Congresso. I Great Electors non sono tenuti costituzionalmente a votare per i candidati del partito che li ha nominati: tuttavia, 22 dei 50 Stati degli USA hanno adottato delle leggi per vincolare i Great Electors a votare per i candidati del proprio partito.
I requisiti per candidarsi a Presidente e Vice Presidente degli Stati Uniti sono tre: essere cittadini americani per nascita, avere un’età superiore ai 35 anni ed aver vissuto sul suolo americano per almeno 14 anni. L’Inauguration Day si tiene il 20 gennaio ed il mandato dura per quattro anni.
Da una parte il tycoon, rappresentante il conservatorismo MAGA dai toni “Dio, patria e famiglia”, dall’altra Kamala Harris, Vice Presidente e leader confermata alla convention di partito dei democratici il 23 agosto in seguito al ritiro di Biden, simbolo dell’inclusione e paladina delle minoranze.
Dopo la nomination, Kamala Harris ha dichiarato che sarebbe «la prima donna, la prima donna nera e la prima donna asiatica americana a servire come Presidente». Durante il proprio discorso, non sono mancate le accuse a Trump, definito come responsabile dell'attacco del 6 gennaio 2021 a Capitol Hill e come campione dei propri interessi personali nell’ottenimento della carica presidenziale, che gli garantirebbe l’immunità per i procedimenti penali a suo carico.
Il vero campo di prova però per Harris è arrivato in occasione del dibattito televisivo del 10 settembre contro Trump. Se nell’ultimo scontro mediatico tra i partiti la performance di Biden ha messo fine agli oltre 50 anni di carriera politica dell’attuale presidente, ben diverso è stato l’esito di quest’ultimo confronto televisivo tra i candidati: Harris, preparata, precisa, tagliente, ha fatto scivolare Trump nelle questioni più scomode per lui e per il proprio partito e ha provocato fantomatiche dichiarazioni in merito alla questione dell’Afghanistan (un punto dolente per i democratici) e degli immigrati negli Stati Uniti. Un netto recupero per i democratici almeno sul piano mediatico, che non conferma con certezza però un guadagno elettorale, come dimostrerebbero anche i sondaggi, che se subito dopo la candidatura di Harris sembravano essere nettamente a suo favore, ora “non sono mai stati così incerti”.
Dando uno sguardo ai programmi, a livello economico i democratici puntano sul supporto mirato alla classe media, sull’eliminazione di alcuni tagli fiscali per i più ricchi introdotti da Donald Trump e sull’introduzione di una nuova tassa minima sui miliardari. Si aggiungono iniziative per aumentare l’offerta abitativa, per sostenere le piccole imprese e per riportare la manifattura negli Stati Uniti. Harris propone inoltre di promulgare un divieto federale nei confronti di quelle aziende che, durante le crisi inflazionistiche, aumentano i prezzi dei beni necessari come cibo ed alimenti al fine di ottenere profitti più elevati e si propone di espandere l'Affordable Care Act e il Medicare e di combattere i prezzi elevati dei farmaci contrastando l’azione delle aziende farmaceutiche intermediarie.
Harris intende guidare un'amministrazione “pro workers” per sconfiggere Trump: il programma prevede anche un aumento del salario minimo senza però specificare l'importo.
Il programma economico repubblicano si concentra sulla riduzione dei costi attraverso la deregolamentazione e l'aumento della produzione di petrolio e energia nucleare. Propone la reintroduzione della Tax Cuts and Jobs Act del 2017, che aveva uniformato le aliquote fiscali per le aziende in una singola al 21%, ed una politica commerciale protezionista.
Per affrontare i prezzi delle case, il partito promette di ridurli costruendo nuovi appartamenti, abbassando i tassi di interesse sui mutui, riducendo tasse e costi per chi acquista la prima casa ed eliminando regolamentazioni ritenute non necessarie. Inoltre, si impegna a ridurre i costi dell'istruzione superiore, dei medicinali e, nuovamente, dell'energia.
Il partito repubblicano si impegna a mantenere il Medicare.
Sul tema sicurezza e giustizia Harris enfatizza il rafforzamento delle restrizioni sulla vendita di armi insieme al finanziamento dell’attività degli psicologi nelle scuole mirata a prevenire le stragi e la violenza attraverso il supporto alla salute mentale.
Entrambi i candidati si concentrano sul contrasto all’immigrazione illegale, riguardo alla quale i MAGA si spingono fino a proporre il più grande “programma di deportazione di immigrati illegali".
Da parte democratica si vuole poi limitare l'immunità presidenziale e riformare la Corte Suprema per garantire limiti etici e temporali per i giudici mentre da parte repubblicana ci si impegna a bloccare ogni tentativo in questo senso.
Harris e Walz promettono di approvare il John Lewis Voting Rights Advancement Act e il Freedom to Vote Act, due progetti di legge destinate a estendere i diritti di voto che trova nettamente contraria la coppia Trump-Vance.
Gli affari esteri sono forse l’argomento dirimente nell'impressione della comunità internazionale. La posizione di Harris sulla Cina è quella di una visione concorrenziale, in cui gli Stati Uniti devono rafforzare le alleanze degli USA nel mondo, soprattutto con la NATO, investire nella produzione dei materiali e delle tecnologie chiave dell’economia moderna.
Sulla guerra israelo-palestinese, Harris esprime il suo sostegno all'autodifesa di Israele. Afferma che l’attuale amministrazione e, se eletta, la prossima, lavoreranno per raggiungere tregua a Gaza, che dovrebbe portare alla liberazione degli ostaggi israeliani ed al miglioramento delle condizioni di vita dei palestinesi nella Striscia attraverso anche la loro indipendenza ed autonomia.
Harris sottolinea poi il sostegno fornito finora all’Ucraina nella difesa contro l'invasione russa, ma non presenta proposte sul futuro del conflitto, ed esprime sostegno alla Corea del Sud confermando l'impegno verso l'alleanza tra questa e gli Stati Uniti in risposta alle recenti minacce della Corea del Nord di Kim Jong-un.
Infine, il programma democratico dedica un paragrafo al supporto per soldati, veterani e loro famiglie. Harris e Walz si concentreranno su prevenzione dei suicidi e miglioramento della cura psicologica per i veterani, contrasto al fenomeno dei veterani senzatetto e facilitazioni per il loro reinserimento nel mercato del lavoro civile.
Il programma repubblicano si concentra sul rafforzamento della politica estera e della difesa, criticando l'amministrazione Biden per la debolezza che avrebbe condotto ad un deterioramento della posizione globale degli Stati Uniti. Per porre rimedio a questa situazione, Trump propone l’introduzione nel mondo della difesa di nuove tecnologie, come la creazione di un Iron Dome americano e salari più alti per i soldati.
I repubblicani considerano di vitale importanza rafforzare le alleanze con Israele e con i paesi del Pacifico in un’ottica anti-cinese. È anche promessa l’immediata pace in Europa, alludendo evidentemente all’impegno dichiarato di Trump di porre fine alla guerra in Ucraina.
Sul versante cultura ed educazione i democratici promettono di sostenere l'approvazione di una legge federale per proteggere il diritto all'aborto, che è stato delegato ai singoli Stati dopo l'annullamento della sentenza Roe v. Wade nel 2022. Il programma prevede diverse misure a sostegno dell'educazione pubblica e per garantire l'accesso ai servizi per l'infanzia e di pre scuola agli studenti provenienti da famiglie a basso reddito. È prevista un'espansione delle borse di studio Pell, destinate agli studenti universitari a basso reddito, il sostegno alle scuole per minoranze e l'accesso più ampio al college attraverso il finanziamento del debito studentesco ed il supporto a programmi di formazione professionale.
Il partito repubblicano mira a rinnovare la civiltà americana attraverso politiche che descrive basate sul buon senso, che rafforzano la famiglia, ripristinano la legge e l'ordine, supportano i veterani ed onorano la storia del paese. Il piano prevede il sostegno alle famiglie, incentivando il matrimonio ed aiutando i genitori lavoratori e la difesa dei diritti alla vita, in particolare opponendosi all'aborto tardivo ed all’uso di fondi pubblici per pagare le spese mediche per la transizione di genere.
Riguardo al mondo dell’istruzione, Trump e Vance promettono di rafforzare le scuole K-12, che forniscono un'educazione continuativa dai 5 ai 18 anni, puntando su un maggiore controllo da parte dei genitori sull'educazione dei figli e sull'esclusione di tematiche politiche dalle aule. Il partito propone un sistema in cui gli insegnanti ricevano compensi variabili in base alla professionalità dimostrata. Inoltre, il programma prevede la chiusura del Dipartimento federale dell'educazione, affidando la gestione scolastica ai singoli Stati. Le scuole dovrebbero essere libere da quello che viene definito "indottrinamento gender" e prevedere spazi per la preghiera e la lettura della Bibbia. Trump intende anche ripristinare la 1776 Commission [un'iniziativa mirata a promuovere i valori patriottici e l'amore per gli Stati Uniti nelle scuole].
Se l’opinione pubblica americana sembra spaccata a metà nella scelta del prossimo inquilino della Casa Bianca, eventi senza precedenti investono il mondo della stampa.
È notizia di questi giorni la spinta a ritroso del Washington Post (celebre per aver fatto emergere lo scandalo Watergate), che rinuncia a fare endorsement a un candidato in favore di una neutralità che appare strana ai lettori abituali della testata tanto che in poche ore si assiste a un domino di disiscrizioni.
Alcuni osservatori si spingono nell’affermare che si tratti di un inchino anticipato al potenziale secondo mandato trumpiano in forza anche delle dichiarazioni del sindacato dei giornalisti, che ha denunciato l'atteggiamento dell'editore, anche se Bezos difende la sua scelta.
Il mondo della carta stampata però non è che un tassello del rumore assordante della campagna mediatica a mezzo social.
Se da un lato vediamo via via schierarsi a favore di Harris i più celebri appartenenti allo star system (da Morgan Freeman a Taylor Swift, da Bruce Springsteen a Oprah Winfrey) dall’altro il milionario ed eccentrico imprenditore Elon Musk non ha esitato a fornire appoggio mediatico ed economico a Donald Trump, scatenando non poche proteste proprio su X, il social di cui è proprietario e sul quale, fenomeno paradossale forse segno dei tempi, il dibattito è accesissimo e che appare come un vero terreno di scontro per le fazioni in campo.
Mai come in questa occasione le elezioni USA paiono in bilico ed il mondo guarda con il fiato sospeso.
E se i sondaggi interni danno ormai i due candidati testa a testa, l’Europa guarda con grande preoccupazione un'eventuale seconda presidenza Trump. In questo caso molto probabilmente a giocare un ruolo chiave sono le crisi internazionali in Ucraina ed in Medio Oriente che, se vengono percepite come distanti dalla popolazione statunitense, da quella europea sono invece sentite come vicine e fonte di pericolo. L’eventuale isolazionismo repubblicano danneggerebbe l’Europa dal punto di vista della sicurezza anche in relazione all'innovazione tecnologica civile e militare da cui rischieremmo di venire esclusi ed il tycoon, con le sue strizzate d’occhio alla Russia di Putin, evidentemente non fa dormire tranquillo il vecchio continente.
Il dado comunque è tratto e tra un pungo di ore sapremo quale sarà il futuro degli Stati Uniti e del resto dell’Occidente.
]]>La siccità è un fenomeno complesso che può essere definito in vari modi, concentrandosi sulle cause climatiche o sugli effetti della mancanza di pioggia. Una delle definizioni più complete, descrive la siccità come “una riduzione temporanea e significativa della disponibilità idrica su un'ampia area, rispetto ai valori normali per quella regione". Questo la distingue dall'aridità, che è una caratteristica permanente di un clima secco.
La siccità può manifestarsi in diversi modi:
Ogni tipo di siccità causa impatti ambientali, economici e sociali che variano in base alla durata e all'intensità del fenomeno.
La Sicilia sta affrontando una delle peggiori crisi idriche degli ultimi decenni, con una situazione di siccità particolarmente grave che sta colpendo quasi tutte le province. Negli ultimi cinque mesi, la mancanza di piogge regolari e la presenza costante di alte pressioni hanno drasticamente ridotto la disponibilità d'acqua, facendo scendere i livelli dei laghi artificiali a minimi storici. Questo ha costretto le autorità a introdurre un razionamento dell'acqua, che attualmente coinvolge 160 comuni su 391, con una riduzione dell'erogazione fino al 45% in alcune aree.
La crisi idrica in Sicilia è aggravata da problemi infrastrutturali cronici: le reti idriche, ormai obsolete e prive di una continua manutenzione, disperdono più del 50% dell'acqua immessa, con punte che raggiungono il 63% a Ragusa. Nonostante l’urgenza della crisi, il riutilizzo delle acque reflue rimane quasi un miraggio a causa della mancanza di depuratori adeguati e di infrastrutture per lo stoccaggio e la distribuzione. In Sicilia, solo il 20% degli impianti di depurazione attivi opera con autorizzazioni valide, mentre molti funzionano senza autorizzazioni o con autorizzazioni scadute, compromettendo ulteriormente la gestione delle risorse idriche.
]]>Negli ultimi anni nel “vecchio continente”, il prezzo del gas è stato in media tra le 2 e le 3 volte superiore al prezzo osservabile negli USA, l’elettricità è costata più del doppio[1] e, mentre dall’altra parte dell’oceano si esporta più energia di quanta se ne consumi[2], in UE si importa oltre il 50% dell’energia consumata[3]. Produrre a costi più bassi e senza dipendere eccessivamente da Stati extra-Europei è un obiettivo di primaria importanza per l’Europa ed il report “Much More than a Market”, presentato da Enrico Letta alla Commissione europea, propone alcune iniziative per risolvere il problema energetico europeo.
Il rapporto, nelle sue oltre 140 pagine, non si focalizza soltanto sul mercato dell’energia, ma analizza numerosi altri mercati per proporre degli interventi che possano portare ad una maggiore integrazione dell’economia europea e la creazione di un vero e proprio mercato unico. Tra i vari temi affrontati, la sezione dedicata al mercato unico dell’energia offre numerosi spunti per riflettere sulle prossime sfide per l’Europa e le possibili strategie da seguire.
]]>Circa dieci giorni dopo, il 15 ottobre, un alto ufficiale militare ucraino ha dichiarato al giornale sudcoreano The Chosun Ilbo che 18 soldati nordcoreani avrebbero disertato tra Bryansk e Kursk, in Russia, a circa 7 chilometri dal confine con l’Ucraina. I media ucraini stanno speculando sulla loro affiliazione, riconducendoli al neo-battaglione nordcoreano Buryat, integrato all’undicesima Brigata di Assalto Aereo dell’esercito russo, composto da circa 3000 unità che si prevede verranno destinate a Kursk per affiancare la contro-offensiva russa sul fronte interno, a seguito dell’incursione ucraina dello scorso agosto.
Giovedì 17 ottobre, durante una conferenza presso la sede della NATO a Bruxelles, il Presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy ha rivelato di disporre di informazioni di intelligence riguardanti circa 10.000 soldati nordcoreani attualmente in addestramento in Russia. Sebbene il Segretario Generale della NATO, Mark Rutte, abbia dichiarato che gli “Alleati non hanno prove di soldati nordcoreani attivi nei combattimenti,” una nota pubblicata venerdì 18 ottobre dal Servizio di Intelligence Nazionale sudcoreano (NIS) ha confermato i sospetti. Gli operatori del NIS hanno identificato diversi ufficiali nordcoreani operativi dietro le linee nel Donetsk, utilizzando avanzati software di riconoscimento facciale basati sull’intelligenza artificiale. Nello stesso documento, l’agenzia ha riportato la geolocalizzazione di alcune navi della marina russa, stimando il trasferimento di circa 1.500 soldati delle forze speciali nordcoreane dalle città di Chongjin, Hamhung e Musudan al porto russo di Vladivostok. Il Cremlino avrebbe fornito ai militari armi e uniformi russe, oltre a distribuire documenti di identità buriati e yakuti, sfruttando i tratti somatici asiatici dei russi in estremo oriente per mascherare la provenienza dei soldati (2).
]]>I “requisiti di progettazione ecocompatibile” sono i requisiti di prestazione o gli obblighi di informazione volti a rendere il prodotto più ecosostenibile, compresi i processi che si svolgono lungo l'intera catena del valore del prodotto.
Il regolamento non fissa direttamente i requisiti di ecodesign, ma si limita a fissare la cornice normativa ai sensi della quale tali requisiti saranno emanati tramite atti delegati emanati dalla Commissione europea, inoltre non si applica a talune categorie di prodotti, quali alimenti, mangime, medicinali, ed altri. Salve le categorie escluse, tutti i prodotti immessi in commercio nell’Unione, anche se fabbricati altrove, sono soggetti alle norme del regolamento.
Il regolamento è finalizzato a fare sì che i prodotti sostenibili diventino la norma ed a ridurre l'impronta di carbonio e l'impronta ambientale complessiva dei prodotti nel corso del loro ciclo di vita, nonché ad assicurare la libera circolazione dei prodotti sostenibili nel mercato interno. Anche questo regolamento, come altri atti normativi che intervengono in settori molto diversi tra loro, è emanato in attuazione del Green Deal europeo. Il regolamento abroga, secondo le tempistiche ivi previste, la precedente direttiva ecodesign. Essa imponeva un simile sistema di requisiti ecodesign, ma solo ai prodotti connessi all’energia. Sostanzialmente, la medesima strategia della direttiva ecodesign si vuole oggi estesa alla generalità dei prodotti, salvo quelli espressamente esclusi.
Nelle premesse (c.d. considerando) del regolamento ecodesign, si dà infatti conto del successo del sistema creato con la direttiva ecodesign e con altri simili atti normativi (quali il regolamento etichettatura energetica, c.d. ecolabel). Tale sistema ha generato, secondo i dati delle autorità europee, significativi risparmi energetici nel corso degli anni. Se ne conclude la necessità di estendere tale sistema ad un novero ancora maggiore di prodotti.
I requisiti attengono alle prestazioni o alle informazioni. I requisiti di prestazione richiedono che i prodotti rispettino determinati parametri attinenti a determinati aspetti quali: a) durabilità e affidabilità; b) facilità di riparazione e manutenzione; c) facilità di miglioramento, riutilizzo, rifabbricazione e ricondizionamento; d) progettazione per il riciclaggio, facilità e qualità del riciclaggio.
I requisiti di informazione prevedono che il fabbricante renda, a riguardo del prodotto, determinate informazioni qualificanti, anche attraverso specifiche modalità, quali l’etichettatura (labelling). Tali informazioni dovranno normalmente essere anche incluse in un Passaporto digitale del prodotto, disciplinato nel regolamento, che rappresenta una sorta di carta di identità dei prodotti.
Gli atti delegati potranno prevedere classi di prestazione alle quali assegnare i prodotti, sulla base dei diversi livelli di performance che li caratterizzano rispetto a determinati aspetti.
Non vi è dubbio che il regolamento imponga una vasta gamma di requisiti e di step procedurali (in questa sede non espressamente trattati), seguito dell’emanazione degli atti delegati. A fronte dei miglioramenti in termini di sostenibilità, tali requisiti e step renderanno più sofisticato (nonché, presumibilmente, più costoso e forse lungo) il procedimento di sviluppo, produzione e distribuzione dei prodotti nel mercato europeo. Questo atto garantisce tuttavia un elevato livello di armonizzazione: i requisiti di ecodesign saranno adottati dalla Commissione europea per tutti i Paesi membri, con le medesime tempistiche. Da questo punto di vista, vi è un effettivo ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri e vi è ampio consenso che questa sia una precondizione affinché si possa effettivamente creare un mercato unico europeo a riguardo di un determinato prodotto o servizio. Fondamentale sarà la sensibilità della Commissione nell'individuare i prodotti per i quali è più utile l'imposizione di requisiti, e nel formulare requisiti proporzionati in termini di benefici ambientali e costi correlati.
Alcune previsioni del regolamento sono ulteriori rispetto alla sola imposizione dei requisiti di ecodesign.
Infatti, in materia di riduzione della quantità di rifiuti prodotta dalle società europee, si prevede che gli operatori economici adottino: “le misure necessarie che ci si può ragionevolmente attendere per evitare la necessità di distruggere i prodotti di consumo invenduti”. Salvo talune eccezioni, dal 19 luglio 2026, è vietata la distruzione dei prodotti di consumo invenduti elencati in un allegato del regolamento (indumenti e calzature).
In materia di gare pubbliche di appalto, si prevede che gli enti pubblici aggiudichino gli appalti pubblici conformemente a determinate “prescrizioni minime” che, in caso di appalti per l’acquisto di beni, promuovano l'acquisto di prodotti più sostenibili ai sensi del regolamento o, nel caso di appalti di lavori o servizi, incrementino l’utilizzo di tali prodotti nelle attività che costituiscono l’oggetto degli appalti. Le prescrizioni minime sono emanate dalla Commissione europea.
]]>Si comincia con la modifica della disciplina di cui al decreto legislativo 66/1948, relativo alle Norme per assicurare la libera circolazione sulle strade ferrate ed ordinarie.
La condotta di usare il proprio corpo per ostruire una strada è sempre stata sanzionata dal nostro ordinamento: è, infatti, assolutamente pacifico che questo atto turbi la sicurezza urbana, in quanto aumenta in maniera sensibile la probabilità di incidenti stradali. La controversia tuttavia ruota sulla modalità della punizione: per evitare di complicare eccessivamente il discorso, si procede all’individuazione di tre periodi, quali il pre-2000, quello tra il 2000 e il 2018 e infine quello attuale (post-2018).
Prima del 2000 molte condotte, diverse tra loro e dissimili nella pericolosità, venivano ricondotte nell’art. 1 del d.lgs. 66/1948; dunque, anche l’uso del proprio corpo per bloccare la circolazione stradale era considerato un reato, punito con la reclusione da 1 a 6 anni: Chiunque [...] ostruisce ed ingombra, allo stesso fine, la strada stessa è punito con la reclusione da uno a sei anni. In seguito, nel 2000, è stato introdotto l’art. 1-bis, che ha depenalizzato alcune condotte - tra cui l'uso del proprio corpo - non integranti più reato (o illecito penale), ma illecito amministrativo: con questa espressione si intende che il fatto è sempre illegale e, quindi, meritevole di sanzione; tuttavia, quest’ultima mai potrà condurre ad una restrizione della libertà personale. Perciò:Chiunque [...] ostruisce o ingombra una strada ordinaria o ferrata, è punito, se il fatto non costituisce reato, con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da lire due milioni a lire otto milioni (circa tra 1600 e 6400 euro).
Si arriva infine alla disciplina vigente del 2018: il riformatore aveva l’obiettivo di rendere nuovamente reato tutte le condotte ostacolatrici della libera circolazione (re-inserite quindi nell’art. 1), ad eccezione dell’uso del proprio corpo, che rimane l’unica condotta individuata nell’illecito amministrativo dell’art. 1-bis: Chiunque impedisce la libera circolazione su strada ordinaria, ostruendo la stessa con il proprio corpo, è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 1.000 a euro 4.000.
Se si osserva con attenzione la norma, si può notare che si fa riferimento alla sola strada ordinaria, con l’evidente omissione della strada ferrata (cioè con rotaie metalliche): la conseguenza di ciò è che, quindi, un soggetto che intralcia col corpo una strada ordinaria non commette reato; se, invece, lo stesso eseguisse la medesima azione su delle rotaie verrebbe punito con la reclusione da 1 a 6 anni (ex art. 1). La nuova riforma interverrebbe equiparando correttamente i due contesti, ad oggi irragionevolmente differenziati nel trattamento, affiancando (nell’art. 1-bis) alla strada ordinaria la strada ferrata.
Il punto critico della riforma sta, tuttavia, nel trasformare l’art. 1-bis in un reato, punito con la reclusione fino a un mese (o la multa fino a 300 euro); con la reclusione da 6 mesi a 2 anni, invece, se il fatto è commesso da più persone riunite. La qualifica di reato ha il chiaro intento di disincentivare la condotta, con la minaccia che la stessa porterebbe a “sporcare la fedina penale” (tecnicamente si tratta di un’annotazione nel certificato del casellario giudiziale): dunque anche la multa (che si converte in reclusione se non pagata) risulta essere più minacciosa rispetto all’attuale sanzione amministrativa, sebbene quest’ultima sia economicamente ben più elevata (da 1000 a 4000 euro).
Come valutare questo aspetto della riforma? La criticità risiede nel fatto che una soluzione del genere va in direzione opposta rispetto al diktat generale degli ultimi anni (in particolare della Riforma Cartabia), cioè di evitare di riempire le carceri, comunemente sovraffollate; in più, una reclusione così breve mai potrà portare alla realizzazione di un percorso di rieducazione del condannato, portando ad un inutile flusso aggiuntivo all’interno degli istituti penitenziari.
A questo problema porterebbero sollievo le cosiddette pene sostitutive della pena detentiva breve, completamente rivoluzionate dalla Riforma Cartabia (semilibertà, detenzione domiciliare, lavoro di pubblica utilità e pena pecuniaria): la loro applicazione non è, tuttavia, automatica, perché è necessario il benestare o l’iniziativa del giudice, che potrebbe essere scoraggiato nel caso di reiterazione del reato (ipotesi molto realistica per i membri dei movimenti attivisti). In più, ad evidenza dell’inutilità di qualificare tale condotta come reato, si porta all’attenzione dei lettori il fatto che il Parlamento ha periodicamente promulgato leggi di amnistia e indulto (sin dal 1968) nei confronti dei condannati di questi illeciti: mascherate come “perdòno” da parte del Parlamento, l’amnistia e l’indulto sono state sempre usate come leggi svuota-carceri per evitare sovraffollamenti.
In secondo luogo, è presente una rielaborazione della disciplina dell’occupazione, all’interno del Codice Penale. Si tratterebbe di un intervento doveroso che rimedierebbe ad un vuoto legislativo della disciplina vigente.
Per comprendere la necessità di quello che sarebbe l’art. 634-bis, si deve far presente che ad oggi gli articoli che tutelano il possesso di un bene immobile sono il 633 e il 634: il primo rubricato Invasione di terreni o edifici, il secondo Turbativa violenta del possesso di cose immobili. Dunque, il reato del 634 riguarda un soggetto che si limita a turbare il possesso di un immobile altrui senza occuparlo; quello del 633, invece, prevede un’invasione che tuttavia presuppone l’esistenza di un precedente diritto del reo all’ingresso nell’immobile - come gli studenti che occupano una scuola. Come comportarsi dinanzi all’occupazione violenta o fraudolenta di un immobile già abitato tale da non permettere al legittimo possessore di rientrarvi?
Si tratta di un caso ben più grave (e ultimamente anche molto frequente), in quanto presuppone una violazione di domicilio accompagnata dall’uso della violenza o dell’inganno. In assenza di una previsione specifica, i giudici hanno sempre forzato l’art. 633, attirando le critiche di parte della dottrina: con la riforma non sarebbe più necessario, perché si applicherebbe l'art. 634-bis nel pieno rispetto del principio di legalità.
In questo paragrafo l’analisi degli articoli 19 e 20 del disegno di legge, i quali mirano a riformare il Codice Penale: il primo riguarda gli articoli 336 e 337, rispettivamente violenza e resistenza ad un pubblico ufficiale; il secondo modificherebbe la ratio alla base dell’art. 583-quater. Per quanto attiene all’art. 19, a cambiare sarebbe unicamente l’aggiunta - ad entrambi i reati - di una circostanza aggravante legata all’ipotesi in cui il pubblico ufficiale sia un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza mentre compie un atto di ufficio. Per semplificare il discorso, l’effetto di tale emendamento non sarebbe quindi un’estensione della punibilità quanto il vincolo al giudice a non ridurre la pena al ricorrere di due requisiti: il destinatario della violenza - o resistenza - appartiene alla polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza; il pubblico ufficiale in questione sta svolgendo in quel momento la propria funzione.
L’art. 20 avrebbe invece un’incidenza maggiore. L’art. 583-quater attualmente in vigore punisce maggiormente il reato di lesioni, quando compiuto nei confronti di determinate autorità: al comma 1 - in occasione di manifestazioni sportive - le lesioni gravi e gravissime ai danni di un pubblico ufficiale; al comma 2 le lesioni lievi, gravi e gravissime verso il professionista sanitario - nell’esercizio del proprio servizio. Ad una lettura attenta, l’articolo prevede due situazioni non allineate, sia come contesto sia come gravità delle lesioni. Con la riforma il disallineamento avrebbe fine, perché il primo comma subirebbe una totale sostituzione: l’ambito soggettivo del pubblico ufficiale verrebbe ristretto ai soli soggetti di cui all’art. 19 (un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza); il riferimento alle manifestazioni sportive cadrebbe in favore dell’adempimento delle funzioni (molto più simile al requisito del comma 2); infine, l’inclusione delle lesioni lievi.
Questo articolo della riforma ha suscitato molto clamore, stante l’evidente correlazione tra la sua proposizione e l’aumento dei conflitti tra manifestanti (spesso studenti) e forze dell’ordine. La riforma a livello giuridico è infatti indubbiamente innovativa, dato che attualmente le lesioni lievi in questione verrebbero punite ai sensi dell’art. 582, mentre le gravi e le gravissime all’art. 583, entrambi gli articoli meno severi del 583-quater. Tuttavia, se da una parte può essere condiviso l’effettivo aumento di pena per le condotte più efferate, dall’altra è altrettanto comprensibile la perplessità di alcuni esponenti politici per l’inclusione delle lesioni lievi, estensione da questi ritenuta eccessiva.
A questo punto sono necessarie alcune precisazioni: in primo luogo, si spiega che, nella loro vastità, le lesioni lievi non ricoprono ogni forma minima di violenza, richiedendo queste la causazione di una malattia nel corpo o nella mente: con questa espressione i giuristi intendono un’alterazione anatomica o funzionale dell’organismo; semplificando, per quanto riguarda la violenza fisica, che è la più comune negli scontri tra studenti e forze di pubblica sicurezza, se compare un livido sarà lesione, altrimenti sarà una semplice percossa (art. 581).
Questo limite minimo permette dunque di scongiurare che ogni singolo atto violento venga punito eccessivamente. In secondo luogo, nel caso di scontro tra manifestanti e forze dell’ordine, si può affermare come assodata la naturale disparità di mezzi - sia a livello di equipaggiamento protettivo che come offensività: con questo presupposto è chiaro che non sia da considerare così semplice la causazione di tale malattia. Perciò, anche nell'ipotesi in cui la durezza dell'intervento normativo non sia condivisa, la riforma non deve essere considerata repressiva di ogni forma di disobbedienza, dato che la manifestazione minima di violenza non subirebbe di fatto un aumento di sanzione.
Infine, in risposta agli atti di imbrattamento di beni adibiti a funzioni pubbliche, è stata introdotta un’aggravante all’interno dell’art. 639 del Codice Penale. In questo caso è evidente l’utilizzo populistico del diritto penale: il deturpamento e l’imbrattamento sono già considerati come reati dalla disciplina vigente. Non c’è alcuna motivazione per aggravare ulteriormente certe condotte, rendendo quindi la modifica come ridondante e, molto probabilmente, inefficace. Già Beccaria, infatti, sosteneva l’inutilità di un mero innalzamento di pena: ciò che veramente intimorisce il consociato è l’effettività della pena, che a tal proposito deve essere comminata in tempi ragionevolmente brevi.
]]>“Per la sua intensa prosa poetica che confronta traumi storici e mette a nudo la fragilità della vita umana"
Il Premio Nobel per la letteratura approda in Corea del Sud, e lo fa con Han Kang, prima donna asiatica ad aggiudicarsi il prestigioso riconoscimento.
Nata a Gwangju, in Corea del Sud, classe 1970, poetessa, saggista, novellista, romanziera, insegnante, Han Kang ricorda in un'intervista di alcuni anni fa come la lettura la accompagni e la protegga dalla durezza del mondo esterno fin da bambina e di come le abbia stimolato quelle domande esistenziali (chi sono, da dove vengo) alle quali tenta di offrire delle risposte attraverso le sue opere (1).
Figlia d'arte (suo padre Han Seung-won è anch'egli scrittore), la letteratura ha sempre fatto parte della sua vita.
Dopo aver esordito nel 1993 sulla rivista coreana “Letteratura e società” con una breve raccolta di poesie, nel 1998 pubblica il suo primo romanzo, “Cervo nero”(2).
È però con “La vegetariana” (3), pubblicato per la prima volta nel 2007 e premiato con il il Man Booker International Prize, che raggiunge la notorietà internazionale. Nel 2017, con “Atti umani”, il suo sesto romanzo, vince il Premio Malaparte. Il 10 ottobre 2024 viene insignita del Premio Nobel.
La scrittura di Han Kang, che caratterizza in modo inequivocabile ogni sua opera, è contraddistinta da un'intensa investigazione psicologica dei personaggi, spesso in conflitto con temi universali quali la memoria, la perdita e l'identità. Ricca di simbolismo e di metafore, crea atmosfere dense e suggestive, trasponendo il lettore in mondi interiori complessi e affascinanti.
Nella sua prosa poetica, liquida, a tratti asciutta, lo spazio e il tempo, un tempo spesso anticipato, assoluto, non vissuto, smettono di essere semplici categorie fisiche per fondersi e finire per identificarsi con il piano emotivo e soggettivo del rapporto con la realtà; i suoi personaggi si strutturano nello straniamento del sé e da sé. La narrazione procede per flusso di coscienza incasellato nel susseguirsi degli eventi. Lo stile propone una sintassi a metà tra descrittivo e immaginifico.
A parlare è sempre l'animo umano.
Se in “Convalescenza” (4) l’indagine si sofferma sul non risolto nel rapporto tra sorelle nel primo racconto, nello scollamento dalla propria dimensione umana di fronte all'esperienza della malattia nel secondo, in “La vegetariana” la rinuncia ai propri confini biologici si fa totale e totalizzante. La protagonista Yeong-hye, fino a quel momento moglie e figlia devota, con un moto di ribellione alle convenzioni, nel suo progressivo rifiuto di assumere alimenti “umani” (a partire dalla carne per poi estendersi a tutto ciò che non sia acqua), arriva ad affermare: “Credo che gli esseri umani dovrebbero essere piante”. In questo distacco che la porta ad abbandonare ogni forma di comunicazione ed a farsi materia pura, fotografia in negativo che esalta per contrappunto le miserie altrui, le persone che le si oppongono nella non accettazione della sua scelta di vita rappresentano il lato ostile, violento della natura umana, che replica alle sue scelte non conformi con una spirale di atti prevaricatori messi in atto freddamente nel tentativo o di “ricondurla alla ragione” o semplicemente di umiliarla perché ormai perduta.
Una parziale pacificazione con l'altro si ha invece ne “L'ora di Greco”, opera sull'incomunicabilità in cui i due protagonisti, senza nome e privi della voce lei, della vista lui, arrivano quasi a fondersi grazie a una lingua morta, il Greco antico, la lingua di Platone, che la protagonista femminile vuole pervicacemente imparare per riappropriarsi della propria voce attraverso un codice comunicativo meno sociale, socializzato e convenzionale rispetto alle lingue contemporanee e che le consentirà di guardare il mondo con occhi nuovi.
Quello che colpisce del flusso di immagini e pensieri che permeano l'opera di Han Kang è la capacità di penetrare nel profondo noi lettori, estranei sì agli eventi, ma compartecipi dei monologhi interiori dei personaggi, che nella sostanza, in qualche momento della nostra vita, abbiamo anche solo parzialmente condiviso nei nostri momenti di fragilità.
Questa fusione tra vita e letteratura è evidente anche in “Atti umani”, ambientato a Gwangju (5), città natale della scrittrice, a seguito degli eventi che seguirono il colpo di stato messo in atto in Corea del Sud nel 1980 ad opera di Chun Doo-hwan appena un anno dopo il trasferimento della famiglia di Kang a Seoul. La sequela di rappresaglie ed azioni repressive segnarono profondamente i contemporanei, rappresentati qui da sette figure attraverso la cui storia Han Kang parla a tutti noi: le nostre vite sono indelebilmente segnate dal passato, così come lo sono quelle piene di speranza, paura (e lutti) dei personaggi descritti. La memoria si conferma elemento fondamentale, memoria intesa come strumento di costruzione e decostruzione dell'identità personale, familiare, sociale, storica.
Se il mondo contemporaneo cercava una cantrice della fragilità umana, di quella spasmodica ricerca di un atto di comprensione, di gentilezza, di ricomposizione nei nostri momenti più bui, l'ha trovata in Han Kang.
E forse non è solo il mondo contemporaneo ad averne bisogno, è il mondo in sé.
]]>Il Documento Programmatico si inquadra nel framework dei documenti economici che lo Stato Membro rilascia, di concerto con la Commissione e l’Eurogruppo, con lo scopo di raggiungere un’armonizzazione delle condizioni macroeconomiche del Paese allocando risorse e definendo politiche fiscali per il bilancio dell’anno successivo. Del set di documenti fanno parte, oltre al DPB, il DEF rilasciato in primavera, la NaDef di settembre, il Piano Strutturale di Bilancio (che quest’anno sostituisce la NaDef), la Legge di Bilancio ed il Rendiconto Generale dello Stato.
Il DPB ha lo scopo di anticipare i contenuti della Legge di Bilancio verificandone ex ante la sua congruità e la sua coerenza con gli obiettivi europei.
Per questa ragione il DPB deve indicare quale sarà la politica fiscale che il governo intenda perseguire per raggiungere i suoi obiettivi nel rispetto delle regole di bilancio.
La compagine che forma il governo si era presentata agli elettori con un vasto programma di alleggerimento delle imposte, di allentamento dei vincoli pensionistici, di progressiva ed automatica riduzione delle accise sui carburanti, di erogazione di risorse a favore delle famiglie, per un valore complessivo per l’intera legislatura che nel 2022 avevamo quantificato in poco meno di 200 miliardi.
Con le prime due leggi di bilancio Meloni e Giorgetti erano riusciti a trovare risorse per la riduzione del cuneo fiscale (10,5 miliardi) e per l’estensione dell’Assegno Unico Universale (3 miliardi).
Non hanno invece trovato spazio per riduzione generale delle imposte attraverso l’alleggerimento delle aliquote Irpef, cancellazione o riduzione di accise, superamento (tanto declamato quanto rimandato) delle norme in materia pensionistica.
Giorgetti, al di là della retorica aggressiva contro stampa ed opposizioni usata durante la presentazione, ha dovuto giocare di rimessa soprattutto con i suoi colleghi di governo, contrari ad ogni ipotesi di reperimento delle risorse attraverso tassazione o attraverso riduzione della spesa. Ne è nato un balletto di ipotesi, smentite quasi in tempo reale, di aumento delle accise sul gasolio, di tassazione degli extraprofitti del settore bancario, di tagli puntuali della spesa dei ministeri. In definitiva quello che il MEF è riuscito a dare agli appetiti ed alle promesse di Giorgia Meloni è stato solo confermare il taglio del cuneo fiscale e la parziale decontribuzione per le imprese che assumono.
In realtà molto poco, soprattutto annunci. Non riuscendo a mettere in piedi un quadro di politiche fiscali per l’ostruzione delle componenti di governo, Giorgetti ha rimandato alle Camere dove verrà presentato, ed emendato, il Disegno di Legge di Bilancio. Sarà durante le discussioni nelle commissioni Bilancio di Camera e Senato che la manovra prenderà forma.
Nel dettaglio il DPB contiene poche misure.
Dopo una lunga trattativa con l’ABI Giorgetti è riuscito ad ottenere l’anticipazione delle Imposte Differite Attive, che un decreto del 2010, in piena e pesante crisi di sistema, aveva trasformato in crediti d’imposta a compensazione delle perdite attese negli esercizi futuri per i crediti deteriorati. Attraverso questa misura le banche anticiperanno il versamento delle imposte nel 2025 e nel 2026, per poi riottenere i crediti a partire dal 2027. Si tratta, come è evidente, non di una misura strutturale, bensì di una forma di prestito forzoso imposto, o per meglio dire concordato, con gli istituti di credito. Questo maggior versamento, calcolato in 3,5 miliardi per il biennio in corso, sarà poi restituito alle banche titolari del credito. Data la natura dell’operazione, a meno di ulteriore decisione politica nella legge di bilancio 2026, siamo in presenza di un versamento una tantum nelle casse pubbliche a copertura di spese ricorrenti.
Non è esclusa, al momento, la possibilità che Banche ed assicurazioni possano traslare queste imposte temporanee sui costi per servizi imposti alla clientela.
Come detto qui, non c’è nessuna riforma ma solo la conferma di quanto già determinato con la legge di bilancio dello scorso anno. Sulla ridefinizione delle aliquote con riduzione da tre a due, e con riduzione dell’imposta di 2 punti per il secondo e il terzo scaglione, non c’è spazio in bilancio. Il governo, nonostante le entrate fiscali vadano complessivamente bene (+6,1% aggregato), non è nelle condizioni di ridurre il carico fiscale sul ceto medio, come invece promesso più volte.
L’eventuale maggior gettito derivante dal concordato, sarà destinato, qualora ci siano le condizioni, alla riduzione della sola seconda aliquota. Tuttavia, anche in questo caso dobbiamo esser scettici giacché si andrebbe a coprire una riduzione di imposte strutturale mediante coperture una tantum.
Vengono confermate le ZES e la riduzione al 5% delle imposte sui premi di produttività
Viene istituita la “Carta per i nuovi nati” (ex bonus bebè) del valore di 1000 euro per le famiglie con ISEE inferiore a 40.000 euro e confermata l’esclusione dal calcolo dell’ISEE dell’Assegno Unico Universale. Troppo poco, e quindi inutile, per dare impulso alla natalità.
Su questo punto occorre prendere coscienza che non saranno pochi e mal distribuiti bonus ad invertire il trend demografico che vede la popolazione residente in Italia calare del 10% in poco più di un ventennio, secondo le stime Istat.
Non avendo mai affrontato in modo serio e programmato il contenimento della spesa, Giorgetti è dovuto ricorrere ad una riduzione del 5% delle dotazioni ai ministeri. Già l’anno scorso era ricorso ad un taglio lineare del 3,5% a valere sulle spese discrezionali. In assenza di maggiori dettagli, non presenti neanche nelle 38 pagine del documento, dobbiamo presumere che anche quest’anno i tagli colpiranno orizzontalmente le spese discrezionali. Considerando come la spesa pubblica abbia raggiunto la cifra di 1.215 miliardi e quella primaria netta (rilevante ai fini del rispetto del Patto di stabilità) i 1.014 miliardi, appare stridente con la realtà la mancanza di programmazione di una vera, seria e rigorosa revisione della spesa. Poiché il Piano strutturale di bilancio prevede che la sostenibilità del debito nei prossimi 7 anni passerà attraverso la realizzazione di avanzi primari dell’ordine dei 14-15 miliardi l’anno, questo rimandare una riforma necessaria da decenni non prefigura nulla di buono. Il governo conta di uscire nel 2027 dalla procedura d’infrazione per disavanzo ma, per ora, sembra poco più di un desiderio.
Di sostanziale in questo DPB c’è poco altro. Come già detto, è un documento privo di visione, senza riforme, e che mira da una parte a mantenere il poco esistente, e dall’altra a scaricare sugli esercizi successivi il peso dei conti. L’inasprimento delle accise sui carburanti, e forse anche su altri beni, vedi le sigarette, potrebbe arrivare attraverso un emendamento dello stesso governo in sede di commissione; esperimento già visto quando nel 2022 cancellò lo sconto deciso dal governo Draghi.
In altri termini, al momento la legge di bilancio è ancora tutta da costruire e questo DPB non va oltre i proclami delle intenzioni.
Si potrà sempre dire che meglio il quasi nulla che si è fatto che le baldanzose ed irrealistiche promesse elettorali, ma quando il Paese è appena sopra la linea di galleggiamento basta poco (uno shock internazionale ad esempio) affinché affoghi.
]]>Oggi, l’impegno militare di Mosca in Africa non si misura sulle relazioni bilaterali ufficiali (per esempio, gli export di armamenti), bensì attraverso la cooperazione militare informale con i Paesi più ricchi, instabili e strategicamente contesi del continente: i Paesi del Sahel.
Per “Sahel” si intende la vasta fascia del Sahara meridionale che unisce l’oceano Atlantico al Mar Rosso, attraversando 12 Paesi: la sua “regione politica”, così come è stata definita dalle Nazioni Unite, comprende 10 Stati: Senegal, Gambia, Mauritania, Guinea, Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad, Camerun e Nigeria (1) .
Nel 2023, secondo quanto riportato dall’Institute for Economics and Peace (IEP) nel Global Terrorism Index 2024, il Sahel ha registrato il 47% delle morti per terrorismo a livello globale. Il Burkina Faso è stato il paese più colpito al mondo, registrando quasi 2.000 morti a seguito di 258 attentati. Si tratta di un quarto delle morti totali per terrorismo, in un solo Paese. Nell’intera regione, si stima che il terrorismo sia incrementato di più del 2.000% in poco più di quindici anni. Basti pensare che tra i 20 attentati più letali del 2023, 13 sono avvenuti nel Sahel: 7 in Burkina Faso, 2 in Mali, 2 Niger e 2 in Nigeria, tutti ad opera dello Stato Islamico (IS/ISWA) o del gruppo jihadista affiliato ad al-Qaeda “Jamaat Nusrat Al-Islam wal Muslimeen” (JNIM).
]]>Con questo evento, l’Italia rischiava di diventare complice dei crimini di guerra di Vladimir Putin. È possibile che il nostro Paese stia legittimando, anche indirettamente, la deportazione e la rieducazione forzata di bambini ucraini? Queste domande sollevano preoccupazioni, che mettono in gioco i valori fondamentali di giustizia e diritti umani sui quali si basa l’Italia.
Luhansk, una regione occupata illegalmente dalla Federazione Russa dal 2014, è diventata una prigione a cielo aperto per i bambini ucraini. Questi bambini, nati in Ucraina – un paese democratico, ricco di storia e cultura nazionali – diventano ostaggi di un’educazione imposta dall’invasore, che mira a cancellare la loro identità ucraina e sostituirla con un’identità fittizia e militarizzata, creata dal regime occupante. A questo si aggiunge la tragedia degli orfanotrofi, dove i bambini che hanno perso i genitori o sono stati forzatamente separati dalle loro famiglie vengono privati delle loro radici e inseriti in programmi di “rieducazione” nella Federazione Russa. Con l’invasione su larga scala del 2022, il numero di bambini sottratti al loro contesto culturale e nazionale è aumentato drasticamente. La Corte Penale Internazionale ha emesso un mandato di cattura contro Vladimir Putin, accusandolo di crimini di guerra per queste deportazioni e rieducazioni forzate. Eppure, l’Italia si trovava a ospitare un evento che sembrava voler legittimare e persino sostenere tali pratiche.
Il disegno di legge - come si può già intuire - è di notevoli dimensioni: composto da 38 articoli - raggruppati in sei capi - esplora moltissime tematiche molto differenti tra loro. In questa trattazione, perciò, non verrà compiuta un’analisi cronologica ed integrale degli articoli, ma si tenderà ad occuparsi dei temi maggiormente attenzionati dall’opinione pubblica. Si è scelto, di conseguenza, di cominciare, in questa prima parte, individuando le misure contro la commercializzazione della Cannabis.
Si prenda in considerazione l’articolo 18, in tema di Cannabis. L’articolo è inserito nel secondo capo del testo, rubricato come Disposizioni in materia di sicurezza urbana. Gli esponenti dell’attuale maggioranza non hanno mai lasciato dubbi sulla loro opinione fortemente negativa verso tale sostanza. Difatti, il giudizio negativo viene rimarcato fortemente sia nella rubrica sopracitata sia all’interno del primo comma dell’articolo medesimo: si tratterebbe, dunque, di un prodotto che può favorire [...] comportamenti che espongono a rischio la sicurezza o l’incolumità pubblica o[...] la sicurezza stradale.
In questa sede non si discuterà nel merito di questa visione politica, quanto in riferimento all’entità della riforma: l’articolo 18 introduce, infatti, modifiche agli articoli 1 e 2 della legge 242 del 2016.
Questa riforma ha dato adito a numerose critiche da parte dei fautori della legalizzazione della Cannabis, i quali avevano visto nella legge del 2016 un baluardo per difendere la commercializzazione della Cannabis light, cioè la canapa con un livello ridotto di delta-9-trans-tetraidrocannabinolo - o, altrimenti, THC. Nei confronti di questa argomentazione è necessario, tuttavia, precisare che il concetto di Cannabis light (o legale) non è da porre in relazione con la legge 242/2016. Per comprendere ciò, è necessario fare un passo indietro.
Tra le fonti oggi in vigore, quella più antica proviene dal diritto internazionale: nel 1961, una serie di Stati - tra cui l’Italia - conclusero una Convenzione a New York in materia di stupefacenti; l’esigenza di questo accordo derivava dalla consapevolezza dell’utilità di queste sostanze in campo medico e della loro pericolosità in caso di una loro circolazione non controllata (e, quindi, illegale): dunque, della necessità di un bilanciamento tra l’esigenza medica e quella di pubblica sicurezza.
Tra queste sostanze è presente anche, sebbene parzialmente, la Cannabis: nell’art.1 la definizione di canapa designa le sommità fiorite o fruttifere della pianta di canapa [...] dalle quali non sia stata estratta la resina, qualunque sia la loro utilizzazione. Si deve, quindi, intendere che, ai fini della punibilità, ci si riferisce solo a ciò che fa parte delle sommità - dunque, non il fusto; vengono esplicitamente esclusi i semi e le foglie non accompagnate dalla sommità.
La normativa estera è poi completata a livello europeo, i cui regolamenti e direttive hanno da una parte inserito la canapa tra le sostanze stupefacenti, dall’altra hanno posto delle restrizioni per ammettere la coltivazione della canapa industriale (sia pure soltanto con valori di THC inferiori allo 0,2%) per determinate finalità. Tutto ciò vincola l’Italia ex artt. 10, 11, 117 della Costituzione.
Nel nostro Paese, invece, sono due le fonti che si devono tenere in massima considerazione. La prima è il D.P.R. 309/1990, all’interno delle cui tabelle è stato inserito un numero molto vasto di sostanze stupefacenti, tra cui il THC: se quest'ultimo è ottenuto in modo sintetico (spice, kush), si deve ricercare nella Tabella 1; se, invece, è presente all’interno di derivati vegetali della canapa, nella Tabella 2. Oltreché sulla pericolosità di gran lunga maggiore dei prodotti sintetici, la distinzione rileva dal punto di vista della sanzione: nel caso di commissione - con sostanze alla Tabella 1 - di una condotta fra coltivazione, produzione, fabbricazione, estrazione, raffinamento, vendita, offerta o messa in vendita, cessione o ricezione, distribuzione, commercio, acquisto, trasporto, esportazione, importazione, procurare ad altri, invio, passaggio o spedizione in transito, consegna oppure illecita detenzione, la reclusione varia tra i 6 e i 20 anni; nel secondo caso, la reclusione si riduce ad un arco tra 2 e 6 anni. Se si tratta di uso personale, il fatto non costituisce reato ma resta comunque punito ai sensi dell’art. 75. D’altra parte il D.P.R., in osservanza del diritto europeo, ammette all’art. 26 la coltivazione della canapa limitatamente alla produzione di fibre ed altri usi industriali (gli stessi individuati dalla normativa europea): se nel caso concreto mancassero questi presupposti, qualsiasi condotta integrerebbe reato.
La seconda fonte è, invece, la legge 242/2016, che legalizza una serie di prodotti elencati dall’art. 2 comma 2 che possono essere ottenuti - senza necessità di autorizzazione - dalla lavorazione della canapa: si tratta di un elenco da interpretare in senso stretto, al punto che ogni derivato non espressamente ricompreso all’interno del comma 2 non troverà la propria applicazione nella legge del 2016 bensì nel D.P.R. del 1990 e sarà, dunque, proibito. Inoltre, si deve aggiungere che la canapa cui fa riferimento questa legge è quella indicata dalla direttiva europea 2002/53/CE, che, come già detto prima, individuava il limite massimo di THC allo 0,2%.
A questo punto si potrà comprendere l’incisività della nuova riforma che, in primo luogo, inserirebbe il termine industriale al comma 1 dell’art. 1: al tempo l'aggettivo era stato dato per scontato, data la centralità nella normativa europea del carattere industriale. Tuttavia, come afferma il Dipartimento per le politiche antidroga, in questi anni si è insinuata nella collettività non solo la falsa idea che questa legge abbia spalancato le porte alla Cannabis light, ma anche l’opinione altrettanto erronea che la lavorazione della canapa sia ammessa anche ad un livello non industriale. Perciò, col fine di dirimere qualsiasi dubbio, si effettuerebbe con il Ddl un intervento di affermazione politica.
Stessa cosa si può dire dell’aggiunta del termine professionale alla coltivazione destinata al florovivaismo, una delle pratiche ammesse dall’art. 2 comma 2. In più, verrebbe aggiunto ad entrambi gli artt. il comma 3-bis, che vieta l’importazione, la cessione, la lavorazione, la distribuzione, il commercio, il trasporto, l’invio, la spedizione e la consegna delle infiorescenze della canapa coltivata ai sensi del comma 1 del presente articolo, anche in forma semilavorata, essiccata o triturata, nonché di prodotti contenenti o costituiti da tali infiorescenze, compresi gli estratti, le resine e gli oli da esse derivati [...]. Anche in questo caso, si possono replicare le riflessioni precedenti: non è un’innovazione giuridica bensì una mera affermazione politica, perché i prodotti e le condotte del comma 3-bis attualmente non rientrano comunque nel comma 2 in quanto mai stati leciti. Anche senza la riforma, infatti, le infiorescenze, le resine e gli oli, sostanze incluse oltretutto nella definizione di canapa data dalla Convenzione di New York, sarebbero già vietate dal D.P.R. 309/1990.
Se, perciò, la riforma non riforma ma afferma, vorrebbe dire che la canapa è sempre stata illegale? Non completamente. Tuttavia, la risposta non è legata alla legge del 2016, bensì ne prescinde.
La Cannabis light non è frutto di un equivoco collettivo, ma non è stata neanche consacrata da un intervento normativo: la sua formazione proviene dall’ambito scientifico in quanto si tratta di canapa con un livello così basso di THC (in favore del CBD) che in concreto non ha alcuna efficacia drogante.
Quest’ultima espressione è stata coniata nella sentenza 30475/2019 ad opera delle Sezioni Unite della Cassazione: se la sostanza ha efficacia drogante, la commercializzazione al pubblico dei derivati della coltivazione della cannabis, quali foglie, infiorescenze, olio, resina integra reato ai sensi del D.P.R. 309/1990; in caso contrario, il fatto non sarà punibile perché in concreto non lesivo del bene protetto, cioè la sicurezza pubblica. Questa soluzione, tuttavia, è tanto chiara in astratto quanto lacunosa nel concreto, perché, senza un riferimento a priori che sia numerico, la decisione è rimandata ad ogni singolo giudice: la conseguenza, non assurda in questi casi tecnici, è che l’applicazione del diritto vari a seconda sia dell’idea che il giudice ha di questa tematica sia delle perizie che verrebbero fatte di volta in volta, con un’evidente lesione alla certezza del diritto. Perciò la soluzione più plausibile sarebbe quella di tenere come riferimento il valore numerico più condiviso dalle ricerche mediche storicamente effettuate, nonostante la sentenza del 2019 sembri distaccarsene.
Il punto è: esiste questo valore numerico? La risposta è affermativa e coinciderebbe con una percentuale di THC pari o inferiore allo 0,5%. Questo valore è di gran lunga quello più condiviso, al punto che ha ispirato il nostro Parlamento nella legge del 2016 a inserire - all'art. 4 - una causa di non punibilità per l’agricoltore che abbia coltivato canapa con una percentuale superiore allo 0,2% ma inferiore allo 0,6%. Tuttavia, vanno fatte delle precisazioni: la sentenza del 2019, nonostante abbia erroneamente rifiutato ogni riferimento numerico, non aveva completamente torto nel dubitare di questa percentuale.
Il motivo è da individuare nel fatto che è molto complicato prevedere in astratto quando la canapa non abbia efficacia drogante, proprio perché tale efficacia dipende da molti fattori. In primo luogo, a ridurre la prevedibilità, la variabilità genetica intrinseca alle specie vegetali: nella legge del 2016, infatti, ai fini del calcolo, è prescritto l’obbligo di effettuare una media aritmetica tra i campioni analizzati; peraltro in un caso giudiziario, dove non si hanno campioni estesi, la variabilità genetica potrebbe complicare - e non di poco - il compito a un giudice che usi in modo acritico il dato numerico. Poi, soprattutto nei prodotti derivati, la presenza ulteriore dell'acido Δ9 -tetraidrocannabinolico A, il precursore del THC: il primo elemento, infatti, nella fase di combustione si converte nel secondo - aggiungendosi a quello già presente; perciò, un campione di canapa - con il THC entro il limite consentito - dopo la combustione potrebbe oltrepassare la soglia. D’altra parte eventi come l’accensione con il fuoco, l’inalazione del fumo e il sidestream smoke (il fumo emesso dal solo bruciare della sigaretta) - molto comuni con questa sostanza - comportano una riduzione del THC effettivamente assorbito.
Detto ciò, sarebbe auspicabile l’intervento del Legislatore in tal senso: è inutile continuare con il proibizionismo se nei tribunali è pacifica la possibilità di una mancata offensività in concreto; al contrario, per perseguire al meglio la certezza del diritto, è più ragionevole fissare una soglia chiara ma soprattutto sensata, al di sopra della quale è presunto l’effetto drogante. Infine, si dovrebbe chiarire quale debba essere il momento di rilevazione della percentuale: se fosse antecedente alla combustione, ci si esporrebbe meno alle variabili illustrate sopra; se susseguente, sarebbe più in linea con la ricerca di un effettivo effetto drogante.
]]>Ma è davvero così? Guardando il nostro sistema scolastico siamo davvero di fronte a una sostituzione totale dell'umanesimo con la tecnica, o questo è un fenomeno più complesso e sfumato? Questo articolo si propone di esplorare se tale percezione ha un fondamento reale e lo fa partendo da una rapida analisi del sistema scolastico nella scuola secondaria per poi arrivare ad esaminare dati concreti come il numero di iscritti per tipologia di corsi e relative aree disciplinari e l’evoluzione dei piani di studio e delle offerte didattiche per i diversi cicli di istruzione.
Nel 1923 Giovanni Gentile, allora Ministro della pubblica istruzione nel governo mussoliniano, introdusse un'importante riforma, la cosiddetta Riforma Gentile. È con questa riforma che nasce una sorta di culto della cultura umanistica, che viene così saldata nel sistema educativo italiano. Inoltre, la Riforma Gentile segnò la nascita di un’idea di scuola orientata non solo alla formazione del futuro professionista, ma anche a forgiare l’individuo adatto al futuro regime fascista. Dunque, è negli anni di questa riforma che la scuola secondaria assume il carattere gerarchizzante, classista e classicista che - seppur con le normali evoluzioni del tempo - ritroviamo ancora oggi.
Nel dettaglio, dal punto di vista organizzativo, la riforma stabilì una netta distinzione tra licei da una parte ed istituti tecnici, professionali (la scuola complementare) e magistrali dall’altra. In particolare:
LA SCUOLA COMPLEMENTARE
La scuola complementare rappresentava il percorso di chi non intendeva proseguire gli studi accademici o di secondo grado e si proponeva di formare principalmente la futura classe lavoratrice. Non a caso nel 1928 queste scuole vennero trasformate in scuole di avviamento professionale, rafforzando così il loro ruolo di preparazione pratica per l’ingresso immediato nel mondo del lavoro.
I PERCORSI LICEALI: CLASSICO, SCIENTIFICO, FEMMINILE
Nella riforma gentiliana i percorsi liceali avevano un elemento comune: offrivano una formazione di alto livello che prevedeva lo studio delle materie umanistiche in primis, come lingua e letteratura italiana, filosofia, storia e latino, discipline considerate fondamentali per lo sviluppo.
All’interno del liceo classico - percorso d’eccellenza che “ha per fine di preparare alle Università ed agli Istituti superiori” (art.39) - lo studio del latino e del greco, insieme a filosofia, storia e letteratura formavano il cuore di questo indirizzo volto alla formazione dell'élite intellettuale del paese.
Anche nei licei scientifici - scuole che “hanno per fine di sviluppare ed approfondire l’istruzione dei giovani che aspirino agli studi universitari nelle Facoltà di scienze e di medicina e chirurgia, con particolare riguardo alla cultura scientifica” (art.60) - l’istruzione scientifica era comunque subordinata all’insegnamento delle materie umanistiche: sì a matematica, fisica, chimica e scienze naturali ma anche a letteratura, filosofia, storia e latino.
ISTITUTI TECNICI
Negli istituti tecnici, allora come oggi orientati verso la formazione professionale (art.45) - in particolare “all’esercizio di uffici amministrativi e commerciali” (art.49) se si proseguiva con la sezione di commercio e ragioneria e “alla professione di geometra” (art.49) se si proseguiva con la sezione di agrimensura - si prevedeva ancora lo studio di materie scientifiche e tecniche come l’economia politica, la scienza finanziaria e statistica, la chimica, la fisica, ecc. ma sempre e comunque affiancate da materie prettamente umanistiche tra cui anche il latino nonostante queste scuole non avessero il compito di formare la futura classe dirigente ed intellettuale del paese, ma solo coloro che avrebbero dovuto ricoprire unicamente ruoli nel tessuto produttivo del paese.
SCUOLA MAGISTRALE
La stessa situazione si ripeteva nella scuola magistrale - quella che “ha per fine di preparare gli insegnanti delle scuole elementari” (art.53) e nei licei femminili - che avevano per fine “d'impartire un complemento di cultura generale alle giovinette che non aspirano né agli studi superiori né al conseguimento di un diploma professionale” (art.65) - con una relativa prevalenza di materie umanistiche (vista anche la funzione di questi corsi).
Dunque, ad eccezione delle scuole complementari - che erano quelle praticamente destinate alla futura classe lavoratrice - in tutte le scuole secondarie era previsto come base lo studio della lingua e letteratura italiana, della storia e del latino. Questo avveniva anche in quelle scuole dichiaratamente destinate a coloro che intendevano assumere un ruolo nel sistema produttivo del paese (gli istituti tecnici) e coloro che intendevano proseguire i loro studi in campi prettamente scientifici, cioè la medicina e la chirurgia (liceo scientifico). L’idea sottesa era che lo studio di materie umanistiche come quelle sopracitate poteva formare cittadini consapevoli e futuri intellettuali: la tecnica da sola non bastava o, anzi, aveva un’altra funzione.
Gentile era un forte sostenitore dell’importanza ed essenzialità delle discipline umanistiche nello sviluppo di una coscienza critica ed una cittadinanza industriale, ma l’industrializzazione del paese prima e la tecnologizzazione che ci ritroviamo a vivere ora stanno mettendo a dura prova questa visione nei fatti anche se, a livello culturale, è ancora dura da scalfire.
Seppur la riforma Gentile abbia lasciato una forte eredità nel nostro sistema scolastico, questo oggi è diverso. Guardando sempre alla scuola secondaria, sia di primo che di secondo grado, oggi abbiamo le scuole medie unificate, che sono state istituite con la riforma della scuola media unica del 1962 (2) e le scuole superiori nei loro vari indirizzi, che ricordano molto quelli della riforma Gentile pur avendo subito alcuni adattamenti con la riforma Gelmini del 2010.(3)
SCUOLA SECONDARIA DI PRIMO GRADO
Nella scuola secondaria di primo grado o scuola media è previsto lo studio obbligatorio di discipline base distribuite come segue (Tabella 1): italiano, lingua inglese e seconda lingua comunitaria, storia, geografia, matematica, scienze, musica, arte e immagine, educazione fisica e tecnologia, con l’aggiunta dell’educazione civica (che è inserita nell’area storico-geografica).
Alcune scuole prevedono una sorta di specializzazione attraverso dei percorsi a indirizzo musicale in cui, allo studio delle discipline obbligatorie, si aggiunge lo studio di uno strumento musicale, ma lo svolgimento di questi insegnamenti si svolge oltre l’orario obbligatorio.
settimanale | annuale | |
Italiano, Storia e Geografia | 9 | 297 |
Attività di approfondimento in materie letterarie | 1 | 33 |
Matematica e scienze | 6 | 198 |
Tecnologia | 2 | 66 |
Inglese | 3 | 99 |
Seconda lingua comunitaria | 2 | 66 |
Arte e immagine | 2 | 66 |
Scienze motorie e sportive | 2 | 66 |
Musica | 2 | 66 |
Provando a guardare la distribuzione delle varie discipline all’interno dell’orario annuale (tabella 1) in termini percentuali, le discipline umanistiche di base (che raggruppate sono italiano, storia, geografia) rappresentano il 31% contro il 21% di quelle scientifiche di base ovvero matematica e scienze (Figura 2).
]]>Le linee guida a firma del Ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, si rifanno alla Legge 20 agosto 2019, n.92[1], che ha introdotto l’insegnamento dell’educazione civica ed ha previsto appunto la redazione di specifiche linee guida, dettate in prima battuta dal Decreto ministeriale 22 giugno 2020, n.35 [2].
L’attuale Ministro ha adottato le nuove linee guida, oggetto di questa disamina, con Decreto ministeriale n.183 del 7 settembre 2024 [3].
Andando per ordine, il primo punto su cui si concentra la normativa è l'importanza della nostra carta costituzionale, da cui il Ministro parte per sottolineare la centralità dell’individuo come cardine intorno al quale costruire un curriculum che ne valorizzi i compiti all’interno della compagine sociale.
Il singolo è perciò titolare di diritti ma anche di doveri, è responsabile delle proprie azioni ed contribuisce, attraverso la propria realizzazione in quanto cittadino, a quella della società nel suo complesso.
In questo senso le linee guida, che dovranno essere messe a terra attraverso una serie di attività trasversali al curriculum scolastico in un monte ore annuo non inferiore alle 33 ore, pongono subito l’accento su come i principi fondamentali della Costituzione siano il mezzo attraverso il quale si può concretizzare la piena integrazione nel paese degli alunni di origine straniera e più in generale l'integrazione di ciascuno studente all'interno dell’Unione Europea e del consesso internazionale nella sua globalità.
I punti salienti messi in evidenza dalla normativa sono:
Uno degli aspetti su cui le linee guida puntano è la trasversalità dell’insegnamento dell’educazione civica. Nel documento si legge che “Il Collegio dei Docenti e le sue articolazioni, nonché i team docenti ed i consigli di classe, nella predisposizione del curricolo e nella sua pianificazione organizzativa, individuano le conoscenze e le abilità necessarie a perseguire i traguardi di competenza fissati dalle Linee Guida, attingendo anche dagli obiettivi specifici in esse contenuti.” In questo senso i singoli istituti sono chiamati a predisporre attività che, coerentemente con i contenuti specifici di ogni disciplina e trasversalmente a ognuna di esse, si richiamino ai concetti chiave descritti nel documento in oggetto in modo da rendere i contenuti coerenti con i temi trattati quotidianamente dai singoli docenti.
La sezione dedicata alle indicazioni metodologiche merita particolare attenzione.
All’interno delle linee guida si fa riferimento all’ambiente scolastico come ad un ambiente integrato in cui spazi, docenti e alunni collaborano in un’ottica laboratoriale al fine di trasformare le aule in veri e propri spazi di convivenza civile.
Si deve per questo privilegiare un approccio che ponga al centro il lavoro cooperativo, la progettualità, la consapevolezza attiva dei processi di apprendimento da parte degli alunni, indipendentemente dai contenuti veicolati, in modo da trasformare la scuola in un vero e proprio spazio civico in quanto tale, che vada al di là della memorizzazione dei principi contenuti nella carta costituzionale, che vanno vissuti ed interiorizzati nella pratica quotidiana.
Nello specifico si legge che “le visite e le uscite sul territorio, le attività di cura e di responsabilità come il service learning, i progetti orientati al servizio nella comunità, alla salvaguardia dell’ambiente e delle risorse, alla cura del patrimonio artistico, culturale, paesaggistico, gli approcci sperimentali nelle scienze sono tutte attività concrete, da inserire organicamente nel curricolo, che possono permettere agli studenti non solo di “applicare” conoscenze e abilità, ma anche di costruirne di nuove e di sviluppare competenze.”
L’insegnamento dell’educazione civica, nel primo ciclo d’istruzione, è affidato in contitolarità ai docenti di classe in base al curriculum dell’area di insegnamento utilizzando anche l’organico dell’autonomia. Nel secondo ciclo d’istruzione il ruolo di coordinatore è affidato ad un docente di discipline giuridico-economiche, se presente, a più docenti “competenti per i diversi obiettivi/risultati di apprendimento condivisi in sede di programmazione dai rispettivi Consigli di classe”, se invece non presente il succitato docente di discipline giuridico-economiche.
In ogni caso i contenuti dell’insegnamento dovranno essere condivisi trasversalmente da più docenti curricolari ciascuno secondo i contenuti specifici delle proprie discipline in armonia con gli argomenti inseriti nelle linee guida.
È prevista la possibilità di assegnare una quota oraria settimanale specifica dedicata a uno o più contenuti delineati dal Ministero.
Coerentemente con quanto previsto dal PTOF (Piano Triennale dell’Offerta Formativa) di ciascun istituto, la valutazione delle competenze acquisite dovrà essere valutata trasversalmente dai docenti coinvolti nell’insegnamento dell’educazione civica, che sono invitati a una costante osservazione dei progressi degli alunni attraverso strumenti condivisi quali griglie di osservazione e rubriche, al fine di arrivare a una decisione valutativa realmente collegiale.
I contenuti legati all’insegnamento dell’educazione civica andranno proposti sin dalle prime fasi dell’insegnamento, quelle della scuola dell’infanzia, fino alle fasi conclusive, quelle del secondo ciclo di istruzione.
Lo scopo è educare gli alunni alla consapevolezza di sé e degli altri fin da piccoli per arrivare gradatamente alla comprensione del concetto di comunità, a partire da quella scolastica per arrivare a quella nazionale e sovranazionale nel rispetto dei diritti e dei doveri cui ciascuno è chiamato a partecipare. A questo scopo si richiede la graduale conoscenza della struttura dello stato attraverso i suoi organi competenti e componenti a partire dal Comune fino ad arrivare alla Comunità Europea, ma si chiede anche di approfondire “le principali realtà economiche del territorio e le formazioni sociali e politiche, le forme di regolamentazione e di partecipazione (Partiti, Sindacati, Associazioni, organismi del terzo settore…)”.
Per la prima volta si pone l'accento sul concetto di patria, inserito nel curriculum della scuola primaria.
Infine: “I traguardi per lo sviluppo delle competenze e gli obiettivi di apprendimento delineano i risultati attesi in termini di competenze rispetto alle finalità e alle previsioni della Legge e sono raggruppati tenendo a riferimento i tre nuclei concettuali: Costituzione, Sviluppo economico e sostenibilità, Cittadinanza digitale” si legge nel documento ministeriale.
Le linee guida approvate dal Ministro contengono riflessioni di ampio respiro che, se applicate gradualmente ed in un contesto collaborativo, possono portare a una maggiore consapevolezza del ruolo di ciascuno di noi all’interno della società in cui viviamo.
Lo sforzo richiesto agli istituti scolastici non è poca cosa e richiede un investimento notevole in termini di risorse e di competenze sia a livello scolastico sia a livello extrascolastico con particolare riferimento alle proposte territoriali. A tal proposito la speranza di chi scrive è che il Ministero possa allocare le giuste risorse per una proposta tanto ambiziosa.
Quello che appare d’altro canto peculiare e che caratterizza il decreto da un punto di vista squisitamente politico è la sottolineatura del concetto di Patria, uno dei vessilli della campagna elettorale dell’attuale compagine governativa e che, se non sembra aggiungere molto a livello pratico, molto dice a livello ideologico.
]]>Era il 27 novembre 1895 quando il chimico, inventore, scienziato e uomo d'affari Alfred Nobel firmò il testamento in cui disponeva il lascito delle sue ricchezze. Il fine era quello di premiare le persone che si fossero distinte nei vari ambiti di ricerca, compresa la medicina e la fisiologia. Da queste volontà nacque il Premio Nobel.
Ma quali sono le modalità della sua assegnazione?
Esistono una serie di organi all’interno del processo di scelta. Il primo di questi è l’Assemblea Nobel del Karolinska Institute, costituita dai 50 professori che svolgono attività all’interno dell’istituto stesso. Fra questi, vengono nominati 6 membri che rimangono in carica per tre anni (qui la presentazione del comitato 2024) e costituiscono il Comitato Nobel. Quest’ultimo ha la funzione di selezionare i candidati al premio Nobel e, inparticolare, di spedire delle lettere di invito confidenziali per la nomina dei candidati al premio. Tali lettere vengono inviate ai Nominatori qualificati, ovverouna serie di personalità tra le quali membri dell’Assemblea Nobel al Karolinska, membri della Royal Swedish Academy of Science, laureati Nobel, professori Ordinari in Svezia, Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia, professori Ordinari in non meno di sei facoltà di medicina mondiali e scienziati riconosciuti adatti alla selezione (fonte).
I nominatori qualificati inviano quindi le loro proposte al Comitato Nobel che le valuta e stila una lista dei candidati. I nomi vengono presentati all’assemblea e quest’ultima prende la decisione definitiva sui vincitori.
Le tappe principali del processo sono standardizzate ed in particolare iniziano nel settembre dell’anno precedente al Nobel con l’invito alla nomina, proseguono nel marzo-maggio con la valutazione dei report da parte del comitato Nobel e terminano con l’invio delle raccomandazioni all’assemblea in settembre. Quest’ultima attribuisce il premio durante la plenaria che si tiene ogni anno nella prima domenica di ottobre.
La cerimonia di premiazione avviene, invece, ogni 10 dicembre, data della morte di Alfred Nobel. Il luogo della cerimonia - dal 1926 - è il Konserthuset ovvero “Sala dei concerti” a Stoccolma. La sala viene adeguatamaente abbellita con speciali tessuti e composizioni floreali provenienti da San Remo come nelle volontà di Alfred Nobel e per la cerimonia è richiesto un particolare dress code.
Alcuni dati:
Dal 1901, anno di istituzione del premio Nobel per la medicina, sono stati assegnati 114 premi. Il premio non è stato assegnato negli anni della prima guerra mondiale, nel ‘21, nel ‘25 e durante la seconda guerra mondiale (‘40 - ‘42).
Di questi premi Nobel 40 sono stati assegnati a singoli, 35 a due scienziati, 39 a tre laureati per un totale di 227 individui. La regola è chiara: il premio è costante ed in caso di più vincitori viene ripartito in parti eque.
IL PRIMO LAUREATO: Emil Von Behring
]]>for his work on serum therapy, especially its application against diphtheria, by which he has opened a new road in the domain of medical science and thereby placed in the hands of the physician a victorious weapon against illness and deaths
La proposta di bilancio elaborata dell’Esecutivo, che il Presidente definisce la più radicalmente distinta della storia argentina, ha come pietra basale un concetto che potremmo definire il fil rouge di tutto il discorso: il deficit zero.
La storia economica argentina ha poca familiarità con questo concetto, avendo passato la quasi totalità della propria storia moderna in disavanzo fiscale.
]]>Il raggruppamento, al momento della fondazione nel 2009, comprendeva Brasile, Russia, India e Cina; nel 2010 entra a farne parte anche il Sud-Africa (BRICS):. Durante il congresso tenutosi in Sud-Africa (gennaio 2024) altri cinque membri si sono uniti all’organizzazione: Egitto, Etiopia, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita ed Iran (BRICS+).
L’importanza dei BRICS+ non è solo legata alla presenza al suo interno di paesi in via di sviluppo e con popolazioni estremamente numerose, ma anche al fatto che oltre a Cina e Russia, al suo interno siano presenti i principali attori di altri continenti, in particolare Sud-Africa e Brasile (“Brics: What is the group and which countries have joined?”).
I paesi componenti vengono considerati in via di sviluppo ma secondo quanto riportato da Bloomberg (Chang) ad oggi i BRICS+ producono il 35% del GDP globale superando di cinque punti il gruppo G7, che si ferma al 30% del GDP globale. La previsione è che la forbice incrementerà da qui al 2050, arrivando al 44% del GDP prodotto dai BRICS+ e con i paesi del G7 che impatteranno per meno della metà (21%). Ciò è in linea con quanto accade per i paesi in via di sviluppo e, nel contesto di questa gara, l’India sembra uscirne favorita, considerando inoltre che da qui al 2050 potrebbe conquistare il ruolo di “capofila” nell’organizzazione.
Inoltre, ad oggi i BRICS+ rappresentano già il 40% della popolazione mondiale (Acharya et al.) ed il valore è destinato, salvo inversioni demografiche, a salire.
I BRICS+ formalmente si presentano come una organizzazione con fini economici e di commercio (Acharya et al.). Tuttavia, in linea con quanto voluto al momento della fondazione da parte della Russia, l’obiettivo dei BRICS+ è anche quello di modificare l’ordine mondiale, tendenzialmente riposto sulle spalle degli Stati Uniti e dei loro alleati (Can).
L’annuncio dell’esilio di Edmundo González Urrutia, leader del partito dell’opposizione venezuelana, nonché uno dei suoi principali volti, rappresenta l’ennesimo capitolo di repressione del regime Chavista di Nicolás Maduro. Diplomatico di 75 anni, González Urrutia è stato forzato a lasciare il Paese dopo settimane di intense persecuzioni, culminate in un mandato d’arresto emesso nei suoi confronti. La decisione di rifugiarsi in Spagna è arrivata dopo aver cercato protezione, prima, all'interno dell’ambasciata olandese e, in seguito, nella residenza dell’ambasciatore spagnolo a Caracas. Come se non bastasse, per volare all’estero, il leader di Unidad è stato obbligato a firmare un documento che attestasse e riconoscesse da parte sua la vittoria di Maduro. Quest’ultimo ha ritenuto più utile continuare a lottare da “lontano” e da “libero” piuttosto che da dietro le sbarre.
Urrutia era stato scelto come candidato dell’opposizione per le elezioni presidenziali del 28 luglio 2024, in seguito all’esclusione per mano del regime di María Corina Machado. Nonostante la vittoria e una parvenza di speranza per la compagine democratica, il risultato delle elezioni ha scatenato una repressione ancora più dura. Il governo di Maduro lo ha infatti accusato di "sabotaggio elettorale", sostenendo che questi avrebbe divulgato documenti che attestavano falsamente la sua vittoria, andando a contestare così, dal punto di vista del Palazzo di Miraflores, il risultato ufficiale che attribuiva la vittoria al presidente in carica.
La situazione di González Urrutia si è andata aggravando rapidamente dopo le elezioni, con le forze di sicurezza venezuelane che hanno intensificato arresti e misure repressive contro l’opposizione stessa e il suo elettorato. Il regime ha messo in campo una strategia ben oliata, utilizzando il sistema giudiziario come mastino per perseguire i rivali politici e organizzando una campagna di propaganda volta a screditarli.
Le milizie paramilitari filo-governative, note come "colectivos", hanno fino a qui giocato un ruolo di primo piano nella repressione, contribuendo ad ondate di violenza che hanno portato alla morte di oltre venti manifestanti nelle settimane successive al voto.
Nonostante la fuga del suo candidato, nonché successore, principale in Spagna, María Corina Machado ha assicurato che la battaglia contro il regime di Maduro non si fermerà. La storica leader di vente promette che González assumerà la presidenza il 10 gennaio 2025, come previsto dal calendario costituzionale, e continua a difendere senza indugi la legittimità della sua vittoria elettorale, indipendentemente dal fatto che si trovi in esilio. La stessa “dama di ferro” continua ad incoraggiare il popolo a mantenersi schierato e pressante contro il regime attraverso mobilitazioni di piazza e issando alta la bandiera dell'opposizione di fronte alla repressione.
Se paragoniamo lo scenario attuale con quello post elezioni del 2019, anno in cui Juan Guaidó tentò di rovesciare Maduro autoproclamandosi presidente ad interim, la situazione venezuelana ha suscitato una risposta decisamente più convinta e significativa con un incremento del 16% delle proteste anti-governative. Tra lo scorso 28 luglio e il 23 agosto, sono state registrate oltre 280 manifestazioni anti-Maduro in tutto il paese, arrivando a coinvolgere 121 municipi, ovvero un terzo in più rispetto al 2019.
Gli stati più attivi in queste proteste sono stati fino ad ora Carabobo, Zulia e Falcón, mentre la giornata che ha visto sorgere il maggior numero di eventi è stata il 29 luglio, con ben 86 manifestazioni in tutto il paese. Questa ondata di proteste è stata particolarmente significativa essendo che ha preceduto l'appello ufficiale dell'opposizione a mobilitarsi.
La stessa diaspora venezuelana ha risposto con forza all'appello di Machado a mobilitarsi contro il regime e pretendere che vengano rispettati i risultati elettorali. Il 17 agosto 2024, migliaia di venezuelani si sono riversati nelle strade di 92 città in 18 paesi, tra i quali Stati Uniti, Spagna e altre nazioni europee.
Tuttavia, mentre le manifestazioni contro l’attuale regime sono aumentate, soltanto sette paesi hanno ufficialmente riconosciuto González come presidente eletto, in netto contrasto con il 2019, quando oltre 60 stati riconobbero Guaidó quale leader legittimo. La maggior parte dei governi stranieri ha infatti adottato una posizione più cauta.
I tentativi diplomatici promossi dai paesi limitrofi, quali Brasile, Messico e Colombia, non hanno né prodotto né forse ricercato, considerando le rispettive simpatie tra leader, risultati concreti. Nonostante miseri appelli alla mediazione, il regime di Maduro ha dimostrato una ferma determinazione nel non voler scendere a compromessi. Alcuni paesi avevano riposto speranze in una possibile transizione negoziata, grazie alla mediazione di leader latinoamericani con un certo grado di influenza su Maduro, ma finora questi sforzi sono falliti.
Nonostante la forte risposta interna ed esterna, il regime di Maduro ha continuato e continua a stringere sempre più la presa sul potere, aumentando repressione e detenzioni. Oltre 2.000 cittadini sono stati arrestati dalle forze di sicurezza, molti dei quali semplicemente accusati di partecipare alle proteste o di esprimere dissenso.
Questa situazione ha infatti ulteriormente peggiorato il clima di terrore nel paese, con molti oppositori costretti a nascondersi o cercare rifugio presso ambasciate straniere. La stessa ambasciata argentina a Caracas è stata assediata dalle forze governative per aver dato riparo a sei consiglieri della campagna di González in modo da evitare l’arresto. Nessun oppositore politico può attualmente sentirsi al sicuro in Venezuela.
Il contesto attuale ha infatti spinto molti osservatori internazionali e parte dell’elettorato più suscettibile, a mettere in dubbio le possibilità di successo dell'opposizione qualora non si decida di perseguire una strategia più efficace. Alcuni analisti ritengono che insistere unicamente sulla questione della legittimità della vittoria di González, organizzando occasionali manifestazioni, non sia sufficiente per arrivare ad una svolta. Secondo Phil Gunson, esperto di politica venezuelana, l'opposizione deve formulare un piano che mantenga viva sia la mobilitazione popolare domestica che l'attenzione internazionale, altrimenti si rischiano di perdere slancio ed entusiasmo.
Dunque, nonostante il pesante esilio di González e la difficoltà nel mantenere alta la guardia in tempi di repressione, l'opposizione venezuelana continua a lottare per una transizione democratica, cercando di mantenere viva la mobilitazione sia all'interno del paese che sul piano internazionale. Il futuro politico del Venezuela rimane incerto.
La crisi attuale e i suoi risvolti dipenderanno tantissimo dal ruolo cruciale della mobilitazione e da come questa riuscirà a perpetuare la propria pressione nei confronti del regime di Maduro, complementarmente al mantenimento di un’elevata mediaticità internazionale di fronte allo scandaloso risvolto autoritario.
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Immagina un mondo in cui chi ha commesso i peggiori crimini contro l’umanità può ancora influenzare le sorti della pace globale.
Sembra assurdo, eppure è la realtà con cui ci troviamo a convivere. Mentre i leader mondiali si sono riuniti a New York per la 79ª Assemblea Generale delle Nazioni Unite, una domanda sorge spontanea: com’è possibile che un uomo come Vladimir Putin, sotto mandato di cattura internazionale, continui a esercitare un’influenza così decisiva nelle strutture di potere internazionali?
Putin, accusato di crimini di guerra dalla Corte Penale Internazionale, non è presente a New York. La sua assenza non sorprende, considerando che la sua libertà di movimento è limitata dal mandato di cattura internazionale. Eppure, la Federazione Russa continua a mantenere un potere chiave all’interno delle Nazioni Unite, un potere che paralizza ogni tentativo di intervento per risolvere conflitti e promuovere la pace.
Il mandato di cattura internazionale rende Putin ufficialmente un criminale di guerra, eppure la Federazione Russa si oppone a questa definizione e rifiuta ogni cooperazione con la Corte Penale Internazionale. Mentre il mondo attende giustizia, Putin, tramite il suo ministro degli Esteri, Sergej Lavrov, continua a influenzare le decisioni delle Nazioni Unite da lontano.
Questo paradosso solleva una questione morale e pratica: come possiamo parlare di giustizia internazionale quando un capo di Stato, che pretende di essere un leader globale, accusato di crimini gravissimi, può continuare a bloccare gli sforzi per la pace?
Il seggio della Federazione Russa al Consiglio di Sicurezza: un’eredità ingannevole
Il seggio della Federazione Russa al Consiglio di Sicurezza, con il diritto di veto, affonda le sue radici in un’eredità storica poco chiara. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, la Federazione Russa ha ereditato il seggio dell’URSS senza un processo formale, senza discussioni e senza un voto internazionale. Mentre altri membri permanenti hanno ottenuto i loro posti attraverso trattati e accordi chiari, la Federazione Russa si è semplicemente autoproclamata erede, nel silenzio globale dovuto alla confusione e alle trasformazioni geopolitiche, di una posizione di privilegio che era spettata alle potenze vincitrici della seconda guerra mondiale.
Com’è possibile che un seggio ottenuto senza un vero processo democratico possa avere il potere di fermare ogni tentativo di cooperazione globale? Questa domanda rimane centrale, mentre vediamo come la Federazione Russa utilizzi il suo potere per proteggere i propri interessi, anche quando questi interessi contravvengono alla pace internazionale.
Il potere del veto: un’arma per bloccare la pace
Il Consiglio di Sicurezza è stato creato con l’intento di preservare la pace globale.
Tuttavia, con il potere di veto, la Federazione Russa può bloccare ogni risoluzione che cerchi di porre fine alle sue aggressioni o a quelle dei suoi alleati. Questa arma diplomatica, usata dal Cremlino, impedisce alle Nazioni Unite di agire, rendendole inefficaci di fronte a conflitti che richiederebbero un intervento internazionale urgente.
Ed è qui che la struttura stessa delle Nazioni Unite diventa un problema. Anche se l’Assemblea Generale può discutere, condannare e proporre risoluzioni per affrontare i conflitti, ogni intervento concreto deve passare per il Consiglio di Sicurezza. Questo organo è l’unico che può approvare misure vincolanti, compresi gli interventi militari e le sanzioni più severe.
Ma quando un singolo membro permanente, come la Federazione Russa, esercita il suo diritto di veto, anche le azioni più urgenti per la pace vengono paralizzate.
Come può un sistema costruito per mantenere la pace funzionare se le sue decisioni più critiche vengono costantemente bloccate?
Ogni giorno che passa, migliaia di vite vengono spezzate, ma ogni tentativo di porre fine a questi conflitti viene bloccato da un solo veto. Per quanto tempo il mondo potrà accettare che un solo Stato decida il destino di milioni di persone?
Il “Patto per il Futuro”: un tentativo di riforma
Alla 79ª Assemblea Generale delle Nazioni Unite è stato adottato il “Patto per il Futuro”, un documento che si propone di rafforzare il multilateralismo e modernizzare le istituzioni internazionali. Questo patto rappresenta una speranza per un futuro di cooperazione più inclusiva, un tentativo di riformare quelle stesse strutture che oggi sembrano paralizzate dal potere del Cremlino.
Il Segretario Generale dell’ONU, Antonio Guterres, ha descritto il patto come “un passo avanti verso un multilateralismo più efficace, inclusivo e interconnesso, un’opportunità unica per cambiare il corso della storia umana”.
Tuttavia, anche se adottato per consenso, la Federazione Russa ha manifestato la sua opposizione a diverse parti del documento. Mosca ha cercato di introdurre emendamenti per limitare la capacità dell’ONU di intervenire negli “affari interni” degli Stati. Ma la maggioranza dell’Assemblea Generale ha respinto questa proposta.
La Federazione Russa è stata sostenuta dai regimi di Bielorussia, Iran, Corea del Nord, Nicaragua e Siria, noti per soffocare la libertà dei propri cittadini e per creare un sistema di disdegno nei confronti dei crimini e delle richieste ingiuste. Come può un’alleanza tra regimi oppressivi plasmare il futuro della pace internazionale?
Il multilateralismo: una speranza reale o un’illusione?
Il multilateralismo, l’idea che le nazioni possano unirsi per affrontare insieme le sfide globali, è stato al centro del “Patto per il Futuro”. In teoria, dovrebbe essere la strada per garantire pace e sicurezza, ma nella pratica, quando il potere di veto di un solo paese – la Federazione Russa – può bloccare ogni sforzo collettivo, il multilateralismo rischia di diventare un’illusione. Come possiamo sperare di risolvere i conflitti globali se il sistema stesso è costruito per essere bloccato da chi ha più interesse a perpetuare quei conflitti?
Mentre i leader mondiali discutono e firmano i documenti che disegneranno il nostro futuro, le conseguenze di queste decisioni arrivano fino a noi, nella nostra quotidianità. Le guerre, le crisi economiche e i cambiamenti climatici influenzano la nostra vita più di quanto possiamo immaginare.
Ma quanto realmente comprendiamo dell’impatto che queste decisioni hanno sul nostro futuro?
E, soprattutto, come possiamo, come cittadini del mondo, rompere questa catena di inerzia internazionale?
Forse la vera domanda è: per quanto tempo ancora permetteremo che criminali come Putin continuino a detenere il potere su decisioni che riguardano il destino dell’intero pianeta?
Le risposte a queste domande dipendono da noi e da quanto saremo disposti a chiedere un cambiamento reale, non solo nelle stanze dei palazzi di vetro delle Nazioni Unite, ma anche nelle nostre comunità, nelle nostre nazioni e nelle nostre vite quotidiane.
]]>L'intelligenza artificiale rappresenta una delle frontiere più avanzate della tecnologia moderna: è l’insieme di discipline aventi come obiettivo quello di creare macchine capaci di eseguire compiti che, qualora svolti da esseri umani, richiederebbero intelligenza. Al centro di tale sviluppo si collocano due discipline fondamentali: il machine learning (ML) e il deep learning (DL), che costituiscono i pilastri su cui si basa gran parte delle applicazioni AI contemporanee.
Il machine learning è un sottocampo dell'AI che si focalizza sullo sviluppo di algoritmi e modelli che permettono ai sistemi di apprendere dai dati. A differenza dei programmi tradizionali che seguono istruzioni esplicite, i sistemi di machine learning identificano schemi e relazioni all'interno dei dati al fine di compiere previsioni o assumere decisioni. Un approccio particolarmente utile in scenari complessi dove la programmazione esplicita risulterebbe impraticabile o inefficace. Le tecniche di machine learning si dividono in diverse categorie principali, tra cui l'apprendimento supervisionato, non supervisionato ed il reinforcement learning. Nell'apprendimento supervisionato, il modello viene addestrato su un dataset etichettato, mentre nell'apprendimento non supervisionato, il modello cerca di identificare strutture intrinseche nei dati non etichettati. Il reinforcement learning, invece, coinvolge l'addestramento del modello attraverso un sistema di ricompense e penalità, perfezionando le sue decisioni nel tempo: alle risposte ritenute coerenti viene associato un peso positivo, mentre a quelle non coerenti o errate un peso negativo.
Il deep learning, una sotto-disciplina del machine learning, ha guadagnato notevole attenzione e successo grazie all'intrinseca capacità di gestire grandi quantità di dati e di apprendere rappresentazioni complesse attraverso reti neurali profonde. Queste ultime, ispirate alla struttura del cervello umano, sono composte da numerosi strati di nodi (neuroni), ciascuno dei quali elabora i dati ricevuti e li trasmette agli strati successivi. Un’architettura che permette al deep learning di eccellere in compiti quali il riconoscimento di immagini, la traduzione automatica ed il riconoscimento vocale, ovvero in tutte quelle tipologie di elaborazione caratterizzate da relazioni tra i dati intricate e multilivello. Il deep learning ha rivoluzionato molte aree, dall'elaborazione del linguaggio naturale alla visione artificiale, consentendo progressi impensabili utilizzando i metodi tradizionali di machine learning.
L'intima relazione tra machine learning, deep learning ed AI è fondamentale al fine di comprendere l'evoluzione ed il potenziale futuro dell'intelligenza artificiale: il machine learning fornisce la base metodologica e teorica per l'apprendimento automatico dai dati, mentre il deep learning espande tali capacità attraverso l'uso di reti neurali avanzate, rendendo possibile l'analisi e la comprensione di dati estremamente complessi. Insieme, le due tecnologie non solo potenziano l'AI, ma ne estendono le applicazioni a nuovi orizzonti, rendendo possibili innovazioni in settori quali medicina, finanza, robotica e molti altri.
L’intelligenza artificiale è figlia d’arte di due campi di studio distinti ed allo stesso tempo connessi: biologia ed informatica; inoltre, a scapito di equivoci, non è così giovane come si possa pensare. Già negli anni ‘40 del secolo scorso furono sviluppate le prime teorie atte alla spiegazione del funzionamento dell'intelligenza umana e dell’apprendimento come risultato di segnali trasmessi tra i neuroni nel cervello. Il punto focale era rappresentato dall’idea che i collegamenti neuronali si rafforzassero e indebolissero a seconda della ripetizione dello stimolo e della conseguenza del medesimo (processo di feedback: uno stimolo ripetuto che trovi riscontro con la percezione della realtà costituisce un feedback positivo, rafforzando il legame causa-effetto e le sinapsi coinvolte). Sulla base di questo fiume di nuove conoscenze nel 1943 Warren McCulloch e Walter Pitts pubblicarono il paper “A logical calculus of the ideas immanent in nervous activity” in cui costruirono un framework matematicamente rigoroso sul funzionamento delle comunicazioni (ciò che a livello biologico è costituito da scambi neurochimici) tra neuroni. Si mostrava perciò come un semplice sistema di neuroni teorici potesse essere in grado di eseguire delle funzioni logiche basilari. Ex post, i giornali si sono sbizzarriti affibbiando ad un apparato teorico funzioni e sogni estranei ad esso, ad esempio il New York Times in tempi recenti scrisse: “Il sistema neurale artificiale proposto dai due ricercatori avrebbe funzionato come il cervello, modificando le relazioni numeriche tra i neuroni artificiali sulla base dei tentativi e degli errori”.
Questa rappresentazione mistificata della macchina che impara come l’essere umano è sfortunatamente il prodotto di una nomenclatura fantascientifica. Il nome “Intelligenza Artificiale” in ambito accademico proviene dalla mente di John McCarthy che nel 1956 introdusse questa espressione durante un convegno sulla computazione dedicata ai sistemi intelligenti. Lo stesso che aveva l’obiettivo di, in due mesi e con dieci ricercatori, creare una macchina in grado di simulare ogni aspetto dell'apprendimento e dell'intelligenza umana. Negli anni successivi, queste aspettative verranno abbondantemente ridimensionate e la ricerca si focalizzerà sull’apprendimento invece che sulla creazione di una vera e propria intelligenza nel senso di macchina pensante allo stesso modo dell’essere umano. Nel 1958 Frank Rosenblatt costruì il primo Perceptron, un macchinario di 5 tonnellate che aveva lo scopo di ricreare il processo di apprendimento (rafforzamento o indebolimento dei collegamenti) di otto neuroni. Con un primo processo di apprendimento supervisionato riuscì a generare risultati in grado di distinguere correttamente un quadrato da un triangolo attraverso il rafforzamento di pesi delle risposte corrette a determinati stimoli e l’indebolimento di quelli determinanti di risposte errate. Così facendo il sistema si modifica in funzione dell’esecuzione di uno specifico compito in autonomia, fornendo risposte corrette in presenza di una coerente classe di stimoli in ingresso. Da qui in poi la teoria è solida, ma la potenza di calcolo non abbastanza e ci vorrà del tempo per raggiungere risultati efficienti ed espandere questa disciplina al campo industriale, culminando infine nella rivoluzione odierna nel campo delle reti neurali trainata dalla back propagation.
Ora che l’idea di cosa sia un algoritmo di machine o deep learning è chiara, ci si può spostare al loro funzionamento: come dire se un algoritmo “funziona”? I sistemi di IA funzionano nel momento in cui riescono ad apprendere relazioni non anche complesse attraverso la conoscenza di esempi. Infatti per algoritmo “funzionante” si intende un sistema che, avendo a disposizione degli esempi con rispettiva etichetta, classifichi esempi non ancora osservati nel modo più corretto possibile, minimizzando l’errore. In questa definizione troviamo due cavilli essenziali. I dati a disposizione devono essere una mole considerevole, molto maggiore rispetto a quella che servirebbe ad un essere umano; se per un bambino bastano una o due immagini di un pavone per capire che è diverso da un cane, ad una rete neurale servono centinaia se non migliaia di immagini per aggiustare pesi e funzioni in modo da classificare correttamente questi due animali. In secondo luogo il machine learning, come le scienze in generale, si basa su assunzioni o assiomi propri del mondo della filosofia. In particolare il fondamento dell’intero sistema di esperimenti, raccolta dati e test si basa sul principio induttivista secondo cui il futuro assomiglia al passato, un concetto radicato nella filosofia più che nell’informatica. L’induttivismo di per sé, a causa di problemi di ciclicità, non può essere provato. Possiamo solo constatare che nella quotidianità questo principio funzioni e che l’apprendimento dal passato sia efficace per comprendere in parte il futuro. Da questa legge cardine deriva il Rasoio di Occam, il principio di parsimonia che porta esseri umani ed alcuni algoritmi a preferire la spiegazione più semplice tra quelle proposte ed ugualmente valide alla risoluzione dello stesso problema.
In linea di principio, la preferenza per la semplicità o parsimonia rispecchia la necessità di generalizzare i risultati ottenuti. Un algoritmo che si specializza fortemente rispetto ad un determinato gruppo di dati potrebbe avere una struttura estremamente fitta e specifica, incapace di generalizzare ad un diverso pacchetto di dati, non sarebbe specializzata sul compito, come da programma, bensì sul particolare dataset. Ad esempio un sistema di visione artificiale potrebbe classificare come gatto l’immagine di esso su cui è stato addestrato, ma non una che non ha mai visto. Questo è il problema del sovra adattamento o overfitting. Un comportamento che in piccole dosi è benefico per un algoritmo in quanto consente ad esso di adattarsi al compito ed è inoltre uno dei blocchi logici alla creazione di un sistema IA generale capace di rispondere a qualsiasi quesito e generare qualsiasi risposta. Per essere efficiente ed efficace un algoritmo deve, in parte, sovra adattarsi al compito. Chat GPT, l’ultima rivoluzione popolare del mondo dell’apprendimento artificiale sembra che sappia rispondere a qualsiasi domanda con output testuali, di codice e grafici, ma in realtà non è un singolo programma, bensì un insieme integrato di reti neurali addestrate su diverse tipologie di dato e quindi adattate al singolo compito da svolgere. É un gruppo di algoritmi che si presenta all’utente finale come un sistema unico per il semplice motivo di essere il più comprensibile possibile e fruibile, ma non perché sia effettivamente un sistema unico. Il problema si pone nel momento in cui si supera una certa linea di demarcazione e si cade nell'iper specificità, a volte a causa dell’eccessivo training sugli stessi dati che il programma inizia a codificare troppo nel dettaglio perdendo il disegno d’insieme.
Per risolvere questo problema una tecnica ormai divenuta prassi è quella di addestrare il programma su sotto-insiemi del dataset di training. Durante l'addestramento, il modello viene aggiornato iterativamente utilizzando ciascun batch, piuttosto che l'intero dataset al fine di rendere difficile il sovra adattamento. Un altro metodo è quello dell’ensemblinglearning, in cui si utilizzano diversi modelli addestrati per lo stesso compito o classificazione e alla fine si aggregano i risultati, con una media o un voto di maggioranza per mitigare i possibili problemi di overfitting dei singoli modelli. Le random forest ad esempio sono insiemi di algoritmi di classificazione chiamati alberi decisionali proprio al fine di ottenere predizioni più robuste e di incrementare l'efficienza del modello.
Altro interessante nodo del mondo AI è rappresentato dall’ignoto, dall’incapacità di decifrare le motivazioni secondo cui alcune tipologie di algoritmi preferiscono determinate classi di ipotesi e dati oppure perchè agiscano in un certo modo. Il bias induttivo è difficile da comprendere e non si può dimostrare che ogni programma segua il rasoio di Occam come principio cardine di parsimonia: il problema della blackbox, di ciò che ancora la ricerca non riesce a spiegare esaustivamente in proposito ai comportamenti degli algoritmi di AI. Per scongiurare il dilemma sono state messe in atto diverse metodologie di ricerca, tra queste da notare l’uso di explainable AI nei campi disponibili come la chimica. È stata legata la struttura a grafo delle reti neurali alla forma delle molecole antibiotiche per comprenderne sia la struttura generale che le sottostrutture comuni tra molecole. Si è creato perciò un sistema graficamente comprensibile in cui ad ogni movimento dei singoli nodi della rete corrispondeva il cambio di struttura delle molecole. Anche nel campo degli algoritmi di linguaggio si utilizzano tecniche per determinare in quale regione della rete vengano rappresentati determinati concetti come la semantica o la grammatica, cosa è un verbo, ecc. Allo stesso modo per le reti atte alla visione artificiale si cerca di capire dove queste imparino la forma, il movimento o altri aspetti di video o immagini del dataset di training. Un reparto della ricerca informatica in divenire, brulicante di novità come i KAN network, particolari reti neurali che abbandonano l’utilizzo dei pesi per integrare solamente funzioni e cambiarne le caratteristiche, producendo un algoritmo interpretabile.
Mentre l’accademia ricerca soluzioni al problema dell’ignoto insito negli algoritmi di AI, il mondo del consumo fatica a fare i conti con l’inaspettato, solamente illusione dell’ignoto, il motivo per cui modelli di linguaggio come il Large Language Model (LLM) interno a Chat GPT, a portata di click, riescono a produrre testi creativi e mai visti prima, senza cadere nel ripetitivo. Sembra quasi che i programmi scrivano di proprio pugno e di conseguenza i risultati vengono mistificati ed adorati al punto di divenire pseudo-divinità a cui chiedere di tutto, anche chi sarà il prossimo presidente americano. In realtà però il gioco dell’imprevedibilità di questi Large Language Models (LLM) è pura probabilità. Questi infatti generano testo predicendo la parola successiva in base a una distribuzione di probabilità derivata dal contesto precedente. Un sistema di scelta che differenzia sostanzialmente il pensiero umano da quello di una macchina. Tuttavia, se il modello scegliesse sempre la parola con la probabilità più alta, il testo risultante sarebbe monotono e ripetitivo, poiché verrebbero generate sequenze di parole simili o identiche per un dato input. Al fine di evitare questa ripetitività, si introduce un parametro chiamato "temperatura". La temperatura controlla il grado di casualità nella scelta delle parole: una temperatura più alta rende il modello più creativo, permettendo la selezione di parole con probabilità più basse, e quindi creando frasi più varie e meno prevedibili. Se però la temperatura è troppo alta, il testo può diventare incoerente o sgrammaticato. Di fatto la magia dietro la creatività dei modelli di linguaggio ha un nome, si chiama temperatura.
L’intelligenza artificiale rappresenta una rivoluzione, avvicina l’informatica a tutti i campi dello scibile umano per costruire nuovi livelli di conoscenza prima irraggiungibili, offre un’enorme potenza e velocità di calcolo in migliaia di applicazioni teoriche e pratiche, ma non è Terminator e nemmeno una divinità. Si tratta di algoritmi, programmi informatici con alla base la stessa matematica, forse un po’ più complessa, che si studia in università, applicata all’ottimizzazione per minimizzare gli errori di questi sistemi. Sono allo stesso tempo estremamente efficienti nei compiti che svolgono ed inefficienti, sia per mole di dati che per energia da utilizzare ed hanno una serie di difetti come ogni altra tecnologia. La ricerca è indirizzata proprio in questo senso: illuminare la scatola nera che sono, in parte, le reti neurali e gli altri algoritmi di machine learning oppure costruire altri programmi che offrano una migliore spiegabilità. Questo nome fantascientifico può portare a vedere l’IA come il futuro imperatore del mondo, ma vista da vicino è un, seppur formidabile, sistema di apprendimento basato sul passato utile all’analisi di relazioni complesse.
]]>In un altro studio, un working paper della Banca d’Italia, che si è concentrato sul rischio idrogeologico e ha osservato i danni subiti dalle imprese fra il 2010 e il 2018, è emerso che il 97% delle aziende colpite da questi eventi non fosse assicurato.
Nel citato studio sono stati monitorati gli eventi HG (HydroGeological) con danni alle imprese distinguendo quelli con conseguenze severe. I risultati dello studio sono raccolti nel grafico seguente
La prima parte di questo articolo verrà dedicata a spiegare la differenza tra Pubblico Ministero - o PM - e Giudice, i veri protagonisti di questa riforma. Il PM è - o meglio dovrebbe essere - colui che, dopo aver accolto un capo d’imputazione, si adopera nell’indagine, avvalendosi delle forze pubbliche, per individuare un soggetto che sarà poi l’imputato di un processo. Il Giudice invece è (o dovrebbe essere) - nelle sue varie declinazioni di GIP, GUP o giudice dell’udienza - colui che vigila sui diritti delle parti e ne permette il dibattimento, al fine di giungere alla certezza oltre ogni ragionevole dubbio della vicenda: è quindi il Giudice - e non il PM - l’organo che emette la sentenza di assoluzione o di condanna. Si tratta perciò di due soggetti molto diversi, sia per attitudini che per funzioni: l’uno che è parziale ed assolve la funzione repressiva del diritto, l’altro che è imparziale e indossa la veste di garante per tutte le parti in gioco. In un’ottica calcistica, il Giudice sarebbe dunque l’arbitro che dirige la partita tra il PM e l’imputato, quest’ultimo rappresentato dal proprio avvocato: sarebbe perciò auspicabile che il direttore di gara si mantenga in una posizione più imparziale possibile e che si limiti al corretto svolgimento della sfida.
Questa è la configurazione che dovrebbe essere pretesa; tuttavia, per varie ragioni che risalgono al fascismo inquisitorio, ciò non accade. La nostra Costituzione ha, per moltissimi versi, annientato i profili dittatoriali del Ventennio precedente, al punto che è nata dal compromesso tra le varie fazioni politiche: il termine compromesso richiama al concetto di dialogo, cioè una risoluzione pacifica - e quindi assolutamente non violenta - di uno scontro; è perciò quasi naturale affermare che la nostra Costituzione sia nata dal rifiuto e dalle ceneri degli estremismi da ambo i lati, che si caratterizzano per l’accantonamento del dialogo in favore della prevaricazione. Di converso sono rimaste nella nostra Carta alcune briciole di questo atteggiamento inquisitorio, una delle quali si identifica appunto con la concezione di magistrato: si è, infatti, sopra affermato che esistono due tipologie molto differenti di magistrato (PM e Giudice). Eppure, la Costituzione ne sottolinea la distinzione all’art. 107, ma soltanto dal punto di vista delle mere funzioni: I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni. Corretto per carità ma non sufficiente, in quanto la divergenza è soprattutto legata al rapporto, anche mediatico, coi cittadini: il PM alla ricerca di coloro che hanno infranto la legge penale, il Giudice ad operare da controbilanciamento allo strapotere del PM. Qui sorge tuttavia il problema: nel momento in cui l’ordinamento giuridico non preveda modalità volte ad assicurare l’indipendenza del Giudice dal PM, il primo sarà necessariamente influenzato dal secondo, in quanto molto più dominante una posizione di accusa (soprattutto se pubblica, come in questo caso) rispetto ad una di equilibrio. Se un soggetto per natura propria tendesse a prevaricare, diverrebbe necessario porne a priori dei freni: il rischio è che l’operato del PM si trasmetta a quello del Giudice senza che quest’ultimo lo possa consapevolmente ponderare mediante le contro-argomentazioni dell’imputato.
In origine, questa commistione era ancora più accentuata: il Codice Rocco (il codice di procedura penale realizzato durante il Ventennio) prevedeva che le indagini iniziali non venissero fatte da un organo di accusa, bensì da un Giudice, il cosiddetto Giudice istruttore; il PM faceva poi la propria comparizione in udienza. Questa configurazione individuava dunque un Giudice alla ricerca di fatti, documenti e testimonianze al fine di condannare un determinato soggetto, quando invece quest’organo dovrebbe essere imparziale: un sistema del genere era, quindi, chiaramente in linea con un ordinamento molto sensibile alla sicurezza nazionale, anche a discapito dei diritti del singolo.
Il problema è che, da questo punto di vista, la configurazione non ha subìto mutamenti nel 1948, attraverso l’entrata in vigore della Costituzione; i processi penali molto spesso seguivano un iter per cui il Giudice ed il PM erano già d’accordo nella sequenza dei fatti ricostruita in sede istruttoria, rendendo di conseguenza superflua la fase di dibattimento in aula (unico momento in cui l’imputato può far valere i propri diritti). La situazione non è mutata fino al 1988, anno in cui invece è stato portato a termine un lungo cammino per l’elaborazione del Codice Pisapia-Vassalli, ovvero il nuovo codice di procedura penale, molto più idoneo ad un sistema liberale. Si è rimosso il concetto di Giudice istruttore, Giudice quindi relegato - o meglio eletto - al ruolo di garante; la funzione dell’accusa è stata invece interamente demandata al PM.
Tuttavia, il processo non è nella sostanza variato nelle modalità. Ci si deve dunque chiedere come mai non sia cambiata la realtà processuale a fronte di una riforma tanto importante: la risposta sta nel fatto che si sia intervenuti solo sul piano della legge ordinaria senza considerare la fonte, ovvero la Costituzione. La prima a tacere in merito ai diritti dell’imputato era proprio quest’ultima, che non affermava la centralità delle udienze e del confronto tra le parti, così come non rivendicava la terzietà del Giudice. A ciò si è rimediato una decina di anni dopo, quando nel ‘99 è stato rettificato l’articolo 111 della Carta, per cui, oggi, tra le varie modifiche, compare: “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. Anche a seguito di questo intervento, tuttavia, il Giudice non riesce ancora a ricoprire una posizione imparziale: non si è ancora giunti alla fonte del problema.
Per sciogliere questo nodo apparentemente irrisolvibile, si deve riflettere su ciò che la Costituzione ha posto come principio fondante: quando si pensa alla nostra Carta fondamentale - ed a maggior ragione al diritto in generale - non bisogna dimenticarsi come sia stata realizzata da una società, caratterizzata da ben precisi ideali e soprattutto con relative consuetudini che si convertono in diritto tanto quanto le delibere ragionate, con la differenza fondamentale che mentre le seconde affrontano un vaglio di razionalità - attraverso il dialogo - le prime invece non lo percorrono, proprio perché la loro correttezza è data per scontata dalla generalità dei consociati: è giusto perché si è sempre fatto così. Il tema delle carriere unificate dei magistrati appartiene a questo sottoinsieme: prima ancora che dalla legge e dalla Costituzione, la mancata separazione delle carriere deriva dall’abitudine di innumerevoli generazioni di magistrati e giuristi a concepire il Giudice e PM come veri e propri colleghi. È necessario perciò intervenire a livello normativo in modo da costringere i magistrati - ed in particolar modo la Corte di Cassazione e la Corte costituzionale - a calibrare il rapporto tra i due organi in maniera differente.
A dir la verità, prima di quest’ultima riforma, sono stati compiuti dei tentativi più mirati, che non sarebbe assurdo definire con un’analisi più approfondita come fuorvianti. In primo luogo il referendum abrogativo, in merito al quale il popolo italiano ha votato il 12 giugno 2022 assieme ad altri quattro capi, sulla separazione delle funzioni. È vitale per il discorso sottolineare il termine funzioni, giacché questo non coincide assolutamente con il termine carriere. Il sottoscritto ricorda come al tempo la grande maggioranza - se non la totalità - dei giornali più conosciuti parlasse - in riferimento al capo del referendum - di separazione delle carriere: niente di più sbagliato! Con separazione delle funzioni si intende il fatto che il giurista - che sia neolaureato in Giurisprudenza o professore di diritto od avvocato - che voglia affrontare il concorso di magistratura, debba decidere sin da subito se intraprendere la professione di PM o di Giudice, senza possibilità di cambiare tale scelta negli anni seguenti. Con separazione delle carriere,invece, si intende prevedere meccanismi per cui i PM non possano incidere sull’operato dei Giudici, e viceversa: ossia la realizzazione di organi diversi che decidano in merito alle promozioni, alle sanzioni disciplinari ed ai trasferimenti; la Costituzione prevede come responsabile di questi compiti/poteri il CSM (Consiglio Superiore della Magistratura).
Lasciando a dopo il discorso sul CSM, si deve rilevare come la separazione delle funzioni, per quanto apprezzabile nelle intenzioni, sia piuttosto inutile ed il giudizio è avvalorato dal fatto che nella realtà i passaggi da una funzione all’altra siano relativamente pochi e non incisivi. Un sistema che preveda la separazione delle carriere sarebbe più che accettabile, a prescindere dal divieto di cambiare la funzione: non si può dire altrettanto del contrario. In ogni caso, l’affluenza - in occasione del referendum - non è stata minimamente vicina al 50% che richiesto per la validità del medesimo. Dopo poco tempo è intervenuta la riforma Cartabia, che ha ridotto a massimo una volta nella carriera di magistrato la possibilità del cambio di funzione (ex art.12 L.71/2022): su questo intervento normativo si possono replicare le considerazioni fatte in precedenza.
La riforma attuale, invece, si caratterizza per una grande incisività: in primo luogo agisce sulla Costituzione, senza limitarsi al piano della legge ordinaria; in secondo luogo, mira alla vera e propria separazione delle carriere, in quanto mirata all’istituzione di un secondo CSM, così da realizzare due organi apicali indipendenti sia dal potere esecutivo sia dall’altra funzione giurisdizionale: quindi un CSM per i Giudici ed un altro per i PM. Per concludere, occorre sottolineare come sia i promotori di questa riforma, sia chi scrive, siano consapevoli che la riforma da sola non basti, in quanto per cambiare una mentalità così tanto radicata nel sistema, è necessario molto tempo: proprio per questo motivo, diviene evidente come questa modifica sia urgente da decenni, così da mettere fine il prima possibile alla stortura della magistratura italiana. Insomma, meglio tardi che mai.
]]>Questa iniziativa non è isolata, ma si collega a simili campagne di propaganda già osservate in altre città come Verona, o Donetsk, territorio ucraino occupato dalla Federazione Russa a partire dal 2014, dove manifesti in lingua russa rafforzano l’illusione di un sostegno internazionale, compreso quello italiano, alle azioni di Mosca.
La pericolosità di questa situazione risiede nel modo in cui la propaganda del Cremlino sfrutta i valori democratici occidentali, come la libertà di espressione, per promuovere un regime che nega quegli stessi diritti all’interno dei propri confini. Se consideriamo la Federazione Russa, nata nel 1992 dalle ceneri dell’Unione Sovietica, questa manipolazione è ancora più evidente. Sebbene, per un brevissimo periodo iniziale, le sue repubbliche abbiano goduto di una certa autonomia, potendo ad esempio stabilire lingue ufficiali o gestire le risorse naturali, l’ascesa di Vladimir Putin ha portato ad una rapida centralizzazione del potere.
Le riforme introdotte da Putin, a partire dal 2000, hanno progressivamente eliminato gran parte dell’autonomia delle rispettive repubbliche, soffocando le diversità linguistiche e culturali. Una delle leggi del 2018 ha ridotto l’insegnamento delle lingue minoritarie a un corso facoltativo di sole due ore settimanali, rendendo sempre più complicato il preservarsi di identità culturali e linguistiche all’interno della cosiddetta Federazione Russa. Questa centralizzazione ha colpito duramente regioni come la Jacuzia e il Tatarstan, un tempo più autonome nella gestione delle proprie risorse naturali, quali diamanti e petrolio, e che ora soffrono di un degrado economico frutto del controllo centralizzato.
La Cecenia è un altro esempio lampante della brutale repressione esercitata dal Cremlino. Dopo due devastanti guerre per l’indipendenza, la regione è oggi governata da Ramzan Kadyrov, un “leader-marionetta” imposto da Mosca che mantiene il controllo attraverso il terrore e la violenza. La stessa logica di oppressione e di cancellazione dei diritti di autodeterminazione è stata applicata anche ad altre repubbliche della Federazione Russa.
In Italia,l’espansione della propaganda del Cremlino e il permissivismo con cui viene accolta rappresentano un serio rischio per la democrazia.
Queste campagne non sono messaggi di amicizia e solidarietà tra popoli, ma fanno parte di una strategia ben orchestrata che sfrutta la libertà di espressione per legittimare un regime autoritario. Il Parlamento Europeo ha già riconosciuto la Federazione Russa come uno Stato sponsor del terrorismo. Le Nazioni Unite hanno ripetutamente condannato le violazioni dei diritti umani condotte dalla Russia, soprattutto perpetuate durante l’invasione dell’Ucraina.
L’Italia deve reagire con maggiore fermezza. Le leggi già esistenti, come l’articolo 414 del Codice Penale relativo all’apologia di reato e la Legge Mancino contro l’incitamento all’odio, possono essere applicate per impedire che chi promuove crimini di guerra o sostiene regimi autoritari come quello del Cremlino agisca impunemente. Tuttavia, è necessaria una più rigorosa applicazione delle norme.
Inoltre, l’Italia dovrebbe intensificare la cooperazione con i suoi partner europei per sanzionare chi diffonde messaggi di sostegno alla Federazione Russa.Un’azione coordinata potrebbe includere, tra i vari, il divieto di manifestazioni pubbliche a favore di Stati sponsor del terrorismo.
Infine, è necessario educare il pubblico italiano sui veri crimini del regime del Cremlino, sia all’interno della Federazione Russa che nei paesi da essa invasi. Una su tutte l'Ucraina. Questo compito è complicato dalle radici profonde della propaganda del Cremlino, che da sempre vede l’Italia come facile preda, essendosi insinuata nelle università, nei libri di testo delle scuole medie, nelle manifestazioni pro-Mosca e in eventi culturali che tentano di “sdrammatizzare” la guerra in Ucraina. È fondamentale utilizzarele parole giuste, definendo gli avvenimenti con il loro vero nome: invasione e non conflitto. È inoltre necessario dare maggiore spazio agli esperti che hanno realmente vissuto, sulla loro pelle, la situazione in Ucraina, piuttosto che a quelli che la osservano da Mosca o comodamente dall’Italia e che si basano su una narrativa ancorata alla propaganda sovietica. La stessa propaganda sovietica che negli anni ‘60-’80 incantava le persone progressiste con l’illusione di costruire un mondo migliore.
L’utilizzo di campagne informative potrebbe essere un primo strumento chiave per tentare di contrastare la disinformazione e sensibilizzare l’opinione pubblica. La libertà e la democrazia non possono essere usate per promuovere regimi che le negano. L’Italia deve essere in grado di proteggere propri i valori democratici, impedendo che la propaganda del Cremlino li utilizzi a suo piacimento per minare dall’interno lo stesso sistema di valori.
]]>Nel 2021, complice la crisi COVID-19, il Consiglio europeo ha sottolineato l'importanza dell’istruzione e l’urgenza di investire in questo settore: è stato affermato che “l’istruzione e la formazione hanno un ruolo fondamentale da svolgere nel plasmare il futuro dell’Europa” ed è per questo che si è reso necessario una versione aggiornata del precedente progetto per la cooperazione europea nel settore dell’Istruzione riconoscendo nuovi ambiziosi obiettivi in cui “investimenti efficaci ed efficienti nell’istruzione e nella formazione sono un prerequisito per migliorare la qualità e l’inclusività dei sistemi di istruzione e formazione e migliorare i risultati in materia di istruzione, nonché per stimolare la crescita sostenibile, migliorare il benessere e creare una società più inclusiva”[1].
Tenendo a mente questa considerazione e condividendo l’idea sottostante, partiamo da uno dei modi più efficaci per valutare l’interesse e l’impegno verso la tematica dell’Istruzione, ovvero l’entità degli investimenti in questo settore.
Secondo quanto riportato nel rapporto Education at a Glance 2023, nel 2020 la spesa per istruzione in Italia era inferiore alla media OCSE: mentre l’Italia investiva solo il 4,2% del proprio PIL nel settore dell’educazione (di cui 30% scuola primaria, 46% secondaria e 26% terziaria) la media OCSE era del 5,1%.
L’ammontare misurato di spesa per studente in Italia corrisponde a circa 11.400 dollari USA, mentre la media dell'OCSE è di 12.600 dollari USA: cifra che però in entrambi casi corrisponde al 27% del PIL pro capite, rientrando così nella media OCSE.
L’emergenza COVID-19 ha posto sfide senza precedenti ai sistemi educativi globali. Da un punto di vista cronologico, durante il periodo COVID 19, mentre nei paesi OCSE la spesa in ’istruzione (sempre considerando i gradi che vanno dalla scuola primaria alla terziaria) per studente a tempo pieno (inclusa la ricerca e sviluppo) è aumentata dello 0,4%, in Italia la spesa è diminuita dell'1,3%.
Questo cambiamento è da ricondurre ad una riduzione dell'1% della spesa totale per le istituzioni educative e a un aumento dello 0,3% del numero totale di studenti a tempo pieno [2][3].
Neanche secondo i dati elaborati da Openpolis la percentuale di spesa pubblica in educazione rispetto al PIL nel periodo che va dal 2012 al 2021 (Figura 1) le cose vanno meglio. Ripercorrendo l’andamento della spesa dal 2012 al 2021 possiamo notare che in Italia la percentuale non va oltre un certo range, quello del 4%. In particolare:
La media UE-27 si è invece aggirata attorno al 4,7 % - 4,9%, raggiungendo un picco positivo del 5% nel 2020. I risultati italiani si collocano dunque al di sotto della media europea, mostrando così una discreta disparità a livello di contesto europeo in termini di spesa pubblica in educazione.
]]>Secondo i canali Telegram e le testimonianze locali, l’esplosione è stata molto più potente di quanto suggerito dai rapporti ufficiali, probabilmente causata dalla detonazione di munizioni. Toropets, che ospita un arsenale per lo stoccaggio complesso di missili e materiali esplosivi, rappresenta una risorsa strategica per l’esercito della Federazione Russa. Questo arsenale era stato costruito nell’ambito di un programma del Ministero della Difesa avviato nel 2012, destinato a migliorare la sicurezza dello stoccaggio delle armi ed a prevenire incidenti. Tuttavia, i blogger militari russi hanno denunciato che parte delle munizioni fosse immagazzinata all’aperto, rendendola facilmente individuabile ed attaccabile dai droni ucraini.
]]>Lo Stato a volte sembra un’entità distaccata, una scatola nera incomprensibile, risulta pertanto quanto mai dovuto poterne fornire una chiave di lettura differente che sia in grado di darne una più attenta descrizione del funzionamento. Lo Stato è come un’azienda, con entrate ed uscite e quindi un bilancio in conto economico. Le entrate arrivano dalla tassazione, introiti diretti da aziende gestite dallo Stato o entrate derivanti dalla vendita di titoli di debito, dall’altro lato la PA spende per il welfare, quindi pensioni, sussidi di disoccupazione, sanità e istruzione, nonché difesa, ricerca di base, stipendi pubblici, rifinanziamento del debito e pagamento degli interessi sul medesimo, etc. Se non si facesse debito la spesa dello Stato sociale dovrebbe essere sostenuta interamente dalla tassazione. Se però pensiamo ad uno Stato come l’Italia, con una pressione fiscale al 43% del Pil (ricchezza sottratta sotto forma di tassazione) notiamo che 821 miliardi non riescono a sostenere la spesa pubblica nella sua interezza che ammonta nel 2022 a 1.090 miliardi. Un Paese che non fa debito o non può perchè nessun investitore lo acquisterebbe, ha la possibilità di spendere fino ad un limite dettato dalle entrate fiscali che, nel caso specifico italiano, non riuscirebbero a sostenere lo Stato sociale se non con un taglio di 270 miliardi.
Considerato che il debito pubblico risulta in qualche modo vitale per la gestione del welfare ed allo stesso tempo comporta il pagamento di interessi, l’attenzione si sposta sulle metodologie con cui minimizzare questi costi che sottraggono risorse all'amministrazione centrale senza eliminare lo strumento del debito. Nel dettaglio, dal 1992 fino al 2022 la somma degli interessi sul debito pubblico pagati dall’Italia ammonta a 2.550 miliardi di euro, un'ingente quantità di risorse che non sono state utilizzate per strutturare un sistema di welfare efficiente o un impianto produttivo innovativo, ma sono stati incatenati al pagamento dei costi del benessere delle generazioni precedenti.
Un ottimo punto di partenza per scardinare questo sistema è diventare buoni pagatori. Esattamente come ogni privato ha un rating in banca che determina l’erogazione di prestiti o mutui, anche gli Stati hanno un rating che determina le condizioni dei finanziamenti, nel caso specifico, il tasso di interesse. Questo meccanismo agisce attraverso un sistema di aste in cui si incontrano domanda (sottoscrittori) e offerta (Stato centrale) di titoli di debito. Per acquistare titoli italiani viene richiesto però un prezzo più elevato rispetto ad altri titoli come possono essere quelli tedeschi, in funzione della diversa affidabilità degli emittenti del debito. In questo senso lo Spread è la differenza di affidabilità del debito tra un emittente affidabile come la Germania e uno meno affidabile come l’Italia. Ad esempio nel 2024 lo Spread si aggira tra i 200 e i 130 punti, quindi il titolo di debito italiano, in questo caso il Buono del Tesoro Poliennale (Btp), richiede un tasso di interesse dal 2% all’1.3% in più del Bund tedesco a 10 anni. In conclusione un modo per ridurre l’ammontare della spesa per interessi è intraprendere un percorso che trasformi l’Italia in un Paese affidabile che per definizione ha la capacità di emettere debito a tassi più bassi accettabili dai sottoscrittori.
Ed ora la nuova domanda fondamentale diventa: “cosa vuol dire essere affidabile?” Uno Stato risulta buon pagatore od affidabile quando incorpora alcune caratteristiche chiave. Se dimostra una solida stabilità finanziaria attraverso un flusso costante di entrate sufficienti a coprire i propri impegni debitori. Tale stabilità finanziaria si riflette in una gestione oculata delle risorse ed in una pianificazione finanziaria attenta, atta a garantire la liquidità necessaria per far fronte agli obblighi e soprattutto agli imprevisti del ciclo economico. Inoltre, la puntualità nei pagamenti è un indicatore chiave di affidabilità finanziaria. Un soggetto che rispetta scrupolosamente le scadenze di pagamento stabilite consolida la propria reputazione di buon pagatore e così facendo contribuisce ad instaurare rapporti di fiducia reciproca con i sottoscrittori del debito. La trasparenza e la comunicazione sono altri elementi essenziali: parallelamente, il rispetto delle leggi finanziarie rappresenta un presupposto irrinunciabile. Di fatto, l’aderenza ai dettami normativi, accompagnata all'evitare comportamenti illeciti o fraudolenti, contribuisce a preservare l'integrità e la reputazione del Paese, garantendo un contesto finanziario sano e trasparente. Inoltre, elemento da non trascurare è la capacità di imposizione fiscale e quanto il singolo Stato abbia la capacità di modificarne l’assetto nel momento del bisogno.
Un esempio interessante è quello del Giappone, con un rapporto debito/Pil del 246% ed un tasso di interesse sul debito dello 0.5%, mentre l’Italia ha un rapporto del 140% e un tasso di interesse del 5% nel 2022. Lo Stato nipponico ha alcune caratteristiche specifiche del sistema economico che rendono possibile questa asimmetria, e non si parla di quanto il Giappone stia più “simpatico” dell’Italia agli investitori. Oltre al fatto che secondo gli stessi criteri di bilancio europei il debito giapponese è circa il 170% del Pil (246% proviene da un diverso sistema di calcolo), uno dei fondamentali diversi è quello della pressione fiscale. Infatti, mentre in Italia si attesta al 43%, in Giappone si aggira sul 38% di conseguenza, se il governo centrale lo ritenesse necessario in caso di crisi, avrebbe spazio di manovra. Caratteristica di un Paese affidabile a livello finanziario che si aggiunge ad un sistema economico più stabile, in crescita maggiore di quella italiana, innovativo e di più grandi dimensioni. L’affidabilità creditizia comporta una revisione strutturale dell’economia, che potrebbe giovare sia a livello del pagamento degli interessi che del tessuto industriale. La PA ha inoltre l’opportunità di raccogliere informazioni dall’esperienza di altre realtà europee e non per concepire un percorso di riforma che, oltre ad alleggerire il carico del debito futuro, agisce retroattivamente migliorando le condizioni del debito già in essere.
Il Bel Paese non si è mai fatto mancare dibattiti ed analisi in proposito all’efficacia ed all'efficienza della spesa pubblica, infatti l’istituzione della Commissione Tecnica per la Spesa Pubblica (CTSP) presso il Ministero del Tesoro risale al 1981. Essa rimase operativa fino al 2003 con lo scopo di esaminare e valutare la spesa in vari settori sotto la lente dell'efficienza formulando raccomandazioni non vincolanti al ministero di riferimento. Dopo la soppressione nacque un’altra Commissione dalla vita relativamente breve di un anno, dal 2007 al 2008, per poi passare il testimone direttamente alla Ragioneria dello Stato nel 2009. Tramite l’introduzione della spending review nella legge di contabilità e finanza pubblica si obbligavano amministrazioni centrali e poi gradualmente anche quelle territoriali, a redigere una relazione triennale sull'efficienza della spesa, ancora oggi in vigore.
Colpito dalla crisi finanziaria dei debiti sovrani europei del 2010-11 lo Stato italiano inaugura un processo di risanamento del bilancio pubblico attraverso la determinazione di fabbisogni e costi standard dei programmi di spesa. Vengono perciò istituiti un Comitato interministeriale ed un Commissario straordinario: ruolo dal 2012 ricoperto da figure come Enrico Bondi, Mario Canzio, Carlo Cottarelli e Yoram Gutgeld, nonché da due viceministri quali Laura Castelli e Massimo Garavaglia, nominati dal governo Conte I.
Dopo gli anni di pandemia il tema della spending review torna in auge grazie alla Missione 1 del PNRR che prevede misure a favore della revisione di spesa e del potenziamento del ruolo del Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) con conseguente valutazione dei risultati. Il piano prevede di raggiungere una migliore allocazione delle risorse finanziarie al fine di incentivare manovre di crescita ed innovazione. Nel 2021, per perseguire questo obiettivo, viene costituito presso la Ragioneria Generale dello Stato il Comitato scientifico per le attività in merito alla spending review presieduto dal Ragioniere Generale e comprendente i dirigenti dei Ministeri coinvolti, nonché un componente della segreteria tecnica del MEF e rappresentanti di Corte dei Conti, Istat e Banca d’Italia.
Dal 1981 al 2002 l’operato esterno della Commissione Tecnica per la Spesa Pubblica (CTSP) confluisce nell’elaborazione di studi mirati non sistematici su singole aree di spesa, formulando raccomandazioni non vincolanti per i singoli Ministeri. Prima della soppressione nel 2003 dal Governo Berlusconi alcune proposte entrarono a far parte di provvedimenti legislativi, tra queste una maggiore autonomia delle università e l’istituzione del Comitato di valutazione del sistema universitario.
Nel periodo 2002-2008 la maggior parte del contenimento della spesa viene attuato attraverso riduzioni “lineari” e tagli delle dotazioni di spesa nel bilancio dello Stato, sia per consumi che per trasferimenti correnti alle amministrazioni pubbliche. Le uniche eccezioni a questo approccio furono: il limite percentuale all’incremento delle spese per le amministrazioni pubbliche e la diminuzione da 7 a 3 anni la possibilità di mantenere in bilancio i residui, ovvero le somme impegnate ma non ancora erogate. Niente ancora si focalizza su una revisione sistematica, finalizzata alla ricerca di una maggiore efficienza produttiva e organizzativa.
L’analisi sistemica della spesa viene introdotta per la prima volta, in via sperimentale, nel 2007 ed affidata al Ministero dell’Economia e delle Finanze, con a capo il Ministro Padoa- Schioppa. La CTFP e la RGS ridisegnano il bilancio dello Stato in 34 missioni e 168 programmi con l’obiettivo di fornire uno strumento di scelta più informata al legislatore e di valutazione trasparente al cittadino. Inoltre si applica un metodo innovativo per la formazione del bilancio con cui si evitano passaggi poco trasparenti di richieste di risorse e si realizza la revisione della spesa dei Ministeri partendo dalle priorità di ognuno di questi. Alle conclusioni della Commissione non viene dato alcun seguito perché viene soppressa con il cambio di Governo e di Ministro del 2008.
Dal 2009 al 2011 si susseguono le attività di Ragioneria Generale dello Stato e dei Nuclei di Valutazione atte all’individuazione e quantificazione dei principali fattori che ostacolano l’allocazione ottimale e l’utilizzo efficiente delle risorse. Entrambi i lavori sono da considerarsi da un lato preliminari ad una vera e propria revisione e dall’altro spunti di riflessione tra le strutture di Governo.
Nel 2012 il Commissario Enrico Bondi in pochi mesi, elabora un’analisi della spesa per consumi intermedi di Regioni, Province, Comuni, Università ed Enti di ricerca e su questa si fece riferimento per ridurre la spesa destinata ai consumi intermedi ed introdurre obblighi di riduzione delle spese. Il lavoro del Commissario, sostenuto da un forte mandato politico ed effettuato in collaborazione con la RGS, ha l’obiettivo di recuperare 20 miliardi in tre anni, utilizzando un metodo più fine dei tagli orizzontali che però sono quelli utilizzati nella pratica. Enrico Bondi si dimette dopo un anno per entrare come supervisore del partito Scelta Civica con riferimento a Mario Monti, lo stesso che lo aveva nominato Commissario.
Nel 2013 il Commissario Carlo Cottarelli vede ampliati i poteri dell’organismo e struttura un rapporto di sintesi esaustivo sia a livello centrale che locale. L’analisi svolta incontra non poche difficoltà sia per il mancato appoggio della politica che per la ristrettezza dei tempi di attuazione. Ciononostante, alcune delle proposte sono rientrate nei successivi decreti, tra cui la centralizzazione degli acquisti di beni e servizi, la riduzione degli stipendi dei dirigenti pubblici e la riforma delle aziende a partecipazione pubblica. Il Commissario si dimette dopo un anno (incarico di tre anni) poiché designato dal Governo Renzi ad un incarico al Fondo Monetario Internazionale.
Nel 2015 l’attività del Commissario Yoram Gutgeld si concentra su 3 macro-aree di spesa: sanità, enti locali e sicurezza, affiancato dall’economista consigliere del Presidente del Consiglio Matteo Renzi, Roberto Perotti, per circa sei mesi, fintanto che lo stesso si dimette dall'incarico dichiarando di non sentirsi utile. Il totale di riduzione della spesa per il 2017 ammonta a 30 miliardi di euro, utilizzati per ampliare le prestazioni previdenziali e assistenziali (per un totale di 12,7 miliardi), e per contribuire al risanamento dei conti pubblici ed alla diminuzione della pressione fiscale. I dati però risentono dell’assenza di trasparenza nel processo e nei risultati ottenuti.
In accordo ai dettami del PNRR, la Ragioneria ha esaminato l’operato dei Ministeri di Giustizia e Salute nel triennio 2018-20 sulla base dell’efficacia sia degli obiettivi che delle procedure. Se da una parte gli obiettivi di risparmio nel 2019 sono stati raggiunti nella quasi totalità dei centri di spesa, dall’altra le metodologie non fanno ben sperare: infatti, uno dei principali problemi emersi per entrambi i Ministeri è stato quello di adottare sistematici tagli.
Tagliare la spesa significa ridurre finanziamenti o stanziamenti, non riqualificare la spesa, ristrutturare il sistema decisionale e le sue metodologie in funzione di una migliore efficienza, in un certo senso si potrebbe dire che c’è stata spending review senza autentica revisione della spesa. Rimanevano ancora nell’ombra i presupposti su cui dovevano esser state formulate le proposte dei Ministeri, l’impianto decisionale utilizzato e se fossero state prese in considerazione eventuali opzioni alternative rispetto a quelle intraprese.
Le spending review non sono mai state paragonabili alle esperienze condotte in altri paesi, dove hanno prodotto significativi e permanenti tagli alla spesa. Nel Regno Unito si attua una revisione sistemica che coinvolge la totalità delle amministrazioni da anni, con risparmi solo dal 2004 al 2007 superiori ai 23 miliardi di sterline (circa il 3.7% del totale della spesa). Il Giappone invece, dal 2006 al 2009, ha registrato un risparmio di 42 miliardi di dollari (circa il 3% del totale della spesa), con grande attenzione alla trasparenza dei processi.
Nessuna è intervenuta sui processi produttivi per aumentare l’efficienza e la qualità dei servizi pubblici, a parte alcuni lavori della CTSP. Solo le revisioni di Bondi e di Gutgeld hanno prodotto importanti risparmi di spesa. Nel primo caso però, sono stati ottenuti con tagli quasi-lineari su tutti gli enti territoriali. Nel secondo, dai documenti pubblici è difficile individuare un legame diretto tra l’attività svolta ed i risparmi dichiarati. Nel caso della spending review realizzata singolarmente dai Ministeri sono stati realizzati risparmi molto contenuti imponendo tagli lineari a tutti i Ministeri. Questi tentativi di manovra non sono riusciti né a ridurre le risorse pubbliche a parità di servizi pubblici offerti, né a ridefinire il perimetro dell’azione pubblica, né ad aumentare l’efficienza.
La spesa non è (quasi) mai troppa o troppo poca, il discorso va contestualizzato a livello di area di interesse di ogni singola pubblica amministrazione. Nel momento in cui lo Stato italiano ha deciso di intraprendere un percorso di forte presenza nell’economia, da una parte per salvaguardare diritti alla salute ed al lavoro, dall’altra con una marcata pressione fiscale, risulta alquanto logico che la spesa ne debba essere commisurata. Il problema è un altro: in Italia si spende in maniera sconsiderata; se non prendiamo in considerazione pensioni e interessi sul debito, l’Italia spende meno della media dell’Eurozona ed una spesa strutturalmente inefficiente comporta minore capacità del sistema di crescere e sostenere la popolazione. Gli eccessi del passato appesantiscono le possibilità di spesa attraverso il macigno degli interessi sul debito pubblico che ammontano allo stesso valore nel bilancio di uscite dello Stato dell’intera spesa per l’istruzione. Si è cercato di risolvere questi problemi (ir)risolvibili attraverso attente valutazioni di esperti che però sono state del tutto o in parte, accantonate od ignorate. Il fardello della spesa ha a disposizione una miriade di soluzioni che ne alleggerirebbero una parte alla volta, un percorso di lungo periodo che però non sembra interessare abbastanza né le sedute di velluto, né i cittadini, le cui risorse però sono quelle che vengono sperperate.
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Abbiamo bisogno di un nuovo approccio alle politiche sulla concorrenza, più favorevole alle aziende che si espandono nei mercati globali, garantendo sempre condizioni di parità. Ciò dovrebbe riflettersi nel modo in cui valutiamo le fusioni in modo che l’innovazione e la resilienza siano pienamente prese in considerazione [1].
Sono le parole usate dalla Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen nel piano “Europe’s Choice” presentato prima delle votazioni del 18 luglio. Migliorare la competitività delle imprese europee è tra le priorità del programma e ripensare l’approccio dell’antitrust è fra le iniziative suggerite con questo scopo. Ma ne abbiamo veramente bisogno?
Che in Europa ci sia un problema è indubbio. Nel 2022 gli investimenti delle grandi aziende in UE erano quasi il 40% in meno rispetto alle loro rivali d’oltreoceano e la produttività del vecchio continente è da anni rimasta dietro a quella americana (anche considerando che in UE si lavora mediamente di meno) [2]. Un dato più di tutti ben rappresenta il problema in Europa: quest’anno, nella lista Forbes delle 2000 società più grandi al mondo, solo 6 tra le prime 50 classificate provengono dall’UE [3].
Insomma, l’economia europea è meno competitiva di quella americana e mancano dei “campioni” nazionali. Il tema è chiaro a Bruxelles ed il programma proposto dalla Presidente della Commissione europea, così come il report affidato a Mario Draghi, dimostrano la volontà di invertire la rotta.
Tuttavia, benché il problema sembrerebbe essere chiaro, meno evidente è come risolverlo, e la proposta di ripensare le norme in materia di fusioni lascia quantomeno perplessi. L’idea non è nuova, anzi, torna ciclicamente nel dibattito europeo. L’ultimo caso più noto fu nel 2019 quando la Commissione europea bocciò la proposta di fusione tra i giganti Alstom e Siemens [4]. Alla decisione della Commissione seguì la pubblicazione del manifesto franco-tedesco per ripensare la politica industriale europea [5] ed in particolar modo le norme in materia di fusione tra imprese.
La tesi di fondo era ai tempi la stessa di oggi. La competizione interna nei mercati europei è così feroce che le imprese non hanno risorse sufficienti da investire in innovazione. Se si unissero le forze si potrebbe investire di più in ricerca e sviluppo e competere a livello globale. Per questo motivo, l’antitrust dovrebbe essere più tollerante e lasciare che le imprese si fondano.
L’argomentazione sembrerebbe essere piuttosto convincente ma ridurre la concorrenza nei mercati europei potrebbe avere un effetto opposto a quello desiderato.
La relazione tra concorrenza in un mercato e livello di innovazione non è del tutto chiara. Sul piano teorico, esistono argomenti sia a favore che contro l'idea che un maggior livello di concorrenza sia desiderabile. Ma ammettiamo che sia vero e che troppa competizione impedisca l’innovazione dal momento che le imprese, competendo ferocemente, diminuiscono i prezzi fino ad annullare i profitti e non hanno perciò sufficienti risorse da investire in innovazione. In questo caso, parrebbe plausibile pensare che esista un rapporto a forma di “U” rovesciata tra innovazione e concorrenza [6].
Un po’ di concorrenza quindi incentiverebbe l’innovazione dal momento che impedirebbe alle imprese di “adagiarsi sugli allori”; d’altro canto, troppa concorrenza ridurrebbe l’innovazione per il motivo spiegato in precedenza.
]]>L'Europa si trova oggi di fronte a una svolta cruciale, un momento di trasformazione che potrebbe ridefinire il suo ruolo sulla scena mondiale.
Come si citava precedentemente, la crescita economica del Vecchio Continente è in pieno rallentamento. Ad accentuare questo elemento vi è il crescente divario di produttività che si è andato ad aggravare nel corso dell’ultimo ventennio. Il differenziale PIL dal 2002 al 2023 è passato dal 15% al 30%.
Un percorso di crescita sostenibile va ricercato da un lato, attraverso una spinta alla produttività quale principale vettore degli obiettivi di inclusione sociale, neutralità carbonica e rilevanza diplomatica, e dall’altro, riconoscendo nella competitività un incentivo per crescere in termini di produttività e di welfare sociale e non soltanto una competizione a livello globale.
]]>Quella tra Italia e Mozambico è oramai un’amicizia più che trentennale: sebbene vi fossero rapporti diplomatici preesistenti all’indipendenza ottenuta negli anni ‘70, la vera svolta avvenne nel 1992 con gli Accordi di Roma che posero fine ad una guerra interna durata circa 16 anni [1]. Da quel momento il Mozambico si è configurato come un partner privilegiato per l’Italia nel continente africano: nel 2022 il “Bel Paese” si è confermato come secondo investitore europeo e quarto a livello globale, con oltre 150 milioni in investimenti esteri diretti, la maggior parte dei quali devoluti al settore estrattivo (petrolio, gas, carbone) [2].
Al centro dei rapporti tra i due Stati vi sono infatti le risorse energetiche, oggetto di rinnovato interesse (non solo da parte dell’Italia) in primis a partire dal 2010 con la scoperta di enormi giacimenti di gas naturale nel bacino di Rovuma, nella provincia di Cabo Delgado, e in seguito nel 2022 con la necessità di ridurre la dipendenza energetica dalla Russia.
Ma perchè il Mozambico è così rilevante?
]]>Inflation Reduction Act (IRA), Creating Helpful Incentives to Produce Semiconductors Act (CHIPS), European Chips Act e Green Deal Europeo.
Sono solo alcuni esempi del ritrovato interesse dei governi occidentali per le politiche industriali.
In realtà, già prima degli ultimi anni, gli Stati di tutto il mondo non avevano rinunciato ad intervenire nell’economia nazionale per promuovere un settore piuttosto che un altro. Anche in Europa e negli Stati Uniti, contrariamente a quanto si possa pensare, gli esempi negli ultimi decenni sono stati numerosi. Nel 2010, Tesla ricevette un prestito di ben 465 milioni di dollari a tasso agevolato dal Department of Energy [1]. La compagnia Francese Airbus nacque nel 1965 per iniziativa di Francia, Germania e Regno Unito [2].
Tecnologie come il GPS e Internet furono possibili grazie a progetti di ricerca finanziati dal DARPA, un programma americano per promuovere la ricerca nel settore militare [3]. Analogamente, altri programmi pubblici per favorire la ricerca come ATP [3] negli USA o ESPRIT e Horizon Europe [4] in UE hanno permesso la commercializzazione di numerosi prodotti. Infine, ma gli esempi potrebbero essere ancora centinaia, la stessa Unione Europea nacque dal coordinamento delle politiche industriali dei primi paesi che fecero parte della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA).
Insomma, le politiche industriali non hanno mai abbandonato l'Occidente, tantomeno gli altri Paesi [3]. Negli ultimi anni però, qualcosa è cambiato ed il ricorso alle politiche industriali è diventato sempre più frequente, soprattutto in USA, UE e Cina[5] .
A partire dal 2018, il numero di interventi di politica industriale annui nel mondo è aumentato in modo significativo rispetto agli anni precedenti, sia in termini assoluti che in proporzione al numero di interventi pubblici che incidono sugli interessi commerciali di Stati esteri (si possono considerare le politiche industriali come un sottoinsieme di quest’ultimo tipo di politiche) [6].
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Nel giugno 2017, il Parlamento Europeo ha adottato una risoluzione con la quale veniva chiesto alla Commissione Europea di analizzare a fondo la situazione in merito alle fake news (Directorate-general for communication, 2018). A tale scopo è stata creata una survey pubblica riportata nel rapporto “Flash Eurobarometro 464” in modo da approfondire l’effettiva consapevolezza dei cittadini europei nei confronti di fake news e disinformazione online. I dati raccolti, datati 12 marzo 2018, mostrano come due terzi dei cittadini europei interpellati affermi di venire a contatto con fake news almeno una volta alla settimana (Directorate-general for communication, 2018). La stessa ricerca riporta che circa l’80% dei cittadini vede il diffondersi di fake news come un pericolo sia per il proprio paese che per la democrazia in generale.
Dati risalenti al 31 gennaio 2018 riportano che la metà dei cittadini intervistati di età compresa tra i 15 ed i 30 anni dichiarano di aver bisogno di strumenti che permettano loro di riflettere in modo critico, così da essere potenzialmente meno influenzabili da notizie false e cattiva informazione (Directorate-general for communication, 2018a).
]]>Sembra quasi un déjà-vu se non fosse che, successivamente alle Olimpiadi di Tokyo del 2020, a riportare in auge l’argomento fu il presidente del Coni Malagò, il quale chiese a gran voce lo Ius soli sportivo.
Se ne parlò per un periodo, ma come spesso accade in politica, non trovando un punto in comune da cui partire, si finisce per accantonare la tematica e riporla nel cassetto.
Questa volta, però, sembra esserci uno spiraglio di luce, perché il ministro degli Esteri nonché leader di Forza Italia, Antonio Tajani, così come riportato sul sito degli esteri, attraverso un’intervista rilasciata a “Il Messaggero” ha aperto alla possibilità di riconoscere la cittadinanza ai minori stranieri che, residenti in Italia, abbiano completato uno o più cicli scolastici.
Sarebbe sicuramente una svolta storica, ma considerando come ogni schieramento politico conservi la propria idea e la propria posizione, c’è bisogno di estrema cautela ed occorra procedere un passo alla volta.
Difatti, ad oggi, se Fratelli d’Italia pur rappresentando il partito di maggioranza sia rimasto in silenzio, l’altro partito della coalizione ha già eretto un muro ed il suo leader, Matteo Salvini, attraverso un video pubblicato sui propri profili social ha sottolineato che “non c’è nessun bisogno, nessuna urgenza di cambiare la legge sulla cittadinanza che già oggi dice che l’Italia è il Paese europeo che concede più cittadinanze”.
Il dato fornito dal Ministro dei trasporti e infrastrutture è corretto: considerando un rapporto della Fondazione ISMU ETS si evidenzia che, in base agli ultimi dati Eurostat, nel 2022 abbia acquisito la cittadinanza italiana il 4,3% dei residenti con cittadinanza italiana a fronte della media del 2,6% per l’intera UE.
Ciò, però, non è sufficiente per rimanere arroccati sulle proprie posizioni, perché un dato resta un dato ed occorre contestualizzarlo al fine di poterlo interpretare correttamente.
Ed il contesto mostra come che si sia di fronte ad una legge vecchia di più di 30 anni all’interno di un Paese che da allora abbia subito continui cambiamenti, anche a livello demografico.
Contestualizzando, dunque, appare doveroso affrontare questa tematica delicata con la massima lucidità possibile, spogliandosi (anche se parzialmente) del ruolo di politico che difende le proprie posizioni ad ogni costo.
Dal lato opposto, sinistra e centrosinistra hanno sempre sostenuto la necessità di cambiare l’attuale legge sulle modalità di ottenimento della cittadinanza italiana, l’ultima delle quali avvenuta nel 2015, quando lo Ius Soli che recava la firma di Laura Boldrini, aveva ottenuto il sì dell’Aula della Camera (poi fermatosi al Senato) ottenendo 310 sì, 66 no e 83 astenuti; i contrari, ovviamente, erano rappresentati dai deputati di Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia, mentre gli astenuti erano costituiti dai deputati del Movimento 5 Stelle, oggi invece favorevoli.
Attualmente, così come previsto dalla L. 91/1992, ci sono delle modalità abbastanza stringenti per poter ottenere la cittadinanza italiana.
La prima, rappresentata dallo Ius Sanguinis, riguarda l’acquisizione automatica della cittadinanza italiana che si ottiene per nascita da un genitore italiano (art. 1, L. 5 febbraio 1992, n.91).
Sempre per nascita e sempre ai sensi dell’art. 1 della medesima legge, è cittadino italiano chi è nato nel territorio italiano se entrambi i genitori sono ignoti o apolidi, ovvero se il figlio non segue la cittadinanza dei genitori secondo la legge dello Stato al quale gli stessi genitori appartengono.
Una ulteriore modalità “diretta” di acquisizione della cittadinanza italiana è inoltre rappresentata dall’adozione di un minore da parte di un cittadino italiano (art. 3).
Accanto allo Ius Sanguinis, poi, l’ottenimento della cittadinanza italiana può avvenire:
Diversamente da quanto accade per lo Ius Sanguinis, lo Ius Soli (puro o illimitato) prevede che il diritto di cittadinanza venga concesso aqualsiasi individuo nato sul territorio italiano, indipendentemente dai propri genitori e da qualsiasi altro fattore, così come avviene in Francia e negli Stati Uniti d’America.
In Italia, però, non è mai stato preso in considerazione lo Ius Soli in senso stretto ma, piuttosto, sarebbe più corretto parlare di Ius Soli temperato.
Lo Ius Soli temperato si fonda sul principio secondo cui è possibile ottenere la cittadinanza italiana se almeno uno dei due genitori risiede stabilmente e legalmente in Italia da almeno 5 anni.
Lo Ius Scholae rappresenta (o può rappresentare) un giusto compromesso tra i due estremi dello Ius Sanguinis e dello Ius Soli e, dunque, potrebbe essere il giusto terreno di confronto tra maggioranza ed opposizione.
Entrando nel dettaglio, lo Ius Scholae, il cui disegno di legge a firma della senatrice del PD Simona Malpezzi, prevede che la cittadinanza italiana possa essere ottenuta dai giovani extracomunitari nati in Italia od arrivati prima del compimento del dodicesimo anno di età che risiedano legalmente in Italia e che abbiano frequentato regolarmente almeno 5 anni di studio in Italia, ovvero a seguito di un percorso di istruzione e formazione professionale.
Sulla base della situazione attuale è più che lecito pensare che la questione immigrati presenti alcune criticità.
Il primo fattore da prendere in considerazione è sicuramente quello correlato all’istruzione.
Da un lato, troviamo il rendimento degli studenti non italiani di gran lunga inferiore rispetto a quello degli studenti italiani: infatti il 26,9% si trova in una situazione di ritardo scolastico contro il 7,5% degli studenti italiani.
Dall’altro, invece, il dato della dispersione scolastica tra gli studenti con cittadinanza non italiana, che è del 30,1% contro il 9,8% degli studenti italiani.
]]>Il 19 giugno,la Commissione Europea ha presentato il «pacchetto primavera 2024» del Semestre europeo; congiuntamente, dopo aver sentito il parere del Comitato economico e finanziario, ha pubblicato una relazione, in cui, dopo aver valutato le posizioni di bilancio degli Stati membro, ha evidenziato un potenziale disavanzo eccessivo per Italia, Belgio, Francia, Ungheria, Malta, Polonia e Slovacchia.La Commissione ha trasmesso la relazione agli stati membri interessati ed al Consiglio, e ha proposto a quest’ultima diaprire Procedure per Disavanzi Eccessivi (PDE) basate sul deficit.
Il 26 luglio il Consiglio ha confermato l'esistenza di disavanzi eccessivi per i Paesi sopra elencati. In particolare, l'Italia ha registrato un deficit/PIL del 7,4% nel 2023 e, secondo le stime della Commissione, questo valore rimarrà al di sopra del limite di riferimento (del 3%) anche nei prossimi tre anni, soprattutto a causa dei costi legati al Superbonus. In particolare, il rapporto indebitamento netto/PIL è previsto al -4,4% nel 2024 e al -4,7% nel 2025, a differenza delle previsioni più ottimistiche del Governo italiano presentate nel Documento di Economia e Finanza (DEF) 2024, che riportava la variazione del valore del deficit del 2025 pari al -3,7%.
A seguito della riforma del Patto di stabilità e crescita (PSC), in vigore dal 30 aprile 2024, entro il 20 settembre, con l’uscita della NADEF, ogni Stato membro dovrà presentare il proprio Piano Strutturale di Bilancio di Medio Termine (PSB), relativo ad un periodo di quattro o cinque anni, a seconda della durata della legislatura nazionale: piani che dovranno essere attuati a partire dal 2025.
Per i Paesi membri il cui rapporto debito/PIL sia superiore al 60% o che abbiano un deficit superiore al 3% del PIL,la Commissione Europea deve trasmettere una traiettoria di riferimento della durata di 4 anni (estendibile fino a 7 anni). Questa traiettoria delinea un percorso di spesa netta[1] volto a riportare il debito pubblico su una traiettoria di riduzione plausibile e garantire che il disavanzo sia portato e mantenuto al di sotto del 3% del PIL nel medio termine. Quest’anno la traiettoria è stata fornita, per la prima volta, dalla Commissione Europea il 21 giugno.
La traiettoria di riferimento funge da guida per gli Stati membri nell'elaborazione dei rispettivi PSB. Questi piani sono fondamentali affinché si possa procedere con la prossima fase della Procedura per Disavanzi Eccessivi.
Questa fase prevede che il Consiglio adotti delle raccomandazioni (su proposta della Commissione), riguardanti le misure correttive che ciascuno Stato in PDE deve adottare per far cessare la situazione di disavanzo eccessivo. Le raccomandazioni non sono, di regola, pubbliche.
Le misure correttive devono essere attuate nel termine massimo di sei mesi (o tre nei casi più gravi), e riguardano, in particolare, la spesa netta, la quale deve ridursi per riportare il deficit pubblico sotto il 3% del PIL entro un determinato termine.
Quest'anno, per i Paesi in PDE che non presenteranno in tempo il proprio PNB, la raccomandazione della Commissione, che dovrà delineare un percorso di spesa netta, terrà conto della traiettoria di riferimento della spesa netta già trasmessa dalla Commissione ai Paesi che non rispettino i parametri di Maastricht.
Questa fase della procedura si svolgerà di pari passo alla presentazione dei Documenti Programmatici di Bilancio (DPB), al fine di garantireche i bilanci per il 2025 incorporino i piani fiscali-strutturali a medio termine (PNB) e che siano attuati a partire dal 2025. Il DPB di ciascun Paese deve essere inviato alla Commissione Europea entro il 15 ottobre ed entro il 30 novembre, la Commissione presenterà il proprio parere sui DPB.
L’art. 126 TFUE stabilisce il divieto, per gli Stati membri, di avere disavanzi di bilancio eccessivi. Tale valutazione viene effettuata considerando il saldo effettivo nominale di bilancio (e non quello strutturale) in rapporto al PIL, ossia il deficit effettivo/PIL e il debito/PIL non devono superare i valori di riferimento, rispettivamente del 3% e del 60%, indipendentemente dalle fluttuazioni del ciclo economico. Poiché le numerose riforme che hanno riguardato il PSC non hanno modificato i trattati, questo criterio rimane ancora valido.
La regola del disavanzo o deficit, nota anche come regola del saldo di bilancio, è stata declinata in due modi: rispetto al disavanzo effettivo (o nominale) e rispetto al disavanzo strutturale.
Sulla base del divieto dei disavanzi pubblici eccessivi (art. 126 TFUE), è stato stabilito che il rapporto tra disavanzo pubblico effettivo e PIL non debba superare il valore di riferimento del 3%.
]]>Per soddisfare i bisogni della collettività lo Stato e gli altri enti pubblici producono beni e servizi, affrontando come qualsiasi altro soggetto economico un costo che costituisce la spesa pubblica. Di fatto le spese pubbliche sono l’insieme delle erogazioni effettuate dallo Stato e dagli enti pubblici per la produzione dei beni e dei servizi necessari al soddisfacimento dei bisogni della comunità. In Italia lo Stato spende il 56% di quanto tutto il sistema economico, formato da aziende private, pubbliche e lo Stato stesso, genera in prodotto interno lordo e ricchezza. All’interno di questa macro-voce possiamo evidenziare alcuni settori di interesse in cui la spesa pubblica risulta importante. Quest’ultima ammonta nel 2022 a 1.090 miliardi contro i 1.910 miliardi di Prodotto interno lordo, al suo interno troviamo gli stipendi per i lavoratori dipendenti di 187 miliardi, sanità con 138 miliardi e quindi il 7.1% del Pil e poi 416 miliardi, 23% del Pil, per la protezione sociale che coinvolge sia sussidi di disoccupazione che trasferimenti per pensioni. Se spostiamo il focus sui driver dell’innovazione in un Paese, notiamo che la spesa per istruzione è al 4% del Pil con 79 miliardi mentre la ricerca di base sfiora i 10 miliardi, lo 0.5% del Pil.
I settori sopra-citati, chi più e chi meno, costituiscono una spesa di welfare o gestione del sistema Stato, ma esiste una voce corposa del bilancio delle uscite governative che confluisce solamente nelle tasche dei sottoscrittori: la spesa per interessi. La spesa per interessi sul debito pubblico ammonta a circa 100 miliardi e quindi si attesta al 4% del PIL nel 2022 e nel 2023 (dal 3,6% nel 2021), registrando un consistente aumento. Fortunatamente, attraverso dei meccanismi di composizione del mix di debito pubblico emesso, i tecnici del dipartimento del Tesoro riescono ogni anno a contenere questa spesa che, in assenza di ciò, sarebbe ancor più elevata. La struttura dei conti pubblici però non può basarsi in maniera preponderante sul lavoro di fino dei tecnici ministeriali, ma deve essere affidabile e sostenibile nel lungo periodo. Andremo ora ad analizzare una delle voci di spesa più ingenti che sottrae ricchezza dal mondo del lavoro e non sfocia in una maggiore crescita economica: le pensioni.
L'Italia sviluppa il proprio stato di welfare con un notevole ritardo rispetto agli altri Stati europei: la previdenza diventa obbligatoria soltanto a partire dagli anni 20'. Inizialmente, per finanziare le pensioni, viene adottato un sistema "a capitalizzazione" ma la forte inflazione causata dal periodo di guerre rende obbligatorio il passaggio ad un sistema pensionistico misto "a ripartizione-capitalizzazione" in vigore fino al 1970.
Dopodiché, il principio di capitalizzazione viene abbandonato per adottare a pieno titolo il sistema "a ripartizione". Questo significa che le pensioni attuali sono finanziate dai contributi dei lavoratori attivi. Inoltre, si opta per il metodo di calcolo retributivo, che calcola la pensione in base agli stipendi percepiti durante la vita lavorativa, solitamente prendendo come riferimento gli ultimi anni di lavoro. La retribuzione pensionabile è pari alla media degli stipendi degli ultimi 5 anni, rivalutati al costo della vita. Il tasso di rendimento interno garantisce una pensione pari a circa l'80% di questo valore. Di fatto, il pensionato è avvantaggiato poiché si trova ad avere una pensione piuttosto elevata rispetto alla contribuzione versata. Tuttavia, tale modello pensionistico genera un notevole aumento della spesa sociale e del bilancio pubblico. Pertanto, si rende necessaria una riforma del sistema pensionistico, tanto più se l'Italia vuole rientrare nei parametri europei.
Il tasso di rendimento interno garantisce una pensione pari a circa l'80% di questo valore, di fatto il pensionato è avvantaggiato poiché si trova ad avere una pensione piuttosto elevata rispetto alla contribuzione versata. Tale modello pensionistico genera però un notevole aumento della spesa sociale e del bilancio pubblico. Pertanto, si rende necessaria una riforma del sistema pensionistico, tanto più se l'Italia vuole rientrare nei parametri europei.
Nel 1992 la riforma Amato estende il periodo di riferimento per il calcolo della retribuzione pensionabile alla media degli stipendi dell'intera vita lavorativa, rivalutati sull'andamento del costo della vita. La riforma costruisce una struttura a tasso di sostituzione fisso per la quale la pensione viene calcolata come una proporzione costante del salario. In questo sistema la pensione rimane costante a prescindere dai cambiamenti riguardo alla crescita della popolazione o produttività, che invece impattano sui salari dei lavoratori in maniera proporzionale. Aumenti di questi valori incrementano i salari e non le pensioni, allo stesso modo diminuzioni fanno crescere l’aliquota contributiva e quindi diminuiscono i salari.
La riforma Dini del 1995 applica il metodo contributivo (e non più retributivo) al sistema a ripartizione, quindi le pensioni vengono finanziate dai lavoratori correnti sulla base dei contributi versati dai pensionati nella loro vita lavorativa. Inoltre crea una relazione tra rendita pensionistica, aspettative sulla durata del pensionamento e quindi sulla età media di vita dei pensionati. Questa struttura cambia il paradigma precedente e costruisce un sistema fondato sul rapporto costante tra monte pensioni e monte salari. Cambiamenti nel tasso di crescita della popolazione influenzano solamente l’assegno pensionistico con salari costanti, mentre variazioni della produttività influenzano proporzionalmente sia pensioni che salari netti. Di conseguenza al diminuire della produzione si accompagna inevitabilmente una diminuzione di salari e pensioni.
Le riforme dei successivi governi, dal 1997 al 2007 razionalizzano il sistema pensionistico concentrandosi sull'omogeneizzazione dei regimi pensionistici di diverse categorie professionali e l’abolizione delle cosiddette “baby pensioni” (Prodi 1997), sull’importanza di utilizzare fondi di previdenza complementare (Maroni 2004) e sull’età pensionabile (Prodi 2007)
Con il Decreto "Salva Italia" nel 2011 si attua, infine, la Riforma Fornero che si propone di sottolineare principi di trasparenza, equità, semplificazione e solidarietà sociale. Viene esteso a tutti, eliminando il sistema delle quote, il metodo contributivo con due soli canali: pensione di vecchiaia e anticipata. Viene inoltre valorizzata la funzione redistributiva del sistema pensionistico utilizzando un metodo contributivo pro-rata, quindi rimane possibile utilizzare criteri di calcolo precedentemente acquisiti se i nuovi peggiorano il calcolo dell’assegno pensionistico. Si garantisce l'equità finanziaria intra-generazionale ed inter-generazionale. Nei tre anni successivi, una serie di provvedimenti sono necessari per risolvere il problema degli esodati, che da essere vicini alla pensione ora si trovano senza più lavoro e distanti da essa, permettendo di raggiungerla in tempi ravvicinati.
L’esborso per pensioni, dopo il picco del 17% nel 2020, raggiunge il 15,6% nel 2022 attestandosi a livelli preponderanti nel quadro di spesa pubblica italiano e ricoprendo il primo posto nella gerarchia di spesa. Inoltre non tutto il sistema pensionistico si sorregge direttamente sui contributi dei lavoratori. Nel 2021 il totale della spesa per pensioni (vecchiaia, invalidità, superstiti e assistenziali) è di 322 miliardi contro entrate contributive di 237 miliardi, a causa di ciò lo Stato è obbligato a trasferire fondi all’Istituto Nazionale di Previdenza e Assistenza (INPS) per 145 miliardi di cui circa 84 miliardi vengono utilizzati per coprire l’erogazione totale delle pensioni ai cittadini italiani. Lo Stato italiano, oltre che spendere una ingente parte delle finanze pubbliche in pensioni, è costretto a sopperire alle mancanze del sistema pensionistico attraverso l’utilizzo della tassazione generale, erodendo investimenti alternativi.
Questi risultati fanno parte di un trend ormai ventennale di esborsi allarmanti e non sostenibili delle finanze pubbliche, sottolineato nettamente dagli ultimi rapporti del MEF. Secondo il Ministero dell'Economia e delle Finanze infatti, dal 2030 il rapporto tra spesa pensionistica e PIL riprende ad aumentare dopo la leggera flessione legata alla chiusura del sistema di Quota 100, fino a tornare al picco del 17% nel 2042. Tale dinamica è essenzialmente dovuta all’incremento del rapporto fra numero di pensioni e numero di occupati indotto dalla transizione demografica. La precedente riforma Fornero riesce solo parzialmente a compensare questo incremento di spesa tramite l’innalzamento dei requisiti minimi di accesso al pensionamento e la sempre più estensiva applicazione del sistema di calcolo contributivo. Solo nel periodo successivo al 2045, secondo le previsioni, la spesa pensionistica torna a scendere e si assesta a livelli del 14% nel 2070. La rapida riduzione del rapporto è determinata sia dall’applicazione generalizzata del calcolo contributivo che dalla stabilizzazione, e successiva inversione di tendenza, del rapporto fra numero di pensioni e numero di occupati. Questo andamento, risultato della progressiva uscita dei “baby boomer” e degli effetti dell’adeguamento automatico in funzione della speranza di vita, si basa sul mantenimento della presente natalità. Il sistema pensionistico nel lungo periodo raggiunge stabilità solo se la crescita demografica non collassa, solo se il trend di natalità italiano mantiene questo andamento oppure, nel migliore dei casi, incrementa le nascite. Nel caso in cui questo non accadesse la struttura della previdenza non risulterebbe, nemmeno nel futuro, sostenibile e saranno necessari altri e più stringenti provvedimenti per renderla inter-generazionalmente equa.
]]>In questo contesto, la proposta di un salario minimo emerge come una soluzione semplicistica che rischia di impattare negativamente le imprese, da un lato, e risultare inefficace per il miglioramento della condizione salariale dei lavoratori italiani, dall’altro.
Le grandi aziende italiane (e non solo) sono costrette a navigare un labirinto burocratico che ostacola la loro competitività internazionale. Le lunghe e complicate procedure amministrative non solo rallentano l'operatività aziendale, ma scoraggiano anche gli investimenti esteri.
Il sistema fiscale italiano, caratterizzato da una complessità normativa elevata e da un carico impositivo pesante, rappresenta un ulteriore freno. La Tax Compliance Index dell’OCSE colloca l’Italia tra i paesi con i più alti costi di conformità fiscale, rendendo il sistema particolarmente oneroso per le imprese: ciò obbliga le aziende a destinare risorse significative alla gestione fiscale, risorse che potrebbero altrimenti essere investite in innovazione e crescita.
Infine, l’incertezza e l’eccessiva lunghezza dei processi giudiziari, specie in conflitti inter-partes aziende-istituzioni affrontati per colmare delle distorsioni del sistema fiscale italiano, impiegano ingenti risorse economiche sottraendole agli investimenti.
Un aspetto cruciale della stagnazione economica italiana è il fenomeno delle "imprese nane" – piccole e medie imprese che rimangono intenzionalmente di dimensioni ridotte. Questo nanismo è incentivato da politiche fiscali e protezionistiche che, se da un lato offrono agevolazioni fiscali alle piccole imprese, dall’altro scoraggiano la crescita e l'espansione.
Le agevolazioni fiscali per le piccole imprese, quali il regime forfettario, sono concepite al fine di favorire l’imprenditorialità, ma di fatto incentivano le aziende a non crescere, frammentarsi od eludere il fisco onde non perdere i benefici.
La politica italiana, protezionista per natura, tende a preservare queste piccole imprese attraverso misure che limitano la concorrenza e l’internazionalizzazione. Ad esempio, i decreti "Salva Imprese" spesso includono misure che proteggono settori specifici dalle pressioni competitive internazionali, limitando l’apertura del mercato e l’innovazione. Tuttavia, mantenere un’economia basata su piccole aziende frammentate impedisce di sfruttare le economie di scala e di competere efficacemente sui mercati globali, contribuendo alla stagnazione economica del paese.
In Italia, settori quali turismo, artigianato e costruzioni sono spesso considerati fondamentali per l’economia nazionale e meritevoli di trasferimenti crescenti di risorse finanziarie statali. Di fatto, questa percezione rischia di essere fuorviante. Sebbene questi settori contribuiscono significativamente al PIL, tendono a generare lavori instabili, poco qualificati e scarsamente remunerativi. La forte concentrazione su questi settori limita lo sviluppo di industrie ad alta tecnologia ed innovazione, che potrebbero offrire posti di lavoro più stabili e meglio retribuiti.
Nonostante uno stallo o peggioramento relativo alla maggior parte dei settori, l’industria rimane l’unico (di grandi dimensioni) a registrare un incremento di produttività costante, anche se affetto da un sostanziale “fall-back” rispetto alla media dell’Eurozona e delle altre grandi economie europee.
]]>Il Venezuela sta avviando un'indagine penali contro i leader dell'opposizione che contestano le elezioni di fine Luglio per aver incitato la polizia ed i militari ad infrangere la legge, secondo quanto dichiarato dal procuratore generale Tarek Saab.
Il segretario di Stato USA Antony Blinken ha dichiarato che sussistono "prove schiaccianti" della vittoria di Gonzalez, riconosciuto come vincitore dagli Stati Uniti. All’incirca 12 milioni di venezuelani sono andati a votare: il processo di voto e l'annuncio dei risultati da parte del Consiglio Elettorale Nazionale (CNE) controllato da Maduro sono stati tuttavia profondamente viziati, generando un esito che non rappresenta la volontà del popolo.
Il CNE non ha infatti esitato a dichiarare Nicolás Maduro come vincitore con il 51,2% dei voti e la conseguente sconfitta di Edmundo González Urrutia con il 44,2%, nonostante l’assenza di prove, dati e, ancor meno, verbali delle votazioni, a sostegno.
L'opposizione politica venezuelana e i suoi sostenitori si sono recentemente riuniti in diverse città del paese per chiedere il riconoscimento della vittoria del loro candidato nelle elezioni presidenziali, tenutesi quasi tre settimane fa.
L’opposizione chiede un riconteggio dei voti e dichiara “presidente eletto” il suo candidato Edmundo González Urrutia. La coalizione capitanata da Machado ha pubblicato l'80% dei verbali direttamente dalle stazioni elettorali, indicando che Edmundo González Urrutia ha ottenuto la netta maggioranza con un margine di quasi 4 milioni di voti. Osservatori indipendenti hanno confermato i fatti, suffragati anche da exit poll e conteggi rapidi. Nessun paese è riuscito ad accertare che Maduro abbia ricevuto più voti.
I partiti di opposizione accusano inoltre il governo di aver ostacolato la campagna di González impedendo la partecipazione di osservatori indipendenti.
La leader, nonché volto dell’opposizione, Maria Corina Machado, è stata inoltre esclusa dalla corsa elettorale già a marzo.
Il presidente Maduro attribuisce il ritardo nel conteggio dei voti ad un attacco informatico e ne indica Machado quale principale mandante: una versione però immediatamente smentita dal Carter Center. WhatsApp verrà bloccato e sostituito con Telegram, affermando come l’app di messaggistica SIA stata utilizzata per minacciare le famiglie dei soldati e degli agenti di polizia.
Nove paesi sudamericani, tra cui Colombia, Brasile e Perù, hanno richiesto una revisione indipendente del voto. Anche l’Unione Europea ha richiesto l’accesso a risultati e documenti verificabili. Al contrario, la vittoria di Maduro è stata immediatamente riconosciuta dagli alleati regionali quali Cuba, Nicaragua, Bolivia e Honduras. Lo stesso è valso per una serie di simpatizzanti autoritari oltreoceano come Russia, Cina, Iran e Siria.
La comunità internazionale ha suggerito diverse soluzioni, tra cui nuove elezioni, ma la maggior parte di queste proposte è stata respinta sia dal governo che dall'opposizione.
Dopo l’ennesima controversia elettorale, e nonostante gli osservatori internazionali ne abbiano denunciato l’assenza di regolarità e di un processo democratico, Nicolás Maduro sembra essersi saldamente arroccato sul trono Venezuelano. Le forze di sicurezza di Maduro hanno arrestato centinaia di oppositori politici e represso le proteste con forza. Nonostante il malcontento popolare e le crescenti difficoltà economiche, le manifestazioni contro il governo stanno perdendo vigore, lasciando molti a chiedersi se ci sia ancora speranza per un cambiamento democratico.
Martedì 30 Luglio, i partiti dell’opposizione hanno segnalato l’arresto di Freddy Superlano, una delle principali voci contro il regime. Su queste orme, nonché presupposti, Maduro afferma di voler reprimere il cosiddetto tentativo di colpo di stato. Un’intera generazione è in strada per tentare di “ribaltare” un leader che non possono estromettere, abbattendo statue e simboli legati al movimento socialista.
Durante le proteste, il governo ha arrestato circa 2.400 persone e causando almeno 23 morti, come confermato da Human Rights Watch. Gli stessi Gonzalez e Machado hanno invitato militari e polizia a schierarsi con il popolo. Nonostante ciò, la lealtà delle forze armate sembra essere inscalfibile.
Anche a fronte della “profonda preoccupazione” da parte di paesi esteri come gli Stati Uniti, rimuovere Maduro sarà estremamente complicato, considerando il rafforzato controllo su esercito, polizia, magistratura e media.
Brasile e Venezuela hanno raggiunto un accordo diplomatico in seguito alla rottura delle relazioni causata dalla contestazione delle elezioni. Il Brasile rappresenterà gli interessi di Argentina e Perù a Caracas, dopo che il Venezuela ha interrotto i rapporti con questi due Paesi in seguito alla loro riconoscenza del candidato dell'opposizione Edmundo Gonzalez quale vincitore delle elezioni del 28 luglio.
Il governo brasiliano, insieme a Colombia e Messico, ha chiesto la pubblicazione completa dei risultati elettorali, ma le autorità venezuelane non hanno ancora provveduto, proclamando piuttosto la vittoria di Nicolas Maduro, titolare un terzo mandato. L'accordo, effettivo da lunedì, assegna all'ambasciata brasiliana a Caracas la custodia degli uffici diplomatici di Argentina e Perù in Venezuela, inclusi proprietà e documenti. Oltre ad Argentina e Perù, anche i diplomatici di Cile, Uruguay, Panama, Costa Rica e Repubblica Dominicana hanno lasciato il Venezuela a seguito del riconoscimento di Gonzales quale vincitore da parte dei rispettivi governi.
Il Carter Center, una delle poche organizzazioni internazionali invitate a monitorare le elezioni, afferma di non poter verificare i risultati in quanto il governo non ha diffuso dati completi sul campo. I partiti di opposizione sperano che la pubblicazione di un database con risultati dettagliati aumenti la pressione su Maduro affinché rilasci i dati elettorali. Nel frattempo, il popolo venezuelano si prepara ad una repressione, poiché diventa chiaro che Maduro non trasferirà facilmente il potere.
Paesi come Brasile, Messico e Colombia, guidati da leader di sinistra, hanno adottato un approccio più morbido rispetto agli Stati Uniti, evitando di dichiarare apertamente la sconfitta del “dittatore” in carica. Questi paesi potrebbero avere un'influenza significativa su Maduro, ma sembrano preferire mantenere aperti i canali diplomatici piuttosto che adottare misure drastiche. Il Brasile, sotto la guida di Luiz Inácio Lula da Silva, ha mostrato segnali di frustrazione, ma ha anche evitato di prendere posizioni drastiche. Il governo brasiliano ha offerto protezione ai membri della campagna di González rifugiati nell'ambasciata argentina a Caracas ma allo stesso tempo Lula persevera nel caratterizzare la disputa elettorale come un disaccordo risolvibile nei tribunali venezuelani, “tralasciando” il fatto che questi siano controllati da alleati del governo in carica.
C’è il serio sospetto che il Brasile non intervenga direttamente in modo da preservare una certa stabilità nella regione, considerando l'alto numero di migranti venezuelani già presenti nel Paese. Il presidente messicano López Obrador ha avvertito l'amministrazione Biden di non prendere decisioni affrettate in assenza del conteggio finale dei voti.
Nonostante le sanzioni e l'isolamento internazionale, Maduro mantiene inoltre il sostegno finanziario di Russia, Cina e Iran. Il presidente, durante una marcia a sostegno del governo, ha promesso una crescita economica dell'8% per quest'anno e criticato duramente i suoi oppositori e i critici internazionali.
L'amministrazione Biden è cauta nell'imporre nuove sanzioni economiche, temendo ulteriori danni all'economia venezuelana ed un aumento della migrazione verso gli Stati Uniti, concreto problema della campagna elettorale dei Democratici.
]]>I Fondi Europei sono divisi in 7 missioni, divise a loro volta per cluster di interventi. La parte nettamente più rilevante spetta ai Fondi di Coesione (FESR su tutti) e i fondi per Territorio e risorse naturali. Il totale delle risorse assegnate a questi cluster rappresenta il 77% dei fondi.
Questi fondi hanno l'obiettivo di ridurre le differenze economiche occupazionali e territoriali all'interno dell'Unione, infatti sono destinati a quegli Stati Membri che hanno un reddito nazionale lordo inferiore al 90% della media UE; logico quindi che l'Italia ne sia esclusa totalmente o parzialmente.
Nel QFP 2021-2027 accedono al fondo di coesione 15 Paesi, fra questi Bulgaria Polonia Grecia Cipro Slovacchia Portogallo Romania, ecc. Italia, Francia, Germania, Spagna e altri sono strutturalmente contributori netti del budget UE in quanto hanno un GNI maggiore (anche di molto) della media europea. Magari qualche politico italoide vorrebbe che diventassimo più poveri per poter ricevere risorse invece di darle e credo che con le loro proposte di finanza pubblica l'obiettivo sarebbe raggiunto. Per chi volesse approfondire l'utilizzo dei fondi assegnati all'Italia può accedere al sito web.
]]>Il tema delle condizioni nelle carceri non è recente: già alla fine del XX secolo, il filosofo francese Michel Foucault aveva analizzato i meccanismi teorici e sociali alla base dei profondi cambiamenti nei sistemi penali. Sebbene la sua analisi non proponga soluzioni concrete, costituisce un punto di partenza per ridurre il carattere punitivo delle istituzioni carcerarie, stimolando una riflessione e una possibile riforma.
Il d.l. carceri incendia il dibattito politico, risultando finalizzato alla certezza della pena piuttosto che sul miglioramento delle condizioni penitenziarie.
I principali punti del decreto prevedono:
Semplificazione delle procedure di libertà anticipata: Viene introdotta una semplificazione e velocizzazione delle procedure per concedere la libertà anticipata ai detenuti che ne hanno il diritto. Ciò include la possibilità per il magistrato di sorveglianza di prendere decisioni definitive senza dover passare per il tribunale collegiale. In altre parole, il magistrato di sorveglianza avrà l’autorità di decidere direttamente sulle richieste di misure alternative alla detenzione o altri benefici simili. Questo processo mira a velocizzare l’accesso dei detenuti alle misure alternative, riducendo i tempi di attesa e il carico di lavoro sui tribunali.
Aumento delle telefonate per i detenuti: Il decreto prevede un incremento del numero dei colloqui telefonici settimanali e mensili per i detenuti, con l'obiettivo di migliorare il loro benessere psicologico e mantenere i legami familiari.
Albo delle Comunità: Il testo prevede inoltre l’istituzione di un albo di comunità che potranno accogliere alcune tipologie di detenuti - come quelli con residuo di pena basso, i tossicodipendenti e quelli condannati per determinati reati - dove potranno scontare il fine pena. L'intervento consentirà a molti detenuti, soprattutto stranieri e privi di residenza ufficiale, di avere un luogo per la detenzione domiciliare, riducendo il sovraffollamento nelle carceri.
Assunzione di Personale Penitenziario: Il decreto prevede anche l'assunzione di dirigenti, medici e di mille nuovi agenti penitenziari nei prossimi due anni per migliorare la gestione delle carceri e ridurre la pressione sul personale attualmente in servizio.
L’indebita destinazione di denaro o cose mobili: Una novità importante del decreto Carceri è l'introduzione del peculato per distrazione (articolo 314-bis nel codice penale), che prevede una pena da sei mesi a tre anni di reclusione. Questo reato si applica ai pubblici ufficiali o agli incaricati di un pubblico servizio che utilizzano denaro o beni mobili per scopi diversi da quelli stabiliti dalla legge.
Un altra nota drammatica è rappresentata dal sovraffolamento delle strutture carcerarie:
il carcere di Sollicciano, il più grande della Toscana, è noto per le sue gravi problematiche e viene spesso citato come uno dei più problematici del sistema penitenziario italiano.
Come altre carceri italiane, la struttura è notevolmente sovraffollata: secondo i dati del Ministero della Giustizia aggiornati a fine gennaio, ospita 565 detenuti, 68 in più rispetto alla capienza massima di 497 posti. Tuttavia, la quota attuale rappresenta un miglioramento rispetto al passato, quando, intorno al 2010, il numero di detenuti superava il millennio. Inoltre, Sollicciano è il carcere italiano con la più alta percentuale di detenuti stranieri, che ammontano a 370, pari al 65% del totale. Questi detenuti provengono da circa 40 diverse etnie.
Il carcere di Sollicciano, inaugurato nel 1983, presenta una serie di gravi carenze strutturali e igieniche. Negli ultimi mesi, la situazione è ulteriormente peggiorata: numerosi reparti sono infestati da cimici e altri insetti, sia sui muri che nei letti. Le condizioni ambientali sono estreme, con estati insopportabilmente calde e inverni eccessivamente freddi. La struttura soffre di infiltrazioni, perdite d'acqua, umidità, e la presenza di topi e sporcizia è diffusa. A questi problemi edilizi si aggiungono carenze significative nelle risorse destinate alle attività educative e formative, con pochi spazi dedicati a tali iniziative. Inoltre, non esistono programmi specifici per facilitare l'integrazione dei numerosi detenuti stranieri presenti.
Ad aggravare ulteriormente la situazione è la condizione della salute mentale dei detenuti.
I 62 suicidi (60 uomini e 2 donne) ufficialmente censiti da inizio anno dai penitenziari italiani - che nel frattempo sono diventati 66 - sono un grido di dolore. Secondo i dati diffusi dal Garante nazionale dei detenuti, 33 vittime sono italiane, 29 straniere. Le fasce di età più colpite sono tra i 26 e i 39 anni (29 persone) e tra i 40 e i 55 anni (16 persone). Colpisce come 24 vittime (quasi il 40% del totale) fossero in attesa di giudizio.
Oltre a condizioni invivibili per i detenuti, il sovraffollamento crea anche mancanza di risorse per la loro gestione, a partire dalla carenza di personale di polizia penitenziaria, questione che i sindacati che la rappresentano lamentano con regolarità. Le condizioni di lavoro, spesso caratterizzate da turni massacranti e da mancanza di strumenti per gestire le difficoltà dei detenuti, hanno portato tra le altre cose a vari suicidi anche tra gli agenti di polizia penitenziaria.
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La cannabis viene consumata in varie forme, come marijuana (foglie e fiori essiccati), resina (hashish) e olio. È la droga ricreativa più popolare al mondo (42,27%), ma viene anche utilizzata per scopi medici. Ad esempio, può stimolare l'appetito e alleviare la nausea nei pazienti sottoposti a chemioterapia e trattare condizioni come il dolore cronico e il glaucoma.
Tuttavia, il suo uso è regolamentato a livello internazionale e vari paesi hanno leggi diverse riguardo alla sua legalità. La cannabis si distingue in due chemiotipi basati sui metaboliti secondari: il cannabidiolo detto CBD (usata per scopi terapeutici e agroindustriali) e Tetraidrocannabinolo meglio conosciuta come THC (usata per effetti psicoattivi).
Quando si assume cannabis, il calore attiva i principi attivi infatti il THCA (acido tetraidrocannabinolico) si trasforma in THC, il composto che produce gli effetti psicotropi. La cannabis “cruda” di conseguenza non ha effetti psicoattivi perché manca questo processo di attivazione.
Il THC e il CBD, nonostante abbiano la stessa formula molecolare (C21H30O2), hanno effetti diversi. Il THC è psicoattivo e agisce maggiormente sul cervello, mentre il CBD non lo è e influisce su aspetti come il dolore e il rilassamento muscolare. Questa differenza è dovuta alla loro diversa struttura molecolare.
Quando la cannabis viene fumata, il THC e il CBD entrano rapidamente nel flusso sanguigno attraverso i polmoni, raggiungendo il cervello dopo aver superato la barriera emato-encefalica. Il THC si lega ai recettori CB1 nel cervello, modificando il rilascio di neurotrasmettitori e influenzando funzioni come apprendimento, memoria, coordinazione motoria e appetito.
Gli effetti fisici del THC includono occhi rossi, tachicardia, bradicardia e fame chimica. A livello neuro-psicologico, può influenzare l'apprendimento, la concentrazione, la memoria, l'attenzione, la percezione del tempo, l'equilibrio e i riflessi
Il CBD, invece, non ha effetti psicotropi e può agire come antidolorifico e ansiolitico.
L'uso prolungato di cannabis durante l'adolescenza può causare problemi di apprendimento e memoria, specialmente in caso di predisposizioni a disturbi psicologici, tuttavia, non ci sono casi documentati di morte negli adutli per overdose da cannabis, poiché i recettori dei cannabinoidi non sono presenti nelle aree del cervello che controllano funzioni cardiovascolari e respiratorie.
La cannabis può inoltre rivelarsi fatale in circostanze con rischio di lesioni fisiche traumatiche o in individui con patofisiologie cardiache. Anche se va fatto notare che la rilevanza delle quantificazioni dei cannabinoidi nella determinazione della causa di morte nelle indagini dei coroner è limitata.
La marijuana, è spesso vista come una "gateway drug", ossia una sostanza che potrebbe portare all'uso di droghe più pesanti come cocaina e metanfetamine. Uno studio su oltre 1.000 americani ha esaminato le loro esperienze con l'uso di sostanze e l'ordine in cui hanno iniziato e proseguito con altre sostanze. Sebbene la marijuana sia comunemente considerata come un passo verso l'uso di droghe più pericolose, non è l'unica sostanza coinvolta in questo percorso.
Per esplorare le tendenze nell'uso iniziale di droghe e alcol, lo studio ha visualizzato l'ordine in cui le sostanze sono state usate. Tra gli utenti di alcol, quasi il 66% ha indicato che l'alcol è stata la prima sostanza usata. I giovani di età compresa tra 12 e 20 anni consumano l'11% dell'alcol negli Stati Uniti, spesso sotto forma di binge drinking. Dopo l'alcol, il tabacco e la marjuana sono state le sostanze più utilizzate come seconda (23,8%) e terza scelta (18.1%). Nonostante quindi ci sia una correlazione tra consumo di cannabis e altre sostanze va sottolineato come non sia la diretta causa, che spesso risulta essere altro (problemi nel nucleo familiare) e che non è quasi mai la prima sostanza con cui si entra in contatto, ma è bensì l’alcol.
Inoltre la cannabis, secondo lo studio di Nutt, rientra nella categoria delle sostanze a rischio medio-lieve di danno e sé stessi o ad altri. Questo posizionamento deriva da un'analisi dettagliata che considera sia i danni diretti sull'utilizzatore sia quelli indiretti sulla società.
]]>La centrale nucleare chiamata Čornobyl’, in riferimento alla cittadina storica esistente già dal 1200, il cui vero nome in realtà era centrale nucleare di Vladimir Il’ič Lenin, in onore di Lenin, fu collocata nella città di Pryp’’jat’, costruita appositamente per ospitare i lavoratori della centrale insieme alle loro famiglie, con l’obiettivo di dare vita alla città dell’atomo che poi sarebbe servita ad ospitare le centrali nucleari più grandi d’Europa tra cui appunto quella che esplose la sera fra il 25 e il 26 aprile durante un test di controllo.
La cittadina di Pryp’’jat’ era abitata da circa 25.000 persone, tutte, più o meno, addestrate ad un possibile problema nucleare: gli stessi bambini imparavano a scuola come proteggersi, a dimostrazione che il fatto di vivere a 3 km da una centrale nucleare non veniva preso sotto gamba. Il punto sta nel fatto che il partito a capo dell’Unione Sovietica decise di non dichiarare cosa fosse accaduto nella centrale e non venne dato nessun allarme specifico alla popolazione.
L’Europa e gli Stati Uniti lo scoprirono attraverso altre vie, grazie a diversi controlli satellitari, inoltre i TG in Italia lasciarono supporre che il problema alla centrale nucleare fosse stato causato dall’esplosione di un missile, insomma il periodo storico in cui avvenne l’incidente (1986), ovvero in piena Guerra Fredda, creò molte tensioni.
Tornando alla ricostruzione degli avvenimenti, la mattina post incidente le persone continuarono a fare ciò che avevano sempre fatto, si andò a scuola ed a lavoro anche se in alcune persone il sospetto che fosse successo qualcosa era presente, al punto che alcuni si misero in sicurezza autonomamente.
Passò un giorno e mezzo dopodichè fu dato l’ordine di evacuazione, nel mentre le persone furono esposte alle radiazioni, ed il 27 aprile furono avviate le misure di sicurezza senza, però, specificare la gravità della situazione. L’ordine di evacuazione prevedeva che le persone dovevano preparare il minimo indispensabile per stare via 2-3 giorni, portare dietro documenti, chiudere il gas nelle case e lasciare gli animali domestici all’interno e chiusi a chiave. Da quel giorno, invece, nessuno tornò mai più a casa.
Le persone furono caricate su autobus per poi essere dislocate in tutta l’Ucraina. Dal punto di vista umano, questo evento non ha precedenti: dover lasciare la propria dimora per sempre a causa di un evento catastrofico non visibile all’occhio umano fu molto difficile da accettare, in quanto, un conto è dover evacuare dopo un terremoto o dopo un’alluvione in cui sia visibile la distruzione ed il pericolo sia distintamente percepito e ci si renda conto di come si debba mettersi in salvo, un altro quanto manifesto alla popolazione di Pryp’’jat’, che non vide nulla, non percepì nulla. Erano solo a conoscenza di come ci fosse stato un incendio, ma compresero il perché dell’evacuazione. Per le persone fu un evento traumatico, furono strappate improvvisamente dalle loro vite, senza possibilità di ritorno.
Come ti sei avvicinata a questo tema e che cos’è il progetto di cui ti occupi?
Sono arrivata in Ucraina per la prima volta nel 2015 senza un progetto specifico: mi occupavo di fotografia di luoghi abbandonati raccontando, contemporaneamente, sul mio blog le storie dei luoghi sia in Italia che in Europa. Quando scoprii che fosse possibile visitare Pryp’’jat’, non esitai. Arrivai in Ucraina con un bagaglio di preconcetti che furono smentiti: tutto quello che conoscevo dell’Ucraina e della sua cultura era sbagliato. L’obiettivo era quello di raccontare le storie di abbandono ma era una prospettiva molto limitante perché c’era un’intera cultura da spiegare.
C’erano storie di persone che avevano dovuto ricominciare completamente la loro vita altrove o di persone tornate a vivere in quei luoghi abbandonati, nonostante il divieto del governo motivato dai relativi pericoli sanitari, piuttosto che accettare di vivere in altre città dove spesso venivano stigmatizzati come appestati od emarginati.
La storia di questo disastro si porta dietro tanta ignoranza, nel senso che tante cose all’epoca non si sapevano e abbiamo dovuto impararle con il tempo: dato che Chernobyl è un museo a cielo aperto e un luogo di studio sugli effetti delle radiazioni tante cose si sono scoperte con il passare del tempo. Per esempio, in quel periodo si pensava che le persone evacuate potessero portare malattie e venivano di conseguenza isolate.
Il progetto “Diario di un Viaggio a Chernobyl” nasce appunto da questa esigenza, raccontare e divulgare. Per esempio, il 26 aprile è anche l’anniversario del matrimonio di Irina e Sergey, gli ultimi sposi di Pryp’’jat’ che riuscirono a celebrarlo seppur in un contesto di tensione: molti degli invitati erano preoccupati perché qualcuno che lavorava nella centrale preannunciava l’evacuazione e che il disastro fosse più grave di quanto ammesso dalle autorità. La particolarità del matrimonio deriva dal fatto che doveva essere una cerimonia analcolica per aderire all’idea propagandistica del nuovo uomo sovietico, libero dall’alcol (piaga sociale dell’epoca), ma alla fine non fu così: si trasformò invece in un matrimonio alcolico per colpa della grande e diffusa preoccupazione riguardo alla centrale nucleare.
Purtroppo, con la guerra è ovviamente tutto fermo e chiuso ma l’idea è quella di espandere il progetto di divulgazione a tutta l’Ucraina ed alla sua cultura. Un fatto simbolicamente importante recente è la rimozione della statua di Lenin dalla zona di esclusione, zona in cui non era mai stato toccato nulla in quanto area soggetta al disastro nucleare ma, in conseguenza dell’invasione Russa, anche gli ultimi simboli dell’Unione Sovietica nell’area sono stati rimossi.
Foto di Francesca Gorzanelli
]]>Ho appena finito di leggere “Una banda di idioti”.
Il meraviglioso romanzo di John Kennedy Toole regala un affresco di una società americana frammentata e disfunzionale, popolata da personaggi allucinati e spesso ridicoli. Una visione non troppo distante all'attuale clima politico. Battagliero. Dove il populismo, il tribalismo e la polarizzazione sembrano dominare il discorso pubblico.
Personaggi come J.D. Vance e Trump capitalizzano su queste divisioni, offrendo una narrazione che risuona nella testa di molti elettori scontenti e disillusi e suonando la carica per una sorta guerriglia anti-elite.
Ignatius J. Reilly è un uomo eccentrico, antisociale, accasato ancora dalla madre in una grottesca ed assurda New Orleans. Complesso, spesso incompreso, che si oppone con veemenza al cambiamento ed alla modernità. In un certo senso, Vance rappresenta una versione odierna di questa resistenza, sebbene in un contesto diverso. La sua critica alla decadenza della cultura della classe operaia bianca ed il suo appello ad un ritorno ai valori tradizionali invocano lievi analogie con il desiderio di Ignatius di un ritorno ad un'epoca passata ed idealizzata.
Peter Thiel rappresenta una nuova versione delle corti del Partito Repubblicano, nonché una visione che abbraccia la tecnologia e l'innovazione, ma anche un certo elitismo fomentato da, e propagatore di, critiche alla democrazia tradizionale.
Personaggi come J.D. Vance, sostenuti e forgiati dallo stesso Thiel, possono plasmare il futuro del partito, combinando un populismo più cinico ad una visione tecnocratica e autoritaria.
Questo scenario può essere visto come una specie di estensione della critica di Toole alla società americana: l’illusione in chiave assolutistica e, quasi isolazionista, di riformare, o meglio rifondare, una società percepita come decadente e disfunzionale.
La scelta di appuntare Vance come vice, qualora Trump vinca le elezioni a Novembre, sembra paradossalmente suggerire una visione opposta alla generale percezione che la stampa propone nei confronti dei piani che il tycoon newyorkese perseguirà una volta al potere.
Questa nomina pare infatti indicare la possibilità che il potenziale secondo mandato di Trump servirà per concentrarsi sulla costruzione di fondamenta repubblicane (nella versione che verrà descritta nei prossimi paragrafi) solide in ottica futura, piuttosto che focalizzate attorno ad una mera questione di culto della personalità.
Un altra diretta interpretazione di questa nomina è il tentativo di attrarre figure di spicco della “scena” Silicon Valley, ma soprattutto della finanza anti-woke in modo da affrontare la crisi di competenze che affligge il GOP.
Se vogliamo, è la risposta all’apparente asimmetria tra quella che sembra la vasta riserva di persone altamente qualificate nel roster democratico (vedi potenziali candidati a vice presidente qualora Kamala Harris esca trionfante a Novembre) e la voluta e ricambiata diatriba tra Donald Trump e le cosiddette élite del capitale umano.
Sull’onda di quanto appena scritto, le nomine politiche dei Repubblicani paiono ora provenire dall’eccezione di lusso dell’ala vicina a Peter Thiel, sempre più influente e vigorosa.
In seguito all’ingresso in campo di Kamala, sembra che Elon Musk sia meno convinto del full endorsement fatto di recente al team MAGA, mentre figure come Bill Ackman pare non abbiano mollato l’osso.
Quello che i Repubblicani hanno da offrire è un patto simil faustiano ai più tenaci ed ambiziosi anti-woke nel tentativo di recuperare spazio culturale e politico tra le élite innovative. Ciò consiste nel fare pace con gli evangelici, accettare il conservatorismo sociale ed ottenere influenza in una coalizione che richiede competenza politica. Alcuni accetteranno questo patto, attratti dal vuoto di potere e disposti a puntare su una figura complessa.
Ed è qua che entra in gioco Vance, appartenente a questa classe: intelligente, ambizioso ed allineato con Thiel. In sintonia con l’infuocata “destra da tastiera”.
Con una storia da vero underdog che si laurea a Yale e diventa autore di un bestseller sui travagli dell'America profonda, rappresenta questo profilo. Lucido e preparato, con il pacchetto perfetto da leader self-made.
Il suo cinismo non lo trattiene dal cambiare posizioni come su un tavolo di ping-pong e l’elettorato populista pro-Trump, disperatamante alla ricerca di figure competenti che possano incarnare in giacca e cravatta l’assalto a Capitol Hill, accetterà senza timori il suo camaleontismo. Vance comprende bene il problema del capitale umano della coalizione e vi si è concentrato sin dal primo giorno.
I Repubblicani ora hanno candidati divisivi ma competitivi per le prossime elezioni presidenziali. I Democratici, al contrario, hanno un candidato jolly nel breve termine ma non è ben chiaro quale sia il piano di lungo periodo. Figure interessanti come il governatore della California, Gavin Newsom, non sembrano intenzionati a bruciarsi le loro carte tanto facilmente e l’unica traccia coerente pare il lancio del futuro vice presidente come prima scelta per il 2028.
Vance sembra estremamente difficile da etichettare. La sua storia personale e, volendo, intellettuale è stata caratterizzata da molteplici mutamenti, sia personali, che dal punto di vista professionale.
Come menzionato precedentemente, sembrerebbe disposto a reinventarsi in ogni modo pur di ottenere riconoscimenti. Allo stesso tempo, vi è una fetta di elettorato che lo considera totalmente integro e che ogni suo cambio di posizione sia frutto di cieca convinzione.
Nato a Middletown, Ohio, racconta di un’infanzia tormentata e, finiti gli studi primari, si arruola nei Marines, finendo a servire in Iraq. Una volta tornato, si laurea a Yale ed approda nel mondo del Venture Capital.
Qui, a stretto contatto con la Silicon Valley, conosce ed inizia a lavorare con Peter Thiel.
Finisce sulla bocca di tutti nel 2016, pubblicando “Hillbilly Elegy”. Questo memoir ripercorre ed esplora le complessità delle classi lavoratrici bianche nell’America rurale. Il futuro bestseller gli permetterà anche di diventare popolare tra i progressisti che avremmo potuto definire anti-Trump.
Il successo del libro gli dona una certa notorietà quale commentatore della questione sociale e della mobilità economica negli Stati Uniti.
Le sue proposte a riguardo si concentrano su come rivitalizzare le aree rurali attraverso politiche economiche che favoriscano la produzione domestica e riducano la dipendenza dalle importazioni straniere. All’interno di questa dialettica Vance ha sempre manifestato forti critiche verso le politiche economiche neoliberiste che, a suo dire, hanno avvantaggiato le élite urbane a scapito delle comunità contadine ed industriali. La sua esperienza nel settore degli investimenti ha forgiato una sua prospettiva su come il capitale di rischio dovrebbe essere utilizzato per stimolare la crescita economica nelle aree sottosviluppate.
Originariamente, Vance si presentava come un conservatore moderato. Tuttavia, nel tempo, le sue posizioni si sono spostate verso una destra più populista e nazionalista, più vicina alle politiche di Donald Trump.
Durante la sua candidatura al Senato degli Stati Uniti per l'Ohio nel 2022, Vance ha adottato posizioni più forti su temi come l'immigrazione, il commercio e la politica estera, sposando molte delle roccaforti ideologiche promosse da Trump.
Suoi grandi cavalli di battaglia sono inoltre un forte scetticismo verso le grandi corporation e la globalizzazione, nonché un immacolato sostegno alle politiche pro-life.
Per quanto riguarda la politica estera, Vance ripercorre le frange più conservatrici e nazionaliste del GOP.
Vance ha infatti assunto una posizione fortemente critica nei confronti della Cina, riflettendo una crescente preoccupazione riguardo all'influenza economica e geopolitica cinese. Egli considera la Cina come una delle principali minacce alla sicurezza nazionale ed alla prosperità economica degli Stati Uniti. A suo dire, le politiche di globalizzazione hanno favorito la delocalizzazione delle industrie americane verso la Cina, danneggiando la classe lavoratrice americana. Le sue proposte a riguardo virano verso politiche di decoupling economico dalla Cina, sostenendo il ritorno della produzione manifatturiera negli Stati Uniti e l'adozione di misure protezionistiche per difendere l'industria americana dalla concorrenza cinese.
La sua posizione sull'Europa è meno definita, ma riflette un certo scetticismo generale verso le istituzioni multilaterali ed una preferenza per i rapporti bilaterali. Vance tende a vedere l'Europa attraverso la lente delle relazioni transatlantiche e della sicurezza.
Posizione comune ai sostenitori “trumpiani”, quella verso la Nato. Il venture capitalist sostiene che quest’ultima non abbia fatto abbastanza per contribuire alle spese della difesa collettiva. A ciò segue la richiesta dell’assunzione, da parte degli alleati europei, di una quota maggiore del costo della difesa comune ed un generico scetticismo verso le recenti politiche dell’Unione Europea.
Per concludere, la questione Ucraina, è all’ultimo posto dell’agenda Vance e rispecchia le più classiche posizioni isolazioniste e non interventiste. I volumi di supporto militare e finanziario alla causa sono, a suo avviso, mal sfruttati e potrebbero essere meglio utilizzati per affrontare dispute interne.
Vance ha inoltre sollevato preoccupazioni riguardo al rischio di escalation con la Russia e ha suggerito che gli Stati Uniti dovrebbero ridurre il loro coinvolgimento nei conflitti esteri e dedicarsi ad un approccio “America First”.
MAGA, lanciato come atipico vettore personale di un diagnosticato narcisista, sembra ora molto più probabile che diventi un programma con orizzonti ben oltre il 2028.
Il repubblicanesimo, per come lo intendeva Reagan, è ormai un lontano ricordo. Il GOP è diventato con Trump un giocattolo personalistico, capace di attirare elettori di ogni calibro e provenienza. Dai sostenitori del libero scambio, alle tariffe universali, dai grandi falchi del business americano, a chi disdegna il grandeur aziendale ritenendolo anti-patriottico, dagli internazionalisti, agli isolazionisti. Quello che secondo Reagan fosse la visione dei repubblicani, ovvero il dovere di rispettare l’ordine, le norme e le alleanze, è stata sostituita dalle posizioni sui casi Taiwan ed Ucraina, che, qualora il duo MAGA finisca al potere a Novembre, saranno i veri banchi di prova in termini di politica estera.
Concludo con una versione, leggermente estesa, di un mio tweet, scritto il 16 Luglio in seguito alla notizia dell’entrata in gioco di J.D. Vance ed appena prima dell’attesa uscita di scena dell’attuale Presidente degli Stati Uniti Joe Biden.
Se nel breve termine ritengo possa essere l’ultima opportunità per i democratici di recuperare voti ove Vance preoccupa per cinismo piuttosto che per populismo (vedi aborto o questione Ucraina), nel lungo periodo il vero scacco matto del GOP è la rotazione di 180 gradi verso un elettorato repubblicano Thiel-centrico che cerca disperatamente competenze (in termini materiali di Curriculum e che possano soddisfare le grandi voci finanziarie e dell’high-tech) e la discussa NATO del libero scambio.
]]>“Il tema dell'energia è in generale un tema di misura sul quale è importante, soprattutto in questa fase storica, non commettere errori memorabili.” (cit. Piero Martin)
Il dibattito sulle questioni energetiche vede spesso una contrapposizione tra sostenitori delle fonti fossili e quelli delle rinnovabili. Frequentemente capita di “assistere a dispute o conflitti che sono soprattutto ideologici”, “poco pilotati da dati oggettivi” oppure “condizionati dall'immaginario, dall'emozione.” (cit. Piero Martin).
A rendere ulteriormente complicato il quadro, si è aggiunto il dibattito legato all'indipendenza energetica che è tornato alla ribalta in seguito ai recenti, e tuttora in corso, eventi geopolitici che hanno completamente modificato il panorama energetico europeo ed italiano, dimostrando come le scelte di approvvigionamento possano richiedere importanti sforzi di adeguamento in caso di crisi.
Altra questione è quella legata alle supply-chain dei prodotti che sono fondamentali sia per la transizione green che dei materiali per l’attuazione della medesima.
Inoltre, il tutto deve essere contestualizzato all’interno di una politica di decarbonizzazione che tende al contrasto del riscaldamento globale e che rientra nel programma “Net Zero 2050”. Le fonti rinnovabili costituiscono una componente importante per il raggiungimento di tali obiettivi, ma presentano una serie di limitazioni. In particolare sono fonti che non garantiscono una quota base di energia, dato che sono per definizione intermittenti (giorno/notte per il solare, presenza di vento per l’eolico, etc.). Il nucleare, invece, permette una produzione costante di energia “di base”, presenta una quota di “modulabilità” della produzione e, soprattutto, non produce CO2 nel processo di attività.
Partendo da queste premesse e con questo scenario energetico così sfaccettato ed interconnesso - nonché così vulnerabile - viene da chiedersi: può il nucleare avere un ruolo nella transizione green? E quale eventuale ruolo può avere in Italia? Quale strategia per attuarlo?
“Insieme ad un'ampia quota di risorse energetiche rinnovabili, le tecnologie nucleari di nuova generazione hanno un ruolo importante da svolgere nella transizione energetica verso un'economia a basse emissioni di gas serra.” (Dodaro & Tarantino, n.d.).
Fra le varie fonti energetiche, il nucleare soddisfa per il 3,7% la richiesta mondiale di energia; il 76% circa deriva invece da fonti fossili.
]]>In una successiva intervista a Sky TG24 il Ministro ha ribadito i concetti già espressi e ha aggiunto di aver agito in relazione, tra gli altri pareri, a quello contenuto nel report UNESCO, nel quale si pone l'attenzione sui rischi da eccessivo utilizzo dei dispositivi digitali da parte dei giovani. "Questo non significa assolutamente non educare i ragazzi ad un uso corretto degli smartphone", ha aggiunto Valditara.
Il report a cui fa riferimento il Ministro è il “Global education monitoring report, 2023: technology in education: a tool on whose terms?” nel quale viene sì posto l’accento sui rischi legati all’uso scorretto od eccessivo delle nuove tecnologie da parte dei giovani, in particolare dei cellulari, la cui vicinanza di per sé, viene sottolineato “è collegata ad una crescente distrazione degli studenti in classe” e di cui viene sconsigliato l’utilizzo in classe, ma viene altresì ribadito come “La tecnologia digitale influenza in modo determinante l’educazione: costituisce allo stesso tempo una rilevante fonte di informazione, il principale modo di veicolare i saperi, uno strumento per la formazione di competenze e di pianificazione dell’apprendimento ed è inoltre, essa stessa, un elemento costitutivo del contesto socio culturale dell’apprendimento.”
Il report pone in evidenza come, nei paesi in via di sviluppo, le TIC abbiano contribuito ad un maggiore accesso alle risorse didattiche, ribadendo contemporaneamente la non sostituibilità con l’interazione docente-discente. In sostanza, il focus del report appare essere maggiormente concentrato sulla correttezza dell’uso delle nuove tecnologie in modo da fruirne il più consapevolmente possibile piuttosto che sul tipo di supporto utilizzato.
Riguardo alla presa di posizione ministeriale non si sono fatte attendere le reazioni delle opposizioni. In particolare, il Partito Democratico, attraverso il sito dei deputati del partito, dichiarava che "La circolare del ministro Valditara che vieta l’utilizzo dei cellulari alle elementari e alle medie è una risposta piccola ad un tema enorme su cui servirebbe ben più coraggio" ed invitava il ministro ad accogliere la proposta di legge bipartisan promossa dalla deputata Madia insieme alle senatrici Mennuni e Malpezzi.
La proposta di legge riguarda però non il rapporto tra TIC ed apprendimento in ambiente scolastico, bensì la tutela dei minori nell’accesso al web: innalzamento della soglia anagrafica per l’accesso ai social (15 anni, rispetto agli attuali 13), introduzione di un meccanismo per la verifica dell’età degli utenti (come già previsto dal decreto Caivano per i siti contenenti materiale pornografico) e l’estensione ai cosiddetti baby influencers delle regole già previste per il trattamento di immagini e video dei minori autorizzati. È infine prevista l’introduzione, a carico delle piattaforme, di un numero di emergenza al quale i minori potranno riferirsi in caso notino comportamenti o contenuti allarmanti.
Due i punti salienti. Il primo riguarda l'uso dei cellulari, rispetto al quale si legge: "Si dispone il divieto di utilizzo in classe del telefono cellulare, anche a fini educativi e didattici, per gli alunni dalla scuola d’infanzia fino alla secondaria di primo grado, salvo i casi in cui lo stesso sia previsto dal Piano educativo individualizzato o dal Piano didattico personalizzato, come supporto rispettivamente agli alunni con disabilità o con disturbi specifici di apprendimento ovvero per documentate e oggettive condizioni personali."
Non si tratta quindi di uno stop assoluto, rimanendo in vigore la facoltà d'uso quale strumento compensativo per gli alunni in difficoltà. Nessuna particolare limitazione è prevista invece per tablet e PC.
L'uso dei cellulari è già regolamentato dalla circolare n.30 del 15 marzo 2007, che ne dispone il generale divieto di utilizzo, e dalla nota del 19 dicembre 2022, nella quale si afferma che "è viceversa consentito l’utilizzo di tali dispositivi in classe, quali strumenti compensativi di cui alla normativa vigente, nonché, in conformità al Regolamento d’istituto, con il consenso del docente, per finalità inclusive, didattiche e formative, anche nel quadro del Piano Nazionale Scuola Digitale e degli obiettivi della c.d. “cittadinanza digitale” di cui all’art. 5 L. 25 agosto 2019, n. 92."
Stando a queste premesse, la circolare ministeriale dell’11 luglio non introduce sostanziali novità rispetto al passato.
Per quanto riguarda il secondo punto, cioè il ritorno del diario cartaceo, per il quale non è mai stato in realtà introdotto un limite d’uso a norma di legge, la circolare recita: "[..]si raccomanda di accompagnare la notazione sul registro elettronico delle attività da svolgere a casa con la notazione giornaliera su diari/agende private.”
Nessuna reintroduzione obbligatoria dunque, in quanto, trattandosi di raccomandazione, non presenta vincolo di applicazione e lascia piena discrezionalità a scuola e famiglie.
In conclusione, i contenuti della circolare ministeriale appaiono più come provvedimenti di bandiera, non toccando se non in modo estremamente superficiale il complesso rapporto tra giovani e tecnologia, che meriterebbe invece una riflessione ben più ampia attraverso una fonte primaria di diritto che una semplice circolare non può in alcun modo sostituire.
Allargando lo sguardo al resto del continente non si può non osservare come anche altri Paesi, oltre all’Italia, si siano mossi o si stiano muovendo nel senso di una regolamentazione dell’uso dei cellulari in classe ed a scuola in generale, pur non essendoci una reale uniformità di intervento.
Se da una parte il Regno Unito ha scelto la linea dura e ha proibito l’uso totale degli smartphone all’interno degli edifici scolastici, la Germania lascia invece ampia discrezionalità ad ogni singolo istituto.
Restrizioni sull’uso, non solo dei cellulari, ma anche dei tablet, sarebbero stati previsti in Olanda a partire dall’inizio di quest’anno, così come in Svezia, paese pioniere nell’utilizzo delle TIC come strumento didattico, che ha fatto marcia indietro dopo che l’ultimo monitoraggio sugli apprendimenti ha rilevato un calo nelle capacità dei bambini svedesi di quarta elementare, calo che, secondo alcuni esperti, sarebbe da ricondurre all’eccessivo uso di schermi durante le lezioni.
In questi ultimi mesi si è interrogata anche la Francia, il cui Ministro dell’Istruzione Nicole Belloubet, secondo alcune dichiarazioni rilasciate a maggio di quest'anno, intenderebbe bandire i cellulari dagli edifici scolastici. È della fine dello scorso anno la notizia di un’analoga riflessione operata dal Ministro spagnolo Pilar Alegria.
Le reazioni dei vari paesi europei fanno emergere ancora una volta, ed in modo abbastanza evidente, la necessità di darsi delle regole precise e che si basino su presupposti che consentano agli studenti di poter usufruire delle enormi potenzialità che le nuove tecnologie offrono in modo da non costruire con questi strumenti un rapporto disfunzionale che ne inibisca le capacità.
A questo proposito una grande opportunità, per i paesi facenti parte della Comunità Europea, è offerta dal “Piano d’azione per l’istruzione digitale (2021-2027)”, iniziativa politica che, attraverso la cooperazione tra i vari Stati membri, ha tra le priorità uno “spazio europeo dell’istruzione” entro il 2025: la possibilità da parte di ciascuno Stato di poter condividere la propria esperienza è un fattore chiave per apportare miglioramenti nella gestione delle TIC all’interno delle istituzioni scolastiche in modo che si armonizzi il più possibile il rapporto tra i giovani e le nuove tecnologie in un contesto in cui alla base permanga quello delle relazioni umane.
In sostanza: tecnologia sì, ma con consapevolezza.
]]>Nel corso del 2023, circa 3,3 milioni di nuove persone si sono trasferite negli Stati Uniti rispetto alle partenti controparti. I numeri in entrata superano di quasi quattro volte i livelli osservati nel 2010.
Il Canada ha accolto 1,9 milioni di immigrati. La Gran Bretagna 1,2 milioni, tre volte e mezzo l’afflusso registrato nel 2019, mentre l'Australia 740.000.
Per l'Australia e il Canada la migrazione netta è più che raddoppiata rispetto ai livelli pre-covid. In ognuno di questi paesi il numero è stato il più alto mai registrato.
Secondo l’IMF, la fetta di forza lavoro degli Stati Uniti nata fuori dai confini nazionali è aumentata del 9% rispetto ad inizio 2019. In Gran Bretagna, Canada e Zona Euro è aumentata di circa un quinto.
Questo boom migratorio sembra indirizzare verso determinate conclusioni, tra le quali il fatto che l’economia statunitense si espanderà del 2%, rispetto alle previsioni, per tutto il prossimo decennio. L'afflusso di lavoratori in entrata aiuta anche, di fatto, a spiegare e comprendere la forte crescita economica del paese.
L’impatto complessivo dell'immigrazione va però oltre ad un semplice effetto aritmetico sul PIL: si estende all'inflazione, agli standard di vita e ai bilanci governativi.
La grande novità sta però proprio nelle caratteristiche dei nuovi arrivati. Tali differiscono dai protagonisti di trend precedenti in un elemento specifico. La maggior parte dei nuovi migranti sono ora a bassa qualifica.
Vari “personaggi”, tra i quali Jerome Powell, Gita Gopinath dell’IMF e Michelle Bullock della Reserve Bank of Australia sostengono che la migrazione aiuti a contenere l'aumento dei prezzi alleviando la carenza di manodopera. Tuttavia, l’evidenza a riguardo non sembra essere particolarmente solida e, addirittura, sembrerebbe puntare nella direzione opposta.
In tutto il G10 vi è poca correlazione tra immigrazione e rallentamento della crescita salariale. Senza considerare il fatto che ogni immigrato necessita di beni, facendo lievitare la domanda domestica.
Questo elemento è particolarmente evidente se si osserva il prezzo degli alloggi in affitto. Un’analisi di Goldman Sachs dimostra come in Australia ogni aumento annuo di 100.000 unità di migranti netti in ingresso porti ad un incremento degli affitti di circa l’1%.
Nonostante i nuovi arrivati stiano ovviamente incrementando il PIL nazionale, allo stesso tempo generano una spinta verso il basso del PIL pro capite, generalmente utilizzato come misura standard per valutare la crescita economica di uno Stato.
Il PIL pro capite è diminuito, o comunque non è aumentato, per quattro trimestri consecutivi in Australia e per sette in Gran Bretagna. In Canada, dove il calo della misura è stato più pronunciato, la produzione pro capite è diminuita del 2% nel 2023. La situazione è pressoché analoga in Germania, Islanda e Nuova Zelanda.
Questo quadro evidenzia ancor di più il netto cambiamento in termini di “classe” migratoria.
Prima della pandemia covid-19, gli immigrati negli Stati Uniti avevano la stessa possibilità di laurearsi dei cittadini nativi; adesso i nuovi arrivati sono più propensi a provenire da aree rurali e impoverite dell'America Latina e in gran parte non dispongono del permesso di lavoro.
Circa 2,4 milioni di individui hanno varcato illegalmente il confine meridionale degli Stati Uniti durante il 2023. In altre “developed countries” il numero registrato è stato inferiore, nonostante si sia ugualmente verificato un rapido aumento di immigrazione a bassa qualifica e salario.
Lo scorso anno, la quantità di migranti che si sono trasferiti in Australia con un visto lavorativo rientrante in mansioni qualificate è stata del 20% inferiore rispetto al 2019. Sempre nel 2023, in Canada, 800.000 lavoratori (part-time) e studenti stranieri hanno rappresentato la più rilevante componente dell'aumento della popolazione, pari al 3,2%.
La Gran Bretagna ha lasciato l’Unione Europea con l’intenzione di assicurarsi un sistema migratorio più limitato e, soprattutto, più specializzato.
Nonostante ciò, meno di uno su cinque nuovi arrivi nel 2023 era un lavoratore cosiddetto “skilled”. L'aumento di permessi legati a lavori non universitari è stato del 51% nel biennio 2021-2023 mentre le richieste di visti per studenti sono cresciute del 70% rispetto al 2019, la cui maggior parte è stata erogata per master offerti da università poco o meno costose e, soprattutto, non molto selettive.
Settori come quello agricolo o alberghiero, i quali lamentano maggiormente la carenza di personale e ricorrono soventemente all’assunzione di migranti, tendono a non necessitare di competenze specifiche o di precedenti esperienze lavorative, offrendo paghe e ambienti lavorativi tutt’altro che invidiabili.
Allo stesso tempo, segmenti economici richiedenti maggiori qualifiche e meglio remunerati non traggono particolari vantaggi da tale flusso migratorio in aumento.
Che poi non è altro che la principale ragione per cui migranti poco qualificati preoccupino tanto in termini di riduzione dei livelli di reddito.
Come riscontrato da alcuni studiosi, i dati su questo specifico punto sono tutt’altro che limpidi.
Giovanni Peri della University of California, osserva che, qualora un immigrato “low-skilled” appena immesso nell’economia domestica, lavori per un reddito inferiore alla media, il PIL pro capite diminuisce nonostante il contributo positivo sull’aumento del reddito di ogni individuo. Studi come quello di Peri, evidenziano un fil rouge presente nella ricerca sul perchè e sul come siano proprio i lavoratori “skilled” nativi del paese ospitante a trarre benefici dall'arrivo di lavoratori a bassa qualifica. Questa dinamica permette infatti ad essi di accettare e ricoprire ruoli più produttivi e ben retribuiti, lasciando lavori fisici e scarsamente retribuiti agli immigrati. L’ingresso di nuova immigrazione genera d’altronde una forza lavoro più variegata, consentendo una maggiore specializzazione.
Al contrario, coloro più propensi a vedere i loro salari diminuire a causa della migrazione sono i lavoratori domestici meno qualificati o le precedenti generazioni di lavoratori stranieri.
Tutto questo risuona ovviamente come un jingle qualora ci si addentri nella segmentazione degli elettori dei partiti propensi alla chiusura delle barriere e alla riduzione dell’immigrazione.
Un’altro aspetto legato al tema, e sicuramente meno cristallino in termini di evidenze raccolte, è anche che la manodopera a basso costo potenzialmente scoraggi le aziende dall'effettuare investimenti che aumentino la produttività. Uno studio di Ethan Lewis del Dartmouth College ha rilevato che l'elevata immigrazione registratasi negli Stati Uniti nel ventennio ‘80-‘90 ha portato gli impianti industriali ad adottare meno macchinari. In Australia e Canada il rapporto capitale-lavoro è ora in calo.
Vi è però infine un contesto dove sorge realmente il nodo della questione. Ovvero la fornitura di servizi pubblici. Se il PIL pro capite diminuisce, la qualità di questi ultimi rischia di deteriorarsi.
Esternalità osservabili più nei paesi sviluppati, quali strade sempre più congestionate e, qualora in presenza di assistenza sanitaria pubblica, liste d'attesa ospedaliere intasate, possono essere definite come dirette conseguenze derivanti dai nuovi soggetti di mercato che ne influenzano domanda e offerta.
Il fatto che tipicamente gli immigrati arrivino da adulti, toglie dal loro conto l’istruzione pubblica, elemento costoso dei conti pubblici. E bisogna inoltre considerare che sono spesso loro stessi a contribuire direttamente al “sostenimento” dei servizi pubblici. Il principale aumento dell'emissione di visti lavorativi nel Regno Unito nel 2023 è stato per operatori sanitari e di assistenza.
I potenziali problemi sorgono nel lungo termine, quando i nuovi migranti vanno in pensione. Considerando che i sistemi di previdenza sociale sono spesso progressivi, un immigrato a basso reddito e richiedente la pensione, per non parlare di un’eventuale assistenza sanitaria, potrebbe rappresentare un notevole peso fiscale aggiuntivo.
Stare ad ipotizzare dei fantascenari risulta alquanto fuorviante considerando che tutto ciò che ne scaturirà dipenderà e varierà da Paese a Paese.
Inoltre, ipotetici impatti fiscali non-negativi, non porterebbero a niente se la qualità dei servizi pubblici viene lasciata indietro. Allo stesso tempo, se le regolamentazioni impediranno l’annoveramento delle infrastrutture per accogliere i nuovi arrivi, la migrazione rischia di provocare soltanto contraccolpi. Questo è particolarmente evidente nel caso degli alloggi, dove l'offerta è strettamente limitata dalle regolamentazioni eccessive in molte delle stesse aree che stanno ora sperimentando un boom migratorio. I migranti, come i nativi, hanno bisogno di luoghi dove vivere, il che aumenta l'imperativo di costruire. Accogliere i nuovi arrivati significa molto più che semplicemente lasciarli entrare.
Does low skilled immigration increase the education of natives? Evidence from Italian provinces di Brunello, Lodigiani & Rocco (2020), si concentra sull’impatto che questa specifica “categoria”di migranti ha sull’istruzione dei nativi italiani.
In generale, quanto riscontrabile dai risultati, è che essa aumenta la probabilità che i nativi decidano di perseguire un'istruzione universitaria, mentre diminuisce la probabilità che investano in percorsi formativi intermedi, come corsi professionali a breve termine. Questo accade perché gli immigrati poco qualificati sono sostituti per i nativi con basse e medie competenze, ma complementari per i nativi con migliori qualifiche.
Questo effetto è particolarmente evidente per gli uomini, per i quali si osserva un aumento nelle quote di coloro che conseguono percorsi di istruzione superiore e una riduzione in quelli che completano soltanto l'istruzione obbligatoria. Al contrario, per le donne, gli effetti sono meno marcati: l'immigrazione aumenta la quota di coloro che non sono impegnate nell'istruzione o nella formazione, ma ha un effetto negativo e poco lineare sull'iscrizione universitaria. Questo potrebbe essere dovuto al fatto che molte donne italiane con una laurea sono impiegate in lavori che richiedono meno qualifiche, suggerendo che esse e gli immigrati poco qualificati sono potenziali sostituti.
Gli effetti dell'immigrazione variano significativamente tra il Nord e il Sud Italia. Nel Nord industrializzato, l'immigrazione ha un impatto positivo sull'istruzione superiore sia per gli uomini che per le donne. Questo può essere attribuito alla maggiore disponibilità di posti di lavoro qualificati e a un'economia più dinamica che offre maggiori incentivi per investire in un'istruzione avanzata. Tuttavia, nel Sud meno sviluppato, l'effetto è positivo per gli uomini e negativo per le donne. Questa differenza può essere spiegata dalla diversa struttura economica e dalle limitate opportunità di lavoro qualificato nel Sud.
Questi risultati sono stati sottoposti a diversi test di robustezza, che tendono a confermare la validità delle conclusioni. Ad esempio, l'effetto dell'immigrazione rimane qualitativamente invariato anche quando si utilizza una misura alternativa della quota di immigrati “low-skilled”. Inoltre, non ci sono prove che i risultati siano influenzati da un'auto-selezione negativa dei nativi più talentuosi.
Uri Dadush, non-resident fellow economist di Bruegel, ha dipinto un quadro ben articolato e concreto di studi concentrati sulla migrazione di lavoratori low-skilled, analizzando gli effetti della migrazione di manodopera scarsamente qualificata sulle economie dei paesi ospitanti e concentrandosi su salari, occupazione e impatti economici e fiscali più ampi nei paesi avanzati.
]]>L’8 luglio 2024 una serie di missili tipo Kh-101 hanno colpito l’ospedale Okhmatdyt National Children’s Hospital e l’ADONIS medical center, entrambi in Kyiv. Le false informazioni sulla responsabilità della contraerea russa sono state "debunkate" da varie fonti come Deutsche Welle, Facta News. Le prove a dimostrazione della responsabilità russa sono state rese note dal servizio di sicurezza Ucraino (SUB) sul proprio canale, e dal Financial Times e dimostrate da fonti indipendenti OSINT. Daniel Bell - responsabile della missione di monitoraggio dei diritti umani in Ucraina - ha affermato che dall’analisi dei filmati l’evento è “altamente probabile” (“high likelihood”) sia stato causato da un diretto attacco piuttosto che secondario all’intercettazione dei sistemi di difesa (fonte: CNN). Alla fine delle operazioni di ricerca sono stati dichiarati 2 morti e 32 feriti, gravissimi danni alle infrastrutture e l’interruzione dell’attività di quello che è l’ospedale pediatrico più grande dell’Ucraina. A piena attività, l’ospedale Okhmatdyt era in grado di curare circa 20.000 bambini all’anno ed eseguire circa 9000 interventi chirurgici; l’ospedale era uno dei più grandi in Europa.
Il nosocomio fu Fondato nel 1894 grazie alla volontà del filantropo Nikola Tereshchenko, figura di spicco per lo sviluppo della città di Kiyv e che donò i primi fondi per la sua costruzione. Dall’inizio della guerra l’ospedale è divenuto sia pediatrico che per adulti e ha trattato pazienti da 1 mese a 83 anni anche per traumi di guerra: ferite da arma da fuoco, da esplosione di mine e contusioni (vedi Ohmatdyt Foundation).
L’8 luglio l’ospedale ha riportato danni nel reparto di terapia intensiva, del dipartimento chirurgico ed oncologico e nella porzione dell’ospedale dove i bambini stavano eseguendo la dialisi. Altre 7 morti sono riportate nell’attacco all’ADONIS.
Il capo dell’ UN Human Rights - Volker Türk - ha descritto l’attacco come "abominevole" (fonte: OHCHR). L’attacco è stato condannato anche da molte organizzazioni e leader mondiali. Le Nazioni Unite parlano di "non solo un crimine di guerra ma molto oltre i limiti dell’umanità". Nel frattempo, un team di investigatori della Corte Internazionale per i Crimini contro l’Umanità è stato inviato sul luogo.
Le leggi internazionali conseguenti alla Convenzione di Ginevra proteggono gli spazi medici ed i sanitari dall’attacco durante i conflitti; tale convenzione è stata firmata da 196 paesi e - nella sua estensione - anche da Russia ed Ucraina (Alnahhas et Al.). In particolare, l’articolo 18 della convenzione di Ginevra recita che "gli ospedali civili organizzati per prestare cure ai feriti, ai malati, agli infermi ed alle puerpere non potranno, in nessuna circostanza, essere fatti segno ad attacchi; essi saranno, in qualsiasi tempo, rispettati e protetti dalle Parti belligeranti". Sono inoltre protetti anche i mezzi di trasporto secondo l’articolo 21.
Il personale sanitario è invece tutelato dall’articolo 24 della I convenzione di ginevra, dall’articolo 20 della II convenzione di Ginevra, dall’articolo 12 del Protocollo I.
Nonostante ciò, l’attacco a infrastrutture mediche è un disciplina che è stata utilizzata dell’esercito russo anche in Cecenia e Syria (come riportato da Media Initiative for Human Rights, da Physician for Human Rights e da Alnahhas et Al. ). L’attacco all’Okhmatdyt ricorda quello all’ospedale di Mariupol: due dei numerosi atti perpetrati in questi anni di guerra ad infrastrutture ed operatori sanitari.
Dal 20 febbraio 2022 è disponibile on-line il sito internet "Attacks on Health Care in Ukraine" che raccoglie tutti gli attacchi ad obiettivi sanitari. Il sito è patrocinato dall’ EyeWitness to Atrocities, dall’Insecurity Insight, dal Media Initiative for Human Rights, dal Physician for Human Rights e dall’ Ukrainian Healthcare Center.
Per "attacco al sistema sanitario" si intende "ogni tipo di atto verbale o di violenza fisica od ostruzione o violenza che interferisce con la disponibilità, accesso e fornitura di cure o servizi di prevenzione durante emergenze" come definito dalla Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) all’interno della iniziativa "Attacks on health care initiative" ed approvata dall’assemble nel 2012 con la risoluzione 65.20. (fonte:WHO).
Il sito riporta, anche in forma grafica di mappa, la distribuzione degli attacchi sul territorio ucraino. Nel solo periodo 25 febbraio - 14 marzo 2022 sono stati verificati da diverse fonti giornalistiche 25 attacchi a strutture sanitarie. Rimangono impresse nella memoria le immagini dell’attacco all’Ospedale della Maternità No.3 a Mariupol avvenuto il 9 marzo 2022. L’attacco è stato documentato dal reporter PBS Mstyslav Chernov ed inserito nel documentario “20 days in mariupol” vincitore dell’Oscar 2024 come miglior documentario. Ricordiamo la scena in cui una donna incinta viene evacuata sopra ad una barella; sia lei che il suo bambino sono successivamente morti come confermato dal chirurgo che li aveva in cura. Come ricostruito dal documento CNN, la giustificazione dell’attacco da parte russa era la supposta presenza di personale militare all’interno della struttura, informazione dimostrata falsa e costruita post-facto ad arte (fonte: CNN). L’attacco è stato compiuto impiegando una bomba di almeno 454 kg che ha provocato la formazione di un cratere ed ingenti danni all’edificio, causando almeno 5 morti e 17 feriti.
Purtroppo, il dramma non è terminato con Mariupol: dal 20 febbraio 2022 sono stati compiuti ben 1442 attacchi, determinando 742 distruzioni o danneggiamenti di ospedali, determinando 210 operatori sanitari uccisi e 144 feriti. Il singolo evento con maggiori danni si è verificato il 22 marzo 2022; l’ultimo della triste serie è quello all’Okhmatdyt di Kyiv. Ma l’attacco al sistema sanitario non avviene solo attraverso i bombardamenti: la WHO ha sollevato il problema degli attacchi ai sanitari, sottolineando in particolare che il servizio di ambulanza in Ucraina pone gli operatori ad un rischio di essere feriti di tre volte maggiore rispetto agli altri lavoratori sanitari. Come riportato nel report "Health Under Attack" di Physician for Human Rights nei territori ucraini occupati il sistema sanitario è stato utilizzato per aumentare il controllo della popolazione civile mediante una limitazione dell’accesso ai servizi e con azioni coercitive, utilizzando gli edifici sanitari per azioni militari, richiedendo il cambio di nazionalità al fine di poter accedere ai servizi sanitari e mediante azioni violente contro i professionisti sanitari.
L’Organizzazione mondiale della sanità ha monitorato gli effetti sul sistema sanitario ucraino e sulla salute della popolazione sin dall’inizio dell’invasione russa: gli ultimi dati disponibili sono riportati nel report "Ukraine: WHO health emergency appeal 2024" e sono drammatici.
L’OMS riporta 2.727.768 eventi che hanno interessato civili, con 9806 morti e 17.962 feriti (dato sottostimato). Il numero di sfollati interni è di 3.7 milioni e 6.2 milioni di rifugiati globalmente. Le infrastrutture sanitarie colpite sono circa 742, con una media di pazienti trattati mensilmente di 454.768. Drammatica e non meno importante è la diffusione delle malattie mentali secondarie all’invasione; si stima che 9.6 milioni di ucraini sia a rischio di problemi mentali e 3.9 milioni soffra di sintomi moderati o severi. In particolare, da uno studio osservazionale pubblicato su Lancet nel 2024, dopo il primo anno di guerra i criteri DSM-V per il disturbo post-traumatico da stress (PTSD) erano presenti nel 50,8% degli ucraini e nel 62,2% dei rifugiati.
Recentemente è stato pubblicato sul Journal of American Medical Association (JAMA) un articolo che ha valutato l’impatto delle guerra in Ucraina sul sistema sanitario nazionale analizzando 16 ospedali nelle varie oblast. Con la guerra sono ridotti la disponibilità di test di laboratorio, screening per il cancro, servizi ginecologici, servizi di riabilitazione, servizi di farmaci e la distruzione della catena di forniture per strumentazioni e farmaci, kit per test laboratoristici e medicazioni salvavita.
Le conseguenze della guerra sulla salute della popolazione non sono che all’inizio. Gli effetti per la riduzione delle cure e degli screening (-20%) si vedranno nel tempo in termini di benessere e di salute (fonte: Chrys Breyer, JAMA). Non meno importante è la questione dei traumi e delle amputazioni di arti. Sono stati stimati circa 30.000-50.000 feriti da amputazione che, spesso, vengono eseguite sul campo nel tentativo di salvare la vita e quindi richiedono modalità di protesizzazione altamente specialistiche e non disponibili in Ucraina, con conseguente necessità di supporto in altri paesi e invalidità a lungo termine.
E’ importante che i cittadini prendano coscienza delle gravi azioni che vengono perpetrate in Ucraina con danni alle infrastrutture del sistema sanitario nazionale ed agli operatori sanitari.
In tal senso è stata organizzata una live da LiberiOltre di informazione e di raccolta fondi (vedi modalità in descrizione) da destinare a supporto dell’Ospedale di Okhmatdyt (è possibile fare una donazione diretta anche sul sito della "Fondazione Ohmadtyd").
Lodevole è anche l’iniziativa della organizzazione non-profit lussemburghese "Lukraine" che già nell’aprile 2024 aveva esposto a Bologna in piazza del Nettuno, un’ambulanza crivellata di colpi e schegge durante l’attività di soccorso. In particolare l’ambulanza è viva testimonianza di quelli che sono gli attacchi diretti alle ambulanze ed agli operatori e che spesso sono attuati con la tecnica del "double-tap" ovvero attacchi in due tempi che sono finalizzati a ferire gli operatori che intervengono in soccorso alle persone colpite dal primo attacco; dall’inizio della guerra questa tecnica illegale ha ucciso 91 soccorritori e feriti 348.
L’iniziativa è finalizzata anche alla raccolta di fondi per l’acquisto di ambulanze da inviare in Ucraina. E’ previsto un tour dell’ambulanza in varie città e regioni italiane. Per settembre è stata già confermata la sua presenza in varie città toscane grazie all’organizzazione dell’Associazione Lilea. Le varie tappe dell’iniziativa saranno comunicate sui canali LiberiOltre.
Ma non è solo l’ostilità a caratterizzare i rapporti tra i due paesi:
Giappone e Cina infatti hanno intensi rapporti economici, la Cina è infatti dopo gli Stati Uniti il principale partner commerciale del paese del Sol Levante.
Questo vuole essere un reportage sul tema delle relazioni internazionali sino-giapponesi che cerca di inquadrare quali sono le principali fonti di attrito tra i due paesi e quali invece le aree di cooperazione. Nella sua stesura, il dott. Raimondo Maria Neironi, ricercatore e collaboratore dell’Università di Cagliari in Storia e Istituzioni dell’Asia, si è gentilmente prestato per una breve intervista ed il suo contributo è annoverato tra le fonti.
Chiudete gli occhi. Immaginate di essere Mikami Hiroshi, un pescatore giapponese che vive nella prefettura di Okinawa, un’isola dalla natura incontaminata e rigogliosa. Ogni mattina vi svegliate poco prima dell’alba e iniziate a preparare la vostra attrezzatura: reti, lenze equipaggiamento a bordo del vostro peschereccio, controllate che sia tutto in ordine e partendo dal porto di Naha salpate verso le pescose acque delle Isole Senkaku, controllate dal Giappone come dipendenza amministrativa dell'isola di Ishigaki (distante 170 km) nella prefettura di Okinawa.
ESG è acronimo di Environmental, Social and Governance Issues ed allude a valori e principi quali: la tutela dell’ambiente e lotta al cambiamento climatico (lettera E), i diritti umani e in particolare quelli dei lavoratori (lettera S), questioni di integrità e governance aziendale (lettera G). Queste normative stanno già avendo un grande impatto su molti aspetti della società e, in particolare, delle imprese.
Le normative in materia di trasparenza su questioni di sostenibilità.
In questo contesto assumono rilievo le normative che impongono rendicontazioni in materia di sostenibilità: fra queste la Direttiva CSRD (Corporate sustainability reporting directive) ed il Regolamento Tassonomia (Taxonomy Regulation).
La rendicontazione in materia di sostenibilità è una significativa novità: sin dal Medioevo, infatti, le società – per ordine gestionale interno prima ancora che per obbligo di legge – hanno redatto un bilancio, nel senso di un documento periodico nel quale si illustra la situazione e l’andamento economico-finanziario dell’impresa.
Gli atti normativi citati impongono che nel bilancio (in particolare, in una sezione apposita della Relazione sulla gestione), le società redigano una rendicontazione di sostenibilità, ovvero una sorta di bilancio relativo agli aspetti ESG.
In breve, i contenuti della rendicontazione.
Per la CSRD, l’approccio è quello della cosiddetta “double materiality” o doppia rilevanza. Vengono in rilievo, infatti:
In pratica, sono rilevanti per la reportistica sia gli impatti che la società subisce da aspetti ESG, sia quelli che la società causa con riferimento agli aspetti ESG.
Per rendere la reportistica il più possibile oggettiva, la CSRD richiede il calcolo di tutta una serie di informazioni espresse in forma numerica.
Ad esempio, le società devono rendere informazioni sulle emissioni di gas climalteranti, sulla composizione della forza lavoro dell’impresa, sulle attività e sugli impegni connessi alla propria influenza politica, comprese le attività di lobbying.
Ad ogni modo, la direttiva non impone che si rendano informazioni su tutti i punti indicati dalla direttiva medesima. Salvo alcune informazioni sempre obbligatorie, la società impattata deve in primo luogo svolgere un’analisi sulla propria attività e selezionare gli aspetti per essa rilevanti, sui quali pertanto la rendicontazione diventa obbligatoria (la valutazione deve tenere conto della doppia rilevanza, da qui il nome inglese double materiality assessment).
Il Regolamento Tassonomia, con un diverso approccio, elenca (tassonomia vuol dire elenco) una serie di attività economiche e “Criteri di vaglio tecnico” (in inglese: Technical Screening Criteria o TSC) ai quali attenersi nello svolgerle. Se un’impresa svolge una di queste attività nel rispetto dei TSC (purché, inoltre, nello svolgerle, non si causino altri significativi danni all’ambiente, e si rispettino requisiti minimi di rispetto dei diritti umani e dei lavoratori) allora l’impresa può dire di svolgere attività ambientalmente sostenibili (“attività allineate al Regolamento Tassonomia”). Le informative richieste dal Regolamento Tassonomia impongono pertanto di indicare quale porzione delle attività della società impattata siano allineate alla Tassonomia.
Scopo delle discipline.
La direttiva CSRD è volta a garantire che le società forniscano determinate informazioni in materia ESG che vengono ritenute determinanti per: “riorientare i flussi di capitali verso investimenti sostenibili al fine di realizzare una crescita sostenibile e inclusiva, gestire i rischi finanziari derivati dai cambiamenti climatici, l'esaurimento delle risorse, il degrado ambientale e le questioni sociali nonché promuovere la trasparenza e la visione a lungo termine nelle attività economico-finanziarie” (considerando n. (2) della Direttiva CSRD).
Inoltre, si ritiene che la fornitura di informazioni in materia ESG possa portare benefici alle imprese che rendono le informazioni medesime “in particolare aumentando all'interno dell'impresa la consapevolezza e la comprensione dei rischi e delle opportunità correlati al clima, diversificando la base di investitori, creando un costo inferiore del capitale e migliorando il dialogo costruttivo con tutti i portatori di interessi. Inoltre, la diversità nei consigli di amministrazione delle imprese può influire sul processo decisionale, sul governo societario e la resilienza” (considerando n. (3) della Direttiva CSRD).
In modo simile, riguardo al Regolamento Tassonomia, le premesse indicano come il creare un elenco di attività che il pubblico consideri con fiducia come ecologiche (poiché sono ufficialmente riconosciute tali dalla legge), rappresenti il passo più importante per attirare maggiori investimenti verso tali attività.
Adempiere gli obblighi di trasparenza imposti dalle normative citate sarà certamente oneroso per le imprese impattate. Il tempo ci dirà se effettivamente le rendicontazioni contribuiranno in modo significativo agli ambiziosi obiettivi sopra elencati.
]]>Fra gli elementi che contribuiscono a determinare le difficoltà dell’attuale sistema, c’è la mancanza di specialisti psichiatri: tale carenza, che è andata consolidandosi negli ultimi anni, merita una riflessione specifica anche in considerazione del fatto che questo non è un esclusivo problema quantitativo ma ha importanti ricadute sia come indicatore di cambiamento del tessuto sociale e culturale del paese sia relativamente alla questione dell’evoluzione del sistema per la salute mentale, sistema nato oltre 45 anni fa e che non ha trovato né le risorse materiali né quelle di cultura organizzativa necessarie alla sua evoluzione e a una sua riforma.
Volendo schematizzare gli elementi che stanno alla base di questo fenomeno proverei a suddividerli in questo modo:
1. Generale carenza di medici e di medici specialisti
È molto verosimile che vi siano stati degli errori di calcolo nella programmazione degli ingressi a medicina e nel calcolo degli specialisti che andavano formati. Uno dei fattori probabilmente non considerati è stato quello del ricambio generazionale: in una valutazione Eurostat, l'Italia ha i medici più vecchi d'Europa con il 54% del totale che ha una età superiore a 55 anni; secondo una stima dell’ANAO, fra il 2018 e il 2025, dei circa 105.000 medici specialisti, attualmente impiegati nella sanità pubblica ne potrebbero andare in pensione circa la metà ovvero 52.500 con l’esito di creare difficoltà a garantire il turnover in molte specialità fra le quali la psichiatria.
2. Ammissione alla specializzazione
Nonostante Il recente aumento delle disponibilità, i posti per la specializzazione sono attribuiti secondo un sistema di graduatoria nazionale che fa scegliere ai neolaureati sedi e specialità rimaste a disposizione. In altre parole, la motivazione di una buona parte dei neolaureati che scelgono psichiatria è la disponibilità di un posto indipendentemente dal considerare altri aspetti quali la specificità del lavoro in salute mentale, i valori di etica sociale e quelli organizzativi specifici del lavoro territoriale; in molti casi avrebbero voluto fare altro ma scelgono ciò che c’è.
3. La formazione specialistica
La cultura terapeutica che uno specializzando acquisisce dipende sia dalle sue motivazioni che dagli stimoli che riceve ed è molto collegata alla evoluzione culturale e scientifica della psichiatria stessa su cui pesa un destino pieno di interrogativi importanti e talvolta inquietanti [2].
Che cosa è la malattia mentale? Quale è il compito della psichiatria? Quale la sua collocazione nell’ambito delle discipline mediche e il suo coinvolgimento con le dimensioni sociali? La formazione che lo specializzando riceve sta in larga parte nelle risposte che a queste domande sarà in grado di dare. È lo stesso problema che si poneva agli psichiatri alla chiusura dei manicomi: quanto erano pronti a lavorare fuori dei reparti degli ospedali psichiatrici nel contesto del territorio con visite ambulatoriali, domiciliari, gestendo emergenze e interventi di inclusione sociale?
Oggi la questione si manifesta attraverso un pesante paradosso: la posizione scientifica e culturale dello specializzando è sostanzialmente diversa dalla rappresentazione sociale della psichiatria. I Servizi per la salute mentale ricevono quotidianamente richieste eterogenee e sono costretti a intervenire in situazioni nelle quali priorità e modalità sono decise da altri (magistratura, comuni, altri sanitari) e devono confrontarsi costantemente con una complessità che non è gestibile solo con gli strumenti e la cultura della specializzazione medica .
I servizi per la salute mentale sono fortemente condizionati nel loro lavoro dalle aspettative sociali e dalla domanda di controllo sociale. Il mandato della custodia, ossia la posizione di garanzia dello psichiatra nei confronti dei comportamenti della persona che ha in carico, non è venuto meno con la chiusura dei manicomi e il modello di psichiatria di comunità non si è evoluto a sufficienza per garantire risposte nelle situazioni complesse e con prolungati bisogni.
Questo porta a un intensificarsi degli interventi della magistratura nell’ambito della salute mentale: dai provvedimenti amministrativi (amministratori di sostegno) a quelli più propriamente legati a obblighi di cura in conseguenza o meno di un reato. Tutto ciò ha alimentato atteggiamenti difensivi nell’ambito della pratica psichiatrica che sono finalizzati a proteggersi da colpe e responsabilità e finiscono con il dare priorità alla preoccupazione per una denuncia invece che alla ricerca del miglior percorso terapeutico e riabilitativo possibile.
4. Persistenti e irriducibili pregiudizi sulla malattia mentale e sulla sua cura
Sulla malattia mentale, su chi ne è affetto, sulle famiglie e su chi se ne occupa, sono tutt'oggi presenti pregiudizi e convinzioni stigmatizzanti. Nell'ambito della medicina il lavoro di psichiatra viene considerato di minor prestigio, così come le persone con disturbo mentale sono viste come diverse e problematiche e hanno meno accesso alle cure sanitarie. Questi pregiudizi sono un disincentivo alla scelta della professione di psichiatra.
5. Le condizioni di lavoro nei servizi per la salute mentale
Una delle difficoltà della programmazione in salute mentale di questi decenni è stata quella di non avere mai calcolato e definito con precisione dei parametri relativi al personale e alle strutture necessarie. Anche quando questo è stato fatto, come nel caso del recente Dm 77/22, è difficile capire quali siano stati i criteri e le logiche di calcolo del fabbisogno. Qui è sufficiente dire che anche secondo quei calcoli mancano 13.198 operatori di cui 1.465 medici. Credo che questi numeri andrebbero aggiornati, anche se sono di due anni fa, ma fanno comunque intendere che ciò che accade in un Servizio è che mentre utenti e famiglie ritengono di avere risposte insufficienti gli operatori hanno un carico di lavoro sempre più insostenibile.
Questo è il clima che un neo specialista trova, specie nei servizi in maggiore difficoltà di risorse, ed è facile pensare come questo non favorisca né motivazione individuale né quella di gruppo.
Se aggiungiamo le minori opportunità di progressione nei ruoli, spesso legata alle riorganizzazioni aziendali su grandi aree, e i livelli retributivi dei medici del SSN, in particolar modo di coloro che lavorano nel territorio, si comprende come le motivazioni alla scelta di lavorare nel pubblico ricevano un ulteriore indebolimento
6. Aumento della domanda e servizi in ambito privato
A fronte della previsione che il 15% della popolazione generale potrebbe avere necessità di intervento di salute mentale solo 1,5%[3] è in carico ai servizi pubblici.
Il 13,5 % che non usufruisce dei servizi pubblici o non accede alle cure oppure si rivolge al mercato privato. Il numero di persone che si rivolge ai Dipartimenti di salute mentale è sostanzialmente costante in questi anni; un incremento della domanda si traduce in un aumento di richieste a professionisti privati. Il mercato privato necessita, a sua volta, di specialisti e costituisce una alternativa appetibile in termine di carico di lavoro, esposizione sociale e retribuzione al servizio pubblico.
Se poi si considera che circa 1000 medici all’anno (130.000 nell’ultimo ventennio), formatisi in Italia si trasferiscono all’estero e che fra questi ci sono anche specialisti psichiatri, aggiungiamo un altro tassello che ci aiuta a comprendere il fenomeno che stiamo analizzando.
7. I territori meno urbanizzati sono quelli più carenti
Il fenomeno della carenza di specialisti non colpisce in modo omogeneo tutti i servizi del territorio nazionale. Senza entrare nel merito delle diverse necessità regionali [4] è un fatto che i Servizi dislocati in contesti più periferici rispetto ai centri urbani, specie quelli dotati di una Università, sono in maggiore difficoltà; tale fatto può essere interpretato in diversi modi ma le conseguenze sono che i servizi collocati in aree meno urbanizzate, già da anni, soffrono della carenza di specialisti nel servizio pubblico e il loro stato di sofferenza in termini di risorse li rende ancor meno attrattivi con la conseguenza di aggravare il problema. I pochi specialisti che arrivano, appena possono, se ne vanno in servizi meno in difficoltà o comunque più vicini a realtà urbane.
Se consideriamo tutti questi aspetti si comprende come il problema non sia di facile soluzione. Nonostante molti operatori quotidianamente lavorino con impegno, in modo critico e per un futuro migliore, è necessario prendere iniziative per ognuno dei punti qui elencati per favorire la quantità e la qualità degli specialisti.
Una riorganizzazione del sistema, un aggiornamento nel percorso formativo e altre condizioni generali probabilmente non basterebbero se non si pensa anche a incentivare la presenza di specialisti nelle aree più disagiate. Le discussioni sulla salute mentale oggi [5] sono interessanti e ricche di proposte ma non arrivano (ancora?) o hanno esito nei tavoli istituzionali di Regioni e Ministeri.
]]>Giovedì 4 luglio, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha deciso di inviare un team di negoziatori al fine di discutere un accordo di rilascio degli ostaggi con Hamas. Il Presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha accolto positivamente questo sviluppo, arrivato un giorno dopo la risposta di Hamas al piano di cessate il fuoco per Gaza, stabilito alla fine di maggio.
Mercoledì 3 luglio, la leadership politica di Hamas ha comunicato di aver contattato mediatori egiziani e qatarioti onde discutere le idee in vista di un accordo. Finora, Hamas ha richiesto la fine della guerra e il ritiro completo delle truppe israeliane da Gaza, mentre Israele afferma che accetterà solo pause temporanee nei combattimenti fino all'eliminazione di Hamas. Netanyahu ha dichiarato che i suoi obiettivi sono il ritorno di tutti gli ostaggi rimanenti, la distruzione delle capacità militari e governative di Hamas e garantire che Gaza non costituisca più una minaccia per Israele.
Giovedì 4 luglio, un funzionario palestinese ha comunicato alla BBC che Hamas avrebbe rinunciato alla richiesta di un cessate il fuoco completo. Le nuove condizioni di Hamas riguarderebbero il ritiro delle forze israeliane da una striscia di terra lungo il confine meridionale di Gaza con l'Egitto, nota come corridoio di Philadelphia, e dal valico di Rafah tra Gaza e l'Egitto.
L'esercito israeliano ha annunciato la sospensione dei combattimenti lungo una strada che collega il varco tra Israele e la Striscia di Gaza e la parte nord della città di Rafah, ogni giorno dalle 8 alle 19 ora locale. Questa "pausa tattica" quotidiana è stata concordata con l'ONU e le agenzie umanitarie internazionali per facilitare il trasporto di aiuti umanitari verso la città. Rafah, gravemente colpita dall'attacco israeliano, si trova in una situazione umanitaria critica da tempo segnalata dalle stesse agenzie.
Lo scopo della pausa, almeno in teoria, è facilitare il transito sicuro dei camion carichi di aiuti, specialmente cibo, attraverso il confine di Kerem Shalom e lungo la strada Salah ad-Din, che è rimasta la principale via di collegamento tra la parte nord e sud della Striscia di Gaza. Sin dall'inizio di maggio, quando è iniziata l'offensiva dell'esercito israeliano a Rafah, molti camion sono rimasti bloccati alla frontiera.
Secondo i dati dell’OCHA, l’ufficio per gli affari umanitari delle Nazioni Unite, dal 6 maggio al 6 giugno sono stati inviati in media 68 camion di aiuti umanitari al giorno verso la Striscia di Gaza. Questo numero è significativamente inferiore rispetto ai 168 camion al giorno inviati ad aprile e molto lontano dai 500 che diverse organizzazioni umanitarie stimano essere necessari per soddisfare il bisogno di aiuti nella regione. L’arrivo di aiuti nella Striscia di Gaza è diminuito con l’intensificarsi dell’offensiva militare israeliana nella zona meridionale, in particolare a Rafah. Fino all’inizio di maggio, Rafah era considerata l’unica zona parzialmente sicura dopo mesi di bombardamenti ed attacchi terrestri nel resto della Striscia. Tuttavia, l’inizio dell’offensiva ha costretto centinaia di migliaia di persone a trasferirsi di nuovo, questa volta verso nord, abbandonando le aree che avevano cercato di ripopolare mesi fa.
La situazione negli ospedali è estremamente critica, con molti di essi incapaci di assistere tutte le persone ferite o malate, spesso costretti a rifiutare nuovi pazienti. Attualmente, solo 17 ospedali su 36 sono rimasti aperti e operativi: tra questi, 3 si trovano nella zona nord della Striscia, 7 a Gaza, 3 a Deir al Balah e 4 a Khan Yunis. Nessun ospedale è attivo a Rafah. Manca il sangue per le trasfusioni, i medicinali sono in scarsità e le strutture sono sovraccariche: operazioni complesse come le amputazioni vengono eseguite in tende improvvisate nei cortili, mentre le sale parto sono allestite in scuole e asili. I pazienti con malattie croniche come il cancro ed il diabete non hanno avuto accesso alle cure necessarie da mesi.
Mercoledì 3 luglio, il gruppo armato libanese ha annunciato la morte di Muhammad Nimah Nasser, noto anche come "Hajj Abu Naameh". Il gruppo, alleato dell'Iran, ha in seguito rivendicato il lancio di 100 razzi katyusha mirati alle posizioni militari israeliane. L'annuncio della morte di Nasser su Telegram non ha specificato la località, ma fonti riferiscono che un comandante è stato ucciso nella zona di Hosh a Tiro, nel sud del Libano. Una fonte vicina al gruppo ha confermato che Nasser è stato ucciso durante l'attacco a Tiro.
La fonte ha indicato che Nasser aveva lo stesso grado di Taleb Abdallah, un altro alto comandante ucciso in un attacco israeliano a giugno. Al momento della sua morte, Abdallah era il più alto ufficiale militare di Hezbollah ucciso dal gruppo durante i combattimenti con Israele, iniziati l'8 ottobre in risposta ai bombardamenti su Gaza. In seguito alla morte di Abdallah, Hezbollah ha lanciato uno dei suoi più intensi bombardamenti di razzi contro il nord di Israele.
Il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, ha dichiarato che Israele sta cercando di evitare una guerra su vasta scala, ma ha avvertito che le sue forze armate avrebbero la capacità di ridurre il Libano ad uno stato primitivo. Il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha affermato che il gruppo è pronto per una guerra "senza restrizioni, senza regole e senza limiti" in risposta ad un attacco israeliano di grande portata.
Durante una telefonata avvenuta martedì 2 luglio, il presidente francese Emmanuel Macron ha chiesto a Benjamin Netanyahu, leader di Israele, di evitare una "conflagrazione" tra Israele ed i militanti di Hezbollah in Libano.
Secondo un comunicato della presidenza francese, Macron ha ribadito la sua seria preoccupazione per l'escalation delle tensioni tra Hezbollah e Israele e ha sottolineato l'importanza cruciale di evitare un conflitto che potrebbe danneggiare gli interessi sia del Libano che di Israele. Macron ha inoltre sottolineato l'urgente necessità che tutte le parti procedano rapidamente verso una soluzione diplomatica per porre fine al conflitto scaturito dall'attacco di Hamas a Gaza il 7 ottobre.
Durante la stessa telefonata, Macron ha esortato Netanyahu ad evitare "qualsiasi nuova operazione" nella striscia di Gaza vicino a Rafah o Khan Yunis, sottolineando che ciò potrebbe aggravare ulteriormente il bilancio umano e la già catastrofica situazione umanitaria. Infine, Macron e Netanyahu hanno discusso dei recenti sviluppi nel programma nucleare dell'Iran, in particolare riguardo alle notizie sull'installazione di nuovi centrifughe per l'arricchimento dell'uranio.
Il Libano e Israele sono ufficialmente in uno stato di guerra da decenni, da quando nel 1982 Israele lanciò una pesante controffensiva, sfociata nell’invasione del Libano spingendo i suoi carri armati fino alla capitale Beirut, in risposta agli attacchi dei militanti palestinesi nel paese. Israele ha occupato il sud del Libano per 22 anni, fino ad essere scacciato da Hezbollah, emerso dalle macerie dell'invasione israeliana.
Hezbollah è un movimento libanese sostenuto dall'Iran, dotato di una delle forze paramilitari più potenti della regione. Questo gruppo di "resistenza" ha il compito di confrontarsi con Israele, classificato da Beirut come stato nemico. Gran parte del mondo occidentale ha designato Hezbollah come organizzazione terroristica.
Da allora, i due schieramenti si sono scambiati sporadicamente il fuoco, ma le tensioni sono esplose nel 2006, quando Israele è tornato in guerra nel sud del Libano dopo il rapimento di due soldati israeliani da parte di Hezbollah. In quel conflitto hanno perso la vita più di 1.000 libanesi, principalmente civili, oltre a 49 civili israeliani e 121 soldati. Due anni dopo, Hezbollah ha restituito i resti dei soldati rapiti in cambio del rilascio di prigionieri libanesi e palestinesi detenuti in Israele, così come dei corpi di militanti detenuti da Israele. Le ultime ostilità tra Israele e Hezbollah sono iniziate dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, in cui Hezbollah ha sottolineato come la sua attuale fase di combattimento con Israele miri a sostenere i palestinesi a Gaza.
La capacità militare del gruppo libanese è cresciuta dal 2006, quando all’epoca si basava principalmente su missili Katyusha di origine sovietica, non molto precisi. Oggi, il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, sostiene che il suo gruppo conti più di 100.000 combattenti e riservisti. Si ritiene anche che il gruppo possegga 150.000 razzi, capaci di saturare le difese di Israele in caso di guerra totale.
La situazione di carestia a Gaza: aggiornamento
Gli aggiornamenti rispetto alla prospettiva dell’IPC parlano di un leggero miglioramento della Food Security nei governi settentrionali di Gaza dove si temeva una situazione di carestia entro fine Maggio: il migliorato accesso al cibo, tuttavia, non risulta ancora sufficiente e la situazione permane disperata secondo il WFP.
Va, inoltre, fatto notare come non ci siano più "centimetri sicuri” a Gaza: parlando ai giornalisti a Ginevra dopo il suo secondo dispiegamento a Gaza, Yasmina Guerda dell'ufficio di coordinamento degli aiuti delle Nazioni Unite (OCHA) ha affermato come la consegna degli aiuti sia diventata un esasperante "enigma quotidiano" che ha lasciato i bambini malnutriti senza l'aiuto salvavita di cui hanno bisogno.
Fornire aiuti umanitari a questi sopravvissuti ed al milione di persone sradicate da Rafah, nella striscia di Gaza meridionale, nel giro di 10-14 giorni resta estremamente difficile, soprattutto da quando l'operazione militare israeliana ha chiuso il valico di frontiera chiave all'inizio di maggio, ha proseguito il funzionario dell'OCHA.
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Le ultime settimane
La notizia, per quanto sconvolgente, non è certo stata un fulmine a ciel sereno: nel corso dell’ultimo anno sono emerse diverse speculazioni riguardo alla salute psicofisica di Joe Biden, che sembrava risentire dell’età avanzata e delle fatiche istituzionali del suo ruolo di Presidente. Il problema, sempre negato da Biden e dal suo entourage, è divenuto man mano più evidente negli ultimi mesi. Basti ricordare le recenti immagini del G7 di giugno, quando l’ottantunenne si è addormentato mentre era seduto al fianco del Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, entrambi in ascolto di un’esibizione di Andrea Bocelli[2].
La valanga che ha portato alle dimissioni da candidato ha però iniziato a formarsi a partire dal primo dibattito presidenziale di Atalanta del 27 giugno di quest’anno: Joe Biden non è infatti riuscito a rassicurare gli elettori ed i membri del suo partito che i suoi problemi di età non fossero tali da costituire un problema per il suo incarico. Il dibattito, ospitato dalla CNN e la cui modalità (nessun pubblico in sala, assenza di candidati indipendenti, presentatori moderati, microfoni mutat durante il turno dell’avversario) erano state concordate precedentemente dai democratici affinché favorissero il proprio leader, meno impetuoso rispetto a Trump. Il dibattito si è tuttavia rivelato niente meno che un fallimento: Biden ha avuto difficoltà a concludere le proprie affermazioni e soprattutto a portare avanti una narrazione credibile che ostacolasse quella del candidato repubblicano[3]. Da lì in avanti, tutto è risultato in salita per la campagna elettorale: i democratici, allarmati già prima del dibattito e terrorizzati dopo la sua conclusione, si sono resi conto dai sondaggi e dai discorsi del paese che il loro candidato non sarebbe riuscito quasi sicuramente a battere l’avversario. Nelle settimane successive, fino al 21 luglio, si sono susseguite una serie di gaffe ed immagini desolanti che confermavano come il presidente americano non fosse al meglio delle proprie condizioni: difficoltà a scendere dall'Air Force One, frequenti scambi di persona (ha scambiato la propria vice Harris con Trump e successivamente il presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj con quello russo Vladimir Putin, eventi entrambi accaduti all’ultimo summit della NATO) e manifesta assenza di lucidità. Nonostante ciò, il presidente Biden aveva negato più volte di voler rinunciare alla propria candidatura sebbene si fossero palesate notevoli pressioni dal suo partito e dalla base elettorale affinché lasciasse il posto a qualcuno di più giovane ed in salute. Biden ha chiamato in causa persino “Dio onnipotente”, asserendo che sarebbe stato l’unico a farlo desistere dalla corsa.[4]
I primi democratici a richiedere il ritiro di Biden sono stati i membri della House of Representatives Lloyd Doggett e Jim Clyburn ed alcune affermazioni dubbiose nei confronti della salute del presidente sono state pronunciate persino da Nancy Pelosi, ex speaker dell’House of Senate e stretta alleata di Biden. Anche Barack Obama, 44esimo Presidente degli Stati Uniti, si era lanciato solo pochi giorni addietro in una critica del collega: pur ricordandone i meriti, aveva stimato che, dopo il dibattito, le probabilità di vincere le elezioni per Biden si erano notevolmente affievolite[5].
Al contrario i coniugi Clinton, Bill e Hillary, avevano confermato il loro supporto alla candidatura di Biden.
L’attentato a Donald Trump di sabato 13 luglio scorso ha scosso le fondamenta della società americana ed assestato un colpo decisivo al prosieguo della candidatura democratica in vista delle elezioni di novembre prossimo. Il candidato repubblicano, salvatosi miracolosamente dal tentativo di assassinio ordito dal ventenne Thomas Mattew Crooks, ha visto infatti aumentare i suoi consensi a cascata in tutti i sondaggi. La contrapposizione tra il leader repubblicano, portato dai suoi come un “miracolato di Dio” più forte che mai, e la fragile silhouette di Biden ha causato in naufragio delle già scarse speranze di vittoria per il partito democratico. Per ironia della sorte, il proiettile che avrebbe potuto porre fine alla campagna elettorale di Trump sembra aver metaforicamente centrato in pieno quella di Joe Biden, assestandole un colpo fatale.
Nonostante Biden e famiglia avessero ancora rigettato l’ipotesi di una rinuncia, la positività del presidente al Covid e la conseguente quarantena gli hanno probabilmente permesso di riflettere seriamente sulla proposta di addio alla campagna[5]: dopo pochi giorni, il 21 luglio, Joe Biden si è ritirato ufficialmente.
Futuri possibili
Il primo nome che viene in mente quale possibile erede alla candidatura di Biden è la sua vice Kamala Harris, 60 anni, di origini afro-americane ed indiane. Subito dopo aver postato la lettera di rinuncia alla candidatura, Biden ha pubblicato un commento sempre sul social X in pieno sostegno alla sua vice[7]. Harris e Biden erano stati precedentemente feroci avversari alle primarie del partito democratico durante le elezioni del 2020; tuttavia, con la vittoria del secondo, Harris era stata accolta come candidata Vice Presidente e presentata già all’epoca come simbolo delle minoranze al potere. Oggi, questa narrazione potrebbe essere riproposta nel caso Kamala Harris fosse davvero scelta come candidata alla presidenza. Numerosi sondaggi la indicano quale candidata con migliori aspettative rispetto a Biden, ma comunque non sufficienti a poter battere Trump; solo il centro di sondaggistica Bendixen & Amandi International ha affermato che la candidata potrebbe essere in grado di fronteggiare con successo l’ex Presidente repubblicano nel voto popolare. Altra questione è il voto dell’Electoral College, che potrebbe invece vedere trionfante Harris secondo un’analisi di Five Thirty Eight[8].
Altri papabili candidati presentati in queste ore sono: Gavin Newsom, governatore della California, e Gretchen Whitmer, governatrice del Michigan; entrambi sono considerati due stelle nascenti della politica americana e della leadership democratica. Eppure, fonti vicine ai due governatori hanno dismesso le notizie che li vorrebbero veder correre contro la Harris per la candidatura a Presidente[9].
Un’altra candidata spesso evocata quale possibile concorrente democratica è Michelle Obama, 60 anni, avvocato e moglie dell’ex Presidente Barack Obama. Recentemente, il suo nome è stato presentato come possibile candidato sostituto di Biden e l’ipotesi ha preso sempre più piede quando alcuni sondaggi misero in evidenza che fosse l’unica in grado di poter battere Trump alle elezioni e persino con grande distacco. L’ex-first lady ha però ripetutamente negato nel corso degli ultimi anni di voler intraprendere una carriera politica[10].
Nonostante il supporto per Harris da parte di Biden, il Presidente uscente ed il vincitore delle primarie del partito democratico, non si può ancora essere certi che la vice potrà ricoprire di fatto tale ruolo, che sarà invece deciso dal partito democratico o tramite una votazione virtuale specificatamente sulla Harris, precedente alla Democratic National Convention, dove gli elettori ed i politici democratici si ritrovano per nominare ufficialmente il proprio candidato e che si terrà dal 19 al 22 agosto, oppure tramite delle mini-primarie tra diversi candidati in cui risulterà decisivo il voto dei delegati[11]. Visto il poco tempo a disposizione, appena 4 mesi di campagna elettorale, e la difficoltà della sfida posta da Trump, è probabile che il partito democratico si riunirà attorno alla nuova candidata Kamala Harris.
]]>O per meglio dire, questa è la norma che fino a pochi giorni fa lo impediva quando la Corte Costituzionale – sentenza 137/2024 – ha posto fine all’ennesimo scempio legislativo a protezione della lobby dei taxisti, una misura che la stessa Corte ha qualificato come portatrice di un grave pregiudizio all'interesse della cittadinanza e dell'intera collettività. Ma andiamo con ordine.
No registro, no licenze: un blocco virtualmente senza fine
Alla data odierna, tale registro non è tutt’ora operativo. Sebbene infatti sia atteso dal 2019, tanto il testo della norma quanto la realtà dei fatti hanno dimostrato come questa adozione sia stata limitata e bloccata a più riprese dal Ministero dei Trasporti, tant’è che lo stesso ultimo decreto ministeriale 203/2024 a firma Salvini di qualche settimana fa, prevede che tale operativià è immediata, bensì dopo 180 giorni dalla pubblicazione del decreto stesso.
Un’incertezza senza una chiara fine che la stessa Corte ha riconosciuto nelle considerazioni della sentenza,[2] tanto da precisare che il citato decreto non incide in alcun modo sugli effetti di quest’ultima.
Ma quali sono le violazioni costituzionali rilevate dalla Suprema Corte? Essenzialmente tre.
Violazione n. 1: mancanza di ragionevolezza e proporzionalità
Dal principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della Costituzione derivano due ulteriori principi:
Violazione n.2: la libertà di iniziativa economica
Questa libertà fondamentale sancita dall’art. 41 della Costituzione è stata letteralmente calpestata, un fatto sul quale la Corte è chiarissima; infatti la crezione di una tale barriera all’entrata ha violato:
Una limitazione questa che – precisa la Corte – ha colpito non solo competitività e innovazione tecnologica del settore, l’economia e l’immagine internazionale del nostro Paese, ma anche il fondamentale diritto di movimento delle persone, specialmente di anziani e fragili.
Violazione n.3: libertà di stabilimento garantita dall’Unione Europea
Vi è infine la violazione del comma 1 dell’art. 117 della Costituzione, il quale vincolando la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni ai limiti imposti non solo dalla Costituzione, ma anche delle norme europee e internazionali, evidenzia il conflitto con la libertà di stabilimento prevista dall’art. 49 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE).
Questa – come ha infatti precisato la Corte di Giustizia dell’UE – coinvolge anche chi eroga il servizio di taxi e NCC, tant’è che:
Conclusioni
È accaduto ancora una volta ciò che non doveva accadere: la Corte Costituzionale ha dovuto prendere una decisione di buon senso in vece di una politica schiava degli interessi illegittimi di parte.
Il vantaggio competitivo deve essere figlio dell’impegno delle persone, non dei vincoli dettati dallo Stato in pieno abuso del suo potere imperativo.
Un abuso – figlio di inammissibili esigenze elettorali – che è costato alla nostra libertà di movimento, alla nostra libertà di impresa, al nostro portafoglio personale, alla nostra economia e alla nostra immagine internazionale tra evasione fiscale, truffe e inadeguatezza dei servizi, con le giornaliere foto delle code fuori da stazioni e aeroporti.
Un vantaggio ingiusto di pochi che è costato a tutti noi.
]]>Fenice Verde, una ONG siciliana impegnata nella lotta contro gli incendi boschivi e nella promozione di pratiche adattamento al cambiamento climatico, è in prima linea in questa battaglia. Grazie alla loro collaborazione, abbiamo potuto approfondire lo studio dei dati e scoprire dettagli inquietanti. Uno di questi è che in Sicilia gli incendi spesso scoppiano la sera, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe dagli incendi accidentali, che solitamente divampano nelle ore più calde della giornata. Di notte, proprio quando l’intervento scatta a rilento e il fuoco può propagarsi incontrollato fino all'alba, rendendo ancora più difficile la gestione delle operazioni di spegnimento.
Questi dati sollevano domande urgenti sulla gestione del territorio e sulle politiche di prevenzione degli incendi in Sicilia. La lotta contro questo flagello non può più essere rimandata. È necessario un impegno concertato, non solo delle istituzioni ma di tutta la comunità, per proteggere il nostro patrimonio naturale e garantire un futuro sostenibile.
Gli incendi boschivi rappresentano una delle piaghe più devastanti per il patrimonio naturale della Sicilia, isola meravigliosa ma costantemente minacciata da questo fenomeno distruttivo. Grazie ai dati forniti dall'European Forest Fire Information System (EFFIS), che monitora il territorio tramite il sofisticato sistema satellitare Copernicus, è possibile tracciare un quadro preciso e dettagliato dell'evoluzione e dell'impatto degli incendi in questa regione.
Questo lavoro si inserisce nell'ambito dell'analisi degli incendi boschivi in Sicilia portata avanti da Fenice Verde, una ONG siciliana impegnata nella lotta contro gli incendi boschivi e nella promozione di pratiche sostenibili per la salvaguardia del territorio. I dati raccolti coprono il lasso di tempo tra l’inizio dell’estate 2009 e l’aprile 2024 e offrono una panoramica essenziale non solo dell'estensione e della frequenza degli incendi, ma anche delle loro caratteristiche specifiche nel tempo.
È importante sottolineare che i periodi di campionamento differiscono nel tempo: dal 2009 al 2016 la rilevazione si è concentrata esclusivamente sulla stagione estiva, il periodo più critico per gli incendi. Dal 2017 in poi, invece, il monitoraggio è stato esteso a tutto l'anno, consentendo un'analisi più approfondita e completa di questo fenomeno. Queste informazioni sono cruciali per comprendere meglio le dinamiche degli incendi e per elaborare strategie efficaci di prevenzione e intervento, ma prima di addentrarsi nell’analisi è opportuno sottolineare che i satelliti utilizzati hanno una risoluzione relativamente limitata, non permettendo di visualizzare gli incendi più piccoli di 3 ettari, che vista la frattalità dell'ecosistema siciliano sono ugualmente gravi, perché possono coprire interi ecosistemi, distruggendoli per sempre. Le analisi che andremo a proporre di seguito, pur nella gravità del fenomeno che dipingono, si costituiscono come una sottostima del problema incendi in Sicilia.
15 anni di incendi in Italia: il caso Sicilia
Il dato cumulativo degli incendi in Italia nel periodo monitorato, dipinge un quadro impietoso, racconta una storia di devastazione e distruzione che colpisce particolarmente il cuore del Mezzogiorno. La Sicilia ne emerge come assediata dalle fiamme.
Storicamente l’idea di utilizzare i geni per prevenire o curare patologie nasce e si sviluppa con il progredire delle tecniche di biologia molecolare e ricombinazione del DNA, esse permettono di intervenire a livello genetico all’interno delle cellule umane eliminando o inserendo geni.
]]>Fortis parte dalla constatazione che il debito pubblico francese è, in valore assoluto, più elevato di quello italiano e afferma che, la sostenibilità dei debiti dei due paesi andrebbe valutata concentrandosi su questo elemento e, in particolare, sulla quota di debito detenuta dagli stranieri.
Nel cercare di affermare la rilevanza della dimensione del debito pubblico in valore assoluto, viene anche indirettamente criticato l’utilizzo del rapporto debito/PIL, da parte delle istituzioni europee e delle agenzie di rating, senza tuttavia fornire spiegazioni di dettaglio e limitandosi a menzionare in modo aneddotico il Giappone che ha storicamente registrato un valore molto elevato di questo rapporto e la Grecia, che secondo questa linea di pensiero sarebbe stata penalizzata da una quota eccessiva di debito in mani straniere.
In quest’ottica, l’Italia sarebbe ingiustamente penalizzata in termini di rating e di costo del debito e vittima di una comunicazione istituzionale autolesionista e dell’eccessivo pessimismo dei suoi cittadini. Inoltre, la maggiore quota di debito pubblico detenuta dagli italiani rispetto ai francesi sarebbe un “elemento di forza”.
Perché nessuno (a parte i sostenitori del governo Meloni) sembra interessato al valore del debito pubblico in termini assoluti?
Proviamo a chiarirlo con un esempio riferito a due individui, Tizio e Caio. Se Tizio ha un mutuo residuo di 100mila euro e Caio uno da 120mila, possiamo dire che il secondo si trovi in una posizione peggiore, che sia un debitore più rischioso o che, in altri termini abbia una probabilità maggiore di non riuscire a restituire quanto deve?
No, non possiamo dirlo, perché non disponiamo di informazioni sufficienti. Se per esempio Tizio guadagnasse 1000 euro al mese e Caio 3000, con questa informazione aggiuntiva sembrerebbe abbastanza intuitivo che il debito da 120mila, detenuto da una persona che guadagna 3000 euro al mese sia più sostenibile di uno da 100mila, detenuto da una persona che guadagna 1000 euro al mese.
La realtà è ovviamente più complessa, tuttavia il semplice esempio proposto aiuta a comprendere perché le agenzie di rating, e gli investitori professionali interessati a valutare il debito pubblico di uno stato sovrano non guardino allo stock al valore assoluto, ma si concentrino su una misura relativa fornita dal rapporto tra il debito pubblico e il PIL. Incidentalmente, possiamo rilevare che l’Italia è in una posizione peggiore rispetto a tutti gli altri paesi europei, esclusa la Grecia, se si guarda al rapporto tra debito e PIL.
Cosa ha che fare il debito assoluto con la sostenibilità?
Non è possibile discutere in dettaglio questo aspetto perché le affermazioni di Fortis non lo spiegano, limitandosi a lasciar cadere un riferimento sul Giappone (che ha da molti anni un rapporto debito/pil elevato, ma non desta preoccupazione) e uno sulla Grecia (che sarebbe stata fortemente penalizzata dalla elevata quota di debito in mani straniere) lasciando intendere che una quota elevata di debito pubblico in mani straniere costituisca un elemento di debolezza e di fragilità.
La maggioranza delle ricerche svolte sul tema (qui una breve rassegna) concorda sul fatto che la sostenibilità del debito giapponese sia legata alla solidità dell’economia che esprime un tasso di crescita (anche se non molto elevato) superiore al costo medio del debito.
A questo proposito, tuttavia, si potrebbe dire che dal punto di vista della teoria economica e del senso comune le tesi di Fortis invertano il nesso di causa effetto tra sostenibilità e debito detenuto da non residenti.
Non è lo stato emittente che ha il potere di decidere quanta parte del proprio debito possa finire in mani straniere: in circostanze ordinarie, sono gli investitori (residenti e non) ad acquistare titoli emessi da uno stato sovrano solo dopo averne valutato la sostenibilità e il grado di rischio. Non a caso gli emittenti che non vengono reputati credibili, anche perché per esempio presentano un rapporto debito/pil troppo elevato, ma più in generale, perché presentano un rischio troppo elevato di riuscire a onorare i propri impegni, perdono l’accesso al mercato e necessitano del soccorso di fondi salva stati come IMF e ESM.
In quest’ottica, si potrebbe affermare che, al contrario di quanto sostenuto da Fortis, la presenza di una quota di debito pubblico in mani straniere è un segnale di forza, perché vuol dire che investitori non residenti hanno dimostrato di avere fiducia nella solidità della nazione che emette i titoli. Per converso, la necessità di piazzare il proprio debito presso i residenti e il tentativo esasperato di farlo anche con agevolazioni, campagne di marketing e retorica populista come avvenuto con il BTP Italia, potrebbero essere ragionevolmente intesi come un segnale di debolezza o di volontà di assicurarsi contro possibili future crisi di fiducia.
Per riassumere, le tesi in base alle quali il giudizio dei mercati e delle agenzie sul debito pubblico italiano e francese andrebbero invertite, si possono qualificare come eterodosse perché giungono a risultati diversi e in parte opposti rispetto alla teoria economica generalmente accettata e alle metodologie di quantificazione dei rischi di default considerate attendibili da organismi indipendenti come le agenzie di Rating e da tutti gli investitori istituzionali e privati che ogni giorno operano sui mercati finanziari.
Il motivo per cui nessun operatore professionale presta attenzione alla dimensione del debito in valore assoluto è che questo indicatore non consente confronti omogenei tra i diversi paesi e non contiene informazioni sufficienti per valutare la sostenibilità del debito.
Viceversa l’attenzione data dalle istituzioni e dagli operatori di mercato al rapporto debito/PIL e più in dettaglio alla sua evoluzione nel tempo è dovuta al fatto che questo indicatore consente confronti omogeni tra diversi paesi e che il rischio che questo rapporto cresca fuori controllo costituisce l’elemento alla base della definizione stessa di sostenibilità del debito pubblico.
Con buona pace dei proclami dei sostenitori del governo Meloni, e più in generale degli inguaribili ottimisti, che vorrebbero farci credere che una industria da migliaia di miliardi di dollari lascia che le proprie valutazioni in termini di rischio siano influenzato dalla comunicazione istituzionale (buona o cattiva che sia) e dalla propaganda politica, non esiste alcun elemento ragionevole per affermare che i rating attribuiti al debito francese e italiano siano ingiustamente penalizzanti per il nostro paese.
Pubblicato su Econopoly
]]>Tale “sforzo” è multidimensionale e prevede quattro grandi aree: infrastrutture digitali (digital infrastructure), trasformazione nel mercato (digital transformation of business), capacità digitali (digital skills) e digitalizzazione dei servizi pubblici (digital public services). Lo stato di avanzamento percentuale dell’ Europa verso tali obiettivi viene riportato nel report annuale. Da quest’anno un analogo report è disponibile anche per l’Italia.
]]>Questi sviluppi hanno fortemente impattato sulle catene di approvvigionamento ed il commercio tra Europa e Russia, i cui volumi sono fortemente diminuiti sul mercato “trasparente” a seguito delle sanzioni, nonostante in più casi si sia assistito a triangolazioni attraverso attori terzi in grado di aggirarle, almeno parzialmente. Di fatto, è divenuto ancor più evidente quanta e quale sia la dipendenza dell’UE da beni strategici e materie prime. In questo contesto, il Consiglio europeo ha sottolineato la necessità di un’autonomia strategica aperta, affinché l’UE diventi più autosufficiente pur rimanendo aperta alla cooperazione con i partner: rafforzare la sicurezza economica, un concetto raramente discusso prima della guerra in Ucraina, è ora in cima alle agende politiche.
Missile colpisce ospedale pediatrico a Kyiv: alta probabilità di responsabilità russa
Le Nazioni Unite hanno dichiarato che è "molto probabile" che l'ospedale pediatrico principale di Kyiv , avvenuto l’8/07/24, sia stato colpito direttamente da un missile russo durante una serie di attacchi aerei sulle città ucraine, tuttavia il Cremlino continua a negare il coinvolgimento.
L'Ucraina ha issato le bandiere a mezz'asta in una giornata di lutto nazionale per commemorare le 41 persone uccise negli attacchi aerei di lunedì, tra cui quattro bambini e due persone presso l'ospedale pediatrico Okhmatdyt nella capitale.
"L'analisi delle riprese video e una valutazione effettuata sul luogo dell'incidente indicano un'alta probabilità che l'ospedale pediatrico abbia subito un colpo diretto piuttosto che danni causati da un sistema d'arma intercettato," ha dichiarato il capo della Missione di Monitoraggio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite in Ucraina.
Il Cremlino ha affermato, senza fornire prove, che sia stato il fuoco antimissilistico ucraino, e non la Russia, a colpire l'ospedale pediatrico, uno dei più grandi d'Europa, che tratta pazienti con condizioni gravi come il cancro e le malattie renali.
]]>Il Nouveau Front Populaire, la coalizione di sinistra guidata da Jean-Luc Mélenchon, ha ottenuto 182 deputati su un totale di 577 nella nuova Assemblea Nazionale a seguito del ballottaggio di ieri, secondo quanto riportato da Le Monde. La coalizione del presidente Emmanuel Macron, Ensemble pour la République, ha conquistato invece 168 seggi.
Il terzo posto è stato occupato dal partito di estrema destra Rassemblement National (RN) di Jordan Bardella e Marine Le Pen, in coalizione con Eric Ciotti, ottenendo 143 seggi. I Repubblicani, che correndo per scelta da soli, hanno invece conquistato 45 seggi. Di fatto, dati alla mano,, nessuno dei partiti ha ottenuto una maggioranza assoluta.
]]>2006 - Assange co-fonda Wikileaks
Aprile 2010 - Wikileaks pubblica filmati di un elicottero americano che spara sui civili in Iraq.
Agosto 2010 - I procuratori svedesi emettono un mandato d'arresto per Assange con due accuse separate di aggressione sessuale, che Assange definisce "senza fondamento".
Dicembre 2010 - Assange viene arrestato a Londra e rilasciato su cauzione poco dopo. Inizia a fare appello contro il mandato d'arresto internazionale.
Maggio 2012 - La Corte Suprema del Regno Unito stabilisce che dovrebbe essere estradato in Svezia per affrontare un interrogatorio sulle accuse.
Giugno 2012 - Assange entra nell'ambasciata ecuadoriana a Londra.
Agosto 2012 - Assange ottiene ufficialmente l'asilo e, parlando ai giornalisti dal balcone dell'ambasciata, chiede agli Stati Uniti di interrompere la loro "caccia alle streghe".
Febbraio 2016 - Un gruppo di lavoro dell'ONU stabilisce che Assange è stato "detenuto arbitrariamente" dalle autorità del Regno Unito e della Svezia e chiede la sua liberazione.
Maggio 2017 - Il direttore della pubblica accusa svedese annuncia che le indagini per aggressione sessuale su Assange sono state abbandonate.
Ottobre 2018 - Assange riceve un insieme di regole domestiche dall'ambasciata ecuadoriana; nello stesso mese si scopre che ha avviato un'azione legale contro il governo dell'Ecuador, accusandolo di violare i suoi "diritti e libertà fondamentali".
Novembre 2018 - Si viene a sapere che il dipartimento di giustizia degli Stati Uniti ha segretamente depositato accuse contro Assange.
Aprile 2019 - La polizia metropolitana entra nell'ambasciata, con il permesso del governo ecuadoriano, e detiene Assange per "non essersi consegnato al tribunale" per un mandato emesso nel 2012.
Maggio 2019 - Assange viene condannato a 50 settimane di carcere per aver violato le condizioni della sua cauzione.
Maggio 2019 - Un gran giurì federale negli Stati Uniti incrimina Assange con 17 nuove presunte violazioni della legge sullo spionaggio, portando il totale delle accuse di reato contro di lui a 18.
Maggio 2019 - La Svezia riapre l'indagine per aggressione sessuale e gli Stati Uniti rivelano le loro accuse contro Assange. Inizia a combattere l'estradizione nei tribunali del Regno Unito.
Novembre 2019 - I procuratori svedesi chiudono l'indagine per stupro.
Gennaio 2021 - Un giudice britannico respinge la richiesta degli Stati Uniti di estradare Assange a causa dell'impatto sulla sua salute mentale. A dicembre, gli Stati Uniti vincono la loro battaglia per ribaltare la decisione.
Giugno 2022 - Il governo del Regno Unito ordina l'estradizione di Assange negli Stati Uniti, ma il suo caso continua a essere bloccato da ricorsi.
Febbraio 2024 - Gli avvocati di Assange lanciano un ultimo tentativo legale per fermare la sua estradizione presso l'Alta Corte, una delle principali autorità giudiziarie per l'Inghilterra e il Galles.
Maggio 2024 - L'Alta Corte stabilisce che Assange può presentare un nuovo ricorso contro l'estradizione negli Stati Uniti.
19 giugno 2024 - Assange firma un accordo di patteggiamento con gli Stati Uniti e l'Alta Corte gli concede la libertà su cauzione.
24 giugno 2024 - Assange viene rilasciato dalla prigione su cauzione e sale a bordo di un volo verso un territorio statunitense nel Pacifico per formalizzare l'accordo di patteggiamento.
25 giugno 2024 - Dichiarandosi formalmente colpevole di una violazione della legge sullo spionaggio, viene rilasciato e può tornare nella sua nativa Australia.
L'accordo che ha portato Julian Assange alla libertà, dopo sette anni di reclusione autoimposta e poi cinque anni di detenzione forzata, è stato preparato per mesi ma è rimasto incerto fino all'ultimo momento. Le origini dell'accordo sono probabilmente iniziate con l'elezione del nuovo governo australiano - a maggio 2022 - che ha portato al potere un'amministrazione determinata a riportare a casa uno dei suoi cittadini detenuti all'estero.
Il nuovo primo ministro laburista, Anthony Albanese, aveva dichiarato di non appoggiare tutte le azioni compiute da Assange, ma che era giunto il momento del suo rilascio. Dall’inizio del suo mandato ha reso il caso una priorità e anche in parlamento, avendo a suo favore il sostegno di diversi partiti.
A settembre 2023, una delegazione di parlamentari australiani si è recata a Washington a settembre per fare pressione direttamente sul Congresso degli Stati Uniti. Il primo ministro ha poi sollevato la questione personalmente con il presidente Joe Biden alla Casa Bianca durante una visita di stato nell’Ottobre del 2023. È stato seguito da un voto parlamentare a febbraio 2024, quando i parlamentari hanno sostenuto a grande maggioranza un appello agli Stati Uniti e al Regno Unito per permettere ad Assange di tornare in Australia.
Il 20 maggio, l'Alta Corte del Regno Unito ha dato a Julian Assange una nuova possibilità legale, stabilendo che potesse presentare un ricorso contro i tentativi di estradizione negli Stati Uniti, ricevuti per aver ottenuto e divulgato segreti militari
Assange era responsabile, secondo la legge sullo spionaggio degli Stati Uniti, di diverse accuse: 17 capi d'accusa per la pubblicazione di segreti ufficiali, ognuno con una pena massima di 10 anni di prigione, e un capo d'accusa per hacking, con una pena fino a cinque anni.
Un punto cruciale della recente sentenza è stato il dibattito sulla possibilità per Julian Assange, cittadino australiano, di invocare il Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti a difesa della libertà di espressione. Secondo Nick Vamos, esperto di diritto sull'estradizione, la sentenza avrebbe potuto consentire ad Assange di sostenere che la pubblicazione di informazioni segrete degli Stati Uniti era protetta dal Primo Emendamento - che garantisce la libertà di culto, parola e stampa, il diritto di riunirsi pacificamente e il diritto di appellarsi al governo per correggere i torti - il che avrebbe potuto prolungare la procedura legale con ulteriori ritardi e tensioni.
Tuttavia Vamos ha precisato, che il team legale di Assange avrebbe comunque riconosciuto che il Primo Emendamento non avrebbe influenzato l'accusa separata di hacking. Pertanto, anche se avessero alla fine respinto le accuse relative alla pubblicazione di materiale segreto, non ci sarebbe stata alcuna protezione contro le accuse di hacking che le accompagnavano.
Il 26 Giugno, nella documentazione giudiziaria depositata presso il tribunale distrettuale delle Isole Marianne del Nord, un territorio delle Filippine appartenente agli Stati Uniti, i procuratori americani hanno indicato che Julian Assange, 52 anni, ha accettato di dichiararsi colpevole dell'accusa di "cospirazione per ottenere e divulgare informazioni riguardanti la difesa nazionale". Con queste parole, Assange ha finalmente concluso un lungo calvario giudiziario durato 14 anni.
Per evidenziare ulteriori sfumature riguardo il dibattito sulla libertà di stampa in occidente, è doveroso confrontare il caso di Julian Assange con l’analogo caso del giornalista americano Evan Gershkovich in Russia, evidenziando le significative differenze. Arrestato nel marzo 2023 dal Servizio di sicurezza federale russo con l'accusa di spionaggio, Evan Gershkovich è un inviato speciale del Wall Street Journal ed esperto di storia russa, primo giornalista di una testata americana ad essere accusato di spionaggio in Russia dai tempi della Guerra Fredda. Il 32enne stava raccogliendo materiale per un reportage dalla Russia, ma secondo le autorità russe avrebbe raccolto informazioni sensibili per conto della Cia sul costruttore di carri armati Uralvagonzavd, uno dei principali produttori di armi del Paese.
Evan Gershkovich, da quindici mesi in prigione a Mosca, è apparso in aula mercoledì 26 giugno 2024 per l'inizio del processo a Yekaterinburg, città dove è stato arrestato. Al termine dell’udienza, il tribunale della Regione di Sverdlovsk ha annunciato che la prossima è stata fissata per il 13 agosto, sempre a porte chiuse.
Julian Assange ed Evan Gershkovich hanno entrambi affrontato gravi accuse di spionaggio in paesi stranieri, mettendo in luce importanti preoccupazioni sulla libertà di stampa e sul trattamento dei giornalisti a livello mondiale. Dal confronto dei due casi si possono evidenziare le significative differenze nel modo in cui le nazioni occidentali reagiscono a situazioni simili, rispetto ai trattamenti che i paesi non occidentali adottano internamente per reprimere il dissenso.
I funzionari russi da tempo sottolineavano l'ipocrisia delle nazioni occidentali che condannano la detenzione di Gershkovich mentre sostengono la persecuzione di Assange. Non è quindi sorprendente che l'amministrazione Biden abbia scelto di abbandonare le accuse di spionaggio avanzate da Trump poco prima delle elezioni.
Questi casi sottolineano i crescenti rischi che i giornalisti affrontano e la possibilità che la loro persecuzione venga utilizzata come strumento politico. Le detenzioni di Assange e Gershkovich hanno scatenato dibattiti internazionali sui confini del giornalismo e sulla segretezza dello stato, evidenziando la necessità di robuste protezioni per la libertà di stampa a livello globale.
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La libertà d'espressione, inclusa quella artistica, è un pilastro fondamentale della democrazia. Che la politica creda di decidere quali forme d'arte sono accettabili e quali no, non solo dimostra che questi personaggi non capiscono il mondo in cui vivono, ma che credono di avere la facoltà di limitare la società, rendendola meno libera e creativa. Molti generi musicali inizialmente considerati controversi (jazz, punk, hip-hop) si sono poi rivelati importanti contributi culturali e valvole di sfogo a quel malessere che sarebbe potuto diventare altro. Lungi da me paragonare la trap al jazz, ma anch’essa potrebbe avere un valore culturale, dando voce a vissuti e prospettive altrimenti ignorate.
Voglio aggiungere che l’approccio educativo è molto più efficace di quello repressivo. Invece di censurarli, ci si dovrebbe concentrare sull'educare i giovani al pensiero critico che, a quanto pare, manca soprattutto a qualche politico. Ciò li renderebbe più resilienti alle eventauli influenze negative.
Famiglie e scuole hanno un ruolo cruciale in questo processo educativo. La Lega dovrebbe pensare a promuovere alternative positive e opportunità per i giovani, piuttosto che semplicemente vietare ciò che l’Alta Inquisizione Padana non reputa adeguato. Considerare la musica trap causa del fenomeno delle baby gang è estremamente semplicistico. Come al solito, certi politici cercano un capro espiatorio per nascondere la loro incapacità di gestire la cosa pubblica. Il problema delle baby gang ha radici profonde in fattori socioeconomici come povertà, mancanza di opportunità, disgregazione familiare e alienazione sociale. Incolpare la musica trap per questi problemi è un trucchetto che distoglie l'attenzione dalle vere cause e dalle possibili soluzioni.
L’eurodeputato Paolo Borchia, fautore della proposta, vorrebbe «limitare la diffusione e la promozione, da parte delle case discografiche», tutto ciò nell'era di internet! Gli andrebbe spiegato che, al giorno d’oggi, è praticamente impossibile impedire l'accesso a qualsiasi forma di contenuto. I giovani troveranno sempre modi per ascoltare la musica che desiderano. Inoltre, vietare qualcosa spesso la rende più attraente, creando un "effetto frutto proibito" che ne aumenterebbe la popolarità. Quelli della Lega, paladini del cristianesimo, dovrebbero conoscere la cara vecchia storia di una certa Eva e di una certa mela.
In conclusione, oltre a consigliare il celebre film “The Boat That Rocked” diretto da Richard Curtis all’eurodeputato in questione, gli consiglio anche di recuperarsi la live fatta proprio dalla redazione giovani di Liberi Oltre sulla musica trap. La censura della musica è la solita soluzione semplice a problemi complessi che non affronta le vere cause di ciò che si dice di voler combattere. Invece di reprimere le espressioni artistiche, sarebbe gradito che i politici si concentrassero nel cercare di dare un futuro ai giovani, soprattutto dando loro voce e non imbavagliandoli.
Definire il Peronismo, ancora peggio categorizzarlo, risulta alquanto arduo. Composto da un insieme di elementi richiamanti in parte il fascismo, per alcuni aspetti il socialismo, per altri ancora il nazionalismo romantico, questo movimento emerge in un contesto di militarismo nel bel mezzo degli anni ‘40.
Juan Domingo Perón, ex militare e ministro del Lavoro, acquisisce il potere attraverso un colpo di stato nel 1943. Nonostante un ingresso in scena tutt’altro che ortodosso, Perón riuscirà rapidamente ad ingraziarsi diversi movimenti di massa in forza della sua popolarità nel favorire e difendere i diritti e le condizioni di vita delle classi lavoratrici.
Il suo carisma e la sua capacità di connettersi con le masse di lavoratori furono fondamentali nel promuovere e porre le basi per un movimento che, oltre e a vincere direttamente le elezioni con l’omonimo leader al potere nel 1946, 1951 e 1973, caratterizzeranno le sorti di uno sciagurato “bordello” chiamato Argentina.
Ed è probabilmente quanto citato nell’introduzione che racchiude al meglio quello che è stato e che tuttora rappresenta per l’Argentina il Peronismo. Un’ideologia capace di adattarsi ed evolversi. Ai tempi della prima rivoluzione peronista fondata e radicata sul mito e sugli ottimismi di una ricchezza inesplorata. In seguito, con l’erosione della prosperità stessa, parte ruggente delle lotte socio-economiche. Tutto e niente.
Vi sono però svariati elementi che rendono inevitabile associare questo movimento ad una forma di populismo:
Dopo la morte di Perón nel 1974 il Peronismo continua ad esistere e, come in seguito vedremo, ha assunto spesso la veste di governo, a volte dell’opposizione. Senza mai ledere la sua matrice populista.
La moglie Isabel Perón lo sussegue brevemente prima di essere rovesciata dal colpo di stato delle Forze Armate argentine nella notte del 24 Marzo 1976. Passando per Menem e, più avanti, per Néstor Kirchner e sua moglie Cristina Fernandez (questi ultimi seppero rivitalizzare a pieno l’elemento di giustizia sociale tanto caro alla versione originale di Juan Domingo Perón), il Peronismo rimane una bestia strana, estremamente adattabile e mutevole. Parte pulsante della politica argentina. Affascinante specchietto per le allodole dei movimenti di massa.
Metafora di una forma di governo sempre più attuale, terrena e meno “iconica”.
Eletto nel 1946, Perón fonda le radici della sua Argentina su tre pilastri: giustizia sociale, sovranità economica e indipendenza politica.
L’avvicendarsi di politiche economiche messe in piedi dal leader originario di Lobos era di matrice decisamente interventista. La radice autarchica sorgeva invece principalmente dal suo desiderio di isolare le dipendenze argentine dall’estero. In particolare da Europa e Stati Uniti. La sovranità economica era il suo mantra. Attraverso la nazionalizzazione di segmenti strategici e il perpetuo investimento nella costruzione di infrastrutture passava l’arteria del suo credo personalistico.
Le politiche che implementa una volta al potere mirano inoltre, e soprattutto dal punto di vista ideologico, a rinvigorire il rapporto con la classe lavoratrice e a consolidare le fondamenta del suo sostegno elettorale attraverso istituzioni sociali quali i sindacati. Questi ultimi diventeranno spalla primaria della sceneggiatura politica ed economica Peronista
Tra il 1946 e il 1948 il governo dà il via a significativi aumenti salariali tramite il sussidio di crediti. Questa manovra comporta l’aumento dei salari reali senza una corrispondente crescita dei prezzi. La reazione a questo tipo di politiche a sostegno dei consumi è un’espansione netta della domanda che, in primis, gonfia rapidamente lo sviluppo del settore secondario e che, a seguito dell’aumento della spesa e della massa monetaria, crea forti rialzi inflazionistici e di deficit fiscale.
Tra le misure vennero inoltre introdotti una serie di programmi e di riforme sociali volte a migliorare le condizioni di lavoro, pensioni e assicurazioni sociali. Perón portò sotto il mantello statale industrie cardine quali le ferrovie (di proprietà britannica fino a quel momento) e il controllo di beni e risorse strategiche come il petrolio attraverso l’ente YPF (Yacimientos Petrolíferos Fiscales).
Inizialmente efficace, grazie ad un boom di domanda domestica e all’allargamento dei settori industriali chiave, questo modello di sviluppo mostrò ben presto tutte le sue fragilità strutturali. L’intenzione era quella di rendere l’Argentina autonoma e autosufficiente, svincolata da qualsiasi pressione straniera; il deficit fiscale e la repentina creazione di moneta causarono ben presto risultati differenti.
Nel 1949 un drastico calo di export agricoli e riserve valutarie segna l’inizio di una crisi. Il governo sostituisce il ministro dell’economia con un nuovo assetto più conservatore. Dalla serie di politiche adottate e la continua immissione di flussi di sussidi ai lavoratori, emerge la netta sensazione che non vi sia alcuna strategia di lungo termine per lo sviluppo sostenibile del Paese.
La bassa capacità di risparmio interno e la fragilità del settore privato, l’eccessiva dipendenza dalla spesa pubblica e dal deficit fiscale. Questi elementi crearono un ciclo di instabilità che da un lato, il governo di Perón faticò a controllare, ma che, grazie al perpetuo ricorso a politiche sociali, non sembrò ledere il sostegno popolare.
Negli anni a seguire, il governo peronista provò a stabilizzare l’economia attraverso meccanismi di austerity e l’incentivazione all’investimento estero. Nonostante ciò persistette la matrice strutturale del declino argentino e le manovre adottate da Perón non fecero altro che rallentare la crescita economica e aumentare la disoccupazione. Il solco tra il settore privato e lo stato limitò la potenziale efficacia di qualsiasi tipo di politica di sviluppo economico.
Nonostante i tentativi di stabilizzazione, l'economia argentina continuava a soffrire di problemi strutturali, tra cui una bassa produttività agricola e industriale e una crescente dipendenza dalle importazioni.
Durante questo periodo di tensioni il rapporto tra l’Argentina di Perón e le istituzioni economiche internazionali (prima fra tutte il Fondo Monetario Internazionale, IMF) si incagliò sempre di più. Questo stato di allerta divenne intrinseco ad una più ampia polarizzazione interna tra le forze conservatrici e progressiste del Paese e culminò in una serie di tumulti sociali e politici, nonché di scioperi e di repressioni.
Sin dagli inizi il Peronismo si basò su pilastri autoritari. Alcuni più velati, altri meno.
Primo fra tutti fu la centralizzazione completa del potere nelle mani del vertice rappresentato da Juan Domingo Perón. L’autonomia delle altre istituzioni statali, tra cui il Parlamento, venne drasticamente lesa.
I media furono totalmente ribaltati a favore della propaganda politica, nonché personalistica, del presidente. Oltre all’acquisizione dei vari mezzi di comunicazione, il governo censurò l’opposizione mediatica e limitò la stampa talvolta attraverso persecuzioni e intimidazioni. I dissidenti dei media non furono gli unici ad essere messi al bando. Gli antagonisti politici vennero duramente repressi. Tra questi anche sindacati non allineati alle linee peroniste, furono sottoposti ad arresti, violenze e persecuzioni.
]]>Fonte principale dei dati è costituita dal rapporto dell’ONU del 2023 in riferimento alla situazione del 2022. Le immagini eccetto l'ultima sono state invece estratte dal più recente rapporto della medesima agenzia.
L'ultima è invece ottenuta da un articolo dell'università di Tel Aviv, in cui analizza come l'aumento del numero di lavoratori palestinesi dentro Israele, potesse aiutare la loro sicurezza nazionale o meno. L'articolo è utile perché mette a disposizione un grafico in cui si analizzano le migrazioni dentro israele nel tempo, in rapporto alla loro disoccupazione
Dei tanti possibili casi di cherry picking, oggi prendiamo qui in considerazione il caso di Marco Fortis, economista attualmente direttore e vicepresidente della Fondazione Edison, che da almeno un decennio decanta le bellezze dell’economia italiana ricorrendo proprio al cherry picking.
Come agisce nel suo caso? Egli non fa altro che prendere un certo dato positivo, uno specifico periodo temporale e decontestualizzandolo completamente, lo usa per dire che l’Italia va meglio degli altri Paesi quando i dati dicono tutt’altro. Facciamo un paio di esempi.
Leggendo alcuni commenti all’ultimo rapporto consegnato al Governo in vista del G7, viene fatta la seguente affermazione [1]:
L’Italia nel periodo 2020-2023 ha fatto registrare una crescita del Pil pro-capite del 4,9% rispetto al 2019. Solo gli USA hanno fatto meglio (5,5%). Nel biennio 2021-2022 la crescita è stata poderosa e anche nel 2023 il Pil ha avuto un incremento, dello 0,9%. Gli anni di crescita flebile, quelli in cui spesso leggevamo “zero virgola”, fanno riferimento alla fascia 2004-2013, la più negativa, in cui consumi privati e investimenti sono crollati, totalizzando nel decennio una crescita negativa del -0,8%.
Ma vi è davvero questa crescita poderosa?
Andando a controllare i dati uno potrebbe dire che per il periodo considerato il dato é corretto, ma sarebbe altrettanto corretto, per non dire tassativamente necessario, far vedere che la crescita del PIL invece non segue la stessa dinamica.
]]>Inventata a Roma nel 1934 per unire in una colonia sola le tre storiche regioni conquistate e riconquistate della Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, la Libia è sopravvissuta a una guerra mondiale, alla decolonizzazione e a 42 anni di dittatura gheddafiana. Abbattuto il tiranno, dal 2011 sono tornate a prevalere le divisioni regionali, tribali ed etniche.
Per dare al Paese una nuova costituzione fu eletto nel 2012 il Consiglio Nazionale Generale(GNC) che, controllato da partiti islamisti, fallì nel suo obiettivo e votò nel dicembre 2013 l’applicazione di una forma della Sharia. Fu allora che Khalifa Haftar (generale gheddafiano catturato nel 1987 in Ciad, vissuto fino al 2011 in Virginia da oppositore del regime) uscì allo scoperto esigendo la dissoluzione del GNC sotto la minaccia di un colpo di stato. Il 16 maggio 2014, al lancio della sua Operazione Dignità contro milizie islamiste e islam politico, ebbe inizio la seconda guerra civile libica.
Da allora coesistono due governi che non si riconoscono reciprocamente: sotto la protezione di Haftar si riunisce a Tobruch la Camera dei rappresentanti, che esprime il Governo di Stabilità Nazionale, con autorità sull’oriente libico e gran parte della Libia centrale e meridionale; a Tripoli l'attuale Governo di Unità Nazionale(GNU) guidato da Dbeibeh è succeduto nel 2021 al Governo di Accordo Nazionale (GNA) presieduto da Fayez al-Sarraj. Dal 2016 il governo di Tripoli è riconosciuto dall'ONU e sostenuto oltre che dalla Fratellanza musulmana da USA e UE, con l'importante eccezione della Francia, che ha sempre appoggiato militarmente e politicamente Haftar. Al sostegno di Egitto, Emirati, Arabia Saudita e Francia per il signore della guerra cirenaico si è aggiunto a fine 2016 quello fondamentale della Russia, che dopo il successo dell'intervento nella guerra civile siriana ha visto nella seconda guerra civile libica l'opportunità di guadagnare facilmente influenza anche sulla sponda sud del Mediterraneo.
Aiutato molto più timidamente dai propri alleati, il governo legittimo di Tripoli si è trovato a lungo in una posizione di debolezza sul campo, fino a quando nel dicembre 2019, ormai assediato dalle milizie di Haftar nei sobborghi della capitale, il decisivo intervento di Erdogan lo ha salvato e ha consolidato il suo controllo sulla Tripolitania. A causa della disastrosa politica libica dei governi Conte, culminata con il rifiuto opposto alla richiesta di aiuto di Sarraj attaccato, l’Italia e l’UE hanno ormai perso buona parte dell’influenza sulla situazione libica e della speranza di riunificare e stabilizzare un paese tanto importante per la sicurezza comune. Russia e Turchia, ben soddisfatte di aver ottenuto tanto con uno sforzo minimo, non hanno ormai alcun interesse a favorire complicati processi e state-building in un paese tragicamente frammentato lungo molteplici faglie preesistenti e senza un reale monopolio della forza.
]]>Nelle linee guida dello Spazio Europeo per l’Istruzione, iniziativa che aiuta gli Stati membri dell'Unione europea a collaborare per costruire sistemi di istruzione e formazione più resilienti ed inclusivi, istruzione inclusiva, uguaglianza, equità e non discriminazione rappresentano ambiti prioritari per la collaborazione a livello europeo, nonchè le basi per una cittadinanza attiva. Questa iniziativa sottolinea il valore dell’inclusività e della scuola di buona qualità sin dall'infanzia poiché getta le basi per la coesione sociale, la mobilità sociale e una società equa. Nell'ambito dei diritti sociali europei inclusione non significa inserimento o accettazione, bensì è un concetto molto più profondo e radicato nel cosmo di culture che domina il continente: la diversità è fonte di arricchimento. Notare che non è ricchezza del singolo, ma del gruppo, l'attenzione viene spostata a livello pedagogico e psicologico sul gruppo classe. Avere a che fare con la diversità significa diventare cittadini migliori, cittadini europei che coltivano un certo tipo di intelligenza, quella sociale ed emotiva. Si sottolinea di fatto che non esiste un’unica intelligenza, solitamente considerata quella logico-matematica, aprendo la strada alla diversità anche nel campo delle capacità intellettive che possono spaziare da quelle appena elencate, all’intelligenza verbale, spaziale, corporea o naturalistica. La visione europea di inclusione abbatte le barriere sociali per creare un sistema scolastico sinergico dove ogni diversità va capita ed elaborata. Ad esempio la presenza di alunni discalculici in classe può portare ad un miglioramento nella fruizione della lezione che accolga allo stesso tempo i bisogni specifici degli studenti. Tramite l’utilizzo di colori per ogni step matematico e spiegazioni più dettagliate dei passaggi per risolvere un problema la materia risulta più comprensibile per tutta la classe.
La normativa però non fa i conti con la realtà. Mentre la legge è andata avanti sostituendo i programmi con le Indicazioni Ministeriali promuovendo metodologie personalizzate per l’apprendimento, il docente di scuola professionale si trova senza nessuna formazione specifica per la gestione di gruppi di ragazzi con concentrazione altissima di fragilità e bisogni specifici. Il risultato è una caduta a cascata dal liceo all’istituto tecnico o professionale, considerato dalle famiglie e dagli studenti come l’ultimo stadio della discesa nell’inferno dell’incompetenza. Inoltre, arrivati al capolinea dell’istruzione italiana, le classi sono sommerse da situazioni problematiche che rendono difficile la didattica e portano ad un aumento della probabilità di non arrivare ad un diploma superiore. Nel 2020/2021 ogni 100 alunni troviamo 5 alunni con cittadinanza non italiana nei licei, 10 negli istituti tecnici, 13 nei professionali quinquennali e 28 nei professionali triennali, in aggiunta immigrati di seconda generazione tendono ad avere come prima scelta l’istituto tecnico seguito dal liceo, quando per i non nati in Italia il secondo posto spetta ai professionali. Nello stesso periodo la percentuale di alunni con disabilità, comprendente disabilità visiva, uditiva, motoria, intellettiva, disturbi dell’attenzione e stranieri con disabilità è del 1.4% per i licei, 2.7% nei tecnici e 7.7% nei professionali (con maggior concentrazione di disabilità cognitiva) sul totale dei frequentanti.
La legislazione si basa sul concetto per cui l’inclusione comporti una modifica dell'istituzione affinché arrivi efficacemente al gruppo. Crea un quadro di élite per quanto riguarda l’inclusione sociale, costruisce percorsi personalizzati, gestisce ogni tipo di difficoltà dando carta bianca ai singoli docenti. Il metodo di insegnamento ad oggi propone di entrare in classe, osservare il gruppo classe e capirne le dinamiche, sottoporre dei test d’ingresso per determinare il livello disciplinare ed infine costruire un programma ad hoc scegliendo la metodologia didattica più efficace per quel determinato gruppo di studenti. La realtà del tessuto scolastico di contro è diversa, più difficile da gestire, soprattutto senza competenze necessarie, e la situazione si aggrava in quei contesti sia sociali che abitativi che vedono gli istituti professionali come il punto di arrivo di una caduta classista e vertiginosa. Questo sistema porta all’esasperazione di docenti, famiglie e studenti che si vedono catapultati in un ambiente ostico, catalogato socialmente come infimo, relegato ai margini della cittadinanza, da cui vogliono solo scappare ed andare a lavorare il più in fretta possibile perché non vedono l’utilità di un percorso di studi del genere e degenere.
L’Italia è stata storicamente un esempio positivo dal punto di vista progettuale dell’inclusione in quanto il 100% degli studenti con BES è inserito nell’istruzione ordinaria seguendo il processo iniziato nel 1977 con l’abolizione delle classi differenziate che stabilì il principio del valore della diversità per tutti gli studenti senza alcuna distinzione. Negli ultimi decenni però abbiamo rallentato il passo, o messo la retromarcia, dipende dai punti di vista. Le parole del ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara se da una parte ammettono che il problema dell’inclusione esista, fanno intendere come il modo migliore per combattere la penalizzazione degli studenti BES stranieri sia quello di costituire classi di “potenziamento” separate per italiano e matematica o punire coloro che, genitori e studenti, non riescano ad adattarsi a questo sistema imperfetto. Un quadro che si spaccia per il più inclusivo d’Europa oltre che perdere di credibilità, rende inutile il discorso sulle diverse intelligenze alimentando il già ingente divario sociale tra alunni, costretti ad un futuro legato a ciò che non possono controllare. Per uno studente la ricchezza familiare, il titolo di studio dei genitori, la classe sociale e la provenienza sono le uniche determinanti di “scelta” se manca inclusione.
Come si suol dire “dal dire al fare c’è di mezzo il mare”. Mentre sappiamo bene che il mare è fatto di acqua, è difficile capire di cosa sia fatto ciò che impantana l’Italia in questo arcaico status quo. Quali sono le motivazioni per cui il Paese non riesce a raggiungere gli standard europei di diritti sociali e non costruisce un sistema scuola uguale per tutti fino ai 16-17 anni che formi i cittadini del futuro senza umiliazioni o vendette classiste?
Il sistema scolastico è ostruito dai sindacati. Dopo la crisi economica la scuola è diventata il posto per l’occupazione di chi non aveva altro da fare, specialmente in istituti tecnici e professionali, difeso da un corpo sindacale che aborre il cambiamento. Un ingegnere o una matematica possono essere competenti e preparati nell’ambito di studio, ma questo non determina direttamente che siano anche competenti come insegnanti o che sappiano gestire classi di 30 alunni tra cui non mancano situazioni al limite. Una selezione che si basa solamente sugli anni di studio della materia e non sulle competenze psico-pedagogiche crea un ambiente scolastico in cui la lezione diventa infattibile ed in alcuni casi porta i docenti all’esasperazione. Per questo la riforma Bianchi del 2023 delinea, oltre ai 60 CFU per l’abilitazione all’insegnamento in percorsi universitari di tipo pedagogico, un periodo di lavoro sul campo. Questo è utile per il docente che vuole scegliere la carriera, ma se non viene attentamente valutato è inutile dal punto di vista degli studenti che vedono l’ennesimo cercatore di posto fisso e non possono agire per cambiare la situazione. A costo di difendere lo status quo un sindacato così ottuso demolisce le possibilità future degli alunni e sminuisce il ruolo del professore ad un livello tale che questo venga considerato come un lavoro di ripiego, mentre è la professione che plasma le generazioni.
Se si provasse a cambiare il sistema e ci si spostasse verso un modello di “scuola unica” i docenti non insegnerebbero più alle medie o alle superiori, al liceo o al professionale. Una certa categoria di professori si sentirebbe declassata ed umiliata forse tanto quanto un loro studente bocciato ad insegnare nel nuovo modello di istruzione alla pari. L’impressione è che il riformismo sia spazzato via da un’opposizione di tipo sindacale silenziosa e occulta ma forte, contraria alla degradazione sociale dei professori figlia di un conservatorismo automatico ormai interiorizzato e completamente irriflessivo che difende a spada tratta la struttura scolastica.
Anche se il sistema scolastico non accetta il cambiamento e ne rifugge, la scuola è già completamente diversa rispetto a quella del passato. I professori non sono più gli unici detentori del sapere, l’informazione è di dominio pubblico e chiunque con un cellulare in mano può apprendere con una velocità e facilità trent’anni fa inconcepibile. Il lavoro di per sé deve fare i conti con una “concorrenza” spietata, quella delle piattaforme di informazione, dei social, delle pagine web, dei video su Youtube e altro ancora. Eppure il modo con cui si fa lezione è lo stesso di prima della venuta di internet, non fa i conti con un mondo iper stimolante in cui concentrarsi è diventato complicato e non cerca metodologie alternative per far fronte a questo problema. In aggiunta è ormai appassita la motivazione estrinseca che spingeva gli studenti ad impegnarsi nello studio. Le posizioni apicali nella società non sono più garantite dall’impegno scolastico, ma sono il risultato di conoscenze interpersonali, specialmente in Italia, e competenze apprese all’esterno del sistema scuola. Invece di cercare una soluzione al generale sentimento di scoraggiamento che permea il destino degli studenti italiani, il sistema scolastico chiude occhi, orecchie e anche la porta in faccia ai problemi del Paese come se non esistessero.
Le condizioni salariali per i giovani di oggi sono peggiori rispetto a quelle di quasi quarant’anni fa. Dal 1985 al 2019, la probabilità che i lavoratori più giovani si trovassero nel quartile più alto della distribuzione dei salari è diminuita del 34%, mentre la stessa probabilità per i lavoratori più anziani è aumentata del 16%. Inoltre, la probabilità che i lavoratori più giovani ricoprano posizioni manageriali è diminuita di due terzi. Ad appesantire il tendenziale ristagno o diminuzione dei salari generali italiani, nel 1985 il salario annuo mediano di un lavoratore con più di 55 anni di età era più alto del 15% rispetto a quello di un lavoratore con meno di 35 anni di età. Nel 2019 questo divario era superiore al 30%. Non solo i salari non crescono, ma i divari aumentano mentre i lavoratori anziani godono di carriere più di successo, e quelli giovani si impoveriscono. Le cause di questo problema sociale ed intergenerazionale non sono oscure o inconcepibili, ma conosciute e volontariamente ignorate. Dalla relazione annuale INPS sulle disuguaglianze salariali veniamo a conoscenza che l'allargamento del divario salariale per età è associato a un rallentamento delle carriere dei lavoratori più giovani, mentre quelle dei lavoratori più anziani sono migliorate. Inoltre la crescente inabilità delle imprese di aggiungere posizioni apicali alle loro organizzazioni, a causa di bassa produttività aziendale e aumento dell'età pensionabile, ha generato ricadute negative sulle carriere dei lavoratori più giovani. I lavoratori più anziani hanno esteso le loro carriere occupando le posizioni apicali più a lungo ed impedendo ai lavoratori più giovani di raggiungere le posizioni meglio retribuite.
]]>Che siano i social network o i talk show televisivi, sempre di più si assiste a dei veri e propri incontri, seppur virtuali, senza esclusione di colpi, in cui gli attori chiamati in causa cercano di sovrastare l’avversario con ogni mezzo, insulti personali compresi.
Con l’obiettivo di convincere che la propria tesi è quella corretta, attraverso un (iniziale) dibattito fatto di toni crescenti, si finisce per allontanarsi completamente dalla questione centrale azzerando totalmente il dibattito pubblico.
Il risultato può essere di due tipologie opposte tra loro: continuare a scontrarsi a oltranza, con gli utenti che si schierano da una delle parti e attizzano il fuoco del dibattito, oppure ignorare chi cerca di alimentare col rischio, però, che questo porti ad un allontanamento degli individui da temi particolarmente delicati o importanti, come attualità, cultura, politica.
“Polarizzare” proviene dal francese polariser, derivazione di pole, ovvero “polo”, inteso come “ciascuno dei due punti estremi e simmetrici” e, in senso figurato, fa riferimento al voler orientare verso una determinata direzione.
Dalla definizione del termine polarizzare, dunque, è possibile affermare che l’estrema polarizzazione del dibattito rappresenta quel processo a cui assistiamo sempre più di frequente e vede il pubblico spingersi verso una determinata direzione ideologica ignorando totalmente qualunque altra visione.
Questo fenomeno non rappresenta di certo una novità e, come molti fenomeni, viene approfondito per la prima volta negli Stati Uniti, Paese in cui “ha una tradizione di studio che affonda le sue radici già nel secolo scorso e che acquisisce particolare visibilità con le contestate elezioni presidenziali del 2000, quando i media iniziarono a far circolare una descrizione dell’elettorato come profondamente e irrevocabilmente diviso [Fiorina, Abrams e Pope 2005]”.
Si tratta di un fenomeno che ha da sempre avuto un certo rilievo in Europa come anche in Italia e, col tempo, ha assunto una sempre maggiore importanza e si è evoluto, allargandosi dalla politica a qualsiasi altra materia.
Infatti, se inizialmente si era abituati ad assistere a dibattiti esclusivamente di tipo politico nei talk show televisivi, oggi questo fenomeno si è allargato a macchia d’olio toccando ogni ambito e proprio per questo, può essere messo in atto non più soltanto dai politici, ma da qualsiasi altro soggetto che abbia una minima risonanza mediatica come, ad esempio, gli influencer.
Come detto in premessa, la polarizzazione del dibattito è divenuta, ormai, un evento frequente e quotidiano ed è possibile assistervi in tutti quei luoghi in cui si svolge il dibattito pubblico, prevalentemente i talk show televisivi e i social network.
Si può assistere a dibattiti che, il più delle volte, avvengono in maniera feroce, cattiva e cruenta e senza nessuna possibilità di trovare un punto in comune, neppure uno spiraglio che apra le porte al dialogo.
Nessun dialogo e nessun punto in comune e, dunque, un totale azzeramento di quello che è il dibattito pubblico. Infatti, come sostengono i filosofi Maura Gancitano e Andrea Colamedici, non esiste alcun terreno in questo luogo di dibattito pubblico virtuale, perché c’è chi si schiera da una parte e chi dall’altra e “le alternative sembrano essere due: continuare a scontrarsi a oltranza, oppure ignorarsi e rimanere nella propria visione del mondo”
Partendo dal presupposto che, con buona probabilità, sia in un caso che nell’altro si rimane saldamente ancorati alla propria visione del mondo (in questi casi spesse volte limitata), il problema di base è che, mentre gli utenti finali possono scegliere la seconda opzione, ovvero ignorarsi, i personaggi pubblici, siano essi politici o influencer, hanno spesso un’unica strada possibile affinché possano continuare a mantenere alto il proprio hype: scontrarsi a oltranza.
Perché soltanto con lo scontro, soltanto con le urla è possibile rimanere al centro dell’attenzione e confermare il famoso aforisma di Oscar Wilde “non importa che se ne parli bene o male. L’importante è che se ne parli”, che fece pronunciare al suo Dorian Gray.
E se si continua a parlarne, l’attenzione mediatica rimane alta e dunque si raggiunge l’obiettivo prefissato che, nel caso dei social, è ottenere il maggior numero di follower e di visualizzazioni e interazioni.
Assistendo ai vari dibattiti, è subito evidente che ormai ci si è divisi in squadre, una contro l’altra. Da un lato chi è a favore della scienza e dei vaccini, dall’altro i no vax; da un lato chi sostiene la Russia di Putin e la sua causa e chi invece sta dalla parte dell’Ucraina; in una squadra chi è pro Israele e nell’altra chi è pro Palestina.
Non che questo non sia sempre successo, perché ognuno ha la propria visione e le proprie idee e, consciamente o inconsciamente, cerca di convincere l’interlocutore che la sua tesi è quella corretta ma, da diverso tempo, da polarizzazione del dibattito si è passati a una polarizzazione del dibattito decisamente estrema.
]]>La Politica Agricola Comune (PAC) è una politica dell'Unione Europea che sostiene gli agricoltori, garantisce la sicurezza alimentare e promuove lo sviluppo rurale. All’interno della PAC sono stati inseriti i cosiddetti eco-schemi, strumenti che incentivano pratiche agricole sostenibili e rispettose dell'ambiente, premiando gli agricoltori per l'adozione di tecniche ecologiche: schemi che mirano a migliorare la biodiversità, la qualità del suolo e dell'acqua, e a mitigare il cambiamento climatico. La zootecnia è argomento preminente all’interno dei nuovi eco-schemi della PAC 2023-2027: l'eco-schema 1, chiamato "Pagamento per la riduzione dell'antibiotico resistenza e per il benessere animale", è ad esempio dedicato interamente alla zootecnia e ha un budget di 376,4 milioni di euro all'anno, pari al 42,4% del totale stanziato per gli eco-schemi.
L'eco-schema 1 si applica a livello nazionale e prevede due livelli di impegno:
- Livello 1: richiede il rispetto di limiti nell'uso di antibiotici veterinari.
- Livello 2: richiede il rispetto di specifici obblighi per il benessere animale, aderendo al Sistema di Qualità Nazionale per il Benessere Animale (SQVNBA).
I due livelli non possono essere combinati, poiché aderire al SQVNBA (necessario per il livello 2) include già l'impegno a ridurre gli antibiotici come previsto dal livello 1. Gli allevatori, pertanto, possono scegliere di aderire a uno dei due livelli per ciascun allevamento, specie animale, orientamento produttivo o gruppi di animali, distinguendo correttamente gli animali che determinano le Unità di Bestiame Adulto (UBA), premiabili nel Livello 1, da quelli del Livello 2.
Il tema della riduzione dell'antibiotico resistenza (AMR) e del migliorare il benessere e salute degli animali sarà approfondito più avanti all’interno di questo articolo.
Appurati gli obiettivi che la PAC si è posta relativi agli allevamenti, porre il focus (in questo caso) solo sulla PAC e l’Unione Europea sembra un corto-circuito, in quanto i finanziamenti servono a migliorare le condizioni di salute e di benessere degli animali.
OGM: una retorica che già conosciamo
Il documentario accenna agli OGM senza fare distinzione nella sua adozione tra il mondo animale e quello vegetale: un chiaro punto debole è costituito dal fatto che la giornalista non spieghi cosa siano gli OGM né perché li definisca (peraltro erroneamente) tali. La definizione corretta di OGM è "organismi non umani modificati attraverso l'ingegneria genetica", ovvero l'insieme di tecniche atte ad inserire, togliere o modificare porzioni di DNA, il materiale genetico presente in tutte le cellule degli organismi viventi.
In particolare, la retorica sugli OGM vegetali e sulle conseguenze che ha portato in Europa è oramai appannaggio di tutta la comunità scientifica e no.
]]>Il partito metteva sul piatto del dibattito pubblico tematiche che diventeranno ricorrenti per questa tipologia di partiti, ovvero l’antiparlamentarismo, la difesa dei piccoli contro i potenti, la corruzione dei politici e dell’élite in generale. Il partito riuscì a far eleggere 52 deputati nel 1956 per poi sparire definitivamente due anni dopo.
Bisogna passare agli anni '80 per notare un ritorno e una fioritura in tutta europa di partiti populisti come la Liga Veneta e il Front National di Jean-Marie Le Pen (ex deputata del movimento di Poujade).
Parallelamente sul fronte dell’astensionismo si nota una crescita generale in tutta Europa, nello stesso periodo, infatti negli anni sessanta più dell’85% degli europei partecipava alle elezioni. Negli anni novanta, questa cifra era inferiore al 79% [1]. Prima di continuare però è utile delineare meglio che cosa si intende con astensionismo e populismo poiché rimangono concetti difficili da inquadrare.
Istintivamente, definire il concetto di astensionismo risulta facile: tendenzialmente si ritiene che con questo termine si intenda, genericamente, l’astenersi dal prendere parte alla vita pubblica, alle elezioni o ad altre forme di partecipazione democratica.
Naturalmente, questo è vero, ma purtroppo semplifica non poco la realtà perché non distingue le varie forme di astensionismo. In altri termini, chi si astiene lo fa per diversi motivi infatti si possono trovare persone che non partecipano poiché completamente disinteressate alla politica, esiste anche chi è indeciso ma non disinteressato oppure chi è disilluso, altri ancora che usano l’astensionismo come una vera e propria protesta politica, esprimendo un dissenso totale nei confronti del sistema.
Essenzialmente, il concetto di astensionismo assume sfumature diverse in base alle motivazioni che portano a non partecipare. Guardando solamente il numero di persone che si astiene, sfugge un pezzo di realtà; basti pensare che, se da una parte l’astensionismo è un fenomeno sempre più evidente, dall’altra parte invece si nota che il Terzo Settore è in costante crescita.
Per esempio, in Italia si registra una crescita delle istituzioni attive dal 2001 al 2021 (ultimi dati disponibili) del 53,3%, insieme a un aumento dei dipendenti dell’83%. Le persone effettivamente non hanno perso il senso di dovere civico verso la società, ma piuttosto si può riscontrare un un processo di trasformazione nel modo in cui, le persone, intendono la partecipazione stessa, più distante dalle istituzioni e più vicina ad enti apolitici.
Naturalmente, il dato dell’astensionismo dipende anche da altri fattori; infatti, si può riscontrare come le persone più anziane siano quelle che più facilmente non vanno alle urne per via di impedimenti di natura fisica. Anche in base al reddito si può riscontrare una correlazione: più benestanti si è, più si tende a votare.
In sintesi, l’astensionismo è collegato a più fattori, ma l’effetto che ha sulle democrazie non cambia, ponendo dei seri problemi di rappresentanza e legittimità da parte del sistema istituzionale. Per esempio una rappresentanza politica distorta dalle poche persone che partecipano alle elezioni può portare a un dominio delle minoranze attive e allo stesso tempo può creare anche problemi di disparità di potere soprattutto per i gruppi sociali più svantaggiati che tendono ad astenersi in misura maggiore.
I movimenti populisti intercettano questo deficit di rappresentanza e legittimità collegato all’astensionismo e cercano di porvi rimedio attraverso essenzialmente la figura del proprio leader, una persona dotata di quel dono divino che Weber individua nel carisma, grazie al quale si fa portavoce del popolo e del senso comune. [2]
Al contrario dei suoi omologhi, afferma di essere vicino all’uomo e alla donna di strada. Attraverso una narrazione di questo tipo vogliono infondere più rappresentanza nel sistema, cercando di portare le istanze dell’uomo comune alle istituzioni. Una modalità di fare politica che ha portato alla crescita di molti partiti in tutto il panorama europeo.
L’Italia è ovviamente l’esempio più lampante dell’ ascesa di questa tipologia di partiti, ma nonostante ciò l’astensionismo non diminuisce. Il fallimento sotto questo punto di vista è dovuto a vari fattori, tra i quali è importante sottolinearne due.
Il fatto di portare avanti una retorica del senso comune raffigurando il popolo come un’unità compatta sostanzialmente non si regge in piedi. Non esiste un popolo monolitico, anzi ogni società si compone di diversi elementi e diverse voci. In questo senso, i populisti sono degli imprenditori politici che si danno da fare per conquistare la più grossa fetta di mercato possibile, servendosi, se necessario, di un po’ di kitsch romantico.[1]
L’altro elemento importante da sottolineare è il fatto che questi partiti non combattono il senso di reificazione che una parte sempre più importante della popolazione prova nei confronti delle istituzioni. Con reificazione si intende quella particolare tendenza umana a percepire i propri prodotti come qualcosa di diverso, come se fossero dei fatti di natura o risultati di leggi universali. Ciò implica che l’uomo è capace di dimenticare di essere lui stesso autore del mondo umano e ne fa esperienza come una strana fattualità. [3]
Le istituzioni appaiono quindi lontane e immutabili; i populisti cercano di avvicinarle, ma principalmente per ottenere voti e potere. In questo senso, il Terzo Settore, insieme ad altri strumenti politici come i referendum, agiscono secondo una logica diversa, attivando il cittadino attorno a tematiche, coinvolgendolo e quindi combattendo, più o meno indirettamente, il senso di reificazione. Basti pensare alla raccolta firme dell’Associazione Luca Coscioni dell’estate 2021, che è riuscita a raccogliere quasi 1,5 milioni di firme per due referendum: cannabis legale e eutanasia legale.
Dimostrando come la società civile non sia disinteressata alla cosa pubblica ma che nutra una diffidenza e un disinteresse verso la classe politica.
In sintesi, l’astensionismo e il populismo si intrecciano creando una relazione ambigua che ha visto, dagli anni '80 in poi, una crescita costante di questi due fenomeni.
Entrambi probabilmente sono sintomi di una malattia più grande, cioè quella di una generale mancanza di legittimità, fiducia e interesse verso le nostre istituzioni che potrebbe generare un circolo vizioso piuttosto difficile da controllare.
L’astensionismo crescente potrebbe alimentare le distorsioni politiche e rappresentative favorendo l’ emergere di partiti populisti che cercano di ottenere consensi senza risolvere, però, il problema della reificazione minando ulteriormente la credibilità del sistema e alimentando questo processo perverso.
In questo contesto si possono evidenziare alcuni elementi utili per fermare questo declino che potrebbero nascere dall’ interazione fra gli enti del Terzo Settore e la società civile attraverso opere di dereificazione cioè cercando di rendere direttamente partecipe il cittadino alla cosa pubblica.
]]>Nel 2010 la Grecia è al collasso. Violente proteste invadono le strade del paese, mentre la disoccupazione raggiunge livelli record. Queste immagini riportano un paese vittima di politiche sconsiderate portate avanti per decenni. La Grecia divenne per anni la pecora nera d’Europa, adesso però, la situazione è cambiata: la Grecia è riuscita a riprendersi dal grande periodo di crisi che ha attraversato. Al giorno d’oggi è diventata un paese modello, superando persino l'Italia: lo spread greco, infatti, è più basso del nostro.
]]>Che cos'è il PIL e come è formato?
Il Prodotto Interno Lordo di un Paese è innanzitutto un indicatore; misura il livello di produzione aggregata dell’economia, in altre parole, la ricchezza totale generata da un Paese in un determinato periodo di tempo.
Come è formato il PIL?
In pesi percentuali i 3 settori economici che compongono il PIL sono per il settore primario (pesca, allevamento, agricoltura e selvicoltura) circa il 2%, il settore secondario (industria e costruzioni) occupa il 25% dell’economia italiana e, infine, il settore terziario (il mondo dei servizi) il 73%.
L’Italia, come vedremo in seguito, è composta maggiormente da piccole imprese (0-9 dipendenti) che occupano circa il 95% delle imprese attive, le imprese grandi (250+ dipendenti) sono appena lo 0,1% , con rispettivamente il 47,5% e il 23% degli occupati.
Nel settore secondario, la componente principale è l’industria manifatturiera, che costituisce l’attività più rilevante in Italia, seconda in Europa solo dietro alla Germania, oltre che voce principale dell’Export italiano. Nel settore dei servizi l’attività più importante risulta essere quella del Commercio.
]]>Il 13 giugno 2014, Mariupol, città nel sud-est ucraino situata a 70 km dal confine con la Federazione Russa, e occupata dalle cosiddette forze separatiste e anti-Maidan dall'inizio/metà aprile dello stesso anno, è stata liberata dopo quasi due mesi di occupazione. Le forze di occupazione erano in realtà un movimento creato da Mosca per contrastare la Rivoluzione della Dignità, con cui il popolo ucraino confermava la sua volontà di avvicinarsi all'Europa e abbandonare il dominio di Mosca. Le forze armate inviate dal Cremlino, senza le dovute insegne di riconoscimento, si spacciavano per separatisti locali.
La città è stata liberata, ma il confine tra Ucraina e Federazione Russa è rimasto a soli 20 km dalla città.
]]>Non ha senso intavolare una conversazione sull’istruzione senza sapere quali sono stati i passi che hanno portato l’Italia alla situazione attuale. Il motivo per cui il Paese oggi si trova in uno stato di stagnazione culturale e irriflessiva è figlio della storia e di una cultura costruita in secoli di lassismo. Partiamo da lontano. Il primo punto di transizione dalla tradizione analfabeta si ha nel 1860 con l’obbligatorietà dei primi due anni di scuola primaria gratuita poi estesa a 3 anni nel 1877. Nel 1904 la Legge Orlando porta l’obbligo a 12 anni e per combattere la segregazione abitativa obbliga i comuni ad istituire scuole elementari almeno fino alla quarta classe. Nel 1923 la Riforma Gentile ridefinisce il sistema ripartendo la scuola in materna (3 anni), elementare (5 anni), media inferiore (3 anni) e secondaria composta da liceo classico e scientifico, istituto tecnico e magistrale. Con l’obbligo scolastico esteso ai 14 anni si va definendo una struttura classista e rigorosa in cui l’università è riservata a studenti uscenti dai licei, mentre gli istituti tecnici preparano all’entrata nel mondo del lavoro, precludendo ulteriori studi. Nel 1928 inoltre, accanto alla scuola media compare la scuola di avviamento professionale che prepara i bambini di 10 anni ad entrare nella forza lavoro o in un istituto tecnico con lo stesso sbocco obbligato. In sostanza a 13 anni o peggio a 10, la vita di un cittadino italiano è decisa ed indirizzata alla costruzione dell’élite dirigente o della classe operaia.
Neanche la liberazione dal dominio fascista e l’entrata in vigore della Costituzione riescono a sciogliere questo sistema malato; il cambiamento arriva invece con la riforma della scuola media del 1962 che abolisce l’avviamento permettendo a tutti di accedere a qualsiasi tipo di scuola superiore. Inoltre, dopo le movimentazioni e proteste studentesche, nel 1969 gli accessi all’università vengono estesi agli studenti provenienti da qualsiasi istituto superiore, il privilegio del liceo viene meno, e il sistema scolastico in generale si apre alle rappresentanze studentesche e dei genitori. Sull’onda del riformismo nel 1997 Luigi Berlinguer dichiara la volontà di annullare la distinzione tra formazione culturale e professionale e la necessità di introdurre un’istruzione a ciclo unico oppure a due cicli. Quest’ultima proposta viene poi elaborata in un primo ciclo per la formazione della personalità critica, favorendo un’attitudine positiva all’apprendimento, ed un secondo ciclo che fornisce le competenze necessarie per continuare gli studi o per entrare nel mondo del lavoro a seconda di obiettivi e capacità dell’alunno.
La Riforma Berlinguer approvata nel 2000 non entrerà mai in vigore, di fatto viene abolita nel 2001 da Letizia Moratti che invece di una riforma sistemica istituisce l’alternanza scuola/lavoro negli istituti professionali. Le successive riforme Gelmini (2008) e della “Buona scuola” (2015) non toccano la struttura del sistema scolastico, a parte l’abolizione della maggior parte degli istituti sperimentali, bensì si focalizzano sulla figura dell’insegnante e del preside, nonché dei criteri di valutazione degli studenti. Negli ultimi anni continua il trend di attenzione verso l’insegnante con la creazione di un percorso universitario abilitante di 60 CFU culminante in un periodo di prova e reclutamento con cadenza annuale. Non sembra però aver risolto né il problema dei posti vacanti ad inizio anno scolastico né la qualità della formazione dei docenti, che attanaglia l’Italia da almeno 50 anni. Nel 2023 invece, secondo una perversa strategia di valorizzazione portata avanti dal nazionalismo italiano, si prevede l'introduzione del liceo del Made in Italy come stemma di promozione del Paese.
Mentre il sistema scuola ristagna e rende palese il bisogno di una riforma strutturale e sistemica vediamo una classe politica noncurante dei bisogni educativi dei cittadini. Se da un lato l’istruzione diventa il posto di lavoro degli insegnanti e non più il luogo di crescita della collettività, dall’altro la riforma Valditara del 2023 vede un ritorno nostalgico all’eco gentiliano. Nel settembre del 2024 infatti, partirà la sperimentazione di istituti tecnici e professionali della durata di 4 anni più 2 anni di istituto tecnico superiore per avvicinare ancor di più i giovani al mondo del lavoro. Questa riforma, che “serve ai nostri giovani e al Paese” a detta del ministro, riconduce lo stesso Paese ad un sistema chiuso e classista abbandonato da tempo. Ancora oggi la scelta che plasmerà il proprio futuro professionale e individuale viene necessariamente fatta alla fine della scuola media, a 13-14 anni, ma esistono ancora scappatoie e scivoli integrativi. Con questa soluzione si azzerano le possibilità di cambiamento e la vita dello studente rimane diretta conseguenza della classe sociale della famiglia. In questo modo, se la sperimentazione fosse poi resa lo standard nazionale, la possibilità di scegliere l’istruzione terziaria verrebbe preclusa per i diplomati degli istituti superiori. Di fatto in 2 anni di ITS gli studenti accumuleranno circa 40-60 CFU che dovranno poi essere valutati a discrezione delle università e riconosciuti nel caso in cui si voglia entrare in un percorso di laurea triennale da 180 CFU. Non è scontato che vengano riconosciuti e soprattutto che vengano riconosciuti in toto.
In altri Paesi la situazione è più favorevole e la scelta viene razionalizzata.In Spagna questa scelta viene rinviata ai 16 anni, dopo un percorso di studi condiviso da tutti gli studenti, che potranno scegliere se affacciarsi al mondo del lavoro con percorsi più professionalizzanti oppure continuare con studi più teorici. La Germania inoltre, Paese con un'antica tradizione professionalizzante, ha deciso di trasformare il diploma al culmine delle scuole professionali in laurea breve, consentendo poi di continuare con un master e occasionalmente un phd. Nel sistema inglese e statunitense invece il corpo condiviso di materie che accompagna gli studenti fino ai 16 anni viene affiancato da alcune lezioni opzionali a scelta dello studente per una questione sia di responsabilizzazione, che di scoperta di sé, nonché di valorizzazione delle proprie capacità. Esiste poi la possibilità di seguire lezioni più o meno intense della stessa materia, per consentire a chi ha una spinta in più di mettersi in gioco. Si costruiscono canali di apprendimento interni alla stessa scuola più teorici o manuali, facili o difficili, senza distruggere il gruppo classe o esiliare bambini e ragazzi in altri istituti. Mentre l’Europa si sposta verso il modello anglosassone, in Italia siamo rimasti ad un sistema in cui è la famiglia, e quindi la classe sociale oppure le difficoltà di apprendimento, che scelgono il percorso dello studente a 13-14 anni; una scelta che influenzerà il proprio futuro sia lavorativo che personale.
Riportiamo il treno sui binari. Il sistema d’istruzione in Italia non funziona, non funziona da decenni e le parti politiche non prendono questo problema gigantesco in considerazione ed anzi, spostano il focus sui professori come se la scuola fosse il posto fisso del docente e non il luogo in cui far sbocciare il cittadino come individuo attivo e critico. La scuola italiana soffre strutturalmente a causa di problematiche di lungo periodo che passano dall’abbandono scolastico alle bocciature, dai Neet alla segregazione abitativa e sociale, dall’edilizia scolastica alla gestione delle diversità territoriali e socio-economiche.
Relativamente all’a.s.2020/2021 e al passaggio all’a.s.2021/2022, nella scuola secondaria di I grado, lo 0,19% dei frequentanti ha interrotto la frequenza scolastica senza valida motivazione nel corso dell’anno scolastico, mentre nel passaggio lo 0.25% per un totale di 7.327 alunni. Nello stesso biennio, durante il passaggio tra cicli scolastici da scuola secondaria di I a II grado, gli abbandoni sono stati 5.046, lo 0.30% dei frequentanti totali ma l’1.14% dei frequentanti del terzo anno. Per il II grado lo 0.86% ha abbandonato durante l’anno e l’1.69% nel passaggio per un totale di 67.007 alunni, il 2.55%. Per tirare le somme, la probabilità di un alunno che inizia la scuola media di non arrivare alla maturità è del 3.27%, ogni 100 bambini, circa 3 non riusciranno ad ottenere il diploma. Anche se diversi per magnitudo questi scenari a dir poco agghiaccianti condividono alcuni fattori utili a comprendere in profondità il problema dell’abbandono. Tendenzialmente i fattori che influenzano questo comportamento sono nell’ordine: ritardo scolastico causato da bocciature, numerose assenze, frequenza in istituti tecnici o professionali, scelta diversa rispetto a quella del consiglio orientativo legata ad una bassa votazione in uscita, cittadinanza non italiana e nello specifico non nati in Italia, istituti del Sud e Isole. Anche se i dati sono in calo rispetto agli anni precedenti, il livello e la concentrazione di questo fenomeno risultano allarmanti presi singolarmente e creano una situazione di completo disagio sociale se accostati alle statistiche sui Neet.
]]>In poche parole, il debito pubblico è la somma delle passività accomunate da uno Stato. È formato da monete che sono iscritte al passivo nei conti della Banca d'Italia, ma è formato soprattutto dalle emissioni di titoli di debito pubblico, cioè le emissioni di Bot, Btp e altri titoli obbligazionari che lo Stato emette annualmente, sui quali paga un interesse.
Premesso che tutti gli stati fanno debito pubblico, si sceglie di fare debito pubblico quando c'è uno squilibrio fra le entrate, essenzialmente le entrate di carattere fiscale, e le uscite, cioè la spesa pubblica. In questo caso per poter finanziare la spesa pubblica, lo Stato deve reperire risorse e, per farlo, si rivolge ai mercati. Lo fa emettendo debito pubblico con la promessa di rimborso del debito a scadenza e il pagamento degli interessi cedolari durante la vita del titolo di debito pubblico.
Quindi di per sé il debito pubblico non è un male da evitare a tutti i costi, al contrario può essere una grande opportunità per una nazione per effettuare investimenti che ripaghino sul lungo periodo. Un esempio possono essere gli investimenti sulla transizione ecologica.
Il debito pubblico diventa un problema quando non è sostenibile, questa è la regola generale.
Quando il debito pubblico continua ad aumentare e non è sostenuto dalle finanze pubbliche, quindi essenzialmente dalle entrate fiscali, allora questo debito pubblico diventa un problema. C'è anche un altro punto però che va sottolineato, e cioè gli interessi sul debito. Il debito pubblico non è sostenibile, o comunque comincia ad avere problemi di sostenibilità, quando gli interessi che vengono richiesti al mercato superano una certa soglia. In particolare, potremmo dire che diventa un problema quando gli interessi richiesti dal mercato superano la soglia della crescita nominale del prodotto interno lordo. In questo caso, allo squilibrio fra entrate e uscite, si aggiunge lo squilibrio fra interessi che devono essere pagati e crescita del prodotto interno lordo. Quindi se il prodotto interno lordo cresce di una misura inferiore rispetto ai tassi ai quali vengono collocati I titoli di Stato, a quel punto il debito comincia ad avere qualche problema di sostenibilità nel breve, medio e lungo periodo.
La sostenibilità, un concetto cruciale nelle scienze ambientali ed economiche, si riferisce a uno sviluppo che soddisfi i bisogni dell'attuale generazione senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni. Questo concetto è stato introdotto ufficialmente durante la prima conferenza ONU sull'ambiente nel 1972, ma è stato definito in modo più chiaro nel 1987 con il rapporto Brundtland. Da allora, è diventato il nuovo paradigma dello sviluppo.
Il concetto di sostenibilità ha subito un'evoluzione significativa, passando da una visione centrata sull'ambiente a una più globale che tiene conto anche degli aspetti economici e sociali. Richiede quindi un equilibrio armonioso, tuttavia quello che dovrebbe essere il partito europeo più improntato alla sostenibilità, i Verdi, sembra ignorare gli aspetti socio-economici e a proporre soluzioni di stampo ideologico più che scientifico, sugli aspetti ambientali
Il Partito Verde Europeo (PVE), o Verdi Europei, è un'organizzazione politica che unisce i partiti nazionali ecologisti in Europa e nell'Unione Europea. Nati negli anni ‘70 del secolo scorso, sono rappresentati al Parlamento Europeo dal 1984. Nel 2020, i Verdi europei hanno ottenuto significative vittorie nelle elezioni locali di diversi Stati europei, eleggendo sindaci in città come Lione, Strasburgo, e Bordeaux in Francia, Dublino in Irlanda, e Aquisgrana, Colonia e Bonn in Germania. Nel dicembre 2021, i Verdi tedeschi sono entrati a far parte della coalizione di governo guidata da Olaf Scholz in Germania. Nonostante il peso del PVE, il commissario per l'ambiente e gli oceani della Commissione von der Leyen, Virginijus Sinkevičius, è membro dell'Unione dei Contadini e dei Verdi di Lituania, che è affiliata al solo gruppo Verdi/ALE ma non al PVE.
Dallo statuto del PVE possiamo leggere:
“Lotta per la giustizia ambientale e sociale, la riduzione delle disuguaglianze, la solidarietà e l’equa redistribuzione delle ricchezze e delle risorse all’interno della società, tra i popoli, i territori, i sessi e le generazioni… Promuove le energie rinnovabili, l’efficienza energetica, l’economia circolare e la mobilità sostenibile…Promuove la sovranità alimentare, il diritto al cibo e alla sua sicurezza…sostiene le economie locali basate sulle conoscenze e sulle competenze, sui valori di cooperazione, mutualità e solidarietà, con particolare attenzione alle culture, alle ragioni dei popoli indigeni…Mette al centro la salvaguardia dell’ambiente, della bellezza del paesaggio, del patrimonio storico, artistico e culturale, degli ecosistemi e della biodiversità… Lavora per eliminare l’utilizzo degli OGM, pesticidi e altre sostanze chimiche.”.
Alle elezioni del Parlamento Europeo del 2019, il PVE prese circa il 15% conquistando 118 seggi su 736. In queste ultime elezioni Europee (2024), tuttavia, il partito del PVE è riuscito ad appropriarsi solo di 53 seggi, perdendone 18 dal 2022, questo probabilmente a causa delle scellerate politiche ambientali che hanno indirizzato gli elettori scontenti verso altri partiti.
Ad oggi, il consumo di CO2eq per la Germania ammonta a 7,8 tonnellate pro capite, con il 18% dei consumi elettrici tedeschi coperto da fonti rinnovabili. La Francia ha circa il 16% dei consumi elettrici coperti da energia rinnovabile, eppure le emissioni della Francia ammontano a 4,4 tonnellate pro capite.
Questa differenza è dovuta principalmente al contributo dell’energia nucleare al mix energetico francese. Con quasi 60 reattori distribuiti sul territorio, la Francia produce oltre il 30% del consumo energetico totale del paese. Al contrario, la Germania ha recentemente spento i suoi ultimi 3 reattori(15 Aprile 2023), e per mantenere la stessa produzione di energia elettrica ha aumentato le sue miniere di carbone, combustibile ovviamente molto piu’ inquinante e con alte emissioni climalteranti. Lo spegnimento delle centrali nucleari in Germania diventa più preoccupante considerando che i consumi energetici sono in leggera crescita in EU.
]]>La dispersione scolastica è un termine generale con cui in realtà si fa riferimento a due situazioni:
Secondo i dati Eurostat elaborati da Save The Children nel 2021 il tasso di dispersione esplicita era del 12,7%, mentre quella implicita - dato più difficile da rilevare - era del 9,7% [1].
]]>In questo articolo analizziamo uno degli strumenti di contrasto a tali fenomeni che più ha fatto discutere e che ancora in Italia incontra molti oppositori: il Nutri-score.
Da un punto di vista meramente descrittivo, il Nutri-Score si può definire un sistema di valutazione della qualità nutrizionale dei prodotti alimentari, complementare rispetto alle indicazioni nutrizionali analitiche comunemente presente sui prodotti, finalizzato a offrire un'indicazione rapida e chiara della composizione nutrizionale di un alimento.
Il sistema è stato sviluppato a partire da ricerche svolte principalmente dal professor Serge Hercberg nell’ambito di un progetto del ministero della sanità francese teso a rendere più facilmente comprensibili tutte quelle indicazioni nutrizionali rese obbligatorie dal regolamento europeo n. 1169/2011 di cui si tratterà a breve.
Il sistema si basa su un algoritmo di valutazione degli ingredienti, divisi in negativi e positivi per la salute, che restituisce un determinato punteggio globale per il prodotto desiderato in una scala di cinque livelli, dal più basso (lettera E rossa) al più elevato (lettera A verde scuro). Le categorie di ingredienti negative, come il sale, gli zuccheri, i grassi saturi e le calorie, vengono “bilanciati” da elementi considerati positivi come le proteine, le fibre ed il gruppo “frutta, verdura, legumi e noci” nonché gli oli vegetali. Il punteggio conclusivo dovrebbe restituire una valutazione quanto più possibile oggettiva della qualità di un alimento.
È chiaro, tuttavia, anche da una considerazione superficiale del sistema, che la valutazione del Nutri-score possa essere interpretata come un modo per discriminare determinati alimenti rispetto ad altri senza che vi possa essere un’informazione specifica per il consumatore, il quale potrebbe essere indotto a non acquistare un certo alimento non tanto sulla base di una comprensione della dicitura e delle caratteristiche del prodotto, ma quanto sulla base dell’impressione provocata dall’etichetta stessa.
Analizzando più a fondo la problematica, il rischio di sfavorire determinati cibi a prescindere dalla loro dannosità deriva anche dal fatto che alimenti processati e ultra-processati non sembrano avere delle penalità particolari da parte sistema; non solo, ma le imprese alimentari produttrici di tali alimenti avrebbero la possibilità di adattare, mediante investimenti in ricerca e sviluppo, i prodotti in modo da renderli più “performanti” nella valutazione del Nutri-score (ad esempio riducendo i livelli di zucchero o aumentando il contenuto di ingredienti favorevoli), ma anche sfruttando un’altra “falla” nell’algoritmo, ovvero l’incapacità del sistema di bilanciare in maniera idonea i componenti negativi con i positivi (per cui un cibo molto carico di zuccheri semplici, comunemente associati a rischio di diabete, potrebbe ottenere un punteggio elevato semplicemente con l’aumento del quantitativo di proteine o frutta secca); tale ultimo difetto è alla base di molte delle critiche, mosse in Italia ad esempio, basate sulla considerazione che la “negatività” di un certo ingrediente non possa essere di per sé annullata dalla semplice presenza di ingredienti positivi, così come sarebbe vero anche il contrario.
Le capacità di adattamento al sistema nutri-score, inoltre, sarebbe a solo vantaggio delle imprese poc’anzi considerate, in quanto produttori di alimenti “tradizionali” come particolari formaggi o salumi, non potrebbero per definizione apportare modifiche per migliorare il punteggio visto che ciò altererebbe la natura stessa del prodotto.
La normativa europea sul punto sembra dare ragione a coloro che criticano il Nutri-Score per i motivi sopra delineati in favore di sistemi più descrittivi, come quello attualmente in vigore in Italia. I considerando n. 3), 4) del Regolamento Europeo sopra citato fissano come principio generale l’adeguata informazione al consumatore affinché possa effettuare scelte consapevoli, al fine soprattutto di evitare comportamenti da parte dei produttori che possano indurlo in errore.
Appare evidente, in prima istanza, come la volontà del legislatore europeo sia più quella di informare piuttosto che di indirizzare il cittadino nelle sue scelte, mantenendo pertanto un approccio basato sulla tutela della libertà individuale e del principio di sussidiarietà; in questo senso deve essere letto anche il considerando n. 10), secondo il quale l’Unione promuove la conoscenza dei principi della nutrizione e favorisce le campagne di informazione ed educazione per ottenere dei consumatori più consapevoli.
Tuttavia, occorre segnalare che il considerando 37) ed il considerando 41) riportano anche, la necessità che le informazioni siano di facile comprensione ed esposte in modo semplice, all’evidente fine di un contemperamento tra la necessità di completezza e trasparenza dell’informazione e quella della sua accessibilità.
Tali considerazioni devono, infine, essere confrontate con alcuni dati statistici relativi a quali siano le fasce della popolazione maggiormente bisognose di indicazioni semplici e comprensibili ai fini delle politiche di sanità pubblica.
Uno studio del 2013 ha individuato una correlazione tra la semplicità del logo e la capacità di attrarre un certo tipo di consumatori verso scelte nutrizionali più consapevoli; ebbene, la conclusione è che il consumatore solitamente meno informato sulla nutrizione e generalmente meno interessato alla qualità del cibo risponde in modo maggiore ad un messaggio più semplice ed immediato, che valuti in modo globale e rapido il prodotto nel suo insieme.
Questa conclusione appare rilevante in considerazione del fatto evidenziato in principio, ovvero che il tipo di consumatore individuato è esattamente quello più a rischio di sviluppare obesità e tutte le problematiche legate ad una nutrizione scorretta.
Appare, pertanto, pressante la necessità di contemperare in modo oculato le opposte esigenze di completezza dell’informazione e di semplicità e immediatezza.
Il Nutri-score sembra porsi come soluzione a queste differenti esigenze accettando una dicitura semplificata e onnicomprensiva relativa al prodotto, ma ponendo alla base della valutazione un criterio di bilanciamento fondato sulle teorie scientifiche in materia di nutrizione più ampiamente accettate.
Il sistema non pare porsi, almeno direttamente, in contrasto con i considerando 16), 17) e 18) relativi all’utilizzo di sistemi flessibili di descrizione dei nutrienti in modo da adattarsi all'evoluzione delle conoscenze scientifiche in materia di nutrizione e delle preferenze informative espresse dai consumatori; in questo senso il nutri-score sembra soddisfare questa richiesta attraverso il continuo aggiornamento dell’algoritmo, il quale può essere perfezionato con l’aggiunta di componenti positive di valutazione ma anche di nuove componenti negative; nel caso di un’estensione a livello europeo l’aggiornamento continuo dell’algoritmo non potrebbe che essere di competenza dell’Unione Europea, visto che diversamente si porterebbero i paesi ad avere dei criteri di valutazione dei cibi differenti, in aperto contrasto tanto con il regolamento più volte citato (si pensi al rischio di confusione a danno del consumatore), che con il più generale principio di libera circolazione dei beni nel territorio dell’Unione. Da questo punto di vista, le critiche mosse al Nutri-score, concentrate principalmente sulla tutela dei prodotti “Made in Italy” o su non meglio specificate carenze dell’algoritmo, perdono di vista quello che potrebbe risultare un problema anzitutto politico conseguente all’obbligatorietà del sistema a livello europeo, destinato a presentarsi con forza nel momento delle trattative fra i diversi stati: la diversità di abitudini alimentari, specialmente nel consumo di determinati prodotti ricchi di grassi o di sale (come prodotti caseari, oli e salumi), spingeranno i singoli paesi a muoversi verso un sistema che tenga in conto anche del consumo medio degli alimenti, attualmente catalogati tutti per la medesima dose (100 g / 100 ml). Ciò renderebbe necessaria un’armonizzazione a livello europeo nei dosaggi consigliati di specifici prodotti o classi di prodotti, obiettivo non facilmente raggiungibile vista la variabilità delle abitudini e delle tradizioni alimentari .
La “concorrenza” di altri sistemi: il “Keyhole” scandinavo
Ovviamente il Nutri-score non è l’unica proposta di etichettatura presente attualmente sui vari mercati europei. Oltre al già citato Nutrinform Battery, è il caso di citare il sistema “Keyhole” applicato in Svezia sin dal 1995 e successivamente esteso a quasi tutti i paesi scandinavi. Il sistema è ancora più immediato e semplice del Nutri-score, in quanto si limita a valutare i cibi contenenti una certa percentuale di grassi, sale e zuccheri, ma senza effettuare valutazioni e bilanciamenti con altri fattori nutrizionali; in questo senso il sistema è ancora più “spietato” del Nutri-score, ma la capacità del sistema di essere facilmente riconosciuto dai consumatori ne ha portato ad un’adozione in paesi dove l’obesità è più incidente, come appunti i paesi del nord.
Ebbene, da tali esempi si può concludere che il sistema di etichettatura “keyhole” non sembra effettivamente portare a benefici in termini di contrasto all’obesità, a conferma del fatto che, con ogni probabilità, il problema debba essere affrontato mediante una migliore educazione della popolazione ad effettuare scelte di acquisto più consapevoli.
La lotta contro l’obesità e le problematiche di salute che essa comporta non potrà certamente concludersi mediante una mera etichettatura. Il bisogno di nutrienti come zuccheri e grassi è, in un certo senso, ineliminabile in quanto prodotto dell’evoluzione stessa.
La normativa europea, in linea generale propensa a favorire la libera determinazione dei cittadini laddove ben informati e consapevoli, punta certamente a sistemi che siano quanto più completi e chiari possibile, ma è altresì innegabile che determinate fasce di popolazione rispondano in modo migliore a stimoli immediati sulla qualità del prodotto. Il Nutri-score, in tal senso, possiede la caratteristica positiva di avere un bilanciamento nella valutazione dei cibi che lo rende effettivamente flessibile rispetto a futuri miglioramenti delle conoscenze scientifiche, e non pare essere così distruttivo rispetto ai prodotti “made in Italy” laddove si consideri che taluni di questi prodotti potrebbero essere esclusi in quanto tutelati da marchi specifici.
E’ discutibile, tuttavia, che il concetto stesso di etichettatura, anche se influente in una certa misura sul consumatore “target”, risulti efficace nell’indirizzare le scelte nutrizionali al pari di una sensibilizzazione nazionale sulle buone abitudini a tavola. E’ il caso di sottolineare che, a prescindere dalle questioni di etichettatura, i prodotti caseari e di salumeria tipici del “made in Italy”, sono già sconsigliati dalle linee guida per una sana alimentazione del CREA, e che campagne di promozione e soprattutto endorsement da parte della politica, negando i reali effetti di tali prodotti dovrebbero essere assolutamente evitate.
Demonizzare il Nutri-score o altri sistemi di etichettatura appare, in buona sostanza, inutile e dannoso, ma non si può non considerare l’importanza che la dieta, intesa come regime nutrizionale complessivo di un certo gruppo di individui, continua ad avere nel dirigere le scelte del consumatore, ponendo enormi difficoltà rispetto all’adozione a livello europeo di un unico sistema di etichettatura.
]]>Nato a Cognac nel 1888 da una famiglia di commercianti di cognac, ha abbandonato gli studi prima della maturità per finire a lavorare partendo dalla gavetta delle basi, maturando così un’esperienza e un modo di agire che condizionerà poi tutta la sua attività in ambito europeo.
Vivendo infatti il cambiamento industriale di fine ‘800 e inizio ‘900, nonché avendo la possibilità di risiedere per diversi anni nel Regno Unito e di viaggiare, ha capito l’importanza delle relazioni e del fare rete, di mettersi d’accordo con gli altri per superare quei limiti tra le persone (da lui visti nella sua Francia ove tutti litigavano con tutti) che limitavano la crescita economica, giugendo così a convincersi dell’origine dal basso dei cambiamenti politici e istituzionali.
Lo shock sociale portato dalla Grande Guerra – ove fu organizzatore dei rifornimenti e delegato al al Supremo consiglio economico interalleato – unito alla esperienza anglo-americana, lo porterà a comprendere ulteriomente l’importanza della cooperazione, il funzionamento della democrazia (la democrazia inglese è un unicum rispetto agli altri stati europei, vista la figura secolare della monarchia costituzionale), nonché l’importanza di liberalizzare pacificamente i commerci (ricordiamo che nei secoli precedenti per quanto i rapporti fra nazioni a livello commerciale possano essere stati più o meno tranquilli al di fuori delle guerre, sostanzialmente venivano gestiti con i cannoni della pirateria, una realtà sulla quale noi italiani con la Serenessima avevamo fatto scuola.), finendo per questo nel diventare un motore propulsivo nel contesto della neonata Società delle Nazioni, in un periodo come quello del Primo Dopoguerra che era tutto fuorché pacifico, visti i molteplici conflitti in Europa e le tensioni nei vari continenti, specie quelle coloniali (anche questa sarà un’importante esperienza visto che la Società sarà – nonostante l’epilogo – un laboratorio in cui parole come trattato e accordo assumeranno nuovo significato, nonché assurgeranno nuove istanze legate a religioni, ideologie, ecc.).
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, ove fu tra gli artefici del c.d. Victory Program [1] e consapevole del fallimento della Società delle Nazioni, Monnet capisce che l’Europa necessità di avere un realtà istituzionale ulteriore, una realtà che vada al di là delle buone intenzioni: è il tempo della CECA.
Vista infatti la storia dell’Europa, le guerre per le materie prime e la necessità di arrivare a risolvere i problemi cooperando invece che combattendo, non si poteva non avere come soluzione se non la creazione di un organismo sovranazionale di cooperazione in cui gli Stati, fondandola sui 3 principi che saranno poi alla base della stessa Unione Europea:
Sebbene la CECA dimostri come la UE nasca in una matrice prettamente economica, una necessità dettata dal momento storico in cui le materie prime (carbone e acciaio) dovevano circolare per rimettere in piedi l’economia, essa era comunque ben di più di un mero trattato commerciale, tant’è che Monnet la considera un mero primo passo per qualcosa di più grande (Monet, nel suo pragmatismo non volto al culto dello stato, riteneva infatti he l’economia fosse l’unica forza – grazie alla sua capacità innovativa e riformatrice – di risollevare l’Europa dalla situazione in cui vergeva nel Secondo Dopoguerra).
Monnet continuerà poi a lavorare in vari ambiti a livello europeo e molti lo hanno definito un tecnocrate asservito agli americani, ma la realtà dei fatti ci permette di tratte ben più corretto giudizio.
Monnet era il centro il centro di un network internazionale di relazioni, un uomo di idee portate avanti con pragmatismo e discusse con i politici confrontandosi nel merito, vedendo solo antagonisti e non nemici.
Jean Monnet ha sempre agito nella volontà di creare una cooperazione che – figlio di ceti commercianti – non diventasse un mostro burocratico, consapevole dell’impossibilità di realizzare un tale progetto senza il supporto e le risorse economiche degli Stati Uniti.
La sua volontà, era quella di costruire una struttura sovranazionale che potesse rispondere a un mondo sempre più interconnesso e complesso, aperto nel confronto e negli scambi, fondata sulla cooperazione fra gli Stati membri, andando così oltre gli strumenti tradizionali dei trattati per entrare in un contesto di regole e azioni comuni volte a garantire la pace.
Una realtà in cui la persona deve essere sempre al centro dell’azione.
Di Jacque Delors ne avevamo già parlato in occasione della sua morte avvenuta qualche mese fa [2].
Padre banchiere, laureato in scienze economiche e con carriera lavorativa nel settore bancario e un’intensa attività politica (la sua carriera lo vedrà ricorpire diversi incarichi a livello ministeriale, giungendo poi a essere eletto europarlamentare nel 1979, carica dalla quale si dimetterà nel 1981 per divenire ministro dell’economia e delle finanze in Francia), Delors ha lo stesso impianto e contesto culturale di Monnet, nonostante le diverse partenze, divenndo un leader suo malgrado.
La sua esperienza sindacale – fu esperto economico della Confédération française des travailleurs chrétiens – lo porterà ad avere fissa l’idea del miglioramento continuo delle persone, formandole e aumentando la produttivitià, includendo i diversi strati della società e instaurando la possibilità di un dialogo che permettesse alla fine di dare stabilità ed espandere i commerci.
Conoscitore della storia, influenzato da decenni di tensioni vissute nel contesto della Guerra fredda e delle crisi degli anni ’70 e ’80, comprendendo il problema del conflitto tra persone e ideologie, nonché l’importanza – grazie anche alla sua esperienza da ministro – degli accordi tra paesi, specialmente con gli Stati Uniti, pur avendo perennementein mente l’economia, comprese la necessità di andare oltre alla CEE, di darle quella marcia in più che la portasse ad essere Unione.
Attenzione però: unione, non unità, non un moloch.
Lui che da presidente della Commissione Europea visse gli anni tra il 1985 e il 1995, passando per la crisi del blocco Est dell’Europa, espresse l’esigenza corale di una grande fase di trasformazione, proponendo la creazione di un’Unione Europea che sfocerà nelle 4 libertà da liberalizzare (circolazione di beni, servizi, capitali e persone) e nell’idea dei 3 pilastri dell’UE – CEE (mercato unico), PESC (politica estera e di sicurezza) e GAI (sicurezza interna e giustizia) chiusi poi con la semplicificazione portata dal Trattato di Lisbona del 2009 – concetto quest’ultimo chiave della sua visione.
“Pilastri” è infatti una parola voluta per esprimere il fatto di essere solamente al punto di partenza.
L’Unione Europea è una realtà di elementi di diritto pubblico e costituzionali figli non della guerra e della distruzione delle realtà presistenti, bensì un’aggiunta a quest’ultime, figlia del diritto privato e commerciale, e in perenne trasformazione, una realtà possibile grazie a un altro fattore critico tutt’ora esistente: l’Alleanza Atlantica.
L’Unione Europea è un insieme di stati che cercano di migliorare l’economia e la società mettendo in comune risorse, uno sforzo in tal senso impossibile senza l’ombrello protettivo della NATO e l’impegno degli Stati Uniti al suo interno, poiché questo ha permesso di deviare risorse al sistema economico invece che alla deterrenza militare.
Dopo il 1995 Delors non vorrà assumere altri incarichi nelle istituzioni UE, ma manterrà un ruolo di “contributore esterno” con la critica costruttiva, continuando a credere in quell’idea che la politica partisse dal basso, a partire dalla propria casa, con un impegno come cittadini europei in cui il voto per il Parlamento è solo l’apice.
In chiusura di questa digressione – volutamente breve e per sommi fondamentali capi, vista la complessità – delle figure di due dei padri fondatori dell’Unione Europea, ricordiamo una verità fondamentale su di essa: è un unicum nel suo genere che si sta ancora evolvendo.
È un ibrido a metà strada tra un’associazione di stati e un realtà federale mai tentato prima nella storia dell’umanità, che vive un processo di cambiamento ed evoluzione imposto anche dalle necessità della contingenza.
L’Unione nasce in ambito economico e si continua a lavorare per andare oltre, al resto.
A fronte delle continue critiche dei partiti anti-europei dobbiamo ricordare che è sbagliato prendersela con le Istituzioni europee, agitando sprettri contro di esse.
Se le Istituzioni sono ben fatte, o comunque migliorabili, il problema non è l’Istituzione, bensì delle persone al loro interno: le Istituzioni sono solo dei mezzi in mano alle persone.
L’agente primario da cui partire è sempre la persona: la responsabilità è innanzitutto – a prescindere dall’ottica utilizzata – personale. Solo l’individuo esiste, solo l’individuo pensa, solo l’individuo agisce, sia ciò come nel singolo che nelle formazioni sociali in cui esso opera e/o da vita.
Se vogliamo costruire un’Unione Europea che sia effettivamente tale, più grande e operativa, dobbiamo assumerci tutti i rischi che vi sono, specialmente a fronte della contingenza che stiamo vivendo e che impone dei cambiamenti.
Cambiamenti che si scontrano con due problemi strutturali vigenti:
Ad oggi l’idea degli Stati Uniti d’Europa non è attuabile.
È però comunque un punto di arrivo a cui giungere se e solo se ripartiamo dalla coscienza dei cittadini, dall’idea che dobbiamo essere uniti nel creare qualcosa atto a trovare le risorse e le capacità necessarie a constrastare le crescenti avversità figlie delle nuove sfide economiche e geopolitiche.
Unità e cooperazione contro le difficoltà. Oggi come lo fu allora.
]]>Qui la parola chiave è "giusta". Se per giusta intende che le truppe russe devono ritirarsi e i confini dell'UA ristabiliti e garantiti allora ci siamo; se invece quella parola intende liquidare sbrigativamente una questione scomoda (il governo è formalmente schierato a favore dell'Ucraina ma sta facendo pochissimo per aiutarla) allora siamo grosso modo al solito gioco delle 3 carte.
Dice anche che deve proseguire l'allargamento della UE a Ucraina, Moldova, Georgia e Balcani occidentali. Bene.
Interessante il punto sulla collaborazione in materia di politica industriale per la difesa secondo una logica di sovranità europea. Quindi esiste una sovranità europea (Salvini e Borghi che dicono?) e il sovranismo patriottico va a farsi benedire. Benissimo ma incoerente, e dove vedo incoerenza di solito io ci leggo fuffa. Opportuna invece la richiesta di una formazione (organo europeo) dei ministri della difesa nel Consiglio della UE. Su Israele-Palestina nulla oltre la solita formula "due popoli, due Stati". Qui manca qualunque idea ed è meglio, per Giorgia, che se la sbrighino gli altri.
Il programma della Lega è ancor più scarno Contraria all'esercito europeo, possibilista sul coordinamento sugli investimenti coordinati in sede UE. Sull'Ucraina considera legittima l'autodifesa ma nulla sull'impegno italiano ed europeo; anzi dedica una parola a Macron (senza nominarlo) e lo identifica come sconsiderato. Insomma se gli ucraini vogliono difendersi lo facciano, ma sono cazzi loro. Il programma della Lega riflette in modo speculare la pochezza intellettuale dei suoi leader e di gran parte dei suoi elettori
Se quello dei suoi colleghi di governo è asfittico, il programma di Forza Italia è addirittura stitico. Basti dire che googlando 'Tajani-Europee' ho fatto fatica a trovare una foto. Tajani, come tutta FI, è inconsistente e per questa ragione mantiene i suoi voti e forse addirittura li aumenta.
Gaber cantava ne Il Conformista "È un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza S'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza". Gaber nonconoscevaTajani ma già lo descrivevanel 1997. Genio.
Forza Italia, tuttavia, è decisamente a favore della NATO e della difesa comune. Sull'Ucraina ricorda ottimamente che difenderla significa difendere i nostri valori di libertà e democrazia. Su Israele dice la stessa cosa ma, come detto, sull'argomento tornerò a breve con un articolo. Date le incongruenze fra i 3 partiti della maggioranza, credo che in caso di surriscaldamento della situazione internazionale il governo farà fatica a terminare la legislatura.
Come già detto per l’economia, anche la sezione di politica internazionale del programma del Partito Democratico è incoerente e lacunosa.
Nell’introduzione c’è un non meglio specificato richiamo ad un’Europa federale; sulla realizzabilità nel breve di una Europa di tipo federale sarà bene dedicare post elezioni una riflessione dedicata.
C’è un passaggio non equivocabile alla “barbara invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Vladimir Putin” e alla pace giusta, rispettosa del diritto internazionale” ma subito dopo c’è l’invocazione del multilateralismo. Nel momento in cui il multilateralismo viene usato da Putin e i suoi alleati quale giustificazione della “operazione militare speciale”, sugge il senso di questo passaggio a vuoto. O forse non sfugge: riflette le profonde incoerenze di un partito che non sa decidere cosa vuole essere e candida personaggi come Marco Tarquinio e Cecilia Strada.
Alla pace è dedicato l’intero ultimo capitolo.
Non si comprende bene cosa sarebbero i Corpi Civili di pace europei. Dice il programma che dovranno essere strumento di mediazione e prevenzione dei conflitti. Dunque cosa dovrebbero fare? Andare sugli scenari di guerra e fare da scudi umani? Fare i mediatori diplomatici scavalcando le diplomazie ufficiali?
Se il tema non fosse così serio, scapperebbe una risata.
Il Partito Democratico è poi favorevole alla difesa comune ma contraria all’economia di guerra.
Anche qui sembrano più parole poco pesate e pensate che una vera visione di cosa debba fare l’Unione posto che il concetto di economia di guerra è ben preciso e lontanissimo da ciò di cui si discute, ovvero un miglioramento delle capacità di azione difensiva comune.
Per l’Ucraina parole giuste: vogliamo - dice il programma - un'Europa che continui a sostenere la resistenza del popolo ucraino.
Solo che sostenere la resistenza ucraina significa fornire a Kyiv i mezzi (armi) per difendersi. Non sembra che su questo punto da Elly Schelin siano venute posizioni chiare; mentre le parole di un illustre candidato (Tarquinio) sono contrarie e non sono mai state stigmatizzate da PD.
Sulla questione israelo-palestinese c’è la richiesta del cessate il fuoco, della liberazione degli ostaggi, della fine del massacro dei palestinesi separando Hamas dai palestinesi e della soluzione politica.
Il Movimento 5 Stelle ha come noto una posizione pilatesca sull’Ucraina. La condanna generica dell’invasione crolla con la pervicace insistenza sullo stop all’invio di armi. Le incisive “azioni diplomatiche” non funzionano se gli equilibri di forze propendono decisamente dalla parte dell’aggressore. Quello che chiede il M5S è, senza dirlo, una resa dell’Ucraina.
Surreale, e un po’ disgustoso, che il M5S chieda l’allargamento a est dell’Unione Europea ma non includa Ucraina Moldova e Georgia.
La situazione in Palestina rende più facile (scontata) la posizione del partito: due popoli due stati e nessuna idea.
Curioso il paragrafo contro la sudditanza nei confronti della Cina. Il M5S è stato quando era al governo la principale testa di ponte dell’espansionismo cinese e il governo Conte I fu l’unico governo europeo a firmare la Silk Road Initiative.
Stati Uniti d’Europa sottolinea la cooperazione strategica con gli USA, auspica apertamente la vittoria dell’Ucraina attraverso nuove forniture militarim chiede la confisca degli asset russi.
Detto in altri termini Bonino e Renzi rifuggono dalle formule retoriche e dicono chiaro come vogliono arrivare alla pace. Bravi. E’ anche l’unico programma che, correttamente, non vede solo la minaccia militare russa ma anche la minaccia di interferenze della stessa Russia e della Cina.
Azione-Siamo europei concentra la sua proposta sulla necessità di una difesa comune europea che arrivi ad un esercito comune entro 10 anni (obiettivo di lungo termine ma realistico) e una cooperazione anche nel procurement e nella rappresentanza diplomatica.
La lista di Santoro Pace Terra Dignità è quella più apertamente a favore della Russia. Prima l’aver inserito fra i candidati un propagandista filorusso come Lilin, poi le ospitate in tv di Santoro lasciano pochi dubbi sulle aspettative. Nel programma c’è scritto “non confondere la solidarietà col rifornirlo di armi aizzandolo promettendogliimpossibili vittorie”. Insomma, assicurata una solidarietà di maniera, poverini, si arrendano e si consegnino a Putin.
In altro passaggio si legge l’Europa deve collaborare con la Russia la Cina e i Brics.
Più chiaro di così…
]]>Durante l'antichità, l'espansione dell'Impero Romano creò un vasto sistema economico che abbracciava gran parte dell'Europa e l'intero bacino del Mediterraneo, con l'Italia come suo epicentro. Questa impostazione persistette durante il Medioevo, con il fiorire dei comuni e poi con la nascita di città-stato in grado di dominare i commerci, la finanza e la produzione di beni di lusso. Il contesto economico iniziò a cambiare nel corso dell'Età Moderna, con un lento spostamento del baricentro dell'economia europea da Sud a Nord. Questo processo storico, chiamato “Piccola Divergenza”, portò allo spostamento verso Nord del centro dell'economia europea, portando ad emergere i Paesi Bassi come il cuore economico dell’Europa.
Non sarebbe azzardato ammettere che la “Piccola Divergenza” sia sostanzialmente all'origine delle gerarchie economiche (e non solo) che oggi caratterizzano l'Europa. La presenza di un'area più economicamente sviluppata, capace di influenzare il commercio e la produzione anche oltre i propri confini, tende a creare una distinzione tra un centro e delle periferie, con inevitabili conseguenze sugli equilibri di potere e sull'influenza politica.
Il Sud Europa presenta un potenziale di crescita più lento rispetto ai paesi del Nord Europa. La crescita potenziale si riferisce alla capacità di un'economia di crescere nel lungo termine senza generare pressioni inflazionistiche, escludendo gli effetti a breve termine legati agli squilibri tra domanda e offerta. In altre parole, quanto più un'economia riesce ad aumentare la sua crescita potenziale, tanto più può incrementare il suo PIL in modo sostenibile nel tempo. Il potenziale produttivo è determinato da tre fattori principali: lavoro, capitale e produttività (o produttività totale dei fattori, TFP).
Diverse organizzazioni stimano la crescita potenziale dei paesi. Sebbene possano variare in alcuni aspetti, i risultati sono inequivocabili: la crescita potenziale di Spagna, Grecia, Italia e Portogallo è tra le più basse in Europa. Questo emerge chiaramente dai dati dell'OCSE e della Commissione Europea. Secondo i dati dell'OCSE, la crescita reale potenziale è aumentata solo dell'1,09% in Portogallo, dello 0,57% in Spagna, dello 0,1% in Italia, mentre è diminuita dello 0,40% in Grecia nel periodo compreso tra il 2014 e il 2019.
Confrontando queste cifre con il resto dell'Europa, si nota un divario di circa due punti percentuali rispetto alla maggior parte dei paesi dell'Europa orientale e un deficit di un punto rispetto alle economie scandinave.
Ma ciò che conta in termini di divergenza economica è che nel 2019 il PIL del Nord dell’Eurozona (Germania, Austria e Paesi Bassi) risultava superiore di oltre il 14% rispetto al livello pre-crisi finanziaria, mentre nel Sud si registrava un recupero più lento: la Francia aveva recuperato l’11%, la Spagna l’8%, ma l’Italia non aveva ancora completato il recupero, rimanendo ancora al di sotto del 4%, e la Grecia era ancora in arretrato del 25%.
Le disuguaglianze economiche possono essere dovute da diversi fattori, uno di questi è il reddito. Per misurare le differenze che sussistono tra i redditi percepiti, si utilizza l’indice Gini. Senza entrare troppo nei dettagli, questo numero può avere un indice con valore compreso tra 0 e 100. Più l'indice di Gini è basso, più la distribuzione del reddito si avvicina a una situazione di perfetta uguaglianza, in cui tutte le persone hanno lo stesso reddito. Al contrario, più l'indice è alto, più i redditi sono concentrati in un piccolo gruppo di persone, indicando una maggiore disuguaglianza economica.
Secondo gli ultimi dati, tra i paesi con un indice di Gini più elevato rispetto all'Italia si trovano tutti nell'Europa orientale: Bulgaria (38,4%), Lituania (36,2%) e Lettonia (34,3%). Al contrario, i valori più bassi sono registrati in Belgio (24,9%), Repubblica Ceca (24,8%), Slovenia (23,1%) e Slovacchia (21,2%).
Oltre alle evidenti disparità tra il Nord e il Sud Europa, i dati del coefficiente Gini mettono in luce significative differenze tra l'Europa occidentale e orientale che non sono ancora state colmate. Un caso di studio interessante in questo contesto è quello della Germania. Nel 1990, dopo la caduta della Repubblica Democratica Tedesca, la parte orientale della Germania era significativamente meno sviluppata di quella occidentale. Nonostante il divario si sia ridotto, trent'anni dopo la riunificazione, le differenze economiche tra le due regioni rimangono notevoli e continuano a generare forti disparità anche a livello sociale.
Il divario così ampio tra le due regioni è stato principalmente dovuto a scelte errate di politica economica durante il processo di riunificazione. La decisione di porre fine alla divisione tra Est e Ovest non è stata principalmente guidata da motivi economici, ma da un sentimento patriottico e di unità tra i cittadini tedeschi, desiderosi di riunirsi. Questo ha portato a forzare alcuni processi che avrebbero richiesto anni di tempo per riequilibrarsi e che invece sono stati messi in atto in meno di un anno.
Il ritardo economico del Mezzogiorno rappresenta la più importante fonte di disuguaglianza per l’Italia e uno dei maggiori freni alla crescita economica complessiva del nostro paese. Nel Mezzogiorno vive un terzo della popolazione italiana ma viene prodotto poco più di un quinto del PIL, dalle regioni meridionali si origina appena un decimo delle esportazioni nazionali.
A partire dalla crisi finanziaria, il ritardo del Mezzogiorno in termini di PIL per abitante si è dunque ampliato, in parte seguendo una tendenza all’aumento dei divari territoriali che ha riguardato la maggior parte delle economie avanzate. I processi diffusivi dello sviluppo economico si sono infatti indeboliti e si è accentuata la distanza tra le regioni periferiche e le aree che vantano centri urbani in grado di sviluppare forti economie di agglomerazione.
La storia del Sud Italia presenta analogie con quella delle due Germanie: nel 1861 si unirono due Italie diverse, a causa delle differenti storie degli Stati preunitari. Esisteva una grande diversità nei livelli di istruzione, nelle strutture sociali e istituzionali tra le regioni che facevano parte del Regno delle Due Sicilie e il resto del paese. Il ritardo economico del Mezzogiorno dipende essenzialmente dal fatto che si è industrializzato in ritardo, e con minore intensità, rispetto al resto d’Italia. Questo ritardo ha avuto effetti economici, ma anche conseguenze sociali e politiche.
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza rappresenta un'opportunità chiave per l'Italia, focalizzandosi su due obiettivi principali: migliorare l'efficacia dell'azione pubblica attraverso una governance più efficiente e potenziare l'iniziativa privata nel Mezzogiorno, riducendo i divari infrastrutturali e potenziando il tessuto produttivo delle aree urbane. Il vasto programma di riforme e investimenti delineato nel Piano nazionale di ripresa e resilienza offre al paese l’opportunità di rafforzare questi ambiti, affrontando con il sostegno di mezzi finanziari significativi alcuni dei problemi strutturali che ormai da un quarto di secolo ne frenano la crescita.
Il rafforzamento della propria coesione economica, sociale e territoriale è uno dei principali obiettivi dell'Unione Europea. L'Unione dedica una parte significativa delle sue attività e del suo bilancio alla riduzione del divario tra le regioni, con particolare riferimento alle zone rurali, alle zone interessate da transizione industriale e alle regioni che presentano gravi e permanenti svantaggi naturali o demografici.
L'UE sostiene il conseguimento di tali obiettivi mediante l'uso dei Fondi strutturali e di investimento europei (FSE, FESR, Fondo di coesione e Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca FEAMP) e il Fondo per una transizione giusta (JTF).
Il Fondo sociale europeo, denominato dal 2021 Fondo sociale europeo Plus (FSE+), è il principale strumento dell'Unione a sostegno delle misure volte a prevenire e combattere la disoccupazione, sviluppare le risorse umane e favorire l'integrazione sociale nel mercato del lavoro. Esso finanzia iniziative che promuovono un elevato livello di occupazione, le pari opportunità per uomini e donne, lo sviluppo sostenibile e la coesione economica e sociale.
Gli innegabili successi conseguiti dall'Europa nel ridurre le disuguaglianze tra i singoli Stati membri non devono nascondere i problemi che rimangono insoluti. In primo luogo, ridurre le disuguaglianze non vuol dire annullarle, i progressi divengono tanto più difficili quanto più le posizioni si sono avvicinate. In secondo luogo, è giusto ricordare come l'Europa abbia avuto maggior successo nel favorire la riduzione delle disuguaglianze tra Paesi, che entro ciascuno di essi, e l’Italia ne è la prova.
]]>I partiti politici come li intendiamo oggi ancora non esistevano e la politica nell’Italia liberale post unitaria era stata per lo più coagulata intorno alle figure più o meno carismatiche dei leader, quali appunto Giolitti, Salandra, Amendola. A sinistra invece, sulla spinta di una richiesta di partecipazione dal basso, anche questa veicolata da una forma di elitismo intellettuale, andavano formandosi i primi partiti di massa. Il principale di questi era il Partito Socialista, diviso al suo interno fra una corrente massimalista favorevole alla rivoluzione e alla dittatura del proletariato, e una riformista, incarnata da Turati, favorevole ad una transizione non violenta e progressiva.
Le difficili condizioni economiche post guerra e l’avanzare di istanze socialiste in vasti strati dell’industria e della campagna, unite alla crescente forza del Partito Socialista di ispirazione marxiana, generarono quello che verrà ricordato come il biennio rosso 1919-1921. Seppur all’inizio disorganizzate, le squadre fasciste iniziarono una serie di azioni violente contro il disordine generalizzato, soprattutto nelle regioni del nord. Due fra le più emblematiche furono l’assalto di squadracce fasciste alla sede dell’organizzazione nazionale slovena Narodni Dom del luglio 2020 e la l’attacco di palazzo Accursio, governato dai socialisti, a Bologna del novembre successivo.
Difficile dire quanto l’Italia fosse ad un passo dalla guerra civile ma è indubbio che gli industriali, i proprietari terrieri, elementi dell’esercito e della polizia e persino esponenti del governo, vedessero il movimento fascista-sansepolcrista più come un argine al pericolo di una bolscevizzazione del Paese che come una minaccia. Questa fu anche la responsabilità dei liberali e della corona Savoia: l’illusione che il fenomeno squadrista fosse controllabile e passeggero e la non comprensione che insieme al tessuto sociale stesse cambiando il modo in cui le aspirazioni politiche dovessero essere convogliate.
Per altri versi prevalse il timore di un nemico comune, la rivoluzione bolscevica, al timore che il regime liberale potesse cadere sotto i colpi di un movimento si violento ma ancora disorganizzato quale il fascismo.
Molto si è scritto se questa fu responsabilità diretta o semplice sottovalutazione. D’altra parte i liberali non furono in grado di “leggere” nel fascismo quella componente antisistema, eppure esplicitata, che aveva come nemico tanto il disordine “rosso” quanto la “mollezza” democratica e parlamentare.
Con la marcia su Roma del 28 ottobre 1922, organizzata in modo approssimativo da Mussolini, Grandi e un manipolo di camicie nere sconclusionato e dalla capacità organizzativa improvvisata (il PNF era nato appena un anno prima) crollò non soltanto il regime liberale ma anche una corrente di pensiero e un’idea di democrazia che non aveva mai saputo, o voluto, diventare moderna.
Di quegli anni tragici sono rimasti in coloro che in Italia si definiscono liberali alcuni vizi che sono in parte dovuti all’incapacità di avere una visione organica e definita del liberalismo democratico e in parte alla generale tendenza alla polarizzazione degli schieramenti, eredità dovuta in parte anche agli anni della guerra fredda.
In altre parole i liberali italiani, almeno quelli che hanno tentato di organizzare visione della società e offerta politica all’interno del quadro organizzativo partitico disegnato dalla Costituzione del 1948, non hanno mai risolto il conflitto fra una sorta di matrice elitista e la necessità di dotarsi di organizzazioni politica diffusa e autonoma. Anche durante gli anni del centrosinistra e del pentapartito non sono mai andati oltre la partecipazione passiva a dinamiche che riflettevano la contrapposizione al pericolo comunista prima e socialdemocratico poi.
Quando nel 1994 Berlusconi scese in campo, illudendo i pochi liberali che fosse giunta finalmente l’epoca di un partito liberale di massa che era mancato per tutto il secolo, questi non si resero conto che quell’iniziativa era niente altro che un tentativo, riuscito, di conservare in altre forme un sistema di potere che era stato spazzato via dagli scandali corruttivi e dai referendum elettorali. La responsabilità di questa cecità va attribuita decisamente a quei liberali, come Antonio Martino, che erano rimasti al margine del PLI e che prestarono invece sé stessi a Berlusconi nella (ri)costruzione dell’incubo comunista anche al prezzo di accogliere chiunque non fosse a sinistra, neofascisti compresi. Così facendo gli permisero di occupare uno spazio politico tendenzialmente sguarnito impedendo la costruzione di una vera offerta liberale, progressista e democratica.
Tutta l’epoca del berlusconismo, che continua fino ad oggi, è stata caratterizzata dalla polarizzazione contro un nemico a prescindere dai sistemi elettorali adottati. Il “fare contro” e non il “fare per” ha gettato le basi per la stagnazione politica, morale ed economica. In questo modo l’Italia ha continuato a galleggiare fra il bisogno di autoconservazione della classe politica, anche quella emersa dopo il 1992, e un continuo guardare al passato e ad una grandezza che in realtà non c’è mai stata.
Oggi un partito liberale non c’è; e non è detto che ciò sia un male. C’è invece un elettorato fluido e mutevole che, consapevole di vivere in un Paese culturalmente arretrato ma non disposto a riconoscere i propri errori e le proprie responsabilità, si affida di volta in volta a quel leader politico (anche il leaderismo è un lascito della storia) che promette un riscatto basato su fondamenta fragili o inesistenti. Ora è la volta di Meloni e della sua destra organizzata ma ignorante.
Una parte dei liberali (veri o presunti) sta dalla sua parte e ne difende le incoerenze e le aspirazioni vagamente autoritarie perché dalla parte opposta, altrettanto polarizzata in una visione della geografia politica novecentesca; è preferibile e più comodo stare al potere a gestire asset come la spesa pubblica che organizzare un’offerta politica che manca. Un’altra parte è disponibile a consumare energie per qualunque leader che non appaia completamente socialista (nonostante le sue azioni politiche lo rivelino inequivocabilmente).
A questo meccanismo non si sottrae la stampa che è in media schierata per affezione partitica non meno di quanto siano schierati gli stessi attori politici. Ragion per cui si assiste ad un totale asservimento partigiano di giornalisti che in uno schieramento o nell’altro preferiscono, in un’ordalia di populismo diffuso, essere giocatori in campo invece che osservatori e, magari, censori delle policies.
Qualche giorno fa uno di questi giornalisti con la divisa addosso, Nicola Porro, che conosco perché entrambi frequentammo il PLI e prima ancora la Gioventù Liberale Italiana, ha fatto questo tweet su Matteotti.
“È morto il pellegrino del nulla” disse Gramsci all’indomani dell’assassinio di Matteotti. Così tanto per ricordare. #matteotti
- Tweet di Nicola Porro, 31/05/2024
Il giudizio di Gramsci sul leader socialista rapito ed ucciso dalle squadre fasciste il 10 giugno 1924 è già stato oggetto di nota della collettività, quindi contestualizzato e, nelle forme del tweet di Porro, debunkato. Aggiungo soltanto che la corrente riformista del Partito Socialista uscita sconfitta al congresso del 1922 e che andò a comporre il Partito Socialista Unitario, era per i fondatori del PCdI di Livorno, Gramsci Terracini e Bordiga, un avversario politico e come tale andrebbero lette le parole di Gramsci.
Avversario politico ancor più insidioso perché Matteotti, come Gramsci, apparteneva a quel milieu culturale che metteva il riscatto della classe operaia al centro dell’agire politico ma che dei massimalisti e rivoluzionari, non ne condivideva i mezzi. Gramsci, fatta questa premessa, riconosceva a Matteotti la statura dell’eroe e alla sua morte il carattere del sacrificio. Giudizio affatto negativo come Porro, forse limitatosi a leggere il titolo di un articolo pubblicato su Il Giornale a firma Walter Galbusera quello stesso giorno ma di tenore e contenuti completamente differenti, vuole far credere.
Ecco l’operazione ipocrita, mistificatoria e di parte di cui si rende protagonista quasi quotidianamente il giornalismo italiano: prendere delle parole senza conoscerne il significato e usarle per fini di propaganda a dimostrare che le responsabilità dell’assassinio Matteotti non sono solo della parte politica a cui per sentimento o per convenienza si appartiene, ma anche della parte politica di cui la propria è nemica.
Ora, se ha un senso definirsi liberali, questa condotta, questa partigianeria, questa inclinazione al compromesso e alla complicità con chi i valori propri del liberalismo non li riconosce va non solo criticata ma denunciata.
Io non credo che oggi ci sia un pericolo fascista inteso come ritorno al totalitarismo, credo invece che ci sia un pericolo più subdolo e infido che è la marginalizzazione dei princìpi di rispetto delle libertà individuali, della dignità di tutti i cittadini, della separazione dei poteri, dei fatti storici; non vedo all’orizzonte il fascismo ma il salazarismo come collante, temporaneo, della società.
L’individuazione continua di un nemico esterno, l’evocazione di un grande complotto contro il Paese con attori diversi - ora le multinazionali, ora l’Unione Europea, ora la World Health Organization, ora i migranti ma mai, mai, gli autocrati e i dittatori - mi fa pensare che il 1922 non fu un semplice errore e che la democrazia italiana forse è non fragile ma di sicuro non è neanche compiuta. La liberaldemocrazia funziona se e solo se è interiorizzata e acquisita nella cultura di un Paese.
L’Italia non lo ha ancora fatto e i liberali ne hanno una grande responsabilità.
]]>L’Europarlamento di oggi non è quello delle origini, molti sono stati i cambiamenti che lo hanno interessato.
Nella versione originaria di Assemblea comune della CECA, riunitasi per la prima volta nel 1952, era un mero organo consultivo formato da parlamentari nominati dai parlamenti nazionali degli Stati Membri, cambiando poi nome in Assemblea parlamentare europea (1958) e infine Parlamento Europeo (1962).
Il cambio di paradigma arriva solamente negli anni ’70.
Nel 1976 il Consiglio Europeo decide infatti di renderlo elettivo (le prime elezioni si terranno nel 1979), giungendo a basarle sul principio della massima rappresentanza. Cosa significa?
Tralasciando le molteplici variazioni intercorse negli anni dovute all’allargamento dell’Unione Europea, oggi abbiamo 751 europarlamentari attribuiti ai paesi in forza del concetto di prorporzionalità regressiva:
Le modalità elettive sono disciplinate dalle leggi nazionali, le quali sono però vincolate da alcuni principi comuni adottati dopo il fallito tentativo di approvare una procedura uniforme (come richiesto dal Trattato di Maastricht); tra questi emergono:
con quest’ultimo che dovremmo rigorosamente ricordare, vista la storicità dei leader politici italiani di candidarsi in lista pur essendo eletti in Parlamento, una scelta meramente dettata – permettetemi la mia opinione personale – dalle logiche delle preferenze personali invece che di un serio programma politico per l’Unione Europea.
Una volta eletti, i parlamenti si organizzano generalmente in gruppi politici che – per essere riconosciuti – devono essere formati da almeno 25 eurodeputati.
L’Europarlamento non è come il nostro Parlamento e anche il suo ruolo ha avuto dei cambiamenti nel corso del tempo; ad oggi esercita un’attività di controllo politico e di funzione legislativa condivisa, di cui principalmente ricordiamo:
1) Controllo politico della Commissione
L’Europarlamento controlla l’operato della Commissione tramite gli strumenti delle interrogazioni e della mozione di censura, cioè un voto di sfiducia che ne costringe alle dimmissioni qualora sia approvata a maggioranza qualificata (2/3 dei membri).
Esami inoltre la relazione generale annuale, controllando – insieme al Consiglio – gli atti delegati e di esecuzione; può infine istituire commissioni temporanee d’inchiesta che esamino le denunce di infrazione o di cattiva amministrazione nell’applicazione del diritto unionale.
2) Procedura legislativa ordinaria et al.
Nell’Unione Europea il potere di iniziativa legislativa è esclusivamente in capo alla Commissione, potendo pur presentare proposte di atti giuridici su richiesta di altre istituzioni (Consiglio, Parlamento Ue e nazionali, BCE, Corte di Giustizia dell’UE, BEI) o dei cittadini.
La procedura legislativa ordinaria, introdotta nel 1992 e nota anche come codecisione, riguarda circa 85 basi (materie), un numero aumentato nel tempo in forza della crescente cessione di sovranità,[3] ed è così riassumibile:
Nel caso in cui la seconda lettura del Consiglio non veda un esito positivo, viene convocato il comitato di conciliazione che raggiungerà un accordo (la proposta torna in Parlamento e Consiglio per la terza lettura), ovvero no (l’atto legislativo non è adottato).
Oltre alla procedura ordinaria ne esistono poi di altre, quali consultazione e parere conforme.
3) Poteri in materia di bilancio (approvazione, controllo esecuzione et. al.)
4) Ricorsi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea
5) Nomina del Mediatore europeo
Gli europarlamentari siedono in 20 commissioni, 3 sottocommissioni e 39 delegazioni.
Queste commissioni – a differenza di quelle di inchiesta – sono permanenti, si occupano di temi di carattere generale e sostanziale specifici (secondo le attribuzioni sancite dalla normativa europea)[4] e sono fondamentali, poiché la maggior parte della funzione legislativa del Parlamento viene qui esplitata.
La seduta plenaria – infatti – si tiene solamente una volta al mese (escluso agosto) per 4 gioni a Strasburgo ed è il c.d. punto di arrivo dell’attività legislativa svolta nelle commissioni e in altre sedi, discutendo e votando i testi portati.[5]
Menzione a parte merita la figura del Trilogo.
L’Unione Europea – a differenza nostra – esula da quella che è la c.d. grammatica istituzionale: non è inusuale che in caso di divergenze si svolgano incontri informali tra le parti coinvolte per cercare di eliminare/accorciare le distanze.
Il Trilogo è esattamente ciò: nella procedura legislativa ordinaria, è un negoziato interistuzionale informale – da non confersi con il sopracitato comitato di conciliazione – che riunisce rappresentanti del Parlamento, del Consiglio dell’UE e della Commissione, volto a raggiungere un accordo provvisori su una proposta legislativa accettabile sia per il Parlamento che per il Consiglio.
Non a caso quest’ultime due Istituzioni hanno riconosciuto (2007) il ruolo fondamentale di tale contesto come agevolatore del processo legislativo.[6]
In conclusione è doveroso un cenno al rapporto tra UE e Parlamenti nazionali.
In particolar modo, questi non hanno infatti una funzione prettamente passiva, di mero recepimento degli atti votati in sede europea: essi contribuicono al buon funzionamento dell’Unione (art. 12 TUE) e possono sollevare un’obiezione – sotto forma di parere motivato – qualora ritengono che un determinato atto in approvazione violi il principio di sussidiarietà.
Ogni Parlamento nazionale ha due voti per cui se i voti raggiungono:
Una vecchia regola della retorica e della pubblicistica sostiene che a dover chiarire le proprie idee sono solitamente o quelli senza idee o quelli senza chiarezza. Tarquinio conferma la regola. Anziché chiarire, la lettera di Tarquinio evidenzia infatti quanto poco questi conosca e capisca la materia di cui discute. D’altronde, per essere un chiarimento, la lettera chiarisce molto poco: piena di frasi ad effetto, spesso scollegate o addirittura in contraddizione con la sua tesi di fondo, questa non chiarisce mai la tesi centrale, che in ogni caso viene affrontata solo molto avanti nel testo, quasi fosse in secondo piano – ovvero l’esatto contrario di quanto un chiarimento dovrebbe fare.
Prima di entrare nel dettaglio, due considerazioni sono d’obbligo rispetto a quanto detto in TV.
Metà dell’intera lettera è in insieme di premesse, introduzioni, interlocuzioni e tante altre frasi e riferimenti che non c’entrano nulla con il punto contestato: le ragioni della necessità di sciogliere la NATO. Anziché andare dritto al punto, Tarquinio usa metà del suo spazio per citare Macron, e la sua famosa frase sulla NATO in morte cerebrale, Trump che minaccia di non difendere gli alleati inadempienti finanziariamente, e menzionare la continua escalation degli ultimi mesi.
Escalation che, evidentemente, c’è stata solo per Tarquinio, in quanto in questi due anni, i mercati internazionali hanno reagito negativamente al conflitto solo nelle prime settimane, per poi disinteressarsene largamente nei mesi successivi: basta guardare l’MSCI Europe.
Paragrafo 1. Il resto della lettera non spiega mai, chiaramente, perché la NATO debba essere sciolta. Tarquinio preferisce invece toccare temi disparati, in maniera confusa e spesso contraddittoria, andando non di rado fuori tema. Si pensi a questo passaggio:
In questo quadro, la questione delle alleanze militari difensive che diventano offensive è pesantissima. […] Non c’è dubbio ormai che abbia cambiato natura la NATO, alleanza difensiva costituita per fronteggiare l’URSS e i Paesi del Patto di Varsavia (il Patto dell’Est sovietizzato nacque dopo la Nato e questo è un fatto, non una mia opinione, anche se qualche filosofa “riformista” e più di un’opinionista, che evidentemente sanno poco di storia, pretendono di sentenziare il contrario
Non sappiamo chi sia la filosofa, né gli opinionisti, a cui Tarquinio fa riferimento. Sappiamo però cosa fa Tarquinio, invece. Anziché chiarire il punto centrale, ovvero il cambiamento della natura della NATO, da alleanza difensiva a offensiva, ci tiene a specificare che il Patto di Varsavia nacque dopo la NATO, e ciò sarebbe un fatto, che taluni che conoscono poco la storia negherebbero. In primo luogo, ci sembra che Tarquinio stia avanzando un non-detto: il Patto di Varsavia sarebbe stato creato come reazione alla fondazione della NATO, che dunque – interpretiamo il tarquinese – sarebbe stata aggressiva fin dall’inizio. E’ possibile che la nostra interpretazione non sia corretta: non è colpa nostra se il chiarimento di Tarquinio più che fare chiarezza solleva solo ombre. Ma se la nostra interpretazione è corretta, allora viene meno la stessa ragion d’essere del chiarimento di Tarquinio, in quando il punto dirimente del suo ragionamento è che la natura della NATO è cambiata, cosa che logicamente invece questo possibile non-detto contraddice.
Se Tarquinio non sta avanzando questo non-detto, allora non è chiaro questo “chiarimento” a cosa serva, e ancora meno cosa c’entri il fatto che chi ignora la storia negherebbe il fatto che la NATO abbia preceduto la fondazione del Patto di Varsavia. Se Tarquinio legge persone che non conoscono la storia, forse dovrebbe interrogarsi sulle sue letture o sulle sue amicizie. La nostra impressione è che qui Tarquinio stia facendo il gioco degli specchi tipico degli affabulatori: associa parole, aggettivi e concetti con un’accezione negativa (aggressività, ignoranti, negare la storia) al soggetto dei propri strali (la NATO), per macchiarne l’immagine. E’ il tipico artifizio retorico di chi non ha argomenti.
Per Tarquinio, e i suoi amici ignoranti, è utile aggiungere due brevi considerazioni storiche. Da una parte, il Piano Marshall, le Nazioni Unite, il Consiglio d’Europa, vengono tutti fondati prima del Patto di Varsavia: allora anche questi avrebbero avuto una natura aggressiva e quindi responsabilità nella reazione sovietica? Dall’altra parta, la NATO fu fondata nel 1949, ma la creazione della sua struttura militare avvenne solo negli anni Cinquanta, quando l’aggressività sovietica fu chiara e conclamata. D’altronde, basti un semplice “fatto” per usare le parole di Tarquinio: il primo Segretario Generale della NATO venne nominato nel 1952, ovvero tre anni dopo la firma del Patto Atlantico.
Paragrafo 2. Tarquinio poi aggiunge che:
Dopo la fine della Guerra fredda, la NATO ha mutato i suoi obiettivi strategici e lo ha fatto in sede intergovernativa, senza passare dal dibattito e dalla ratifica dei parlamenti.
Siamo di nuovo ai non sequitur e ai giochi degli specchi. In primo luogo, quale sarebbe esattamente il problema identificato da Tarquinio, il processo o il risultato? Se il problema è il risultato (l’aggressività della NATO), allora il processo è secondario e ha poco senso discuterlo. Se il problema è il processo (intergovernativo), allora basta chiederne una revisione, o un adeguamento: e ciò non porta logicamente allo scioglimento della NATO. Tarquinio menziona il processo, con il solo scopo di evidenziare aloni e ombre nella NATO, per continuare a nascondere il suo chiarimento.
Il problema è che l’assenza di logica nelle argomentazioni di Tarquinio ha importanti implicazioni politiche per un candidato alle elezioni. Dal 1991 ad oggi, il Partito Democratico (o i suoi eredi) sono stati al governo più volte: Prodi (1996 e 2008), D’Alema (1998), Amato (1999), Monti (2011), Letta (2013), Renzi (2014), Gentiloni (2016), Conte (2019), e Draghi (2021). Se Tarquinio ritiene che tutti questi governi si siano fatti turlupinare dalla NATO, dovrebbe dirlo chiaramente, e spiegarci come mai voglia stare in un partito fatto o di idioti o di complici.
In secondo luogo, tornando ai fatti, il cambiamento strategico a cui, penso, Tarquinio faccia riferimento è il seguente. Il Concetto Strategico è il documento nel quale la NATO, storicamente, identifica i suoi obiettivi strategici. Durante la Guerra Fredda, l’obiettivo strategico della NATO (il termine corretto sarebbe missione centrale, ma lasciamo perdere) era la deterrenza e la difesa: letteralmente far desistere l’avversario da un attacco (deterrenza) ed essere in grado di neutralizzarlo nel caso di fallimento (difesa). Nel 1991, finita la Guerra Fredda, la NATO pubblicò un nuovo Concetto Strategico. Questo documento, da una parte, rinominò la deterrenza e difesa in difesa collettiva, per segnalare dunque distensione e la necessità di andare oltre la contrapposizione che aveva caratterizzato la Guerra Fredda. Poi, la NATO aggiunse una seconda missione centrale: la gestione delle crisi. L’affermazione di Tarquinio sul cambio della natura della NATO, da alleanza difensiva a offensiva, in questo frangente fa oggettivamente ridere, se non facesse piangere. Nel momento in cui la NATO riduceva l’importanza delle armi nucleari, della difesa territoriale, del dispiegamento di truppe lungo il fronte, nel momento quindi in cui TUTTI i suoi Paesi tagliavano la spesa militare (tra il 30 e il 50%), in cui gli Stati Uniti riducevano il loro arsenale nucleare del 90% (unilateralmente, senza quindi alcun trattato o accordo), nel momento in cui la NATO stessa riduceva sostanzialmente le esercitazioni militari per conflitti ad alta intensità, e nel momento in cui la NATO prestava maggiore attenzione alla prevenzione e gestione delle crisi, secondo Marco Tarquinio, la NATO diventava più offensiva.
C’è ovviamente di più: l’introduzione di una nuova missione fondamentale nel Concetto Strategico del 1991 permise alla NATO non solo di segnalare, inequivocabilmente, alla Russia stessa la volontà di cooperazione e distensione, cosa pure a Mosca capirono, tanto che la Russia stesa chiese di entrare nella NATO e in ogni caso ne divenne partner a partire dal 1994, ma fece sì che la NATO potesse contribuire alla transizione politica e militare dell’Europa Centrale e Orientale. D’altronde, mentre uno studioso come John Mearsheimer (quello che dice che la guerra in Ucraina è tutta colpa della NATO) avvertiva allora che la fine della Guerra Fredda avrebbe portato a guerre e distruzione in Europa, l’Europa osservava in realtà l’inizio di un periodo di pace, liberà e crescita economico-politica senza precedenti. Ovviamente la storia non si fa con i ma, ma possiamo chiederci se e cosa sarebbe successo se i Paesi dell’Europa Centrale e Orientale fossero diventati autocrazie nazionaliste anziché diventare democrazie liberali (ovviamente con dei difetti). La transizione osservata in questa parte di Europa, rispetto a quella dei Balcani, negli anni Novanta, certo fa pensare.
Infine, il riferimento ai governi è abbastanza ridicolo. In primo luogo, raramente i governi votano singole decisioni di politica estera dei propri governi, specie quando queste non implicano impegni vincolanti di lungo tempo – come è il caso dell’aggiunta di questa seconda missione nel concetto strategico della NATO. A ciò va poi aggiunta un’ulteriore considerazione, ovvia a chi studia la storia ma evidentemente non altrettanto nota a chi rimprovera agli altri di non conoscerla (Tarquinio): durante la Guerra Freda, i Concetti Strategici della NATO erano classificati, ovvero non disponibili al pubblico. Si trattava di segreti militari che non potevano essere condivisi, in quanto avrebbero favorito l’Unione Sovietica. Nel 1991 ci fu un chiaro cambio di marcia: la NATO non solo aggiunge una missione più “soft” al suo repertorio, la gestione delle crisi, ma decise anche di comunicare maggiormente e più chiaramente le proprie attività, così da essere trasparente (verso il pubblico) e rassicurante (verso gli ex-avversari). In altre parole, quando i concetti strategici della NATO parlavano solo di bombe e distruzione e non erano consultabili al pubblico, dobbiamo derivare, per Tarquinio andava tutto bene; quando la NATO ha iniziato a parlare in pubblico anche di stabilizzazione, di trasformazione democratica delle forze armate, di peace-keeping, l’Alleanza diventava più offensiva.
Paragrafo 3. Oramai siamo a quasi ¾ dell’articolo e il chiarimento non è ancora arrivato, ma Tarquinio aggiunge l’ennesima chicca.
L’opinione pubblica e addirittura alcuni politici ignorano, per esempio, che navi militari dei Paesi NATO, Italia compresa, sono state e vengono ora impiegate nel mare meridionale cinese… siamo oramai ben lontani dal presidio difensivo dell’Atlantico del Nord.
Le possibilità sono due: o Tarquinio non ha idea di cosa stia parlando o sta volutamente dicendo una cosa inesatta con l’intento di far passare il messaggio che la NATO stia abbaiando alle porte della Cina, per usare una locuzione cara agli amici di Tarquinio, quelli per capirci che vedono troppa “frocciaggine” in giro. Semplicemente: non ci sono missioni NATO in Asia, men che meno nel mare cinese meridionale. Alcuni Paesi, della NATO e non, decidono in autonomia di mandare le loro navi in giro per il mondo, tra le altre cose per far rispettare il diritto internazionale marittimo, violato sistematicamente dalla Cina proprio in questi giorni, a scapito di Paesi più piccoli e indifesi (come le Filippine o Taiwan). Alcuni dei Paesi che mandano le loro navi sono membri della NATO. Ma sono anche membri dell’UE, dell’ONU, dell’OCSE, dell’OSCE e di molte altre organizzazioni. Tirare dentro la NATO in questo contesto non ha alcun senso. Sarebbe come dire che l’UNICEF (United Nations International Children's Emergency Fund) è diventata un’organizzazione offensiva, perché alcuni suoi membri mandano le navi nel mare cinese meridionale. C’è un dibattito sulla NATO in Asia? Sì, ma non ha nulla a che fare con quanto dice Tarquinio, e comunque non prevede alcuna missione NATO contro la Cina. Sono temi evidentemente troppo complessi per Tarquinio, che farebbe meglio ad occuparsi d’altro.
Paragrafo 4. Oramai siamo arrivati verso la fine della lettera-chiarimento. La prova del cambio della natura della NATO non è proprio convincente, ma soprattutto non c’è un’argomentazione logica che porti a considerare lo scioglimento dell’Alleanza Atlantica. Anziché affrontare questo tema, Tarquinio fa un’altra affermazione ad effetto che non c’entra nulla.
Poi le ripetute prese di posizione del Segretario Generale della NATO, Jens Stoltenberg – nel gelo, a quanto risulta, di buona parte dei diplomatici che lo attorniano – affinché tutti o almeno buona parte dei Paesi del Patto Atlantico autorizzino il governo ucraino del presidente Volodymyr Zelensky a utilizzare le armi fornite dalla NATO per attaccare direttamente obiettivi in territorio russo.
Ammetto di iniziare a fare fatica. Il Segretario Generale della NATO non chiede, e ancora meno a tutti gli alleati, di autorizzare attacchi contro obiettivi in territorio russo. Basta leggere l’intervista all’Economist, ammesso e non concesso che Tarquinio conosca l’inglese: il Segretario Generale si è chiesto se non sia il caso di ripensare le limitazioni che ALCUNI Paesi hanno imposto all’Ucraina per quanto riguarda delle armi da loro fornite. Va da sé, la NATO non ha fornito direttamente armi all’Ucraina, come fa credere Tarquinio: queste sono state fornite dai vari Paesi, NATO e non (Corea del Sud, Giappone, Australia non mi risultano essere membri della NATO). Il passaggio sul gelo è ulteriormente ridicolo. In primo luogo perché dubito Tarquinio conosca i diplomatici che stanno nel Private Office del Segretario Generale, o anche solo i rappresentanti diplomatici delle varie nazioni. I “fatti”, quelli che Tarquinio ama evidenziare, parlano però chiaro.
Dopo le dichiarazioni di Stoltenberg, Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna, Olanda, Svezia, Finlandia, Danimarca, Lettonia, Lituania, Estonia, Polonia, Cechia, Francia e Germania hanno affermato di autorizzare l’Ucraina a colpire obiettivi militari in territorio russo che sono attualmente funzionali all’offensiva contro Kharviv (altro dettaglio che Tarquinio dimentica). Tralasciando che questi Paesi, insieme, rappresentano la stragrande maggioranza degli aiuti militari e finanziari a Kyiv finora, è singolare come Tarquinio si dimentichi, anche in questo caso, di notare come il ripensamento suggerito da Stoltenberg sia perfettamente coerente con il diritto internazionale.
Paragrafo 5. Siamo arrivati alla fine, dopo salti pindarici, non sequitur, informazione incorrette, frasi subdole, e non-detti, onestamente il chiarimento non c’è. Tarquinio non riesce a dimostrare che la NATO ha cambiato natura, anzi, i fatti dicono esattamente l’opposto. Se intendeva altro, evidentemente non è stato chiaro. Ma Tarquinio arriva lo stesso alla conclusione, che più che conclusione è un dettame ideologico, visto che di basi logiche o empiriche non ce ne sono:
Ho detto in TV ciò che dico, penso e scrivo da tempo e cioè che una nuova alleanza paritaria tra America ed Europa non si fa in un giorno. […] Abbiamo cambiato in peggio la NATO. Sciogliamola e diamo vita a un nuovo sistema di difesa. Non si fa in un giorno ma meglio aver chiaro che in un giorno solo, con questa NATO, si può precipitare nell’abisso scavato dalla guerra di Putin.
Riconosco a Tarquinio una capacità più unica che rara, ovvero di riuscire a dire più assurdità e inesattezze che parole. Qui Tarquinio dimostra in primo luogo di non conoscere come è organizzata e funziona la NATO, dove il peso degli Stati Uniti non deriva tanto da meccanismi istituzionali che conferiscono particolare influenza a Washington, ma invece dal fatto che i Paesi europei non hanno mai speso e voluto spendere in difesa ciò che dovrebbero, chiedendo così agli Stati Uniti di difenderli.
La storia, quella che Tarquinio invoca, è abbastanza chiara: gli Stati Uniti volevano affidare la difesa europea agli Europei, i quali invece volevano la presenza americana fin dagli inizi. Per avere maggiore influenza nella NATO, basta spendere di più in difesa. Tarquinio probabilmente è contrario: nel suo ragionamento contorto, non ne sono neppure sicuro. Il punto centrale è che se i Paesi Europei dovessero uscire dalla NATO, la spesa in difesa dovrebbe aumentare ancora di più, in quanto bisognerebbe colmare tutto il vuoto di capacità e competenze ora in mano agli Stati Uniti. Ma questa è logica e oramai è chiaro come sia totalmente sconosciuta a Tarquinio. In secondo luogo, e più preoccupante, proprio come i no-euro che nei momenti più bui della crisi dell’euro chiedevano di uscire dalla moneta unica, Tarquinio suggerisce di uscire da quella che è indiscutibilmente la più forte, efficace e duratura alleanza nella storia nel momento in cui la minaccia ad alcuni suoi membri è più alta – minaccia talmente elevata da portare due Paesi neutrali come Svezia e Finlandia ad entrarvi.
Il mio consiglio a Tarquinio è di cercare di non parlare troppo, e se proprio deve, di non chiarire, perché l’unica cosa chiara, ora, dopo aver letto la sua lettera, è che davvero questi non ha idea di cosa stia parlando. Mi ricorda uno studente impreparato che si arrampica sui fatti, o su Il Fatto.
Voto: 14/30. Poca conoscenza storica, limitate capacità analitiche, discutibile proprietà di linguaggio.
Addendum: solo nella notte mi sono reso conto di essermi perso un pezzo centrale della lettera di Tarquinio, e precisamente quello in cui viene spiegato perché la NATO andrebbe sciolta. Ovviamente, è tutta colpa mia, non della prosa surreale e della struttura sgangherata del pezzo di Tarquinio. Riporto qui il pezzo incriminato, per poi esaminarlo:
La dottrina militare di Mosca prevede la risposta – anche nucleare – in caso di attacco al territorio della Federazione russa. E l’articolo 5 del Patto Atlantico prevede la solidarietà militare di tutti gli alleati nei confronti di ogni Paese membro. Stoltenberg, Segretario Generale e portavoce dell’Alleanza, prefigura e auspica scelte anche autonome dei Paesi membri della NATO e dice molto di più: alcuni Alleati hanno già allentato ogni restrizione all’uso delle armi. Sì, sono scelte autonome, ma riguardano tutti. Secondo questa logica e queste indicazioni, ogni Paese può, schierando se stesso, schierare l’Alleanza. Se scattasse una risposta russa, dovremmo replicare uniti. Un dovere che riguarderebbe anche i Paesi, l’Italia è tra questi, che non intendono autorizzare attacchi sul territorio russo con le proprie armi. Se la NATO replicasse, saremmo tutti in guerra. Se invece non lo facesse, sarebbe virtualmente sciolta. Autosciolta. Sì, non siamo solo inchiodati davanti all’orrore, siamo sospesi tra tutto e il niente.
Questo lungo paragrafo era il Sacro Graal che cercavo nel pezzo di Tarquinio e che, fino a ieri sera, non avevo trovato: questo è infatti il perno su cui si muove la richiesta di sciogliere la NATO. C’è un solo problema: non ha assolutamente senso e paradossalmente contraddice Tarquinio.
Andiamo in ordine:
1. La dottrina militare di Mosca prevede la risposta in caso di attacco al proprio territorio? In qualsiasi Paese dove al potere non c’è Tarquinio le forze militari rispondono ad un’invasione. Ma un attacco ucraino sul territorio russo non sarebbe un’invasione, sarebbe la reazione all’invasione russa. D’altronde, l’Ucraina ha già lanciato molteplici attacchi con droni autoprodotti sul suolo russo e la Russia non ha risposto colpendo la NATO o usando armi nucleari.
2. L’articolo 5 della NATO dice una cosa ben diversa da quanto sostenuto da Tarquinio.
The Parties agree that an armed attack against one or more of them in Europe or North America shall be considered an attack against them all and consequently they agree that, if such an armed attack occurs, each of them, in exercise of the right of individual or collective self-defence recognised by Article 51 of the Charter of the United Nations, will assist the Party or Parties so attacked by taking forthwith, individually and in concert with the other Parties, such action as it deems necessary, including the use of armed force, to restore and maintain the security of the North Atlantic area. Any such armed attack and all measures taken as a result thereof shall immediately be reported to the Security Council. Such measures shall be terminated when the Security Council has taken the measures necessary to restore and maintain international peace and security
Detto altrimenti, non c’è nessuna risposta militare inevitabile e automatica e come si vede ogni Paese può reagire come ritiene adeguato.
3. Tarquinio poi critica Stoltenberg in quanto questo prefigurerebbe e auspicherebbe scelte anche autonome dei Paesi membri della NATO. Il problema della NATO, secondo Tarquinio, sarebbe dunque dovuto al fatto che non ci detta la linea di politica estera, ci lascia scegliere, non impone decisioni e soluzioni. Magari Tarquinio dovrebbe spiegarlo al diretto del quotidiano che lo ospita: da due anni, su Il Fatto leggiamo che la linea bellicista della NATO viene imposta da Washington, ma se è lo stesso Segretario Generale della NATO ad auspicare scelte autonome, allora è vero esattamente il contrario.
4. Nel passaggio successivo, Tarquinio dice che “schierando se stesso, ogni Paese schiererebbe l’Alleanza, e in caso di risposta russa dovremmo replicare uniti. Come si vede sopra, l’articolo 5 non dice che la risposta deve essere automatica e unitaria: “individually or in concert”. Ma non è neppure vero che schierando se stesso ogni Paese schiererebbe l’Alleanza, anche perché ciò che attualmente sta succedendo è il semplice rispetto del diritto di autodifesa sancito dalla Carta delle Nazioni Unite nell’articolo 51. Se la Russia attaccasse un Paese NATO per via del suo supporto all’Ucraina, in ogni caso, la NATO sarebbe tirata in causa? Certo, ma è una cosa assolutamente positiva, in quanto impedisce che il bullismo di Putin possa funzionare e lo fa così desistere da azioni rischiose – proprio come successo nel corso degli ultimi due anni.
5. C’è però un aspetto davvero surreale e che mi è saltato all’occhio solo leggendo l’articolo di Carlo Jean su Formiche ieri sera. Se non ci sono automatismi nel Trattato di Washington che stabilisce la NATO, ci sono nel trattato di Lisbona dell’Unione Europea, precisamente nell’articolo 42.7. Se dunque Tarquinio ritiene che vada sciolta un’associazione di Paesi per via dei suoi automatismi militari, allora Tarquinio ha sbagliato obiettivo, non sta chiedendo lo scioglimento della NATO ma dell’Unione Europea!
]]>Vuole un uso più efficiente dei fondi europei (PNRR compreso) in base all'assunto dello spendere di più: ma questo dipende dalle amministrazioni nazionali e non da quelle europee. La UE assegna i fondi, se un Paese non è in grado di spenderli il problema non è della UE.
Vuole che la UE attraverso politiche economiche dedicate rilanci il Sistema Italia (?) con riguardo al Mezzogiorno. Questo in realtà viene già fatto attraverso i fondi di coesione e quelli dedicati agli obiettivi 1 e 2.
LEGA
Lega vaneggia di fine dell'austerità e della svalutazione salariale. Vuole una maggior armonizzazione fiscale e contemporaneamente che le politiche fiscali restino prerogative nazionali: tradotto, la UE dovrebbe invitare Orban ad elevare la corporate tax, oggi al 9%, al 24-30%! Perché non ci parla Salvini?
Anche la Lega vuole che la BCE si occupi di politica fiscale ponendosi come obiettivo la piena occupazione (sigh)
FORZA ITALIA (FI)
FI vuole l'armonizzazione delle aliquote fiscali e la collaborazione contro l'elusione (che già c'è). Come FdI, lamenta l'eccesso di burocrazia nell'utilizzo dei fondi UE. E sempre come FdI, omette di dire che l'eccesso di burocrazia è tutto italiano.
Dulcis in fundo, la pistola fumante: messa in comune del debito con "equa distribuzione tra i Paesi membri". Oh yeah, noi facciamo debito e gli altri lo pagano!
FI non è l'unico partito che affronta di petto (meglio dire ad mentula canis) il debito pubblico. C'è anche chi fa peggio.
PARTITO DEMOCRATICO (PD)
l programma del PD è, come accade spesso, un faticoso esercizio di interpretazione. È diviso per capitoli (bene) ma poi i capitoli contengono un po' di tutto, quindi per cercare di capire se c'è una coerenza nella parte economica bisogna leggere con attenzione tutte le 49 pagine.
Si parte con un confuso capitolo su Europa per l'Italia, Italia per l'Europa che nella sostanza vuole:
a) Un fondo SURE permanente di tutela del reddito dei lavoratori. Lo SURE fu una misura straordinaria adottata durante la pandemia; il fondo mise a disposizione circa 100 miliardi di prestiti, dei quali 98,4 furono erogati. Manco a dirlo l'Italia fu il principale beneficiario con 27.4 miliardi. Dei 27 Paesi solo 19 decisero di usufruirne. Il costo del prestito per l'Italia è calcolato dalla Commissione in 9 miliardi di cui circa 3 a carico nostro.
b) NGEU deve diventare strutturale;
c) Il Green deal edilizio deve essere pagato con un fondo europeo ad hoc;
d) Immancabile, deve essere superata l'austerity (ma quando mai c'è stata?);
e) Chiede un Industrial Act che insieme a SURE e NGEU permanenti, eroghi formazione qualificata (almeno questo si capisce) ai lavoratori;
Anche il PD vuole l'armonizzazione fiscale, come FI. Al grido tassare dove si realizzano i profitti (cosa che già avviene) chiede l'armonizzazione della base imponibile e una tassa sulle transazioni finanziarie (boh).
Seguono poi tutta una serie di punti che c'entrano con la UE come la nutella con gli spaghetti: la proposta di legge per il salario minimo in Italia, la diffusione sul territorio dei circoli del PD e altro ancora.
ALLEANZA VERDI SINISTRA
Devo confessare che il mio programma preferito è quello di Alleanza Verdi Sinistra.
All'interno delle 44 pagine si trovano elementi di raffinato dadaismo. Due esempi:
1) Decarbonizzare la finanza*;
*Offro una cena a chi mi saprà spiegare cosa significa
2) Sviluppare un’industria dell’eco-edilizia che utilizzi materiali di origine biologica (tra cui legno, terra e paglia);
Benedetti ragazz*, una delle poche cose che so sull'energia è che per arrivare ad una neutralità climatica bisogna ridurre gli sprechi di calore generati dalle nostre case. Dovremmo vivere in capanne di paglia come nella preistoria?
Btw, l'economia.
- Cà va sans dire stop all'austerity;
- no al patto di stabilità;
- tassa sulle transazioni finanziarie (come il PD);
- lotta ai paradisi fiscali europei (che non ci sono);
- introduzione di un'imposta europea sui grandi patrimoni e un'altra sulle pratiche clima-alteranti (yacht e jet);
- Introduzione di un reddito minimo europeo;
- lotta contro AirbnB.
Un fondo europeo per gli investimenti ambientali con dotazione pari ad almeno 2000 miliardi. Per dare un ordine di grandezza il QFP 2021-2027 vale 1087 miliardi. Ma il meglio deve ancora arrivare:
- Ristrutturazione e mutualizzazione del debito pubblico per quei Paesi che hanno un rapporto superiore al 60% mediante acquisto della BCE di obbligazioni perpetue a tasso 0%. Un'assurdità del genere fu proposta ai tempi da Laura Castelli (quella del "questo lo dice lei") a cui Bonelli dovrebbe pagare il copyright
Dopo i fiumi di parole dei 2 programmi precedenti (grazie ai Jalisse non soltanto per l'ispirazione), ora un programma stringato, talmente stringato che per la parte economica dice sostanzialmente "andate a leggere Mario Draghi"
STATI UNITI D'EUROPA
Numeri non ce ne sono eccezion fatta per un generico invito a portare il budget dall'1 al 5%
Il resto è tutto improntato all'unione (meglio sarebbe dire unificazione): unione del mercato dei capitali, unione delle borse, unione delle regole di risoluzione bancaria, unione delle tutele sui depositi. Accenna, senza nominarlo, ad un fondo SURE per un sussidio di disoccupazione europeo (vedi PD). Senza unione fiscale (che non si può fare senza prima armonizzare i fondamentali macro) è impossibile.
Come altri chiede che il NGEU diventi strutturale.
Menzione di merito per un passaggio a pagina 10 in cui stigmatizza l'irresponsabilità fiscale degli Stati che scaricano il costo del benessere attuale sulle future generazioni. Bastava scrivere Italia.
Menzione di demerito per la Renziata a pag.6 dove si chiede una #18app (proprio così, con l'hashtag) identica al bonus cultura del 2016. A proposito di quel bonus Renzi va dicendo che mezza Europa l'ha copiato: è falso.
Renzi ha indubbie qualità ma non riesce a togliersi il vizio di guardarsi allo specchio. Mi chiedo come mai nel programma non abbia inserito il Jobs Act europeo
AZIONE-SIAMO EUROPEI (AZ)
Come altre volte il programma di Azione ha il vantaggio di essere impostato secondo lo schema
FATTO --> CRITICITÀ --> PROPOSTA
Questo consente di inquadrare subito il tema senza dover fare lo sforzo di leggere...i Jalisse. Non c'è un vero capitolo sull'economia, piuttosto ci sono punti economici all'interno di ogni capitolo. Alcuni passaggi sono calendiani in purezza:
i) Armonizzazione delle aliquote per corporate tax e basi imponibili (come detto impossibile) contro i cd. paradisi fiscali.
E' una debolezza mia ma leggere di paradisi fiscali europei mi fa salire la carogna. Suggerisco la visione di questo mio vecchio video ispirato proprio da Calenda
ii) Carlo si preoccupa che la Global Minimum Tax (o GMT) sia applicata. La GMT è un accordo intergovernativo fra 130 Paesi fra cui tutti quelli UE, UK, USA e altri che mira ad applicare un'aliquota minima del 15% sulle corporation che hanno un fatturato superiore ai 750 milioni di dollari. In UE ci sono 2 Stati, la già citata Ungheria e la Bulgaria, che applicano aliquote inferiori al 10%.
A mio giudizio non è questa la strada e questo punto vale più o meno come slogan.
Per la direttiva case green Az. chiede fondi alla UE sul modello NGEU. Altri fondi europei poi sarebbero richiesti per la ristrutturazione degli edifici non sottoposti a ristrutturazione profonda (boh). Altro debito comune poi per la ristrutturazione delle imprese legate all'automotive.
Ha senso la richiesta di un fondo comune per la difesa europea ed è commovente (sono sincero) l'invocazione del ritorno alla normalità per il divieto di aiuti di Stato. Il corpo di proposte sull'introduzione di un'unica politica industriale europea è, al netto della centrale acquisti per la difesa, una totale idiozia.
In definitiva un programma scritto meglio di altri e con qualche punto razionale e condivisibile ma con il difetto di essere quasi tutto basato sul debito comune.
MOVIMENTO 5 STELLE
Il programma del Movimento 5 Stelle s'intitola L'Italia che Conta, ma si potrebbe chiamare L'Italia che Conte oppure, meglio, La Carta Costa.
Ben 104 pagine che hanno la pretesa di discutere di tutto ma che non chiariscono quasi niente, insomma in perfetto stile della casa.
Subito una cosa che mi è saltata all'occhio: nel capitolo 1, quello sulla Pace in Europa, il punto 5 recita Allargamento sì, ma non per tutti; all'interno si legge l'auspicio dell'allargamento ai Paesi dei Balcani occidentali e non si fa nessun cenno a Ucraina, Georgia e Moldova che sarebbero quindi fra i non per tutti.
E anche questa volta Putin è stato accontentato!
Sul deficit e il Patto di Stabilità il M5S auspica che vengano scorporate praticamente tutte le spese tranne quelle per difesa: sanità sì, istruzione sì, politica industriale sì, transizione verde sì, difesa no.
E anche questa volta Putin è stato accontentato!
Un sussulto del vecchio e caro M5S lo si trova a pagina 13 dove si chiede la chiusura della sede del parlamento a Strasburgo che sarebbe trasformato in hub per la pace (?) risparmiando la bellezza di 70 milioni, lo 0,000064% del QFP. Esticazzi!
Allo Stop Austerity è dedicato l'intero capitolo 4 e prevede come punti qualificanti l'espansione del bilancio dall'1% verso l'infinito, scaricando (si legge) il peso degli aggiustamenti fiscali sulle economie più forti.
Capito? Olanda Germania Lussemburgo Dateci li sordi!
Estendere la tassazione sugli extraprofitti che ha funzionato così bene in Italia 🤡a tutta la UE, tassare le transazioni finanziare (aridaglie) e chi investe in cryptovalute.
La BCE deve cessare le politiche restrittive degli ultimi anni (quali, quando?).
Capitolo banche a pag. 29: la riforma della gestione delle crisi (CMDI) va bene ma gli Stati membri devono poter intervenire liberamente con denaro pubblico per salvare i piccoli istituti di credito in crisi. Insomma la CMDI va bene ma anche no.
Punto qualificante sul deshoring e la tassazione delle multinazionali brutte e cattive: poiché della Global Minimum Tax Conte non si fida, eccolo a proporre una tassazione sull'utile mondiale consolidato calcolato su fatturato (non sugli utili, dice proprio fatturato), capitale e manodopera. L'hanno chiamato con iperbolica fantasia catasto finanziario.
Dulcis in fundo: il reddito di cittadinanza europeo (toh).
Dopo la faticaccia pentastellata, due compiti semplici semplici.
DE LUCA
Partiamo da De Luca e il suo listone-frigorifero™
20 punti che iniziano con la parola Libertà. Libertà di fare un po' il cazz che gli pare con un occhio di riguardo naturalmente all'armamentario pandemico (no greenpass, no vaccini ecc.): Di economia ben poco: un'immaginaria IMU europea che starebbe per essere introdotta e che ovviamente De Luca vuole contrastare, i soliti paradisi fiscali europei, la cancellazione dell'Irpef agricola, la difesa di balneari e ambulanti, il Patto di stabilità brutto brutto brutto.
SANTORO E PACE TERRA DIGNITÀ
L'economia santoriana è un combinato di cancellazione del debito e cancellazione del Patto di stabilità. Il liberismo (=politiche di austerità), dice, ha impedito l'investimento in risorse umane. Per questo propone la riduzione dell'orario di lavoro a 32 ore in tutt'Europa con aumento di stipendio cosicché si abbia tempo per viaggiare, frequentare un corso di formazione o iscriversi in palestra (è scritto proprio così). Ha dimenticato di scrivere che si può fare all'ammore.
Fine del capitolo dedicato all'economia.
Naturalmente in tutti i programmi elettorali ci sono esempi di raffinato dadaismo (mia personale declinazione del premio Giachetti). In quello di Fratelli d'Italia si afferma "difendere le imprese balneari italiane...garantendo la corretta applicazione delle direttiva Bolkenstein" Sulla infinita vicenda dei balneari si sono pronunciati numerose volte gli organismi giurisdizionali italiani ed europei sempre con lo stesso risultato. Solo negli ultimi mesi la Corte di Giustizia Europea (sentenza C348/22) e il Consiglio di Stato (sentenza 3940/2024) che hanno stabilito per l'ennesima volta che le proroghe sono illegittime. L'Italia per questa vicenda è in procedura d'infrazione (4118/2020) e quest'anno la procedura dovrebbe concludersi con la corretta applicazione della direttiva Bolkenstein: con una condanna dell'Italia.
Ringrazio PagellaPolitica.it per aver raccolto in un unico link tutti i programmi risparmiandomi la fatica di cercarli. Li trovate tutti qui:
Così come l’Unione Europea, anche tutte le sue istituzioni sono il risultato di quella che Karl Popper definiva “ingegneria sociale gradualistica”. Infatti, come sostenne Soros, gli stessi padri fondatori erano ben consapevoli che il raggiungimento dell’ideale “Europa” era possibile raggiungerlo solo attraverso unprocesso graduale, formato da traguardi e scadenze limitati, che si sarebbero inevitabilmente modificati ed evoluti nel corso del tempo. Questo processo è ancora oggi in evoluzione sia per l’Unione Europea che, ovviamente, per tutti i suoi organi, tra i quali c’è anche il Consiglio dell’Unione Europea, che rappresenta il tema principale del presente articolo.
Il Consiglio dell’Unione Europea nasce come Consiglio Speciale nel 1958 ed è composto inizialmente dai soli ministri degli Stati membri fondatori (mentre oggi a comporlo sono i ministri di ciascuno degli Stati membri). In particolare, il Consiglio viene attivato dai ministri dell’economia che, come facilmente intuibile, rivestono all’interno dell’Unione Europea uno dei ruoli più importanti (se non il più importante) considerando che l’Unione Europea (dapprima CECA, poi CEE e oggi UE) nasce sul fondamento di integrare le economie e renderle maggiormente coese all’interno dei confini dei Paesi fondatori.
Successivamente (1967-1971) viene trasformato in Consiglio delle Comunità Europee e diventa una sorta di Consiglio Unico; questo si verifica nel momento in cui c’è l’accorpamento tra le varie entità europee, proprio in previsione di una maggiore integrazione tra i Paesi membri. Nel 1993, infine, viene definitivamente adottata la dicitura attuale ovvero Consiglio dell’Unione Europea. Come già specificato in premessa, è assolutamente importante comprendere che non esiste un solo Consiglio, ma occorre differenziare il Consiglio dell'Unione Europea - o semplicemente Consiglio o Consilium a seguito del Trattato di Lisbona - da un altro organo detto Consiglio dell’UE, il quale è strettamente collegato al Consiglio vero e proprio e integrato ad esso, nonché funzionale all’Unione Europea ma non è esattamente il Consiglio dell’Unione Europea (rectius, Consilium).
Ricapitolando, al fine di non confonderci con la terminologia, esiste il Consiglio dell’Unione Europea, il Consiglio europeo che è un organo della stessa UE e il Consiglio d’Europa che non è un’istituzione dell’Unione Europea e rappresenta la principale organizzazione di difesa dei diritti umani, composto attualmente da 46 Stati membri.
Il Consiglio dell’Unione Europea è un’istituzione che rappresenta i governi degli Stati membri ed è composto da un ministro competente per Stato e si riunisce, di norma, quattro volte l’anno, al fine di poter definire le priorità e gli orientamenti politici.
Essendo una rappresentazione dei governi di ciascuno Stato membro, è evidente che all’interno del Consiglio dell’Unione Europea vi sia una componente politica molto forte, che ovviamente rispecchia l’andamento delle elezioni all’interno degli Stati membri.
Nonostante questa componente politica molto forte, risulta essere presente anche una componente tecnocratica importante. Con riferimento alla componente tecnocratica, che in linea teorica dovrebbe possedere una certa imparzialità, nella realtà risulta anch’essa influenzata dalla politica interna di ciascun Paese membro tant’è che le iniziative, nonché le decisioni che vengono adottate, sono fortemente condizionate (com’è giusto che sia, probabilmente) dalla politica di ciascun Paese membro.
Il Consiglio dell’Unione Europea, così come strettamente inteso, è un’entità giuridica unica che non ha membri permanenti e che si riunisce in dieci “formazioni” a seconda dell’argomento trattato che agiscono come un unico organo, ad eccezione della Formazione Affari generali (coordinamento) e Affari esteri.
Le dieci “formazioni” in particolare, sono:
Le formazioni si occupano delle questioni esclusive oppure condivise con gli Stati membri e, attualmente, si occupano di Affari generali e Affari esteri dell’Unione Europea (a tal proposito, è utile rammentare che nella suddivisione e nei rapporti esistenti tra Unione Europea e Stati membri, ci sono materie di esclusiva competenza dell’UE, materie di competenza condivisa tra Stati membri e UE, infine materie di esclusiva competenza degli Stati membri).
Ovviamente, però, poiché queste formazioni hanno competenze specifiche, possono cambiare durante gli anni, perché negli anni cambiano le priorità dell’Unione Europea.
Le formazioni, inoltre, essendo rappresentate dai ministri dei governi di ciascun Paese dell’UE, variano nel tempo, così come varia anche il Presidente. In questo caso, però, c’è da specificare che il Presidente varia ogni sei mesi e la presidenza spetta a ciascun Paese dell’UE, a rotazione.
Accanto al Consiglio, poi, per il corretto funzionamento ci si avvale di altri gruppi o istituzioni e, tra le più importanti, è doveroso menzionare due gruppi permanenti, ovvero il Coreper I (“parte prima”) e il Coreper II (“parte seconda”).
Sia il Coreper I che il Coreper II rappresentano i principali organi preparatori del Consiglio e sono composti dai rappresentanti permanenti aggiunti di ciascun Paese e presieduti dal rappresentante permanente del Paese che esercita anche la presidenza del Consiglio “Affari generali”.
Una cosa davvero molto importante è che, anche se si è in presenza di più articolazioni all’interno del Consiglio dell’Unione Europea, tutte queste articolazioni, formazioni e gruppi permanenti compresi, devono agire come un unico organo.
Ad esempio, se nel consiglio si deve trattare un problema relativo all’Agricoltura e Pesca (che come abbiamo visto rappresenta una Formazione specifica), anche se i principali attori di quel consiglio specifico saranno i ministri competenti per Agricoltura e Pesca, tutte le decisioni saranno prese dal Consiglio inteso come unico organo, dunque non ci sarà una diretta attribuzione di responsabilità anche se ad avere un ruolo predominante sarà la Formazione relativa alla materia che viene trattate che, nella fattispecie, sarebbe quella di Agricoltura e Pesca.
Il concetto di Consiglio come unico organo ha una matrice strategica e politica importante, considerando che, probabilmente, ha l’obiettivo di evitare che ci siano quelle tensioni che si possono scatenare fra le diverse istanze che arrivano dagli Stati membri. Si ricordi, ad esempio, il caso ormai famoso della “crisi della sedia vuota”, che si verificò nel 1965 quando per difendere gli interessi nazionali, la Francia di Charles de Gaulle iniziò a disertare le riunioni della Comunità, e che fu superata solo attraverso il Compromesso di Lussemburgo (il quale stabilì che il principio dell’unanimità avrebbe sostituito il criterio del voto a maggioranza semplice, tutte le volte in cui sarebbero stati in gioco interessi rilevanti per uno degli Stati membri).
È questo il caso del ministro dell’Istruzione e del merito, Giuseppe Valditara, che alla XXII edizione di Futuro Direzione Nord (kermesse promossa dalla Fondazione Stelline insieme a Inrete, in collaborazione con Assolombarda e con il contributo di Regione Lombardia) è intervenuto a proposito dei programmi scolastici.
Secondo il ministro infatti, riferendosi in particolare ai programmi della scuola primaria, così si esprime: “c'è troppa roba. In terza elementare si vanno a spiegare tutte le specie dei dinosauri, tutto questo a che serve? E poi non conosciamo le esperienze più importanti del nostro passato che ci hanno dato i grandi valori dell'Occidente [...]. Bisogna semplificare e far prevalere la qualità sulla quantità.”
Tralasciando per il momento la questione dei cosiddetti “valori occidentali” sui quali torneremo più avanti, bisogna soffermarsi sulla questione della presunta inutilità dello studio dei dinosauri. Le dichiarazioni del ministro Valditara, mostrano una notevole ignoranza e di certo una, ancor più grave, insensibilità ai valori del pensiero critico e razionale di cui la scienza rappresenta la massima espressione, che forse non si addicono proprio bene alla carica da lui ricoperta.
Perché è importante studiare i dinosauri?
Ma a cosa serve quindi studiare i dinosauri? Perché si studiano esseri estinti circa 65 milioni di anni fa?
Tentiamo di spiegarlo al nostro caro Ministro.
Lo studio dei dinosauri, e in generale la paleontologia, ha svolto un ruolo cruciale nello sviluppo della teoria dell’evoluzionismo e di altri concetti scientifici, dalla tettonica a placche alla biogeografia. Come sostiene Enrico Bucci (Professor presso la Temple University di Philadelphia, noto biologo e autore del libro “Cattivi Scienziati”, particolarmente attivo nel campo dell’Etica ed integrità della ricerca scientifica) all’interno del suo articolo per “Il Foglio”, il quale si scaglia duramente contro le assurdità di Valditara: “Tutte queste attività nascono come risultato dell'innata curiosità dell'umanità di indagare come funziona il nostro mondo e dove ci collochiamo nel mondo naturale che vediamo intorno a noi. I reperti fossili documentano che oggi conviviamo con una frazione minuscola di tutti gli organismi esistiti in passato sul nostro pianeta.
Eppure, siamo collegati a tutti questi organismi, passati e presenti, attraverso la lunga storia evolutiva della vita”. Tutto questo sapere può essere utile ancora oggi, infatti il professore continua: “Come illustra la documentazione fossile di dinosauri e altri organismi, i cambiamenti climatici e gli episodi di estinzione hanno alterato il corso della storia della Terra per miliardi di anni, una prospettiva che può aiutarci a comprendere meglio anche le sfide che dobbiamo affrontare attualmente.” I dinosauri sono uno strumento essenziale “per far comprendere ad un bambino qual è il posto degli esseri umani sul nostro pianeta, allo svolgersi della sua lunghissima storia di miliardi di anni e, in prospettiva, il posto della nostra specie nella ricchissima, variegata e stupefacente manifestazione della diversità dei viventi; un concetto che, per tutta la vita, è un potente vaccino contro l’antropocentrismo di ideologie, filosofie e religioni che da sempre pongono l’uomo come culmine di un qualche ipotetico processo, che avrebbe il suo fine nella sua generazione e che lo metterebbe una spanna al di sopra di ogni altra specie e lo porrebbe al riparo dalle conseguenze delle sue azioni”.
L’idea di estinzione di massa, di evoluzione della vita, di variazione e selezione di Darwin, tutto ciò che l’evoluzionismo comporta (si consiglia a proposito la lettura di “Darwin e la filosofia” di Antonello La Vergata) “fanno parte del bagaglio cognitivo indispensabile che ogni essere umano dovrebbe possedere, e sono idee che, proprio guarda caso tramite i dinosauri, possono essere illustrate agli scolari elementari in ragione del grandissimo fascino che quelle creature posseggono per i bambini di tutte le età.” Enorme fascino quello esercitato sui bambini dai dinosauri, dimostrato dal successo della vendita di giocattoli, gadget, film a tema dinosauri, che li rende un'occasione per l’insegnamento di concetti scientifici, metodo scientifico ed interesse per la scienza che altrimenti sarebbe, se non impossibile, impresa ardua per i docenti.
Lo studio dell’evoluzione inoltre, trascende lo stretto ambito delle scienze biologiche. È infatti una tematica altamente interdisciplinare, che consente di comprendere altri aspetti della nostra vita: dalla psicologia, alle nostre credenze, dalla morale fino ai rapporti tra noi, l’ambiente, gli ecosistemi e le altre specie viventi. Liquidare quindi a qualcosa di lontano ed inutile lo studio dei dinosauri come ha fatto il ministro rappresenta una grave e ingiustificata superficialità.
Approfondiamo adesso alla questione dei “valori dell’occidente” di cui parlava Valditara. Innanzitutto non si capisce a quale valori il ministro si stia riferendo. Infatti, tra i grandi valori che abbiamo ereditato dal nostro passato vi sono sicuramente quelli del pensiero critico e razionale, che come massima espressione hanno quella della scienza.
Questo sproloquio di Valditara, vago e senza sostanza, dal sapore molto oscurantista, sembra più che altro un goffo attacco all’autonomia della scuola e all’insegnamento di materie scientifiche, e in particolare ci si può chiedere “quale giovamento possa trarre un ragazzino di terza elementare dalla rimozione di qualche manciata di nozioni sui dinosauri [...] Per sostituirla con cosa? Con le eroiche gesta di qualche personaggio storico caro alla retorica nazionalista? Forse che i dinosauri non sono epici? Forse che la loro esistenza non ci insegni qualcosa sulle nostre origini?”, scrive il paleontologo Andrea Cau, nel suo blog Theropoda. ll ministro Valditara ritiene forse che certe nozioni e certi interessi non vadano coltivati e instillati, e che bisogna pensare fin dalla tenera età all’inserimento nel mondo del lavoro, altrimenti, come lui ha dichiarato, “che uno arrivi poi a disperdersi?” Ma come dice Enrico Bucci “uno di quegli scolari elementari che “si è disperso” inseguendo anche a scuola i dinosauri sono io; e le assicuro che il lavoro non mi manca, anche perché ciò che seguendo quei bestioni ho imparato di generale ed importante sulla scienza [...] non mi è stato per nulla di imbarazzo, nonostante qualche ministro dia dimostrazione che ignorando l’importanza di certi fatti si può comunque fare carriera”.
Attraverso questi argomenti, speriamo di controbilanciare le affermazioni del Ministro, soprattutto, in un paese, ricco di siti di ritrovamento fossili, in cui però si esprime difficoltà nel reperire finanziamenti e proseguire nel mondo della ricerca.
La Commissione svolge diverse funzioni essenziali all'interno dell'Unione europea, fungendo sia da organo esecutivo che da “iniziatore” della legislazione. In altre parole, ha la responsabilità esclusiva di proporre leggi, che è fondamentale per il suo ruolo nel definire la politica dell'UE in vari settori, e le conferisce un’influenza eccezionale sulle altre istituzioni.
La sua capacità di proporre leggi consente di affrontare questioni transnazionali che richiedono una risposta coordinata da parte degli Stati membri. Ad esempio, temi come il cambiamento climatico, la sicurezza energetica e la gestione delle risorse naturali sono spesso al centro delle proposte legislative. Oltre a proporre leggi, la Commissione è responsabile dell'attuazione delle decisioni dell'UE. Ciò include la gestione e la distribuzione dei fondi, garantendo che il bilancio dell'Unione venga utilizzato in modo efficiente e in linea con gli obiettivi stabiliti. Questo compito richiede una supervisione rigorosa e una gestione attenta per assicurare che le politiche e i programmi dell'UE siano eseguiti correttamente.
Per questo, quando uno Stato membro non adempie ai suoi obblighi, la Commissione ha l'autorità di avviare procedure di infrazione. Questa funzione di vigilanza è strettamente legata alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea. Infatti, la Corte non ha il potere di avviare autonomamente procedimenti per infrazione. Pertanto, dipende dalle segnalazioni della Commissione per intraprendere azioni legali contro gli Stati membri che violano il diritto dell'Unione.
Il processo inizia quando la Commissione sospetta una violazione del diritto dell'UE. Avviando una procedura di infrazione, invia una lettera di costituzione in mora allo Stato Membro interessato, chiedendo chiarimenti sulla presunta violazione. Se lo Stato membro non risponde in modo soddisfacente o non corregge la violazione, la Commissione può emettere un parere motivato, esprimendo ufficialmente la sua posizione sulla questione. Nel caso in cui lo Stato membro continuasse a non conformarsi, la Commissione potrebbe decidere di deferire il caso alla Corte di Giustizia. Una volta ricevuta la segnalazione, la Corte esamina il caso e può emettere una sentenza che obbliga lo Stato membro a conformarsi al diritto dell'UE. Se lo Stato membro non si conforma alla sentenza, la Corte può imporre sanzioni finanziarie.
Sul fronte internazionale, la Commissione rappresenta l'UE nei negoziati con paesi terzi e organizzazioni internazionali. Attraverso l'Alto Rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, la Commissione lavora per elaborare accordi che riflettano gli interessi collettivi degli Stati membri, posizionando l'UE come un attore globale significativo. Questo ruolo fu istituito nel 1997 con il Trattato di Amsterdam, con compiti molto ridotti rispetto a quando, attraverso il Trattato di Lisbona, gli fu conferito anche il titolo di Vicepresidente della Commissione.
Una delle peculiarità della Commissione Europea è la sua necessità di collaborare con gruppi di interesse specializzati. Dato che il servizio civile della Commissione è relativamente piccolo, comparabile in termini di numero di dipendenti a quello dei ministeri dell'economia e delle finanze e della cultura italiani. Per questo la Commissione si affida spesso alle informazioni fornite da aziende e gruppi di interesse. Questo processo, sebbene necessario, solleva preoccupazioni riguardo alla trasparenza e all'influenza che tali gruppi possono esercitare sulle decisioni della Commissione. Sul tema del ruolo e delle dinamiche di lobby nell’EU, però, si potrebbero scrivere centinaia di articoli, e verrà sicuramente ripreso in futuro.
Il Presidente e il Sistema dello Spitzenkandidaten
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il presidente della Commissione Europea viene eletto attraverso un processo che si può definire "quasi" democratico. Questo sistema, noto come "Spitzenkandidaten" (candidato principale), è stato introdotto nelle elezioni del Parlamento Europeo del 2014. Secondo questo sistema, ogni gruppo politico del Parlamento Europeo nomina un candidato principale per il ruolo di presidente della Commissione prima delle elezioni. Il gruppo politico che ottiene il maggior numero di voti nelle elezioni europee vede il proprio Spitzenkandidat diventare presidente della Commissione, previa approvazione del Consiglio Europeo, composto dai capi di governo degli Stati membri. Il metodo dello Spitzenkandidaten, o sistema del candidato principale, rappresenta un tentativo significativo di rendere più democratico e trasparente il processo di nomina del Presidente della Commissione Europea. Tuttavia, l'adozione di questo metodo non è stata immediata né priva di controversie, e il suo sviluppo rappresenta un compromesso tra le diverse istituzioni dell'UE e gli interessi nazionali.
L'articolo 17(7) del Trattato sull'Unione Europea (TUE) stabilisce che il Consiglio Europeo, tenendo conto delle elezioni del Parlamento Europeo, propone al Parlamento un candidato per la carica di Presidente della Commissione. Questo candidato deve poi essere eletto dal Parlamento Europeo. Tuttavia, il trattato non specifica dettagliatamente come debba essere scelto il candidato, lasciando margine per interpretazioni e pratiche diverse.
Prima dell'introduzione dello Spitzenkandidaten, il processo di nomina del Presidente della Commissione era principalmente guidato dai leader degli Stati membri, riuniti nel Consiglio Europeo. Questi leader negoziavano e concordavano un candidato che ritenevano accettabile, il quale veniva poi presentato al Parlamento Europeo per l'approvazione. Questo metodo, sebbene efficace, era spesso criticato per la sua mancanza di trasparenza e di coinvolgimento democratico diretto. Il cambiamento è avvenuto in preparazione delle elezioni europee del 2014, quando il Parlamento Europeo ha deciso di assumere un ruolo più attivo nel processo di nomina. I principali gruppi politici del Parlamento hanno ciascuno nominato un candidato principale (Spitzenkandidat) prima delle elezioni, con l'impegno che il candidato del gruppo che avesse ottenuto il maggior numero di seggi sarebbe stato proposto come Presidente della Commissione. Questa nuova pratica mirava a creare un legame più diretto tra le elezioni del Parlamento Europeo e la nomina del Presidente della Commissione, rafforzando la legittimità democratica di quest'ultimo. Infatti, il Parlamento Europeo ha utilizzato il risultato elettorale come base per proporre il suo candidato, esercitando pressione sul Consiglio Europeo affinché rispettasse la volontà degli elettori.
Il primo test di questo nuovo approccio è stato l'elezione di Jean-Claude Juncker come Presidente della Commissione Europea nel 2014. Juncker era lo Spitzenkandidat del Partito Popolare Europeo (PPE), il gruppo che aveva ottenuto il maggior numero di seggi alle elezioni. Nonostante alcune resistenze iniziali da parte di alcuni leader nazionali, il Consiglio Europeo ha infine accettato la proposta di Juncker, che è stato poi eletto dal Parlamento.
L'adozione del metodo dello Spitzenkandidaten non è stata priva di critiche. Alcuni hanno argomentato che essa riduceva la flessibilità del Consiglio Europeo e poteva limitare la scelta a candidati provenienti dai gruppi politici principali, escludendo potenzialmente figure altamente qualificate ma non affiliate a tali gruppi. Inoltre, vi è stato un dibattito continuo sulla sua legittimità giuridica, dato che l'articolo 17(7) TUE non impone esplicitamente questo metodo.
Selezione dei Commissari
Dopo la nomina del Presidente della Commissione europea, la formazione della Commissione prosegue con la selezione dei Vicepresidenti, tra cui l'Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, il quale, viene nominato dal Consiglio Europeo e deve essere approvato dal neoeletto presidente della Commissione.
Successivamente, ogni Stato membro dell'UE nomina un candidato per la Commissione, tenendo conto dell'equilibrio politico e strategico, comprese le considerazioni di genere, esperienza e affiliazione politica. Questa fase sottolinea la natura intergovernativa dell'UE, in quanto ogni governo seleziona un candidato che ritiene possa rappresentare efficacemente i propri interessi nazionali e al contempo servire gli obiettivi più ampi dell'UE. I candidati sono poi sottoposti a un rigoroso processo di valutazione che comprende audizioni individuali condotte dalle commissioni del Parlamento Europeo. Queste audizioni hanno lo scopo di valutare le competenze dei candidati, il loro impegno nei confronti dei valori europei e la loro visione dei rispettivi mandati. Le audizioni possono essere molto severe e i candidati che non riescono a convincere il Parlamento della loro idoneità possono essere respinti singolarmente.
Una volta completate le audizioni e approvati i candidati, il Collegio dei Commissari al completo, che comprende il Presidente, i Vicepresidenti e i Commissari, viene sottoposto al voto di approvazione del Parlamento europeo. Questo voto è fondamentale perché riflette il giudizio collettivo del Parlamento sull'idoneità dell'intera Commissione, e in altre parole, il volere degli elettori. Infine, il Consiglio dell'Unione europea nomina formalmente la Commissione europea.
Questo processo a tappe dovrebbe garantire che la Commissione sia politicamente e democraticamente responsabile e in grado di rappresentare e affrontare i diversi interessi e le complessità dell'Unione europea. Questo meccanismo di formazione mira a bilanciare l'efficienza delle funzioni esecutive dell'UE, con il suo disperato bisogno di legittimità democratica e trasparenza. Con questo articolo speriamo di avervi dato una visione complessiva di quale siano le responsabilità della Commissione e dell’influenza che il vostro voto avrà su chi vi siederà nel corso della prossima legislatura.
Video:
]]>Per effetto di queste combinazioni, sintetizzate appunto da un algoritmo, sono stati assegnati (meglio dire messi a disposizione) i fondi del NGEU, del React EU, del Repower Eu ecc.
A determinare il valore assoluto più alto per l'Italia è stata la combinazione di popolazione (la terza in EU) il GDP per capita (siamo a metà classifica), la disoccupazione (siamo sopra media), la disoccupazione giovanile (quasi doppia rispetto alla media EU). Se volete divertirvi con i parametri cliccate su questo link.
Quanto all'ultimo parametro, quello della perdita di PIL dopo la pandemia, basta prendere i dati eurostat 2020. Dunque l'Italia in base a questi parametri, affatto positivi, poteva avere di più in valori assoluti ma non di più in termini relativi; infatti 6 Paesi, quelli a piuù basso reddito hanno avuto di più in percentuale del PIL. La negoziazione ci fu ma fu solo sul timore che i Paesi frugali non si fidassero di assegnare tanti soldi a chi ha sempre dimostrato di usarli male. I frugali più sospettosi erano Austria e Olanda. Per bloccare l'erogazione dei fondi volevano che la decisione avvenisse tramite voto in Consiglio dove sulle questioni di bilancio è prevista l'unanimità (quindi il veto). Alla fine si trovò un complicato compromesso.
Altre 2 cose.
1) Conte parla sempre di 209 miliardi: non sono mai stati 209 ma 191,5 poi aumentati di 3.
2) Qui il link alla normativa sull'assegnazione dei fondi
Un'ultima cosa: perché per 4 anni tutti hanno lasciato che Conte raccontasse balle attribuendosi meriti che non ha e non ha mai avuto?
]]>La Banca Centrale Europea (BCE) non nasce con l'Euro e come per altre istituzioni europee è il prodotto di un lungo processo di azioni ed eventi che hanno contribuito alla sua costituzione.
ROAD2UNION - Le tappe verso la BCE (ed Oltre…) | |
1979 | Sistema Monetario Europeo (SME) |
1992 | Trattato di Maastricht |
1994 | Istituto Monetario Europeo (IME) |
1998 | Banca Centrale Europea Sistema Europeo delle Banche Centrali |
1 Gennaio 1999 | Unione Economica e Monetaria |
1 Gennaio 2002 | Introduzione dell’ euro come moneta corrente |
2007 | Trattato di Lisbona |
2014 | Assett Purchase Program (APP) |
Il primo atto propedeutico alla creazione di un Istituto Centrale Europeo è del 1975, quando fu elaborata l'Unità di conto europea (UCE) che poi si trasformerà pochi anni dopo nella unità di conto europea (European Currency Unit - ECU) (1979).
Il primo atto propedeutico alla creazione della BCE è del 1979 quando venne istituito il sistema monetario europeo (SME) e la Unità di Conto Europea (European Currency Unit - ECU). Lo SME era un regime di cambi (“exchange rate regime”) formalizzato nel 1979 e rimasto in vigore fino al 1999. Il suo obiettivo era di sviluppare una cooperazione fra la banca centrale e gli stati membri al fine di garantire una maggiore stabilità economica. (“Glossary:European Monetary System (EMS) - Statistics Explained”)
L’ECU era invece una “moneta fittizia”, cioè una unità monetaria standard del costo di beni, servizi o attività nella Comunità Europea (“ECU”). Era composta dalla media ponderata di diverse valute europee; pertanto ogni membro vi contribuiva con la propria valuta in percentuale corrispondente alla proprio potere finanziario. La sua introduzione comportò la circolazione dei prodotti finanziari e rimase in attività dal 31 marzo 1979 al 1 gennaio 1999, quando venne sostituita dall’euro con un rapporto di cambio 1:1.
Nel 1992 venne firmato il trattato sull'Unione europea (TUE) detto anche trattato di Maastricht dal nome della città olandese dove venne formalizzato alla presenza del Presidente del Parlamento europeo on. Egon Klepsch. Il TUE determinò la nascita dell’Unione Europea, introdusse l’espressione Comunità Europea (CE) (“Trattato sull'Unione europea (TUE) / Trattato di Maastricht”) e varò l’Unione Economica e Monetaria (UEM).
Il trattato diede anche una prima forma alla futura BCE, delineandone i compiti ed una serie di tappe intermedie per la sua formazione. Prima fra queste fu la costituzione, nel 1994, dell'istituto monetario europeo (IME) al fine di coordinare le politiche monetarie nazionali in previsione dell'Unione Europea.
L’anno fondamentale per per la politica monetaria europea fu il 1998 quando vide luce il Sistema Europeo delle Banche Centrali e la Banca Centrale Europea (BCE). Ubicata a Francoforte, la BCE costituisce l’insieme degli istituti nazionali che lavorano in termini di coordinamento e governance comuni; pertanto la BCE non è un organismo autonomo ma attivamente composto dagli istituti nazionali (vedi dopo).
L’anno successivo (1999) venne raggiunto il sogno di adottare una valuta comune europea grazie alla nascita dell’Euro. La sua introduzione determinò un grande passo in avanti per l’integrazione economica. La nuova moneta iniziò a circolare sui mercati finanziari il 1° gennaio 1999 e fu disponibile nelle tasche dei cittadini europei nel 2002.
L’introduzione dell’euro richiese la definizione dei tassi di cambio con le valute nazionali di ogni paese dell’unione riferendosi al tasso registrato il 31 dicembre 1998. Per l’Italia il cambio si attestò a 1936,27 lire italiane per ogni euro.
A differenza di quanto frequentemente affermato o creduto da parte della vulgata, il tasso di cambio non fu definito in modo arbitrario, in base alla potenza economica del paese o in modo relativo rispetto ad altri cambi ma fu una vera e propria fotografia del cambio valuta al 31 dicembre 1998, cioè dei tassi di cambio fra l’ECU e le valute nazionali.
Per le sue modalità di nascita e di definizione risulta chiaro che l'euro non è una moneta straniera ma una vera e propria moneta da considerare come valuta nazionale.
Per comprendere meglio il funzionamento e l'organizzazione della BCE ricordiamo che esistono due sistemi al suo interno.
Il primo prende il nome di Eurosistema ed è il sistema di banche centrali dell’area euro responsabili della politica monetaria singola (composto dal consiglio della BCE e dai rappresentanti delle Banche Centrali Nazionali dei membri UE che hanno adottato l’Euro) (“Bank of Italy - The Eurosystem”); il secondo è il sistema europeo delle banche centrali (SEBC) - che è quello allargato - comprensivo anche dei paesi che non utilizzano l'euro come valuta. L’ Eurosistema definisce ed attua la politica monetaria per l’area dell’euro, preserva la stabilità dei prezzi mantenendo l’inflazione a valori inferiori - ma prossimi - al 2% nel medio periodo e prende decisioni sui tassi di interessi di riferimento che influenzano i livelli dei prezzi (vedi “La BCE e l’eurosistema in tre minuti”).
Le funzioni della BCE sono definite dall'ultima versione dall’ articolo 127 e Commi seguenti del Trattato di funzionamento sull'Unione Europea (TFUE) (“Trattato sul funzionamento dell'Unione europea | EUR-Lex”).
I compiti principali della BCE sono specifici e prevedono di: attuare le politiche monetarie, fissare i tassi di interesse, fissare i tassi sui depositi, svolgere le operazioni di cambio per gli operatori nazionali, detenere le riserve ufficiali, regolare il sistema dei pagamenti e - introdotta nell'ultimo decennio - coordinare in modo stretto la vigilanza bancaria attraverso le banche nazionali (per una trattazione più approfondita si rimanda al sito della banca centrale sulla Vigilanza Bancaria). In questo contesto risulta chiaro che le banche nazionali non perdono valore, ma vengono coordinate dalla BCE nelle loro attività.
L’ attività di vigilanza della BCE si formalizza con la produzione di decisioni che ottimizzano l’operatività delle banche nazionali, come la ricostituzione di riserve e capitali delle banche (per le decisioni catalogate in modo analitico si rimanda al sito internet dedicato).
La BCE svolge anche studi di carattere macroeconomico, osservazioni, reportistica sui principali fatti macroeconomici che avvengono in Europa ed in altre aree economiche. (consultabili sul sito internet).
“We keep prices stable and your money safe” (“All about us”)
Uno dei principi fondanti della BCE - e suo compito principale - è quello di garantire la stabilità dei prezzi, come definito nel Trattato di funzionamento dell'Unione Europea (source) e riportato dallo statuto della Banca Centrale Europea (source). Negli ultimi decenni tale attività è stata applicata più volte, ad esempio nell’ultimo periodo (dal luglio 2022; fonte (KUDRYAVTSEV and Rizvi) in cui la BCE è intervenuta con un aumento dei tassi di prestito per stabilizzare l’incremento inflattivo dei prezzi (per capire meglio le azioni sui tassi per fronteggiare l’inflazione vedi la pagina dedicata della Banca d’Italia).
Spesso la BCE viene paragonata alla Federal Reserve americana; in realtà le due istituzioni non sono uguali. Infatti la BCE svolge un ruolo di cooperazione e coordinamento con le Banche Nazionali, il tutto inserito all’interno di una mission di garantire una stabilità dei prezzi. Tale attività si scontra con la capacità fiscale che è rimasta di pertinenza degli stati nazionali.
In alcuni ambienti economici europei - e non solo - viene auspicato il superamento di tale dicotomia attraverso una riduzione della attività di stabilizzazione da parte della BCE ed una maggiore autonomia delle banche nazionali mediante il superamento del controllo rigido dei prezzi.
La BCE, in quanto organo dell'Unione Europea, non agisce in autonomia ma deve coordinarsi e cooperare con le altre istituzioni (consiglio, commissione, parlamento, ecc.) dalle quali riceve anche un parziale controllo. Le modalità di collaborazione derivano da una sentenza della Corte di Giustizia Europea del 2004 e successivo recepimento nell'articolo 13 del Trattato di Lisbona (2007) (“Il trattato di Lisbona”).
La governance della BCE prevede tre organi che interagiscono fra loro: il consiglio direttivo, il comitato esecutivo ed il consiglio generale.
Il consiglio direttivo è composto dal comitato esecutivo della BCE e dai governatori delle banche centrali nazionali di tutti i paesi dell’area dell’euro; questi ultimi dirigono il consiglio direttivo della banca e quindi la BCE stessa. Da questo deriva che la BCE non è un'istituzione al di fuori dei sistemi nazionali; infatti le funzioni direttive all'interno della BCE sono a carico dei governatori delle banche nazionali, anche se ciascuno non rappresenta il proprio paese ma ha diritto ad un voto in piena indipendenza e nell’interesse dell’intera area euro (vedi “La BCE e l’eurosistema in tre minuti”).
Il consiglio esecutivo è composto dal Presidente, dal suo vicepresidente e da quattro membri selezionati dai governi dell'area Euro su raccomandazione del Consiglio europeo, previa consultazione con il Parlamento Europeo e con il consiglio direttivo della BCE. Pertanto la politica agisce mediante la selezione dei componenti del comitato esecutivo. Il consiglio è un organo fondamentalmente politico e la consultazione con il Parlamento Europeo determina una sorta di controllo e coordinamento con la parte “politica” eletta a suffragio universale.
Il consiglio generale è un ibrido fra i due precedenti organi ed è composto da: presidente, vicepresidente ed i governatori delle banche centrali nazionali.
]]>Per capire cosa sia il gerrymandering e perché è un problema utilizziamo un esempio : immaginate una popolazione di 200 persone chiamata ad eleggere quattro rappresentanti, i distretti elettorali sono quattro, 100 di queste persone votano viola le restanti verde (i due partiti in gara), se il sistema fosse proporzionale la storia sarebbe finita, il collegio sarebbe uno, con i voti e le relative rappresentanze divise pro quota ai partit. Nei sistemi con distretti uninominali invece le cose si complicano, diventa fondamentale poiché questi ultimi sono definitamente geograficamente. Questo è possibile perché, grazie alla capacità di disegnare i confini dei distretti elettorali a proprio piacimento, i partiti politici hanno il potere di scegliere i propri elettori invece che di essere scelti da loro . Tornando all'esempio iniziale: ci dovrebbero essere 4 distretti con 50 persone, il partito a cui è stato chiesto di definire i confini, diciamo il verde, crea un distretto con 50 persone viola (il 100%) e dividere i rimanenti in parti uguali tra i verdi (33 verdi ciascuno in due distretti e 34 nel rimanente). In tal modo si ''confinano'' i viola in un distretto fortemente omogeneo in cui i voti sono in buona misura ''sprecati'' (servono solo 26 voti per vincere, ma i viola ne prendono 50), mentre negli altri tre distretti si possono creare minoranze viola e maggioranze verdi. Alla fine della fiera viene eletto una viola e 3 verdi, nonostante i due partiti abbiano lo stesso numero di elettori.
Il problema negli USA è stato avvertito con maggiore urgenza soprattutto a partire dagli anni '60, con particolare riferimento agli stati del sud dove tradizionalmente la discriminazione razziale e stata più forte.
Non esiste un modo ovvio e naturale per dividere i distretti e definire un territorio come omogeneo è complicato. Città ad alta densità di popolazione contengono più distretti elettorali, un paio di quartieri possono già formare un distretto. Quali devono essere scelti e in base a quali criteri devono essere accorpati (per esempio condizione economica, livello medio di istruzione, caratteristiche etniche) non è ovvio..
I politici cercano di massimizzare i propri seggi appena possono, nel paper si discute di un caso avvenuto durante le votazioni per l'Assemblea dello Stato del Wisconsin (2018) dove i candidati repubblicani ottennero solo il 45% dei voti a livello statale ma, a causa del gerrymandering partitico, conquistarono 63 dei 99 seggi (64%); sembra lecito chiedersi quindi se esista un modo per risolvere casi di questo genere. Nello stesso articolo si propone una generalizzazione della vecchia procedura del cosiddetto "Cut and choose". Per riuscire a capire meglio di cosa si tratta utilizziamo un esempio. Immaginate una eredità, il defunto non ha lasciato indicazione su chi o come debba spartirsi un insieme di beni indivisibili. Una possibile soluzione è lasciar scegliere ad uno dei due contendenti la ripartizione degli stessi (diciamo in due blocchi, chiamati A e B) e all’altro la possibilità di scegliere il blocco che preferisce. Nello scenario politico la questione è simile. Immaginate che il territorio sia suddiviso in 10 distretti. Uno dei due partiti propone una divisione del territorio in 20 sotto-distretti di eguale popolazione e l’altro partito li accorpa a due a due con il vincolo di contiguità tra i territori. La procedura èsuperiore rispetto a quella adottata in molti stati, che limita la ridefinizione dei distretti al partito di maggioranza a livello statale e che nonostante salvaguardie a livello legislativo e costituzionale per limitare possibili distorsioni (un esempio è il divieto di costituire distretti disgiunti) porta ad evidenti problemi di gerrymandering.
Il sistema elettorale canadese, uninominale all’inglese, per sbrogliare la matassa passò negli anni ’60 ad un sistema in cui la scelta è delegata ad una commissione indipendente sottoposta a principi vincolanti per garantire la neutralità. A ruota alcuni stati americani cercarono di fare lo stesso, ma il problema di gerrymandering rimase. La proposta di Cut and choose evita di delegare ad una parte terza la scelta, è generalizzabile, perché permette l’assemblaggio dei collegi partendo da un numero qualsiasi di N collegi e dividerli in nN sotto collegi, cioè in 2N sotto collegi oppure 4N e così via. La proposta si trova tra due estremi, il caso in cui i collegi siano N e non vengano suddivisi, dove il responder (colui che riceve la divisione) può solo accettare o meno (come capita in molti stati) e il caso in cui i collegi siano di numerosità pari al numero degli individui, a questo punto il proposer (colui che propone la divisione) non ha poteri di influenzare il risultato. L’aumentare del numero dei sotto distretti potrebbe favorire il responder rispetto al proposer, il primo avrebbe più collegi da accorpare e quindi esercitare un’influenza maggiore del secondo.
Gli autori testano il modello tramite simulazioni di dati elettorali dell’Iowa e notano come il numero di sotto collegi aumenta il numero delle possibili combinazioni (nell’ordine delle migliaia), il che creerebbe una serie di problemi per i due partiti coinvolti, che non dispongono di tutte le informazioni del gioco. Quello che potrebbe sembrare un problema informativo nella realtà dei fatti viene risolto venendo a conoscenza di alcune caratteristiche demografiche dei distretti. Se in una famiglia ci fosse eguale probabilità di votare repubblicani e democratici il problema di gerrymandering non ci sarebbe; allo stesso modo se si è a conoscenza (grazie ad alcune caratteristiche della popolazione correlate alla scelta di voto, come l’etnia, l’istruzione o la condizione economica) di un territorio particolarmente favorevole per i democratici (o repubblicani) è possibile sfruttarlo a proprio piacimento, in questo modo il numero delle possibili combinazioni utili si ridurrebbe drasticamente, raggiungendo uno dei possibili equilibri del gioco. Un esempio può essere un caso recente di gerrymandering, oggetto anche di controversie legali in Alabama, dove le zone con maggioranza afroamericana votano democratici ad un tasso estremamente altro mentre le zone a maggioranza bianca votano repubblicani ad un tasso ugualmente elevato. Se c’è quindi un quartiere prevalentemente di afroamericani, e sappiamo prevedere con un certo grado di certezza l’esito del loro voto, è possibile disperdere il loro voto in più distretti senza che ottengano la maggioranza in alcun distretto, oppure concentrare tutti in un unico distretto, ottenendo quindi un solo rappresentante democratico. Le informazioni sono disponibili, il voto può essere previsto e le possibili combinazioni vengono ridotte e selezionate, riducendo la complessità computazionale.
La mobilità in realtà negli USA non è così elevata e tenendo conto del numero dei seggi alla camera (435) con il numero dei possibili elettori (dell’ordine di centinaia di milioni), una mobilitazione che coinvolga centinaia di persone difficilmente è in grado di influenzare il risultato elettorale in un distretto, considerando inoltre che i distretti fortemente legati ad un partito non cambiano bandiera grazie all’arrivo di una o due famiglie nel quartiere. Questo non implica che nel lungo periodo le grandi città statunitensi non possano esprimere preferenze diverse (molti sono i casi in cui il cambiamento c’è stato), ma che l’orizzonte politico considerato dai partiti è minore (si parla della durata di una legislatura), all’interno del quale sono rari grandi cambiamenti di rotta.
Uno dei principi di scelta è il vincolo di contiguità tra i distretti. Come mai? Se vogliamo maggiore rappresentanza territoriale non sarebbe auspicabile adottare un criterio a distretti disgiunti? La risposta si trova nei problemi di gerrymandering che questo verrebbe a creare. Il potere risultante di scegliere distretti tra di loro non vicini avvantaggerebbe chi deve suddividere il territorio scegliendo solo quelle aree a lui favorevoli o accentrando in pochi distretti i voti dell’avversario.
Esistono stati dove il problema del gerrymandering non esiste, quelli che eleggono un solo rappresentante, Wyoming, Montana etc…, stati cioè sovrarappresentati in Senato (con 2 senatori indipendentemente dalla numerosità della popolazione) e un solo deputato, dove quindi il distretto coincide con lo stato, evitando strategiche suddivisioni territoriali.
Un altro modo per risolvere la questione sarebbe adottare il sistema australiano, il cosiddetto "ranked-choice voting" (o voto alternativo” in italiano) un sistema elettorale usato per eleggere un singolo vincitore da una lista di tre o più candidati, dove gli elettori esprimono le loro preferenze classificando i candidati in ordine dal preferito al meno gradito. Se nessuno arriva primo si guardano le seconde preferenze e così via, fino a raggiungere la maggioranza. Questo metodo viene già utilizzato in alcuni stati americani come il Maine o l’Alaska. Risolve anche un altro problema che il paper ignora, ovvero la maggiore facilità di entrata nel sistema politico. La proposta del cut and choose presuppone l’esistenza di due soli partiti, il che è generalmente vero per il sistema americano ma con qualche eccezione nella sua storia (come il caso delle elezioni del ’92 con Perot), il ranked-choice faciliterebbe l’entrata di nuovi partiti, il che sarebbe estremamente utile. Uno dei problemi di selezione del personale politico americano è che durante le primarie gli elettori sono pochi (rispetto alle elezioni generali) e il più delle volte la composizione comprende interessi organizzati ed estremisti, il che porta, tra le altre cose, all’ elezione di quel manipolo di repubblicani pro-Putin che hanno tenuto pendente la manovra di aiuti militari all’Ucraina per mesi. Il cambio di sistema (dall’uninominale all’inglese all’australiano) in Alaska ha anche permesso la vittoria di Mary Peltola sulla ultraconservatrice Sarah Palin grazie alle seconde preferenze riversate sulla prima. Di per sé favorisce una maggiore rappresentanza a livello perlomeno locale (sul piano federale i risultati non sarebbero immediati), se ci sono temi o posizioni che i partiti federali ignorano ma fortemente sentiti a livello locale questo sistema favorirebbe l’entrata di un candidato probabilmente escluso in un sistema uninominale secco ( dove “il terzo non conta”).
Come abbiamo già detto i politici hanno tutto l’interesse a massimizzare i propri seggi e non avrebbero alcun incentivo a proporre un sistema con meno distorsioni ma che non sono in grado di manipolare. Se la cultura politica rimane ancorata alle sue posizioni sarà raro vedere riforme o modifiche nelle direzioni qui discusse, la via attuativa quindi dovrebbe essere di natura giudiziaria (con altri ostacoli e complicazioni). Il problema del gerrymandering è la controparte dell’eccessiva numerosità nei sistemi proporzionali, inevitabile e risaputo. Non esiste un sistema elettorale perfetto, ogni sistema prevede un trade-off tra diverse variabili, che siano la stabilità, la rappresentatività o altre.
La tecnica di taglia e scegli viene utilizzata anche in crittografia, facilita la ricerca di un interesse comune tra due persone. Immaginate un appuntamento in cui entrambi cercano di capire se piacciono alla controparte e quello/a dei due a cui non piace all'altro/a non sa che all'altro/a piace lui/lei. Significa calcolare una congiunzione logica, cioè l'AND logico tra due bit (0-1, mi piaci-non mi piaci) di modo tale che i bit rimanereno segreti.
Il metodo può essere esteso, ad esempio nel caso in cui due ospedali volessero incrociare i propri database che contengono gli stessi pazienti trasferiti da un ospedale ad un altro senza rivelare informazioni sulla privacy su altri database. Uno dei protocolli crittografici per calcolare l'AND di due bit è quello che viene chiamato il “protocollo del circuito ingarbugliato”, utilizzato per garantire la sicurezza della trasmissione delle informazioni. Uno dei presupposti del protocollo è che i giocatori sono semi-onesti, cioè seguono le regole del protocollo, però se possono cercare di scoprire qualcosa sull'input segreto dell'altro. Se cerchiamo invece di sovrascrivere le regole del protocollo la proprietà di sicurezza non è più garantita. In questi casi si utilizza la tecnica del cut and choose: uno dei due giocatori manda una versione “ingarbugliata” (decifrata in un determinato modo) del circuito booleano che vogliono calcolare insieme, solamente che l'altro giocatore non sa se il primo ha rispettato le regole del protocollo, quindi si mandano diverse versioni (tagliate) ingarbugliate, facendo scegliere (scegliere) al secondo quali sottoinsieme farsi scoprire. Il cut and choose in crittografia ricade in molti altri casi oltre quello dei circuiti ingarbugliati, utilizzato ad esempio nelle dimostrazioni a conoscenza zero o in alcuni protocolli di pagamento su bitcoin.
]]>A seguito degli attacchi aerei israeliani durante la guerra Israele-Hamas del 2023 e del blocco rigido imposto da Israele, la popolazione della Striscia di Gaza affronta una grave crisi alimentare. Le infrastrutture alimentari, come panifici e mulini, sono state distrutte, causando una scarsità diffusa di beni essenziali. Più di mezzo milione di abitanti di Gaza soffre la fame, con il rischio di una carestia catastrofica.
Volker Türk, alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, ha dichiarato che le restrizioni israeliane potrebbero costituire l'uso della fame come arma di guerra, un crimine di guerra. Si prevedono tra 48.210 e 193.180 decessi a Gaza per tutte le cause, incluse epidemie, entro agosto 2024.
La situazione nella Striscia di Gaza è un triste riflesso di decenni di tensioni, conflitti e politiche di blocco che hanno portato a una crisi umanitaria senza precedenti. Questo territorio, una volta integrato politicamente ed economicamente con Israele e la Cisgiordania, è stato trasformato in una sorta di enclave isolata, dipendente dagli aiuti umanitari per sopravvivere.
Il blocco imposto da Israele, in particolare dopo il ritiro degli insediamenti nel 2005, ha avuto conseguenze devastanti sulla popolazione di Gaza. L'obiettivo dichiarato di "farli dimagrire, ma non farli morire di fame" riflette una politica volta a indebolire il territorio senza causare una crisi umanitaria aperta, ma il risultato è stato comunque disastroso.
Le restrizioni sull'importazione di beni essenziali, compresi alimenti e materiali di prima necessità, hanno portato la popolazione al limite della sopravvivenza. I calcoli precisi del fabbisogno calorico minimo per evitare la malnutrizione, utilizzati da Israele per determinare il numero di camion per le forniture alimentari, sono un triste esempio di come il blocco sia stato gestito in modo a volte cinico e disumano.
Il deterioramento delle condizioni di vita a Gaza è stato evidente nel rapido esaurimento delle scorte alimentari, nelle code per ottenere razioni di pane e nella lotta quotidiana per procurarsi beni essenziali. Questa crisi umanitaria è stata ulteriormente aggravata dalle ricorrenti ostilità, che hanno danneggiato le già fragili infrastrutture e aumentato il numero di vittime tra la popolazione civile.
Le richieste di rimozione del blocco e di maggiore accesso umanitario da parte delle Nazioni Unite e di varie organizzazioni per i diritti umani rimangono inascoltate, mentre la situazione continua a peggiorare. Durante il periodo dal 7 ottobre, solo 6.000 camion di aiuti sono riusciti ad entrare a Gaza, secondo quanto riportato da Gisha il 9 gennaio. Questa cifra rappresenta solamente dodici giorni di aiuti rispetto al periodo precedente l'inizio del conflitto. Il colonnello Moshe Tetro, responsabile dell'unità israeliana che sovrintende le consegne di aiuti umanitari, ha affermato che non c'è carenza di cibo a Gaza e che le riserve esistenti sono sufficienti.
Tuttavia, i funzionari hanno indicato che il peggioramento della crisi è in parte dovuto alla quantità limitata di aiuti concessi a Gaza. Cindy McCain ha sottolineato che le persone a Gaza rischiano di morire di fame nonostante la presenza di camion pieni di cibo a pochi chilometri di distanza. Il capo economista del WFP, Arif Husain, ha dichiarato il 24 gennaio che solo tra il 20 e il 30% degli aiuti necessari sta effettivamente entrando a Gaza, mentre l'UNOCHA ha accusato Israele di negare sistematicamente l'assistenza umanitaria nel nord di Gaza.
A partire da marzo 2024, sono stati fatti sforzi per affrontare la crisi, inclusi tentativi di negoziare un cessate il fuoco per consentire la consegna di aiuti umanitari e un accordo sulla liberazione degli ostaggi. Alla fine di marzo, il Comitato internazionale della Croce Rossa ha dichiarato che alcune famiglie ricevono a giorni alterni una scatoletta di cibo per tutta la famiglia, mentre i residenti hanno segnalato che il cibo per gli animali stava esaurendo in alcune parti di Gaza. Infine, alla fine di aprile 2024, il Programma alimentare mondiale (WFP) ha dichiarato che metà della popolazione di Gaza sta morendo di fame.
Prima che i camion degli aiuti umanitari possano entrare a Gaza, devono sottostare a regole severe imposte dagli ispettori israeliani. Queste regole sono così complesse che possono portare al ritorno di oggetti come assorbenti a causa della presenza di forbici nel kit igienico o sacchi a pelo con cerniere. Secondo un funzionario umanitario in contatto con l'unità israeliana COGAT, i rifiuti di accettare gli aiuti sono dovuti a un elenco obsoleto del 2008 e alla mancanza di una guida ufficiale.
Ci sono accuse, anche da parte di figure come il massimo diplomatico dell’Unione Europea, Josep Borrell, che Israele stia deliberatamente usando la fame come arma di guerra. Israele ha imposto restrizioni sull'acquisto di aiuti umanitari diretti a Gaza, vietando l'uso dei porti israeliani e chiudendo tutti i checkpoint tranne uno. Queste restrizioni hanno portato a ritardi e blocchi nella consegna degli aiuti, come farmaci, sacchi a pelo e kit di maternità.
Diverse organizzazioni e figure internazionali hanno criticato le azioni di Israele, definendo il sistema di approvazione burocratico "kafkiano" e accusando Israele di sollevare barriere inaccettabili all'assistenza umanitaria. Gisha, un'organizzazione israeliana per i diritti umani, ha presentato una petizione alla Corte Suprema israeliana per chiedere il rispetto degli obblighi verso i civili a Gaza.
Anche le valutazioni interne della USAID hanno evidenziato preoccupazioni sulla mancanza di conformità da parte di Israele ai requisiti per il trasporto dell'assistenza umanitaria degli Stati Uniti.
L'analisi acuta dell’Insicurezza Alimentare Integrata (IPC) condotta nel dicembre 2023 ha avvertito del rischio imminente di carestia nei governatorati settentrionali della Striscia di Gaza, prevedendo che potrebbe verificarsi tra metà marzo e maggio 2024. Nonostante tali avvertimenti, le condizioni necessarie per prevenire la carestia non sono state soddisfatte.
Il 13 maggio sono stati diffusi dei filmati che mostrano un gruppo di attivisti di estrema destra israeliana mentre cercava di impedire l'arrivo degli aiuti umanitari a Gaza, bloccando un carico di cibo arrivato dalla Giordania al checkpoint di Turkumiya, vicino a Hebron, in Cisgiordania. Nei filmati vengono ripresi gli attivisti mentre calpestano le scatole di rifornimenti per poi dare alle fiamme il mezzo che li trasportava.
Parlando con un giornalista del Guardian, una portavoce del principale gruppo di attivisti israeliani che organizza i blocchi - il Tzav 9 - ha ammesso che gli estremisti ricevono informazioni sulla posizione dei convogli da membri della polizia e dell’esercito israeliani. Sempre secondo un’indagine del Guardian, l'ipotesi di collusione tra membri delle forze di sicurezza è supportata da messaggi intercettati in gruppi di chat interni, oltre che dalle testimonianze di numerosi testimoni e attivisti per i diritti umani.
Lunedì 20 maggio, Karim Khan, procuratore capo della Corte penale internazionale (ICC) - il principale tribunale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità - ha richiesto alla camera preliminare del tribunale di emettere mandati di arresto. Gli obiettivi dei mandati sarebbero il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant, il leader di Hamas nella Striscia di Gaza Yahya Sinwar, il capo politico di Hamas Ismail Haniyeh e il comandante delle brigate al Qassam, l'ala armata di Hamas nella Striscia, Mohammed Deif.
L'azione contro i politici israeliani segna la prima volta che la Corte penale internazionale prende di mira il massimo leader di un alleato stretto degli Stati Uniti. La decisione mette Netanyahu nella stessa categoria del Presidente russo Vladimir Putin, per il quale la Corte ha emesso un mandato di arresto a causa della guerra di Mosca contro l'Ucraina, e del dittatore libico Moammar Gheddafi, che al momento della sua cattura e uccisione nell'ottobre 2011 era destinatario di un mandato di arresto della Corte per presunti crimini contro l'umanità.
Situata all'Aja, nei Paesi Bassi, la Corte penale internazionale è stata creata da un trattato chiamato Statuto di Roma, presentato per la prima volta alle Nazioni Unite. La Corte penale internazionale opera in modo indipendente e la maggior parte dei paesi – 124 in totale – aderisce al trattato, prevede importanti eccezioni, tra cui Israele, gli Stati Uniti e la Russia.
La Corte Penale Internazionale investiga esclusivamente individui e si attiva soltanto quando vi è il sospetto che una persona sia responsabile di uno dei quattro principali crimini: genocidio, crimini di guerra, crimini contro l'umanità o avvio di una guerra di aggressione. Tipicamente, l'ICC può intervenire solo quando gli Stati non sono in grado o non sono disposti a perseguire tali crimini a livello nazionale. Tuttavia, è importante notare che il paese d'origine del presunto colpevole deve accettare la giurisdizione della Corte, un requisito che Israele non soddisfa. In alternativa, il paese in cui si presume sia stato commesso il crimine deve farlo. Ad ogni modo, poiché l'ICC non dispone di una forza di polizia, è molto improbabile che i membri del governo israeliano compariranno mai di fronte ai giudici dell'Aia.
Bisogna però sottolineare che un mandato di arresto limiterebbe notevolmente la libertà di movimento di Netanyahu e dei suoi associati, poiché tutti i 124 firmatari del trattato dell'ICC sono obbligati ad arrestare le persone con mandati di arresto in sospeso e a consegnarle alla Corte. Questo significa che, in caso di emissione del mandato di arresto, se Benjamin Netanyahu venisse in visita in Italia (paese che riconosce l’ICC) il governo sarebbe obbligato ad arrestarlo e a presentarlo all’Aia, la sede della Corte, dove sarebbe messo sotto processo.
Questo è il motivo per cui il presidente russo Vladimir Putin è costretto ad evitare di viaggiare alla maggior parte delle riunioni internazionali da quando l'ICC ha emesso un mandato di arresto per lui per le accuse di essere coinvolto nel rapimento sistematico dei bambini ucraini. Putin viaggia solo direttamente da e verso nazioni che non riconoscono la legittimità dell'ICC.
Governatorati Settentrionali:
Governatorati Meridionali (Deir al-Balah, Khan Younis, Rafah):
Intera Striscia di Gaza:
Secondo il Comitato di Revisione della Carestia dell’IPC (FRC), la situazione richiede una risposta immediata per evitare la carestia:
Dominique Burgeon della FAO ha sottolineato che l’insicurezza alimentare acuta rappresenta una minaccia immediata per la vita delle persone, rischiando di trasformarsi in carestia. Gian Carlo Cirri del WFP ha descritto la situazione come un disastro umanitario, con il 30% dei bambini sotto i due anni gravemente malnutriti e il 70% della popolazione nel nord di Gaza affrontare una fame catastrofica.
La situazione richiede un'azione rapida e coordinata per prevenire ulteriori perdite di vite umane e garantire il sostentamento della popolazione della Striscia di Gaza.
Mercoledì 22 maggio, Irlanda, Norvegia e Spagna hanno annunciato che riconosceranno formalmente uno Stato palestinese a partire dal 28 maggio. La Norvegia è stata la prima a dare l'annuncio, in un'iniziativa coordinata con gli altri due paesi, mentre Spagna e Irlanda hanno dichiarato che la decisione non sarebbe né contro Israele né a favore di Hamas ma piuttosto una risoluzione a sostegno della pace.
La risposta di Netanyahu è stata immediata, mentre nel frattempo il ministro degli Esteri israeliano Israel Katz ha ordinato di richiamare gli ambasciatori in Irlanda, Norvegia e Spagna. Netanyahu ha aggiunto che la creazione di uno Stato palestinese comporterebbe ripetuti tentativi del 7 ottobre, denunciando la mossa dei tre paesi come un "premio per il terrorismo".
Prima degli annunci di mercoledì, solo nove paesi membri dell’Unione avevano sostenuto il riconoscimento dello Stato palestinese, la maggior parte dei quali aveva preso questa decisione nel 1988, quando erano ancora parte del blocco sovietico. La Svezia, nel 2014, è stato il primo e unico paese a riconoscere la Palestina mentre era già un paese membro dell’Unione, anche se nel 2012 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite aveva promosso la Palestina da “entità non statuale” a “stato osservatore non membro”, con 138 voti favorevoli (compreso quello dell’Italia), 9 contrari (tra cui Stati Uniti, Canada e Israele) e 41 astenuti.
La maggioranza degli altri paesi europei, insieme agli Stati Uniti, continua a ritenere che il riconoscimento debba avvenire esclusivamente come parte di una soluzione a lungo termine basata su due stati per risolvere il conflitto.
]]>Il rapporto debito/PIL dell'Unione Europea mostra l'Italia come secondo paese con il debito più alto. Le proiezioni di lungo periodo indicano che l'Italia è destinata a diventare il primo paese per rapporto debito/PIL, superando la Grecia.
Tra gli obiettivi che sono stati posti man mano durante il cammino dell'Unione Europea, solo alcuni sono stati raggiunti.
Uno degli obiettivi era quello di avere delle aree di scambio commerciale fra i paesi e all'inizio, quando ancora la comunità economica europea (CEE) non era ancora stata istituita, le aree di scambio commerciale erano frutto di accordo fra i singoli paesi.
Attraverso la Ceca questo accordo fu esteso ai paesi fondatori della Ceca e poi è diventato fattore comune per tutti i paesi che man mano aderivano ai trattati europei alla costruzione della CEE.
Era necessaria per poter permettere la libera circolazione di beni capitali e soprattutto di lavoratori, in altre parole, era un passaggio fondamentale per creare quel mercato comune così grande.
Oggi il mercato europeo viene considerato, da un punto di vista degli scambi commerciali, anche da un punto di vista del PIL che si genera all'interno dei confini, come il più grande mercato comune.
Questo importante passaggio verso l'integrazione europea è stato raggiunto dopo un percorso più complesso. Già previsto dai padri fondatori dell'Unione Europea, l'Unione Economica e Monetaria dell'Europa ha rappresentato un obiettivo ambizioso, difficile da raggiungere a causa delle numerose implicazioni di natura fiscale, normativa e regolatoria che dovevano essere superate prima di poter raggiungere l' unione economica e monetaria.
Le regole di armonizzazione e convergenza delle economie sono state stabilite quarant'anni fa, ma ancora non sono state raggiunte. In particolare, l'armonizzazione delle politiche fiscali è rimasta irrealizzata e probabilmente sarà raggiunta solo nei prossimi decenni. Ciò è dovuto al fatto che richiede una serie di cessioni di sovranità, che non sono ancora stato ottenuto a causa della mancata convergenza delle economie, oltre che alle forti resistenze degli Stati membri a cedere sovranità in materia fiscale.
È importante distinguere tra il bilancio comune e il bilancio europeo. Il bilancio comune si riferisce all'unificazione delle risorse finanziarie dell'Unione Europea, mediante la quale gli Stati membri rinunciano a una parte della loro sovranità per creare un unico bilancio comune. Ciò andrebbe oltre la semplice creazione di un mercato unico, creando un'unione economica più stretta.
D'altra parte, il bilancio europeo si riferisce al budget annuale dell'Unione Europea, che finanzia le sue attività e politiche.
La pandemia ha accelerato la creazione di un bilancio comune, con un aumento del budget dell'UE e l'introduzione di nuovi strumenti, come il Next Generation EU, finanziato dal debito comune. Ciò ha portato a un raddoppio del bilancio dell'UE e ha creato una nuova opportunità per l'integrazione economica.
Con l'emissione di debito comune, le economie hanno fatto un passo verso l'integrazione, ma non hanno ancora raggiunto l'armonizzazione. Le economie dei vari paesi membri presentano ancora notevoli differenze nei criteri macroeconomici, il che rappresenta un ostacolo significativo per la fiducia reciproca fra gli Stati membri e per la decisione di garantire il debito contratto a favore di un altro Stato.
Uno dei principi cardine dell'Unione Europea è stato quello di superare le barriere, non soltanto quelle fisiche e doganali, ma anche le barriere alla circolazione di beni, servizi e lavoratori. Per fare questo, uno dei principi cardine in assoluto è quello della concorrenza.
La concorrenza è stabilita e viene declinata all'interno del Trattato di funzionamento dell'Unione Europea artt. 101-109, e abbraccia gli ambiti del commercio, del mercato comune, dell'armonizzazione fiscale e dell'Unione economica e monetaria.
Ecco a chi sono attribuire le competenze:
Art. 101
Il principio cardine dell'Unione Europea è quello di evitare posizioni che falsano la concorrenza. Per raggiungere questo obiettivo, l'arte. 101 del TFUE pubblicano che sono incompatibili con il mercato interno tutti gli accordi tra imprese, decisioni fra associazioni e imprese concordate che possono pregiudicare il commercio tra stati membri e falsare la concorrenza all'interno del mercato interno.
Il punto chiave è quello di non falsare la concorrenza all'interno del mercato, garantendo la libertà di stabilimento degli agenti economici e impedendo loro di restringere la concorrenza e creare nocumento ai consumatori.
Il mercato comune europeo e l'Unione Europea sono fondamentalmente tesi alla difesa dei consumatori, non solo di quelli di uno Stato membro, ma di tutti i consumatori dell'area dell'Unione Europea. Il principio è quello di difendere i consumatori in modo che possano ottenere servizi e beni alle migliori condizioni ea miglior prezzo. È importante tenere presente che i principi dei consumatori devono essere difesi ovunque all'interno dell'Unione Europea, senza considerare interessi particolari di una categoria o di uno Stato membro.
La sfida è quella di contemperare questo bisogno generalizzato con gli interessi particolari, il che può essere estremamente complicato e può generare contenuti.
Art. 102
L'art. 102 del TFUE annuncia che è vietato lo sfruttamento abusivo di una posizione dominante da parte di un'impresa o di un gruppo di imprese, nella misura in cui possa essere pregiudizievole al commercio tra gli stati membri.
L'abuso di posizione dominante è pesantemente sanzionato e riguarda generalmente il singolo attore economico, piuttosto che lo Stato. La Commissione Europea interviene spesso in questi casi e commina multe a coloro che abusano della loro posizione dominante.
Ad esempio, recentemente, Apple ha ricevuto una multa per abuso di posizione dominante. Ci sono molti altri esempi di sanzioni comminate alle imprese che hanno ottenuto una posizione dominante nella gestione del mercato interno e degli interessi dei consumatori.
Il principio fondamentale è quello di proteggere gli interessi dei consumatori, che non possono essere subordinati agli interessi di un singolo agente economico o di un cartello. La posizione dominante non può essere utilizzata per decidere condizioni, prezzi e distribuzione in modo da gestire il mercato interno e gli interessi dei consumatori.
Art. 107
L'art. 107 del TFUE esclude che salve deroghe, gli aiuti di Stato sono incompatibili con il mercato interno nella misura in cui incidono sugli scambi tra gli stati membri. Gli aiuti dello Stato sono una minaccia per la concorrenza e possono falsare il mercato. La Commissione Europea ha sanzionato diverse volte aiuti di Stato concessi da stati membri a singoli agenti economici o settori economici.
Per concedere aiuti di Stato, gli stati membri devono rispettare condizioni straordinarie e contingenti, come ad esempio durante la pandemia di COVID-19, quando la Commissione Europea ha concesso ampia deroga agli aiuti di Stato per aiutare le aziende in difficoltà.
Tuttavia, ci sono anche altre eccezioni, che non dipendono da fattori esogeni o da shock sistemici, come ad esempio quando ci sono condizioni economiche strutturalmente deboli in aree particolari di paesi membri, come ad esempio le regioni dell'est Europa che sono entrate a far parte dell'Unione Europea con parametri economici e di servizi diversi rispetto agli stati più ricchi. In questi casi, la Commissione Europea e il Consiglio Europeo possono concedere deroghe per aiutare queste aree o settori economici deboli.
È una deroga di cui si parla poco, ma che esiste e vale la pena sottolineare, perché sulla retorica dell'austerità e delle regole rigidissime che governano l'Unione Europea spesso si sono costruiti castelli che sono castelli di carte. In realtà, esistono all'interno delle norme anche delle deroghe che consentono ampi margini di flessibilità. Non ci sono soltanto le condizioni straordinarie derivanti dal Covid o da gravi shock esogeni. Ci sono anche delle condizioni che non sono straordinarie, ma che possono e devono portare a deroghe rispetto alla norma generale, che è quella del divieto di concedere aiuti di Stato.
La libera circolazione dei lavoratori
Uno dei principali diritti fondamentali dei cittadini dell'Unione Europea è la libera circolazione dei lavoratori. Ciò comprende la possibilità di spostarsi e risiedere in un altro Paese membro per lavorare, di permettere ai propri familiari di accompagnarli e di beneficiare degli stessi diritti e trattamenti dei cittadini di quello Stato. Ogni anno, circa 18 milioni di lavoratori europei scelgono di lavorare all'estero, oltre i confini del proprio Paese di origine.
Libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi
La possibilità di stabilizzarsi al di fuori dei confini nazionali per operare è un valore che crea opportunità, a patto che queste opportunità siano raccordate con delle condizioni economiche macroeconomiche del paese che siano in qualche modo compatibili con la libera circolazione e il mercato comune.
I viaggiatori che si spostano all'interno dei confini dell'Unione Europea possono trovare estremamente utile il fatto che, per effetto delle convenzioni sottoscritte tra gli stati membri, l'accesso alle cure mediche in Unione Europea è agevolato. Grazie alla tessera sanitaria europea, si ottengono gli stessi servizi e gli stessi accessi alle cure mediche che si avrebbero nel proprio paese d'origine.
Sebbene i sistemi sanitari siano diversi tra Stato e Stato, le cure mediche devono essere garantite per i cittadini europei ogni volta che si muovono all'interno dei confini europei. Non c'è quindi necessità di sottoscrivere assicurazioni volontarie, che spesso vengono fatte quando si viaggia al di fuori dei confini. All'interno dei confini dell'Unione Europea, il servizio sanitario è necessariamente garantito.
Il roaming consente l'utilizzo di telefoni cellulari o dispositivi per accedere alle reti mobili in altri paesi o regioni, anche se l'operatore non ha una rete lì, tutto questo con le stesse tariffe che si ottengono nel paese di origine.
L'Unione Europea ha deciso di dotare il mercato comune degli standard di sicurezza più elevati al mondo. Ciò significa che gli standard di sicurezza dei prodotti commercializzati all'interno del territorio europeo sono molto elevati.
Tuttavia, ciò può comportare un'eccessiva invasività delle norme e delle direttive, creando problemi per la circolazione e la sostenibilità di alcune imprese sul mercato. Queste sono scelte politiche.
In linea generale, la maggior parte delle decisioni prese all'interno dell'Unione Europea sono il risultato di scelte politiche. Queste decisioni possono apparire lontane perché vengono prese da un partito di maggioranza che non è presente in Italia, ma in altri paesi membri.
La burocrazia dell'Unione Europea può sembrare pesante, ma ciò è dovuto a un errore di percezione indotto dalle regole di funzionamento dell'Unione. In realtà, la maggior parte delle decisioni è politica, sia che vengono prese dal Consiglio, dalla Commissione o dal Parlamento Europeo.
Il mutuo riconoscimento si applica quando le direttive non sono vincolanti e le norme sono solo raccomandazioni. In questi casi, gli Stati membri hanno la libertà di adottare le proprie leggi sulle materie che non sono di esclusiva competenza dell'Unione Europea, purché non siano in conflitto con le norme dello Stato membro ospitante.
Tuttavia, per garantire la circolazione, la concorrenza e lo scambio di servizi e beni, esiste il principio del mutuo riconoscimento. Ciò significa che qualsiasi bene o servizio venduto legalmente in un paese dell'UE può essere venduto in un altro. Ciò è possibile anche se il bene non è pienamente conforme alle norme tecniche dell'altro Paese.
Inoltre, il principio in questione, applica alle qualifiche professionali, consente ai professionisti di esercitare la loro attività in tutta l'Unione Europea, senza dover ripetere gli studi o superare nuovamente gli esami per ottenere la qualifica professionale.
In questo modo, i cittadini europei hanno il diritto di vedere applicate le norme che li riguardano, non solo quelle esclusive del paese in cui risiedono. Ciò garantisce la circolazione e la concorrenza all'interno dell'Unione Europea. In futuro, potrebbe esserci un'integrazione più stretta in questo ambito, inoltre possono esserci eccezioni per quanto riguarda la sicurezza pubblica, la salute o l'ambiente).
Con il Trattato sull'Unione europea (TUE) firmato a Maastricht nel 1992, furono stabilite le regole per garantire la stabilità economica e finanziaria degli Stati membri e per creare le condizioni per l'adesione all'euro e alla zona euro.
I vincoli da rispettare solo per entrare nell'UME sono tre e riguardano:
Mentre i vincoli da rispettare prima e dopo l'avvio dell'Unione monetaria europea sono relativi:
Ecco allora le regole chiave stabilite dal Trattato di Maastricht:
L'art.126 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea (TFUE) vieta il divieto per gli stati membri di disavanzi pubblici eccessivi.
Il TUE (Protocollo (n.12) - Sulla procedura per i disavanzi eccessivi) chiarisce quali sono i “valori di riferimento” di cui all'art. 126 del TFUE, in particolare, gli stati membri devono rispettare queste due regole fiscali:
Sin da subito si diede a questa seconda norma un'interpretazione piuttosto elastica, dato che una buona parte dei paesi fondatori dell'Unione Europea, tra cui l'Italia, erano molto lontani dal 60% del debito/PIL.
L'Italia, ad esempio, pur avendo un rapporto debito/PIL di molto superiore al 60%, riuscì comunque ad entrare nell'Unione monetaria, perché il Trattato di Maastricht permetteva una certa flessibilità nell'interpretazione dei criteri. Il criterio del debito poteva essere interpretato in modo che, se il debito di uno Stato membro superava il 60% del PIL, questo poteva essere accettabile purché si dimostrasse chiaramente che la traiettoria del debito era sostenibilmente in lasciata. Al contrario, non ci furono grandi problemi nel rispettare il 3% del deficit, l'Italia lo raggiunse tra il 1997 e il 1998, durante il governo Prodi I.
L'indice armonizzato dei prezzi al consumo (IAPC), ossia il tasso medio di acquisto di un paese, osservato nell'arco di un anno, non deve superare di oltre 1,5 punti percentuali il tasso di acquisto medio dei tre Stati membri dell 'UE che hanno ottenuto i migliori risultati.
Relativamente a questo aspetto, ovvero alla dinamica dei prezzi i risultati sono stati generalmente raggiunti, naturalmente con delle differenze tra paese e paese. Avendo delegato la politica monetaria alla Banca Centrale Europea ha permesso di armonizzare l'indice dei prezzi al consumo.
I tassi di interesse delle banche centrali non devono superare di più del 2% la media dei tassi dei tre Stati membri dell'UE con la più bassa vendita. Esiste una correlazione diretta tra la riduzione e il tasso di interesse; quindi, i paesi con tassi di interesse più alti rispetto alla media dei tre paesi con la minore devono acquistare rapidamente.
Fortunatamente, i risultati sono stati raggiunti abbastanza rapidamente.
Prima dell'adozione della moneta unica, uno dei parametri di stabilità per la convergenza monetaria europea era il margine di oscillazione dei tassi di cambio. Ciò significa che, nella preparazione dell'Unione monetaria europea, i paesi membri devono mantenere la loro valuta nazionale entro un margine di fluttuazione del 15% rispetto alle altre valute prima di poter adottare l'euro.
Nel gennaio 1999, i tassi di cambio furono fissati e la banda di oscillazione ridotta, creando un quadro di stabilità per le valute nazionali. A quel punto, le valute nazionali come la lira, il marco e il franco furono scambiate con l'euro.
Il 16 e il 17 giugno 1997 ad Amsterdam il Consiglio Europeo approvò il Patto di stabilità e crescita (PSC), poi modificato numerose volte. Questo si basa principalmente sugli articoli 121 e 126 del TFUE e sul protocollo n.12 sulla procedura per i disavanzi eccessivi (TUE).
Questo integra e rinforza le disposizioni previste dal TFUE in materia fiscale, introducendo nuove regole e procedure per garantire la stabilità finanziaria e la crescita economica sostenibile nell'Unione Europea, con l'intento di garantire che la disciplina di bilancio dei Paesi membri continuasse dopo l 'introduzione della moneta unica.
Il PSC definisce una dettagliata “procedura di deficit eccessivo” e prevede sanzioni nei confronti degli Stati membri che non mettono in atto le azioni correttive prescritte.
Come già detto nel paragrafo precedente, il Trattato di Maastricht afferma che gli Stati membri devono mantenere un deficit pubblico inferiore al 3% del PIL, ed un rapporto tra debito pubblico e PIL non superi la soglia del 60%.
Oltre ai fattori rilevanti di cui si è discusso prima, altri motivi che concorrono ad aumentare la flessibilità di questi parametri fanno riferimento alla possibilità di deroga per aiuti di Stato, altri motivi interni al paese che lo fanno deviare rispetto al percorso di convergenza verso il quadro macroeconomico, e la possibilità di attivare la clausola General Escape Cluase.
Le procedure sono un meccanismo complicato che si spesso a causa della mancata applicazione delle direttive relative al Patto di stabilità, crescita e convergenza macroeconomica.
Le procedure sono dovute: quella per debito eccessivo, molto rara, e quella per deficit eccessivo, molto frequente. L'Italia, ad esempio, è attualmente in procedura per deficit eccessivo.
Il processo inizia quando la Commissione europea, l'organo che vigila sul rispetto dei parametri macroeconomici, rileva una violazione dei parametri. La Commissione avvisa il Consiglio e lo Stato membro interessato che potrebbe avviare una procedura. Il Consiglio raccoglie i pareri dello Stato membro e della Commissione e può emettere raccomandazioni al paese.
Le raccomandazioni non sono particolarmente vincolanti, ma invitano il paese a prendere determinate azioni per rientrare nei parametri macroeconomici. Se il paese non risponde entro 60 giorni, mettendo in atto delle correzioni, la Commissione può avviare una procedura di correzione (braccio correttivo).
La procedura di correzione può imporre una sanzione, ma ciò avviene raramente. In questa fase il Consiglio e la Commissione monitorano l'andamento macroeconomico del paese e possono emettere ulteriori raccomandazioni.
Il carteggio tra il Consiglio e il governo è confidenziale, a meno che non si arrivi a sanzioni. In quel caso, la procedura diventa pubblica.
Criteri di valutazione per combinare le sanzioni:
C'è una mora giornaliera, il cui importo dipende dalla gravità dell'infrazione e dalla sua durata. I due parametri vengono moltiplicati per un importo fisso che varia da paese a paese. Il risultato viene poi moltiplicato per un altro fattore specifico, che è basato sulla dimensione dell'economia del paese e sul numero dei seggi in Parlamento.
Essendo l'Italia una delle economie più grandi e avendo uno dei tre maggiori numeri di parlamentari, è anche uno dei paesi che potenzialmente potrebbe essere soggetto alle sanzioni più elevate.
La pena minima assegnata all'Italia è di 8.505,11 euro al giorno. Inoltre, si aggiunge un'altra somma forfettaria, che è uguale per ogni paese: 895 euro moltiplicati per il coefficiente di gravità e ancora una volta per il fattore "n" e per il numero di giorni, da cui risulta che, per l' Italia, l'importo minimo calcolato è di circa 7.038.000 euro al giorno.
Il Patto di Stabilità e Crescita (PSC) è stato modificato per la prima volta nel 2005, poi nel 2011 con l'introduzione del Six Pack, in seguito alla crisi finanziaria e alla crisi dei debiti sovrani, e nel 2013 con l'adozione del Fiscal Compact e del Two-Pack.
Con questi nuovi regolamenti, è stata introdotta una regola del debito in modo più puntuale. È stato chiarito come avrebbe dovuto avvenire il percorso di riduzione del rapporto debito/PIL, che passa attraverso un obiettivo di medio termine (OMT) che viene indicato dallo Stato membro ed è eventualmente approvato dalla Commissione.
Le regole sulla riduzione del rapporto debito/PIL chiarite dal PSC appaiono rigide, ma non lo sono necessariamente nella loro applicazione. Infatti, ci sono ampi margini di flessibilità. Ad esempio, molte volte l'Italia, la Francia e la Spagna non sono andate in procedura di infrazione, sebbene i parametri macroeconomici fossero completamente al di fuori del Patto di stabilità.
C'è poi una riforma sul PSC che è stata approvata proprio di recente e modifica alcune delle regole di funzionamento del percorso di convergenza dei parametri.
Il rapporto debito/PIL dell'Unione Europea mostra l'Italia come secondo paese con il debito più alto. Le proiezioni di lungo periodo indicano che l'Italia è destinata a diventare il primo paese per rapporto debito/PIL, superando la Grecia.
]]>Sayyid Ebrahim Raisol-Sadati nasce nel 1960 a Mashhad, una città di notevole importanza religiosa con 3 milioni di abitanti a est della capitale, dove si sposta per conseguire una laurea in diritto. Gli studi e la vicinanza ideologica all’Ayatollah Khamenei aprono a Raisi una rapida carriera nella magistratura, che lo porterà ad essere procuratore di Theran a soli 29 anni.
Già funzionario di spicco e custode del redditizio santuario dell’Imam Reza, tenta il passaggio alla politica nel 2017, candidandosi come presidente contro l’uscente H. Rouhani che però viene riconfermato, determinando la sconfitta del partito conservatore e quindi di Raisi, che torna ai suoi incarichi.
La sconfitta elettorale non ha intaccato la sua ascesa come magistrato, che nel 2019 prosegue passando dai vertici della procura nazionale alla presidenza della corte Costituzionale, l’ultimo incarico che ricopre prima di dedicarsi completamente alla carriera politica, vincendo le discusse elezioni presidenziali del 2021.
Partiamo dalla fine. Ebrahim Raisi vince le elezioni presidenziali del 2021 con il 61.9% delle preferenze espresse, circa 18 milioni di voti, su 60 milioni di aventi diritto. Su questo risultato ha pesato soprattutto l’astensionismo (51,2%) e le schede nulle (12,5%), due importanti sintomi di una disillusione della popolazione che gli osservatori internazionali concordano nell’attribuire a due principali fattori: la crisi economica e la disaffezione verso le istituzioni.
Il secondo fenomeno si è accentuato quando l’anacronistico organo del “Consiglio dei Guardiani”, nominato per una metà dall'Ayatollah e per l’altra dal potere giudiziario, ha respinto le candidature più promettenti, ammettendo solo sette candidati alcuni dei quali rinunciano in favore di Raisi. Questa mossa poco velata ha di fatto creato le condizioni per una facile vittoria del favorito di Khamenei. Il debole risultato elettorale ha rappresentato in questi anni un problema non indifferente per l’establishment iraniano che ha sempre basato la legittimità del proprio potere sul diffuso consenso popolare il quale, dal 2021, non fa che calare.
Tuttavia la presidenza Raisi ha ricompattato le due anime dello stato iraniano, quella islamista e quella repubblicana sotto una comune visione religiosa e tradizionalista ben diversa da quella rapppresentanta dal suo predecessore Rouhani, un moderato disposto a concedere timide concessioni sul piano delle libertà individuali.
Il tragico incidente dell’elicottero che trasportava il presidente Raisi e parte del suo staff piomba come un fulmine a ciel sereno nella politica iraniana. Il prestigioso curriculum del defunto presidente Raisi rappresentava un perfetto connubio tra le istituzioni statali e l’integralismo religioso, infatti sembrava già destinato a succedere all’anziano Alì Khamenei come Guida Suprema dell’Iran in un’ottica sia di ricambio generazionale che di continuità tra le due leadership.
Ad oggi la guida del governo è affidata al primo vice presidente, Mohammad Mokhber, fino alle prossime elezioni le quali saranno un test non indifferente per il regime iraniano che secondo i sondaggi più recenti si prepara a fronteggiare un tasso di astensionismo tra il 70 e l’80%. L’inflazione al 50%, la disoccupazione giovanile e il crollo del PIL pro capite del 28% rispetto al 2023 registrato a gennaio, hanno tradito le promesse elettorali di rinascita economica fatte da Raisi nel 2021.
Al contesto economico sfavorevole si aggiungono le richieste di maggiori libertà civili, da anni latenti nella società iraniana e catalizzate dal periodo di proteste dopo il tristemente noto caso di Mahsa Amini nel 2022 a cui il governo non ha saputo dare una risposta unificante.
La complessità del caso rende difficile fare previsioni ma è possibile che la prossima tornata elettorale funga da referendum sulla repubblica iraniana come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi.
]]>“Ci possono essere molte buone ragioni per le quali il nostro Paese potrebbe considerare un’imposta patrimoniale (in realtà sul patrimonio immobiliare), e infatti molti Paesi europei ce l’hanno”. Questo è il pensiero della professoressa Elsa Fornero a proposito della tanto odiata tassa sul patrimonio. Le ragioni alla base riportano la mente a due grandi problemi del Bel Paese: difficoltà nella finanza pubblica e gravi iniquità sociali, per la precisione, intergenerazionali. Infatti un debito pubblico elevato deriva da anni in cui i governi in carica, hanno utilizzato la spesa pubblica in misura doppia rispetto alle entrate fiscali accumulando debito che ricade sulle spalle delle generazioni future. Perciò, l’attuale generazione e quelle che seguiranno, avranno sulle spalle una pressione fiscale a causa della spesa pubblica corrente.
In un sistema malato in cui il carico fiscale è mal distribuito e grava per più del 50% sulla tassazione dei redditi che ricadono negli scaglioni compresi fra i 25 e i 55.ooo euro, sarebbe opportuno rimodellare l'intero impianto in modo da riequilibrare il rapporto tra tassazione del reddito e tassazione del patrimonio.
La riflessione fatta da Elsa Fornero ha scatenato una polarizzazione del dibattito, inneggiando a una fantomatica violazione del “diritto” alla casa di proprietà. Sorvolando sul populismo vario, il punto cruciale è sostanzialmente che il debito pubblico, in un modo o nell’altro, deve essere aggredito e ridotto, almeno nel suo rapporto con il prodotto interno lordo. L’Italia deve intraprendere un sentiero che porti a una riduzione del debito pubblico prendendo in considerazione l’attuale politica fiscale italiana, che risulta essere sbilanciata. A questo proposito è utile analizzare i dati dell'Agenzia delle Entrate ed in particolare quantificare quanto lo Stato incassa dalle imposte dirette ed indirette per capire la magnitudo di questa asimmetria.
Nel 2022 le entrate in miliardi da Irpef ammontano a 204, da Ires a 37, dall'imposta sostitutiva sui redditi a 24, dall'Iva a 175, dalle imposte di Bollo a 13, dal reddito da capitale 12 e dall'Imu a 18 . Se aggiungiamo nel calderone che l'imposizione sui redditi da capitale è una tassa fissa al 26% o al 12.5% se si parla di BTP (altra manovra distorsiva), mentre le imposte sul lavoro raggiungono il 43% a €50.000., notiamo. che la ricetta per il declino è praticamente pronta: l'imposizione fiscale in Italia è fortemente asimmetrica, in quanto il reddito da lavoro è molto tassato mentre altre forme di reddito o ricchezza, la cui tassazione porterebbe a minori distorsioni, sono poco tassate. Si viene tassati in base ad aliquote elevate anche per livelli di reddito relativamente bassi disincentivando la crescita dei redditi stessi per non incorrere in aliquote marginali predatorie. "Aggredire" il capitale, per altro già tassato, è poco efficace in ragione della possibilità di spostarlo con relativa facilità.
Restano gli immobili su cui si applica, con esclusione dell'abitazione principale, la IUC, il tributo che ha accorpato a partire da gennaio 2024 IMU TASI e TARI.
Prima di addentrarci nelle possibili soluzioni al problema sociale della tassa sul patrimonio immobiliare è bene ricordare che una buona parte dell'elettorato è visceralmente contraria a questa imposizione. La contrarietà si basa su un mal posto "diritto alla casa" e sulla retorica, cavallo di battaglia di diversi partiti politici, dell'abitazione sviluppata con redditi che hanno già subito tassazione.
Partiamo da ciò che solitamente si sente dire, ovvero: "ridurre il carico fiscale complessivo sia una buona cosa".
Ridurre il carico fiscale complessivo è sensato nei casi in cui si è disposto ad abbassare contemporaneamente la spesa pubblica; cosa che in Italia nessuno si sogna di dire. Quindi per un bilancio pubblico come quello italiano, appesantito da un rapporto debito PIL del 140%, che non riesce (non vuole) a contenere l'indebitamento netto annuo, e la cui economia cresce da decenni a tassi inferiori al costo del servizio sul debito (effetto palla di neve), attuare una vera riforma del fisco in ottica di riequilibrio ed equità, è fondamentale.
Altro cavallo di battaglia è il sentimento che la crescita economica provenga dalla detassazione della casa. Il presupposto fondamentale probabilmente dimenticato dai sostenitori di tale credenza è che a differenza della produzione e acquisto di un nuovo macchinario o della costruzione di nuovi edifici, la transazione su un immobile non è un investimento per l'economia nel suo complesso, ma è solo il passaggio di mano di un bene già esistente. Investire in un immobile grazie alla detassazione della casa non corrisponde ad una crescita del PIL, ma ad uno spostamento del PIL. Di fatto la crescita economica viene da aumento di produttività, guadagni di efficienza, innovazioni e miglioramenti nell'allocazione delle risorse. Se la detassazione della casa consistesse 1:1 in diminuzioni di prezzo, cosa che non succede, e se questa portasse ad una crescita del settore edilizio che genera occupazione produttiva e salari decorosi non sarebbe di certo merito della PA. Il settore delle costruzioni residenziali è uno dei settori con il più basso valore aggiunto. L'intero complesso delle costruzioni vale secondo l'Istat meno di 90 miliardi di PIL.
Innanzitutto è importante sottolineare che una tassa sul patrimonio immobiliare, come detto, esiste già, l'imposta municipale propria o IMU, la quale consiste in una tassa sulle seconde case ed in casi particolari anche sulle prime case, che come detto in precedenza produce gettito , basso ma pur sempre gettito. L'aliquota base nel 2022 parte dallo 0.86% e, a discrezione comunale, può raggiungere l'1,14% del valore dell'immobile in questione. Il costo medio in città capoluogo ad esempio oscilla tra i valori di 2.064 e 2.040 euro all'anno per Roma e Milano, 580 e 668 per Asti e Gorizia.
È inoltre importante sottolineare che nel caso della tassazione sugli immobili la media è lontana dalla mediana, di conseguenza la maggior parte dei cittadini pagherà un'imposta minore di quella sopra citata. Questo è il punto di partenza da cui costruire la discussione sull'aumento della tassa patrimoniale o sulla sua espansione anche alla prima casa.
Ora che siamo a conoscenza della sua esistenza e siamo liberi da congetture e stereotipi inesistenti possiamo costruire un quadro efficiente che tenga in considerazione le vere necessità di un sistema fiscale strutturato. Se si fa un ragionamento basato sulla ridefinizione complessiva del quadro dell'imposizione fiscale si può pensare ad un'imposta patrimoniale che non vada ad aggravare l'attuale peso fiscale ma vada a sostituire altre tasse o altre imposte, andando così ad alleggerire ad esempio il carico fiscale su chi produce reddito e ricchezza. Perciò quali sono gli elementi che potrebbero rendere la discussione sull'aumento dell'imposizione sulla prima casa, utile e costruttiva e che potrebbero far cambiare la percezione che si ha di questo bene intoccabile?
Se l’aumento della tassa sul patrimonio immobiliare è costruito per abbattere il debito pubblico in rapporto debito/PIL, allora ogni euro in più di gettito deve essere volto necessariamente alla riduzione del debito. Se il debito è il problema, allora bisogna affrontare il problema del debito senza sé e senza ma. Si andrebbe a rimpinguare il già presente ma spesso dimenticato il fondo veicolo per abbattere il debito pubblico che già prevede l’abbattimento attraverso l’imposizione fiscale. Sfortunatamente i Governi sono di memoria abbastanza corta e preferiscono, successivamente ad aumenti di imposta, aumentare la spesa secondo l’antico adagio del “più incasso e più spendo”.
Ex ante, prima dell’effettivo aumento dell’imposta, è imperativa l’individuazione, con grande attenzione, della base imponibile. È ormai prassi, quando si parla di tassazione, soffermarsi sull’aliquota e tralasciare la base imponibile. Le imposte sugli extra-profitti ne sono un esempio lampante: aliquota identificata alla perfezione, ma disguidi tecnici nel definire cosa sia un extra-profitto e cosa invece sia solo un profitto. Risulta impensabile costruire un sistema fiscale sull’ambiguità, perché questo genera malumore generale, scappatoie normative ed in ultimo elusione o evasione. Senza una chiara identificazione della base imponibile la manovra sarebbe inefficace ed inapplicabile o laddove applicabile, spesso ingiusta. Altro impegno da completare prima dell’inizio dei lavori si basa sulla modellazione: gli effetti delle imposizioni fiscali che gravano sulle persone, lavoratori o proprietari di immobili devono essere previsti per poi, sulla base delle previsioni, verificarne i risultati in corso d’opera.
Ex post, dopo l’entrata in vigore dell’aumento in patrimoniale, i dati sull’imposizione e di conseguenza su base imponibile e gettito devono essere trasparenti, fruibili in maniera chiara e comprensibile per rendere l’analisi dei risultati accessibile. Inoltre è essenziale che gli effetti vengano controllati, calcolati e verificati per comprendere se la manovra abbia o meno raggiunto i risultati sperati. Questa azione di vigilanza è ciò che nella normalità amministrativa non avviene mai, la parte che viene tralasciata e non presa in considerazione anche se consiste nel momento cruciale per una manovra: capire se ha funzionato o meno. Il cambio di marcia sposterebbe il focus del sistema fiscale dall'inefficiente ragionamento sulle contingenze ad un comportamento più virtuoso e socialmente giusto.
L'imposta deve essere certa, esigibile e non deve cambiare ad ogni legislatura. In Italia quando c'è da affrontare la materia fiscale si procede con i rattoppi, ma questo rallenta il sistema e lo rende sia inefficiente nella gestione che inefficace nella riscossione, nonché macchinoso ed inutilmente complicato. La materia fiscale va mantenuta costante fino a che le evidenze non dicono che ha bisogno di un cambiamento.
Uno strumento utile ad assicurare certezza e diminuire le ore passate dal commercialista è sicuramente traducibile in un meccanismo automatico di adeguamento ai prezzi.
In qualunque sistema economico il valore dei beni deve essere prezzato al suo valore effettivo e non deve essere fossilizzato in tabelle immutabili che risalgono, nel migliore dei casi, al ventennio precedente come in Italia. Il governo Draghi, nel quadro della Legge delega di riforma dell'Irpef, aveva tentato di introdurre la rivalutazione delle rendite catastali, ma quella riforma è stata affossata per l'opposizione soprattutto della Lega che vi vedeva in prospettiva l'introduzione, o l'appesantimento, delle tasse sulla casa
Risulta infine impensabile prescindere da una riforma complessiva e organica di tutto il sistema in quanto cambiare un’imposta ha effetti su tutte le altre, di conseguenza la gestione deve essere il più possibile congiunta e trasversale. Per questo l'eventuale aumento di patrimoniale deve essere compensato da una riduzione di tutte le tasse che frenano la crescita e lo sviluppo, in particolar modo le imposte sul reddito che distorcono le scelte di allocazione del tempo per i lavoratori. Spostare il carico fiscale verso la parte di ricchezza più difficile da occultare, quindi dal reddito al patrimonio, inoltre semplifica in maniera massiccia la vigilanza sulle riscossioni. Di fatto, in un quadro economico dove l’evasione fiscale sui redditi da lavoro è alta, il 69,7 per cento dell’IRPEF da lavoro autonomo e d’impresa nel 2020 non arriva a destinazione, e la pressione fiscale reale in capo ai contribuenti fedeli al fisco si avvicina ormai al 50 per cento, questa manovra potrebbe portare ventata di aria fresca. In queste condizioni economiche e sociali e alle sopracitate condizioni di riforma non è scandaloso parlare di imposta patrimoniale.
Una più ingente tassazione sugli immobili darebbe la possibilità di respirare ai lavoratori nella forma di una consegnata del carico contributivo e fiscale. Un'imposta sul patrimonio ridistribuisce in maniera più equa la ricchezza tra generazioni: aumenta il contributo della popolazione più anziana e lo sposta alla fetta giovane. Inoltre distorce meno rispetto alle imposte sul reddito, è meno facile da evadere, sovrintende direttamente tutti quei costi sociali relativi alla gestione degli immobili, ridistribuisce il potere d'acquisto e responsabilizza le autorità locali. In assenza di questa ridistribuzione un sistema predatorio nei confronti del lavoratore non solo reprime la crescita ma squilibra e mina il patto intergenerazionale.
]]>La questione non si limita al fatto specifico, bensì affligge tutta una serie di situazioni nelle quali l’interesse del proprio “retrobottega” va a discapito di consumatori ed imprenditori propensi a non rimanere ancorati all’arcaico sistema di valori concorrenziali del Bel Paese.
Partiamo dalla direttiva in sé. Conosciuta come Direttiva Bolkestein, la Direttiva 2006/123/CE riguarda la gestione dei servizi nel mercato interno dell’Unione Europea. La direttiva prende il nome dal Commissario europeo Frits Bolkestein che ai tempi ne fu promotore e sostenitore. I tre pilastri principali su cui si articola la direttiva sono:
A seguito della percezione della direttiva da parte dell’Italia nel 2010, il segmento delle concessioni balneari è stato subito fulcro di potenziale applicazione e, di conseguenza, di accese proteste, considerando la natura particolarmente anti-concorrenziale del settore.
La direttiva richiede infatti che i conferimenti ad uso di beni demaniali, le spiagge in questo caso, siano assegnati attraverso la messa a gara pubblica. Questo volge all’obiettivo di eliminare le posizioni dominanti e di rendita degli attuali gestori durate, in molti casi, per svariati decenni, oltre che sostenere ed aumentare la trasparenza nei confronti dei consumatori. Fino ad ora le concessioni pubbliche agli stabilimenti balneari, anziché essere assegnate tramite gare aperte e trasparenti, venivano prorogate periodicamente agli stessi proprietari. Considerando che il bene su cui i gestori lucrano appartiene, in quanto pubblico, a tutti, la criticità della situazione perpetrata fino a questo momento ha raggiunto livelli insostenibili. Senza tenere conto che spesso e volentieri, all’assegnazione del bando, non segue alcun tipo di investimento, nonché miglioramento, da parte dell’assegnato.
Elemento cardine di questa situazione dalle tinte assurde è l'influenza politica che questa lobby, in quanto considerevole bacino elettorale, esercita.
Indipendentemente dai rispettivi orientamenti politici, i governi italiani hanno infatti continuato a garantire proroghe sulle concessioni. Questo impressionante perpetuarsi di rinvii è persistito persino in seguito alle varie procedure d’infrazione avviate dalla Commissione Europea nei suoi confronti e alle sentenze del Consiglio di Stato.
Nello “Stivale” questo processo ha assunto, nei decenni, le sembianze di un travagliato matrimonio tra partigianerie.
Nel già lontano 1942 il Codice della Navigazione richiamava la necessità di assegnare i beni demaniali soltanto a chi ne avrebbe garantito l’utilizzo attraverso il compimento del cosiddetto interesse pubblico. Nel 1952 uno step successivo dichiarava l’obbligo di pubblicare le richieste di assegnazione nei rispettivi albi comunali/territorali.
La prima svolta tendente alla situazione attuale avviene nel 1992 con l’introduzione del “diritto di insistenza”; grazie a questo gli attuali gestori venivano prioritizzati nella nuova messa a gara delle concessioni e ne veniva disposto, salvo casi particolari, il rinnovo automatico ogni sei anni. Questo provvedimento spingeva quella che poi diventerà la prassi di un settore verso lidi arcaici di arretratezza e di barriere all’ingresso per investitori e nuova (e sana) concorrenza.
Il diritto di insistenza entra chiaramente in contrasto con la legislazione comunitaria e le istituzioni europee volte a sostenere la concorrenza, la trasparenza, l’equanimità e la protezione dei consumatori. La prima procedura d’infrazione viene infatti aperta nel 2009 e nel 2010 il diritto di insistenza viene revocato.
Nonostante ciò una serie di proroghe (addirittura nella legge di bilancio di 2018 si parlava di 31 Dicembre 2033), accompagnate da ulteriori messe in mora da parte della Commissione Europea, porteranno questa situazione ad assumere tinte comiche.
Fiero del suo populismo, il governo Meloni ha tentato più volte di remare contro le direttive europee, istituendo un comitato tecnico-consultivo con il compito di dimostrare la falsità dell’argomento sulla scarsità della risorsa spiaggia e dunque annullare l’applicazione della direttiva Bolkestein.
Un culmine pietoso viene raggiunto con la relazione del Settembre 2023 la quale, inflazionando le stime Istat sulla lunghezza delle coste italiane, aggiunge 2.200km agli 8.970km precedentemente confermati. Secondo questi calcoli la quota di litorale occupata da stabilimenti balneari sarebbe soltanto del 33%, ben al di sotto delle percentuali secondo le quali la direttiva andrebbe applicata. Questa stima, come sostenuto dalla Commissione che respinge le affermazioni del governo in carica, conteneva tra le aree disponibili anche superfici occupate da porti commerciali, zone industriali, aree marine protette e via discorrendo.
Ricordiamo che Legambiente stima, evidenziando comunque la mancanza di totale affidabilità e di aggiornamenti a riguardo, il totale delle coste basse occupato da concessioni attorno al 43%. Questo senza contare la presenza di spiagge inaccessibili per motivi di illegalità e inquinamento, sommando le quali, si arriva al circa 50,5% delle coste basse italiane. Alcune regioni, quali Emilia-Romagna, Liguria e Campania presentano oltre il 70% delle spiagge occupate.
Al termine dello scorso Aprile, il Consiglio di Stato ha finalmente annullato le deroghe fino al 31 Dicembre 2024 precedentemente concesse da alcune amministrazioni comunali, confermando la scadenza delle concessioni balneari al 31 Dicembre 2023. La sentenza segue i principi della Corte di Giustizia Europea, evidenziando da un lato la necessità di procedere una volta per tutte con gare competitive volte all’assegnazione dei territori demaniali e dall’altro, di risolvere il problema della scarsità della risorsa spiaggia.
Questa sentenza ha rilevanza significativa, essendo l'ultimo grado di giudizio nella giustizia amministrativa.
Nonostante le dimensioni ridotte di gran parte degli stabilimenti, con circa il 95% dei quali non arriva ad occupare 10.000m2, gli esercenti spesso collezionano più di una concessione.
Ma quello che è il principale vulnus quantitativo della questione è l’irrisorietà delle cifre pagate per l’assegnazione della concessione in relazione all’effettivo beneficio calcolato che ne ricavano.
Ricordiamo innanzitutto che sino al 2020 i canoni erano rimasti invariati dal 1989 (!). In secondo luogo, la logica sottostante la misurazione del minimo da pagare non risulta chiara e ha scatenato negli anni numerose critiche.
Uno studio dell’Osservatorio CPI suggerisce un calcolo per dimostrare l’entità di questo fenomeno. Riportiamo di seguito un esempio sulla falsa riga di quello appena citato, considerando il regime dei prezzi allora in essere nel 2021, ed utilizzando numeri e cifre a dir poco modeste.
Supponiamo di avere uno stabilimento con 80 postazioni, ognuna delle quali (ombrellone più sdraio) deve occupare per legge (secondo la normativa vigente) almeno 10m2 di superficie; la superficie totale della spiaggia è dunque di 800 metri quadri. Immaginiamo inoltre che il prezzo medio per postazione sia di appena 25€ al giorno e che lo stabilimento sia aperto per quattro mesi (da maggio ad agosto), riuscendo ad occupare in media il 50% delle postazioni nel periodo.
In questo caso, le 40 postazioni frutterebbero al gestore 61.000€ (40 ombrelloni per 25€ per 122 giorni). Dal lato costi per il gestore, utilizzando i canoni di concessione della spiaggia riportati dall’Osservatorio CPI, se lo stabilimento si trovasse in un'area di alta valenza turistica, il canone sarebbe di 2,78€/m2, mentre di 1,39 qualora in un’area a bassa valenza turistica. Facendo due calcoli (800m2 x 2,78 = 2.224€ nel primo caso e 800m2 x 1,39 = 1.112€ nel secondo) il canone complessivo da pagare nelle due ipotesi sarebbe ugualmente di 2.698,75€ considerando l’imposizione della misura minima del canone totale. Questo valore, sempre all’interno del nostro calcolo ipotetico, rappresenta circa il 4,42% dei ricavi.
Considerando i numeri a ribasso utilizzati nell’esempio si riesce perfettamente a cogliere l’essenza del problema.
Nel 2016 il DEF stimava a 103 milioni il gettito totale derivante dalle concessioni. Dai successivi DEF questo elemento addirittura scompare.
Scorporando dai circa 107 milioni di euro misurati dall’Agenzia sul Demanio nel 2022 i pagamenti relativi alla cantieristica e al diporto nautico, arriviamo a neanche 60 milioni di euro; se consideriamo il tasso di morosità scendiamo a circa 45 milioni. Citando l’Espresso, nel 2021 il Comune di Milano incassava 53 milioni di euro per il solo affitto dei negozi operanti nella galleria di Vittorio Emanuele.
I numeri parlano chiaro e tenendo presente che si tratta di oltre 4.000km di spiagge, magari neanche valorizzati e raramente soggetti a miglioramenti da parte degli stessi gestori, scappa veramente da ridere sentire ancora parlare i contestatori della temibilissima Direttiva Bolkestein di favoritismi verso le grandi imprese e di ingiustizia.
Alla vigilia dell’ennesimo sciopero nazionale dei taxi che si terrà il 21 Maggio, scrivere di balneari calza a pennello.
Stiamo parlando di due lobby ben distanti in termini di attività ma bensì accomunate da uno spirito che, come dicevo precedentemente, è tanto caro ad una certa fetta socio-culturale italiana. Una sorta di ritorno al feudalesimo, caratterizzato da favoritismi gerarchici, concorrenza sleale (o ancora meglio assenza totale di essa) e conflitto di interessi.
Ascoltavamo tempo addietro questo servizio dell’ennesimo ente mediatico che evidenziava come tra gli elementi principali di critica alla Direttiva Bolkestein vi fosse, ad esempio, il potenziale rischio che, come frutto della messa a gara delle concessioni balneari, una spiaggia sicula potesse finire “in mano ad una ditta svedese”. Si parla sempre di “sottrazione” e mai di merito. Di ingiustizia, violazione e mai di sana competizione. Di identità e mai di valore aggiunto. Come se al consumatore dovesse interessare in primis il fatto che la spiaggia sia gestita dal proprietario locale, che in alcuni casi non sviluppa e potenzia il territorio per decenni, e poi magari in secondo luogo che i servizi offerti siano quelli adeguati al prezzo da pagare.
Stare a specificare l’ovvia presenza, in qualsiasi percentuale si voglia ipotizzare, di gestori balneari o imprenditori che spezzano il trend verso il quale questo articolo tende a rivolgersi, risulterebbe totalmente fuorviante dato che, in un contesto di sano mercato concorrenziale e riconoscimento, tutti i nodi verrebbero al pettine.
]]>Il lavoro di uno storico è molto complesso. Cosa sia la ricerca storica e quali siano i suoi metodi sono domande ancora oggi oggetto di dibattito nella comunità accademica. Montagne di inchiostro sono state versate su questo argomento e sui principi e le procedure che un “buono storico” dovrebbe seguire. Due dei più importanti scritti riflessivi in questo ambito sono: Apologia della Storia o Mestiere di storico di Marc Bloch e Sei lezioni sulla storia , di Edward H. Carr. Il primo fu pubblicato postumo nel 1949 in Francia, mentre il secondo uscì nel 1961 nel Regno Unito. Sono considerati grandi classici della letteratura riflessiva sulla natura della storia. Entrambi gli scritti enfatizzano la necessità dell'assenza di giudizi morali per produrre una valida ricerca storica.
Bloch parla di due tipi di imparzialità: quella dello studioso e quella del giudice. Entrambi cercano di comprendere al meglio cosa sia successo, studiando le fonti o interrogando i testimoni. Eppure, scrive Bloch, “ a un certo punto, le loro strade divergono. Quando uno studioso ha osservato e spiegato, ha concluso il suo compito. Al giudice tocca ancora di dare la sua sentenza.” Questo però non annulla l'imparzialità del giudice, semplicemente la rende diversa da quello dello storico. Che senso ha per un ricercatore giudicare un fatto storico? Perché mai il lettore deve essere interessato nelle posizioni personali, magari politiche dello storico che sta leggendo? Bloch fa l'esempio della rivoluzione francese: “Robesperristi, antirobespierristi, noi vi chiediamo grazia: per pietà, diteci, semplicemente, chi fu Robespierre”. Per Bloch la parola centrale è “comprendere”, non giudicare, ma cercare di capire i motivi che spinto hanno certi eventi storici.
Carr esprime una simile visione, condannando i giudizi morali. Giudicare persone come Hitler o Stalin non ha senso per uno storico, dato che molte persone che soffersero sotto i loro regimi sono ancora in vita. Va tenuto a mente che Carr scriveva questo nel '61. Lui, quindi, argomenta per una sospensione del giudizio, in modo da evitare di danneggiare in alcun modo le vittime ancora in vita. La questione però è lontana dall'essere risolta, è possibile infatti essere obiettivi analizzando dei fatti pur esprimendo un giudizio? Uno storico non deve necessariamente essere un freddo calcolatore che riporta dati senza esprimersi sulle tragedie che sta analizzando. È possibile riportare un'analisi obiettiva del regime nazista anche esprimendo disprezzo per le atrocità da esso commesse. Gli storici sono esseri umani e, come tutti noi, hanno pregiudizi e giudizi personali. Ogni libro e ricerca storica presenterà sempre un livello di giudizio personale dell'autore, rimuovendolo del tutto è impossibile, proprio per la nostra natura umana. Ogni individuo ha un'ideologia, nata dalle sue esperienze personali di vita e da ciò che ha deciso di studiare e approfondire.
Essendo questo un aspetto essenziale di ognuno di noi, perché deve essere esorcizzato dagli storici? Carr scrive anche che lo storico è figlio del suo tempo, rappresenta un punto di vista radicato nella cultura del periodo storico in cui ha vissuto. Con questo, però, riconosce dei pregiudizi intrinseci, anche contraddicendosi rispetto al suo punto di vista sopra riportato. Per esempio, Eric Hobsbawn fu un importante storico marxista dello scorso secolo, la sua chiara ideologia però, non lo precluse dallo scrivere analisi storiche rilevanti. Quindi, uno storico deve giudicare o no? È impossibile dare una risposta definitiva, ciò che può essere detto è che la ricerca storica è complessa, ed è fatta da esseri umani, e come tali hanno dei pregiudizi. Questi giudizi è inevitabile che, almeno in minima parte, finiscono nei lavori che producono.
Gli storici possono essere divisi in due grandi categorie: antichisti e medievisti da una parte, e storici dell'età moderna e contemporanea dall'altra. Per entrambi esiste una divisione nelle fonti a loro disposizioni fra primarie e secondarie. Fonti primarie sono documenti, lettere, scritti, resti archeologici, etc… sono provenienti dall'epoca che si sta analizzando, creati in quel periodo. Un esempio può essere la Magna Charta , scritta nel tredicesimo secolo, o gli Accordi di Pace di Versailles del 1919. Una fonte secondaria, invece, è una ricerca scritta da uno storico, che usa fonti primarie e secondarie per argomentare una tesi. Gli storici dell'età moderna e contemporanea hanno un problema di fronte all'enorme quantità di fonti primarie disponibili. In questo periodo, infatti, abbiamo a disposizione una grande quantità di documentazione.
Di fronte a un racconto quantità di fonti da analizzare, uno storico può finire con l'analizzare solo un numero limitato di queste ultime. Così facendo, il rischio di parzialità è enorme. Cioè di lasciare aspetti di un fatto storico, producendo una ricerca parziale, che non spiega esaustivamente il fenomeno storico analizzato. Un esempio negativo di questo sono i neoborbonici, il loro errore ricade nel cherry-picking delle fonti, scegliendo solo quelle congeniali alla loro tesi, e finendo col produrre una storia incompleta e priva di reale valore. Il problema si presenta in maniera opposta agli storici dell'antichità e del medioevo. Qui le fonti primarie sono quasi sempre molto poche, e spesso sono presenti interi periodi che ne sono quasi privati. Il rischio è sempre quello di essere parziali, finendo con il trarre conclusioni generali su poche fonti circoscritte, e che di generale hanno ben poco. La soluzione a questi annosi problemi è il passare molte ore a far ricerca, negli archivi e nelle biblioteche, per produrre ricerche che il più completo possibili. Perché, alla fine, il lavoro di un ricercatore di storia è quello di “topo di biblioteca”, cercare di passare in rassegna quante più fonti possibili, primarie e secondarie, affinché vengano prodotte ricerche valide.
C'è un problema di percezione degli storici e del loro lavoro da parte di persone esterne all'ambito accademico. Questo principalmente perché raramente una ricerca storica esce dal ristretto cerchio dei ricercatori per essere letti dal grande pubblico. Quest'ultimo si interfaccia più spesso con libri di divulgazione prodotti da storici. È importante identificare la differenza tra un libro divulgativo e una ricerca storica. Quest'ultimo è frutto di un lungo lavoro di archivio; è pubblicato su giornali accademici; presenta una estesa bibliografia e note per ogni fonte utilizzata e citata nel testo (questo per evitare il plagiarismo); e sono revisionate da pari, cioè da altri storici competenti in quell'ambito di ricerca. Un libro divulgativo invece, non ha nulla di tutto questo, è spesso una narrazione prodotta da un solo autore, non presenta citazioni e raramente ha una bibliografia. Non è frutto di un lavoro di archivio, ma un compendio di altre ricerche e di opinioni dell'autore.
La maggior parte delle persone estranee all'ambito accademico non leggerà mai una ricerca storica, ma resterà sui libri di divulgazione. Questo rappresenta un problema, così facendo, viene creata una percezione distorta del lavoro dello storico. La storia viene mostrata come una semplice narrazione di avvenimenti passati, un insieme di eventi dai quali è possibile estrapolare una morale di fondo da applicare al nostro periodo o addirittura per cercare di capire il futuro. La ricerca storica, però, è altro: è l'analisi critica di fonti primarie e secondarie, frutto di innumerevoli ore di ricerca.
Il più grande problema della storia è l'uso politico che spesso ne viene fatto. Molte persone usano avvenimenti passati per trarne una morale, creando una narrazione utile per i loro fini politici. Un esempio è la narrazione creata da Putin e dai filorussi sulla seconda guerra mondiale: giustificando la Germania nazista, in un parallelismo con la Russia odierna e la sua invasione dell'Ucraina, viene creato un argomento a favore dei Russi, che legittimamente possonore il loro attacco con basi storiche. Il problema è che si rischia di far diventare la storia uno strumento politico, manipolabile e adattabile a qualsiasi narrazione e per qualsiasi fine. Viene così a perdere l'elemento critico, tanto importante per la ricerca storica, a favore di interpretazioni parziali, che fanno diventare la storia un semplice contenitore dal quale estrarre lezioni morali utili soltanto ai propri fini.
La storia è una disciplina complessa, sulla sua metodologia che molti storici hanno scritto, primi fra tutti Bloch e Carr. Loro evidenziano la necessità dell'assenza di giudizi personali nella ricerca storica. Questa è però cosa impossibile, ogni storico ha pregiudizi che sono impossibili da eliminare del tutto dal proprio lavoro. Un problema che i ricercatori devono affrontare è la parzialità dell'analisi delle fonti: gli storici devono stare attenti, seppur in modi diversi, al non presentare un'immagine parziale, analizzando scrupolosamente fonti sia primarie che secondarie. C'è un problema di percezione degli storici, la maggior parte delle persone non legge ricerca storica, ma solo libri di divulgazione. Questo li porta a farsi un'idea sbagliata di cosa sia il lavoro dello storico. La politicizzazione della storia rischia di far passare quest'ultima come uno strumento dal quale prendere narrazioni utili ai propri fini politici. Il mestiere dello storico è complesso, e gli usi impropri della storia sono sempre dietro l'angolo. È per questa di primaria importanza cercare di capire cosa sia la ricerca storica: in cosa consiste e come funzioni.
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Leggi sugli “agenti stranieri” esistono in vari paesi del mondo, anche democratici, una delle più celebri è il Foreign Agents Registration Act degli Stati Uniti. Esiste dagli anni Trenta e obbliga le persone e le organizzazioni che fanno attività di lobbying per conto di altri paesi a registrarsi presso il dipartimento di Giustizia. La legge americana non proibisce di fare lobbying per conto di un altro paese, ma stabilisce obblighi di trasparenza e rendicontazione finanziaria per le persone e le organizzazioni coinvolte in tale attività. Inoltre la legge non si applica a organizzazioni umanitarie, religiose, scientifiche, e si concentra soltanto sull’attività di lobbying. [1]
Con 84 voti favorevoli e 30 contrari, martedì 14 Maggio i parlamentari georgiani hanno approvato quella che l’opinione popolare chiama “legge russa”, per la sua analogia con la legge sugli agenti stranieri approvata a Mosca nel 2012. [7] La legge del Cremlino del 2012, inizialmente con “agenti stranieri” definiva esclusivamente le ONG che facevano attività politica e che ricevevano fondi da paesi esteri, ma gradualmente nuovi emendamenti estesero le categorie interessate: nel 2017 furono aggiunti i media e nel 2022 praticamente tutte le organizzazioni e gli individui. [1]
La legge recentemente approvata in Georgia è molto più ampia: qualsiasi organizzazione che riceva almeno il 20 per cento dei suoi fondi dall'estero, che siano finanziamenti, donazioni o altro, viene designata come "agente straniero". Questa legge non solo introduce obblighi di trasparenza per le organizzazioni interessate (anche se già esisteva una legge sulla trasparenza in Georgia), ma impone anche ispezioni coercitive, nuove responsabilità amministrative e multe considerevoli (fino a quasi 10.000 euro) per coloro che violano le disposizioni. [1]
L'ondata di manifestazioni è stata inaugurata il 9 aprile, il giorno in cui il partito Sogno Georgiano ha deciso di ripresentare la legge in Parlamento. Dopo poco tempo dalla proposta, le piazze della capitale erano già colme di oppositori, ma il momento più teso è stato raggiunto nella notte del 12 al 13 aprile, dove decine di migliaia di georgiani sono tornati a riempire le strade di Tbilisi per opporsi alla "legge russa" e sostenere l'Unione Europea. [3]
Le proteste sono poi riprese a inizio maggio, dove decine di migliaia di persone sono tornate a manifestare, dando luogo a scontri con le forze dell'ordine. La polizia è intervenuta per disperdere i dimostranti con l'impiego di gas lacrimogeni, cannoni ad acqua e proiettili di gomma, arrestando decine di persone. Dopo l’approvazione della legge le proteste non si sono affievolite e nel frattempo, a Mosca cresce la preoccupazione per una possibile rivolta georgiana simile a quella di Euromaidan, che ha contribuito alla situazione attuale in Ucraina.
Attualmente, nella capitale, gli scontri con la polizia si stanno intensificando, tanto che alcuni manifestanti hanno tentato di superare le barriere metalliche all'ingresso del Parlamento, portando a diversi arresti. [4]
Dopo i recenti fatti accaduti, il governo degli Stati Uniti ha messo in guardia la Georgia dal non diventare un avversario dell'Occidente, dopo che il parlamento ha ignorato le proteste di piazza per approvare una legge "ispirata dal Cremlino". Il sottosegretario di Stato americano Jim O'Brien ha espresso preoccupazione per il fatto che l'approvazione della legge potrebbe segnare un altro punto di svolta nella travagliata storia dell'ex stato sovietico. Durante una conferenza stampa a Tbilisi, O'Brien ha lasciato intendere che i finanziamenti statunitensi potrebbero presto essere revocati. Gli Stati Uniti hanno speso miliardi di dollari per la ricostruzione della Georgia dopo la caduta dell'Unione Sovietica, e ulteriori centinaia di milioni sono stati pianificati per sostenere l'economia e l'esercito del paese. [7]
La Georgia è entrata in un intenso anno elettorale: le riforme costituzionali hanno fatto sì che quest’anno coincidessero le elezioni parlamentari e presidenziali. Con l’avvicinarsi delle elezioni del 2024, il partito in carica Sogno georgiano, sta cercando di forgiarsi la strada verso il successo elettorale attraverso misure sovraniste e populiste, alimentate da un sentimento anti-occidentale.
Irakli Kobakhidze, leader del partito Sogno georgiano, il 2 Marzo ha dichiarato in un’intervista rilasciata alla TV governativa come il disegno di legge avrà “un effetto preventivo nei confronti dell'opposizione radicale e delle organizzazioni della società civile ad essa affiliate”. Per opposizione radicale, la coalizione al governo considera tutti i gruppi che contestano le decisioni del governo e li accusa di alimentare unilateralmente la polarizzazione nel Paese.
Dichiarazioni di estrema gravità, inviando un messaggio di scoraggiamento verso tutti gli individui critici nel confronto del governo che potrebbero essere dissuasi dall’esprimere apertamente il proprio parere per paura di ritorsioni. Proprio per questo motivo, le proteste di questi giorni non riguardano solo la proposta di legge in sé ma la direzione politica che ha intrapreso la maggioranza. Infatti, negli ultimi anni ma sopratutto negli ultimi 18 mesi, il governo ha intrapreso una serie di azioni che sembrerebbero destinate ad allontanare il paese dall’Occidente e ad avvicinarsi gradualmente nella sfera di influenza della Russia. [7][2]
L’inizio della guerra in Ucraina ha avuto forti ripercussioni geopolitiche anche per l’opinione pubblica georgiana. Secondo un sondaggio, nel nel marzo 2022, l’88% degli intervistati sosteneva pienamente o moderatamente l’adesione all’UE; allo stesso tempo, il 90% degli intervistati considerava la Russia la maggiore minaccia politica del paese e l’83% la riteneva la più grande minaccia economica. Anche se da una parte il sostegno all’adesione all’UE è sempre stato alto nell’opinione popolare, sicuramente l’invasione dell’Ucraina ha provocato da una parte un'intensificazione del sentimento anti-russo, e dall’altra un rafforzamento del sentimento filo-europeista. [5]
Dietro l’entusiasmo europeista si cela però un contesto geopolitico complesso: le politiche aggressive della Russia e il sostegno alle regioni separatiste (Abcasia e Ossezia meridionale) hanno contribuito a rafforzare il senso di vicinanza dell'opinione pubblica georgiana verso l'Occidente e l'Europa, viste come una difesa contro le influenze esterne e una prospettiva verso la stabilità e la prosperità. Bisogna però ricordare che l’identità europea della Georgia è il risultato di tensioni regionali, non di un condiviso senso di appartenenza. È un’identità fragile, soggetta a cambiamenti geopolitici e non necessariamente considerata nei programmi di lungo periodo dei partiti politici del Paese.[6]
La Georgia, trovandosi tra Russia e Unione Europea, ha assunto un ruolo crescente e significativo nella geopolitica mondiale. Tuttavia, se in passato le aspirazioni europeiste della Georgia erano accolte da Bruxelles con maggiore ottimismo, oggi sussiste preoccupazione per i segnali di un declino democratico che potrebbe compromettere le prospettive di adesione del paese all'Unione Europea. [5]
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Il pregiudizio che vizia ogni trattazione a proposito, e che ormai è invalso nell’opinione pubblica alla stregua di un dogma, è quello secondo il quale a differenziare sostanzialmente i due sistemi in questione vi sarebbe da un lato l’esclusività e la singolarità che caratterizzò la parentesi storica apertasi con l’instaurazione del fascismo e del nazismo e, dall’altro, l’irriducibilità dell’ideologia ed esperienza socialista e comunista in un unico perimetro teorico/politico. Detto altrimenti, vi sarebbe un solo fascismo ed un solo nazismo, mentre, viceversa, il socialismo e il comunismo sarebbero un piuttosto complesso, sfaccettato e poliedrico sistema teorico che ha originato più versioni e tipologie di sé.
Il fascismo ha un solo volto e una voce, quella di Mussolini. Il nazismo, invece, quella di Hitler. La stessa riduzione, viceversa, non potrebbe essere operata per quanto riguarda quello che chiamiamo socialismo o comunismo.
Il secondo vizio di ragionamento piuttosto diffuso è quello per il quale, mentre il fascismo ed il nazismo nascono a priori come progetti criminali e liberticidi, il socialismo ed il comunismo nascono invece come progetti a presidio della giustizia, dell'uguaglianza e del pluralismo.
Il fascismo ed il nazismo sarebbero intrinsecamente e geneticamente malsani, mentre il socialismo in nuce propugna l’emancipazione umana. I sostenitori di queste tesi però sembrano sottostimare la reale incidenza del fascismo nel mondo, talvolta addirittura quasi ignorarla. Tra le esperienze storiche segnate dal fascismo sembrano infatti scordare o trascurare quella avvenuta con l’instaurazione del regime di Francisco Franco in Spagna, che di fatto non diverge in alcun modo, nella sostanza o nella forma, da quello che di diritto chiamiamo “fascismo”. All’appello in effetti non manca alcun carattere tipico del mostro fascista: Nazionalismo estremo, repressione dittatoriale, dominio del partito unico, promozione dell’idea di superiorità e specialità della nazione, autarchia economica, stato corporativo, organizzazione e coordinazione delle società lavorative e dei sindacati, velleità coloniali ecc.
Nondimeno andrebbe annoverato in questa lista l’Estado Nuevo (nuovo stato), in Portogallo, fondato e guidato da Antonio de Oliveira Salazar o, allargando la visuale, anche lo stesso regime di Augusto Pinochet, in Cile. Ciascuno di questi esempi, drammatici seppur piuttosto contenuti in portata e dimensioni, scardinano la favola secondo la quale il fascismo sarebbe sempre e a priori un fenomeno foriero di danni abnormi ed incommensurabili assimilabili a quelli causati dal paradigmatico fascismo di Mussolini, dimostrando come sia il socialismo che il fascismo restituiscano alla storia esempi di grandi come di modesti danni, quando la narrazione opposta pretende provare che la moderazione politica sia appannaggio solo del socialismo reale.
Spesso le stragi di matrice socialista/comunista vengono addirittura taciute o fatte passare in sordina, mentre, se riesumate dagli impolverati archivi storici, riescono ancora a rievocare le urla di disperazione ed angoscia delle vittime da loro mietute, purtroppo vilipendiate da fin troppa omertà e negazionismo. Eppure le pagine nere della storia illustrano con perizia le stragi obliterate col benestare di una certa frangia politica, e tra di esse si contano tragedie meritevoli di un accanimento (almeno) pari a quello dedicato alle stragi nazi-fasciste.
Tra carestie intenzionalmente procurate, esecuzioni di massa, morti per lavoro forzato, fame e incarcerazione, gli storici più cauti stimano la caduta di un numero di vittime che va dai 10 ai 20 milioni, mentre, quelli meno indulgenti, parlano di un massimo che tocca i 148 milioni totali. Autori che si sono cimentati nel delicato tentativo di fornire delle stime quanto più attendibili e fedeli alla realtà sono numerosi, perciò qui intendo citarne solo alcuni, allegando i relativi numeri conseguiti:
Altro argomento propugnato da costoro a sostegno della bontà di un certo socialismo esistito, è che nel novero dei socialismi vadano contati anche quei numerosi partiti e movimenti che tuttavia non sono riusciti a conquistare di fatto il potere, ma che praticamente hanno militato all’insegna di cosiddetti nobili ed encomiabili ideali, di grandi sogni e aspirazioni.
Ora, con i doverosi distinguo, soprattutto nell’ordine quantitativo della potenziale minaccia costituita dai due macro-schieramenti, abbiamo invero un contraltare a suddetta argomentazione, poiché movimenti e partiti “vergini”, mai saliti al potere ma qualitativamente analoghi ai vari movimenti socialisti, ci sono oggettivamente anche tra le frange “vergini” ispirate al fascismo. Di fatto, attenendoci ai programmi o ai modelli cui sostengono ispirarsi ambedue, nulla vieta di inserirli entrambi in un perimetro di potenziale minaccia, soprattutto alla luce delle numerose manifestazioni di simpatia, solidarietà e giustificazione verso l’operato dell’Urss oltre che a quella dei rapporti concreti intrattenuti con lo stesso da alcuni di essi; non sorprende altresì che siano stati composti motti e canzoni inneggianti il comunismo Russo e Cinese, reperibili ad esempio in alcune strofe presenti nella canzone “le otto ore” del repertorio culturale socialista/comunista.
Perciò, seppur i vari movimenti di chiara ispirazione fascista come l’MSI in Italia, l’AfD in Germania, Vox in Spagna, o Alba Dorata in Grecia ecc. non suscitino e non possano in alcun modo suscitare aspettative positive di sorta, è evidente che nemmeno la generale adesione e l’invalso giustificazionismo del retaggio sovietico permeante larga parte degli ex movimenti e partiti di matrice socialista italiani possano essere esenti da pronostici in certa misura nefasti o quantomeno allarmanti. E proprio qui si articola il nucleo della questione: siamo inequivocabilmente certi che saltabeccando da un criterio di giudizio all’altro, sia possibile esimere definitivamente il socialismo/comunismo da un così tanto paventato grado, grande o piccolo che sia, di equivalenza col fascismo? Perchè, come sopraesposto, sia fascismo che socialismo reali hanno restituito esempi di abnormi come di modesti danni e nemmeno il fascismo o il socialismo potenziali sono mai riusciti a sottrarsi de iure a pronostici in una certa misura nefasti o allarmanti. E quindi, puntualmente, la “tana” in cui si rifugiano i critici della tesi che afferma tale equivalenza è quella dell’insormontabile e abissale divergenza nella teoria tra i due macro-schieramenti.
E’ vero. L’una colora, dipinge e decanta il bene che dice di perseguire con colori, parole ed enfasi certamente più appetibili, rassicuranti ed efficaci dell’altra (notoriamente il fascismo). Ma che l’una in termini pubblicitari riscuota maggior successo dell’altra non vieta di credere che questa sia altrettanto mossa da una propria particolare idea di benessere e giustizia sociale, verace o meno che sia. Quindi, venendo in ultima istanza al supremo punto addotto per negare una qualsivoglia equivalenza qualitativa tra le due ideologie, anche da questa “tana” vedremo che, se condotta un’attenta analisi delle analogie tra i due -ismi, è possibile sfrattare questi “negazionisti”.
In effetti, notoriamente, sia il fascismo che il comunismo predicano la necessità di subordinare l’aspirazione e l’istanza individuale ai fini del bene e dell’interesse collettivo, scadendo, de facto, ad assurgere questa istanza a giustificazione della repressione del diritto di parola, nella soppressione dei “nemici del popolo” o della “classe prediletta” a seconda che ci si rifaccia all’una o all’altra causa, o scadendo talvolta addirittura nell’eliminazione de facto della suddivisione dei poteri.
Ovviamente, ogni morbo ha la propria storia, le proprie peculiarità e caratteristiche, ma se dobbiamo sistemarci nel letto di procuste che la domanda cui si sta rispondendo rappresenta, un denominatore comune nelle due teorie va ammesso, al netto, ovviamente, di tutte le dovute differenziazioni che in un articolo di due pagine è impossibile fare nella dovuta ed esaustiva maniera. Quindi, tra il sol dell’avvenir o l’istituto L.U.C.E, tra i due sarebbe meglio la notte, non in attesa di un'Alba Dorata, ma di una primavera culturale che veda tutti, individui e collettivi, classi e nazioni, veramente soddisfatti della vita che hanno la fortuna di vivere.
]]>Cristiano Corsini è professore ordinario di Pedagogia sperimentale presso l'università Roma Tre di Roma e autore del libro “La valutazione che educa. Liberare insegnamento e apprendimento dalla tirannia del voto”. Il suo contributo giunge in aiuto nel momento in cui periodicamente ci ritroviamo dinanzi ad articoli che parlano di alcune scuole che decidono di valutare gli studenti senza utilizzare i voti durante l'anno e usare soltanto alla fine dell'anno come da normativa tenendoli quindi soltanto per la pagella finale.
La situazione della valutazione in Italia è racconto per cui mentre nella scuola primaria i voti numerici non ci sono non ci sono né per le verifiche in itinere né per la pagella finale nella scuola secondaria di secondo grado sì.
Dopo l'autonomia scolastica prevista con la legge 59/1997, il D.P.R 275/1999 e così via alle scuole è stato dato il potere di decidere come organizzarsi sia a livello didattico che organizzativo e una parte dell’autonomia didattica riguarda la valutazione. Ma, c’è un punto fermo ed è quello delle pagelle o schede e quindi delle valutazioni intermedie - del primo quadrimestre e del secondo - e della pagella finale in cui viene decretata la promozione o meno a seconda dei voti conseguiti. Quello che ci si domanda a questo proposito è come è possibile decretare la promozione attraverso una media di voti alla fine dell’anno ma non dire nulla durante il resto dell’anno?
Il Regio decreto del 1925 stabilisce che il voto deve essere motivato e va desunto da un congruo numero di interrogazioni, compiti corretti fatti a casa, fatti a scuola, ecc. Quindi il docente propone un voto poi il consiglio di classe decide di assegnarlo. La normativa finisce qui e il resto è dato alle scuole che possono decidere come fare.
In relazione a questo problema bisogna porsi due domande:
La prima motivazione è legata allo sviluppo dell’apprendimento. Una valutazione o riscontro descrittivo su una prestazione è associato a un miglioramento degli apprendimenti in misura più marcata rispetto a una valutazione sintetica e ordinata che può essere un sufficiente, un 6, una C, un 18 e così via. C'è quindi una convergenza tra un aspetto ideale e di buon senso per cui è intuibile a tutti che nel momento in cui il docente indica allo studente quali sono i suoi punti di forza e quali le sue lacune questo gli sta offrendo indicazioni e quindi maggiori opportunità. Inoltre, con le sperimentazioni che sono state effettuate dagli anni ‘60 in poi si è scoperto che effettivamente il voto descrittivo funziona meglio.
La seconda motivazione è di natura psicopedagogica: un riscontro descrittivo aiuta a focalizzarsi sulla prestazione che viene descritta con una valutazione che va oltre il semplice voto numerico che anzi ha l’effetto negativo di spostare il ragionamento dal sé e portare a definire la propria competenza o apprendimento in termini meramente o prevalentemente comparativi con qualcun altro. Questo aspetto porta a riflettere sul problema dell’ansia: utilizzare i voti numerici potrebbe essere tendenzialmente legato in alcune occasioni anche all’aumento dell'ansia all'interno di un contesto scolastico. Al di là di ciò, la motivazione fondamentale è che valutare senza voti è uno strumento per apprendere e per insegnare meglio.
Una differenza che potrebbe essere fatta è quella tra:
Nelle valutazioni in itinere si potrebbe essere più descrittivi per guidare l’apprendimento per poi definire dei profili delle conoscenze o delle abilità che definiscono il “10”, il “9” e così via. L'importante è che la valutazione sia al servizio della didattica. Alcuni docenti sperimentano un tipo di valutazione in cui c'è un impianto descrittivo nella valutazione formativa e in itinere per poi riportare una valutazione ordinale - cioè espressa in numeri - nella valutazione periodica e finale. Quello che fanno questi docenti è usare i riscontri descrittivi come una strategia didattica, cioè per loro la valutazione è una strategia didattica a cui segue un bilancio per dare un orientamento allo studente. In questo caso c'è un incontro tra esigenze formative ed esigenze rendicontative perché poi l'insegnante dovrà portare una proposta di voto che poi negli scrutini verrà negoziata e discussa con gli altri docenti.
Soluzioni come queste devono però essere adottate dalla scuola nel suo complesso e non dai singoli docenti.
Di base, secondo quanto previsto dallo Statuto degli studenti e delle studentesse gli insegnanti devono sempre spiegare il perché di una loro valutazione e dunque in questo senso è come se le valutazioni descrittive fossero già imposte.
Dunque, se una scuola si auto impone collegialmente un numero stabilito di valutazioni - che non sono necessariamente voti numerici - questo riduce i margini di libertà che ha un singolo docente. Al di là delle scelte concrete sui riscontri più o meno numerici o più o meno descrittivi una necessità è che le scuole si dessero dei regolamenti ampi in cui ogni docente ha la possibilità di fare delle scelte che siano sostenibili.
Cambiare la valutazione significa anche cambiare la didattica e questo è un problema fondamentale che porta a domandarsi perché farlo. Il cambiamento nel metodo di valutazione infatti non è sempre e categoricamente necessario. Bisogna piuttosto considerare caso per caso e pensare e proporre di farlo nel caso in cui si riscontrano problemi nell’apprendimento pena il rendere troppo artificiosa la valutazione.
Dunque, è vero che tendenzialmente il voto numerico funziona molto meno e funziona male ma nel caso in cui ci fosse un docente che con i voto numerico e con un certo tipo di didattica riesce a ottenere ottimi risultati da tutta la classe allora il cambiamento non è necessario.
Molti sostengono o pensano che togliere voti potrebbe portare ad abbassare l’asticella dell’andamento didattico ma quello della valutazione descrittiva come metodo meno rigoroso e più flessibile è un luogo comune. La valutazione ha uno scopo fondamentale, cioè orientare la successiva didattica sia dal punto di vista dell’insegnante che dello studente. Fare una valutazione formativa in cui si finge che vada tutto bene farebbe male sia nell’apprendimento che nell'insegnamento per cui la valutazione descrittiva deve essere rigorosa. Si tratta infatti di una didattica dell'errore che quindi deve fare emergere errori e anzi deve spingere studentesse studenti ad assumersi la responsabilità di rischiare delle soluzioni più creative e difficili e questo è proprio un aspetto fondamentale alla base dell’idea di una proposta di valutazione descrittiva.
Un altro problema è quello della trasparenza: poiché la valutazione deve essere trasparente ci si chiede come fa uno studente alla fine dell’anno a sapere come tutti i giudizi descrittivi si traducono nel voto numerico?
Nella valutazione formativa c'è trasparenza sui criteri, sui contenuti e sugli strumenti di valutazione e tra l'altro tendenzialmente la valutazione formativa è incentrata, dalla scuola primaria in su o forse anche dall'infanzia, seppur con le dovute differenze, su un'assunzione di responsabilità da parte degli studenti e delle studentesse che prendono i criteri di valutazione e li usano come criteri di apprendimento. Quindi tendenzialmente c'è una piena consapevolezza rispetto a questo per cui gli studenti hanno maggiore contezza del loro livelli di apprendimento. Generalmente quando si fa questo e si passa attraverso processi come autovalutazione e valutazione tra pari gli studenti acquisiscono consapevolezza rispetto al proprio percorso che riporta molto spesso a proporre delle valutazioni più strette rispetto a quella dell'insegnante. Dunque, con i metodi di valutazione alternativi come l’autovalutazione gli studenti tendono a valutare il proprio apprendimento in maniera molto più severa perché cominciano anche a pretendere un po' di più da sé. Quindi generalmente - ovvero nel 90-95% dei casi - non c’è un abbassamento di livello e non c'è questa assenza di trasparenza che porta lo studente a non sapere.
La valutazione con i voti ha tre funzioni:
Dunque, ci sono forme di valutazione che funzionano in un caso e non in altri, è questo è il caso del voto numerico che può certificare il livello dello studente ma senza comunicare i margini di miglioramento e le lacune.
Uno dei compiti del docente è valutare e per fare questo occorre avere consapevolezza delle tre funzioni e compiere una riflessione sulla funzione degli incentivi piuttosto che sul problema legato all’ansia che è di natura soggettiva.
Dunque, voto numerico sì ma maggiore sensibilizzazione e consapevolezza sulle funzioni dei voti e i relativi limiti.
Valutare è uno dei compiti del docente che anche utilizzando voti numerici deve motivare il risultato allo studente. Per alcuni docenti i voti oltre che strumento valutativo sono uno strumento con cui esercitare il proprio “potere” e questo accade soprattutto in contesti più problematici e differenti dalle idealizzate classi di licei in cui il voto a volte è l’unica cosa che il docente può utilizzare contro lo studente al posto delle note disciplinari.
Tendenzialmente il voto e tutta la valutazione in generale sono concepiti più come fine che come mezzo, cioè sono utilizzati come certificazione e strumento di compensazione, premio, punizione oltre che come regolazione della didattica. Ma, secondo studi di psicologia dell’apprendimento e psicologia dell’istruzione, utilizzare il voto come premio o punizione porta allo sviluppo negli studenti di una motivazione estrinseca verso l'apprendimento, ovvero in questo modo si spinge lo studente a studiare per raggiungere il mero voto numerico e non per l’acquisizione dell’apprendimento in sé. Inoltre, gli apprendimenti correlati a questo orientamento tendenzialmente sono poco significativi perché non portano a una reale conoscenza e/o apprensione di ciò che si è studiato.
Dunque, la tendenza a usare il voto come arma generalmente funziona con chi non ha bisogno che funzioni, nel senso che risulta funzionare con chi sa già come studiare e ci riesce ma nei confronti di chi non ha acquisito queste capacità a valutazione descrittiva e formativa che non ha come posta in palio un voto è molto più funzionale in quanto correlata positivamente con livelli alti di motivazione intrinseca. Questo però non elimina un ulteriore problema della scuola, ovvero la mancanza di tempo dei docenti che attraverso il semplice voto numerico possono risparmiare tempo e fatica.
Nelle certificazioni delle lingue europee (A1, A2, B1, B2, C1 e C2) l’elemento ordinamentale, ad esempio il C2 corrisponderebbe a 10: è un voto ma al contempo è estremamente descrittivo. Quella delle certificazioni delle lingue europee è una valutazione completa o molto meno incompleta di tante altre valutazioni proprio perché è molto importante la posta in palio - si tratta infatti di una certificazione spendibile in vari ambiti e non è un semplice voto - e ha un fondamento teorico molto curato. Ovviamente è impensabile mettere insieme questi due elementi, cioè ordinamentale e descrittivo, nella didattica di tutti i giorni perché comporterebbe la costruzione di un quadro di riferimento per ogni valutazione. Dietro le certificazioni linguistiche c’è un complesso quadro di riferimento ma anche dietro le materie scolastiche e le relative valutazioni c’è un framework. Il problema è che il voto aggrega tutte le informazioni in maniera non informativa.
Il problema è che tendenzialmente nella didattica di tutti i giorni prevale il voto numerico perché è apparentemente più facile. La facilità del voto però è solo apparente perché ogni voto, anche e soprattutto quello numerico va anche motivato e quindi il lavoro di valutazione non si esaurisce all’assegnazione di un numero per la prestazione. Quindi se l’obiezione alla valutazione descrittiva è l’idea secondo cui mettere un voto è più immediato e facile perché richiede meno tempo in realtà questo non è vero perché anche dietro un voto numerico c’è e ci deve essere un ragionamento che poi va restituito allo studente perché una delle funzioni più importanti del voto è proprio questa.
Il vero problema della valutazione è un problema didattico: proporre un metodo di valutazione alternativo significa mettere in discussione la routine didattica. Valutare è un modo di insegnare e cambiare la valutazione significa dover cambiare anche un po’ il proprio metodo di insegnamento.
Un ulteriore problema legato alla valutazione che riporta in primo piano la differenza tra classi di scuola secondarie di primo e secondo grado da quelle di scuola primaria è quello della mancanza di tempo:
Quindi, è evidente come nelle scuole primarie si dedichi più tempo e soprattutto non solo in un determinato periodo dell’anno alla riflessione sulla valutazione e forse questo potrebbe essere il motivo per cui si è deciso che nella scuola primaria si può fare a meno del voto numerico e puntare su quello descrittivo.
Costruire una rubrica o griglia di valutazione è un'operazione abbastanza complessa perché comporta la formulazione di obiettivi osservabili di apprendimento e per fare questo è necessaria una certa competenza metodologico-didattica che risulta tendenzialmente adeguatamente diffusa nella scuola primaria per poi cominciare a decrescere e raggiungere il limite negativo all'università in cui risulta essere molto rara perché esiste un modello di selezione della classe docente molto diverso.
Nella scuola primaria c’è stato l’abbandono del voto numerico nella valutazione periodica e finale, cioè nella scheda o pagella. Abbandonare il voto numerico nella scheda finale significa in un certo senso essere costretti a costruire dei riscontri in itinere per poi avvicinarsi al giudizio finale. Ma l’elemento decisivo non è stato questo perché i livelli che vengono assegnati nella scuola primaria sono voti. L’elemento più interessante che è stato sottovalutato ed è veramente un portato positivo è stata la scelta di vincolare i livelli di valutazione non alle materie in sé ma chiedere a insegnanti delle date materie di stabilire degli obiettivi e per ciascuno di questi obiettivi collocare l’alunno. Ad esempio si può avere un livello avanzato nella comprensione e nella lettura e allo stesso tempo avere un livello base o intermedio nella produzione scritta. Quindi i docenti della scuola primaria non sono obbligati a compiere l'operazione artificiosa di valutare complessivamente con un numero in una data materia in cui i livelli delle varie competenze sono diversi.
Tutto questo manca nella scuola secondaria in cui ad aggravare la situazione c’è la crescita dell’individualismo didattico e si perde il dialogo tra i vari docenti delle varie discipline.
Utilizzare metodologie di insegnamento alternative come lavori di gruppo o metodi più creativi in cui viene lasciata più autonomia agli studenti ha rivelato una forte funzionalità dal punto di vista didattico. Dal punto di vista valutativo in questi casi si possono fare varie scelte come integrare la valutazione di gruppo con un colloquio individuale, scelta più raccomandabile perché l'apprendimento è qualcosa di individuale anche quando avviene il gruppo semplicemente perchè “rimane” al singolo.
Alcuni metodi di valutazione alternative sono l’autovalutazione o peer review e i feedback. L’autovalutazione è un metodo che funziona nel momento in cui lo scopo della valutazione non è prettamente la certificazione ma richiama la terza funzione, cioè quella pedagogica in quanto essere valutati da un proprio compagno e/o collega aiuta a migliorare il proprio prodotto perchè il compagno/collega in questione oltre a valutare in sé deve anche valutare la valutazione, cioè deve argomentare la sua valutazione e a farlo usando dei criteri esattamente come revisori delle riviste.
La peer review funziona dalla scuola dell'infanzia in su perché usando i criteri di valutazione ci si impadronisce di questi e saper valutare in base ai criteri di una disciplina specifica significa diventare padroni degli elementi disciplinari della data disciplina specifica alla quale facciamo riferimento e quindi è per questo che funziona. Il punto in questo caso non è il numero ma interrogarsi su come migliorare in base alla valutazione.
Similmente i feedback funzionano molto più dei voti perché un 8 comunica solo di essere più di 7 e meno di 9. In particolare però, è stato notato anche che a parità di portate informativa, è stato notato che il feedback tra pari è molto più efficace un feedback dato dall'insegnante, cioè c'è un'accettazione diversa.
L a media aritmetica è un arbitrio comprensibile ma non ha senso . I voti numerici - che vanno da 1 a 10 o 1 a 31 nel caso delle università - sono scale ordinali e non di intervalli o di rapporti. Nel momento in cui il docente valuta ha di fronte un'attività, un prodotto o un'esperienza e la domanda che bisogna porsi è: quanti dei livelli o gradini che ho a disposizione intravedo in questa attività? In teoria ce ne sono 10 o 31 ma in pratica in ogni compito si possono intravedere diversi livelli e quindi non si parte quasi mai da 1. Inoltre, una volta assegnato un voto la difficoltà sta nel dimostrare che un 10, o qualsiasi altro voto, sia uguale a un altro preso in un'altra materia o assegnato ad un altro studente. Ragionando così però la terza funzione, quella pedagogica, scompare. Cioè la scala dei voti, che può essere costruita in modo arbitrario, è pensata esclusivamente in funzione certificativa del voto con la difficoltà di dimostrare che per ogni prova il range va da un intervallo a un altro perché è la natura della prestazione che richiede una valutazione fatta in un dato modo e non in un altro, motivo per cui la valutazione con la scala ordinaria risulta quindi troppo limitata.
Mentre il ricercatore nel suo lavoro non parte con l'obiettivo di assegnare un punto alla fine ma porta avanti una ricerca su un dato fenomeno e costruisce una scala di misura adatta e capace di rendere conto del fenomeno, il docente agisce al contrario: l' obiettivo di assegnare un punto e il docente fa in modo di prendere il fenomeno e farlo rientrare nella scala ordinaria che ha a disposizione in cui sono presenti 10 intervalli. Si tratta di un'operazione artificiosa che rende difficile descrivere perché non parte da analizzare il fenomeno e valutarlo ma cerca di prenderlo e farlo rientrare nella valutazione.
Dunque, la funzione burocratica di controllo conta, ma sta divorando tutta la valutazione e anche parte della didattica. Non può essere al centro in ogni giorno di scuola ma è esattamente quello che succede seppur non sia davvero previsto perchè anzi, la valutazione spinge alla valutazione descrittiva. C'è dunque una situazione contraddittoria per cui la normativa - che tra le altre cose prevede anche l'autovalutazione e la valutazione tra pari - risulta essere più avanti della quotidianità, di quello che viene fatto nella pratica ogni giorno.
Il vero senso che soggiace al testo di Cristiano Corsini è che bisogna partire dal perché della valutazione. Una volta che si è riuscito a rispondere a questa domanda si è poi capaci di rispondere anche a un'altra domanda fondamentale, ovvero perché si insegna. Se si vuole insegnare intendendo con questo il voler trasformare la realtà delle studentisse e degli studenti non si può continuare a erogare i numeri che non funzionano. Solo una volta che si è stabilito il perché , il come e cosa verranno affrontati in maniera più serena, consapevole e funzionale.
]]>A seguito del periodo di liberalizzazione iniziato nel 1991, tale percentuale è arrivata al 3,6%.
Siamo nel 2024, all'interno di un contesto caratterizzato da progressi tecnologici, previsioni di rallentamento globale e nel pieno delle elezioni che termineranno il primo Giugno 2024 e che salvo colpi di scena porteranno l'attuale primo ministro Narendra Modi ad assicurare un terzo mandato, e l'India presenta una crescita annua del 7,6%.
Era dai tempi di Nehru che il paese non osservava l'ascesa di un leader così influente. Parte di essa dovuta alla sue origini di figlio di un commerciante di tè (o così pare), e combinata ad un cocktail di ideologia nazionalista induista e un approccio innovativo nel tentativo di riformare l'economia e il fare impresa.
A caratterizzare Modi vi è anche l'aspetto che, a differenza di altri leader populisti, il suo supporto è composto sia da ceti istruiti che non. Un fenomeno decisamente insolito, considerando che generalmente questo tipo di governance di stampo populista raccolgono il core del loro sostegno dai segmenti meno istruiti della popolazione. Questo può essere dovuto a una serie di elementi, quali il tangibile progresso economico, il suo marcato ruolo nel posizionare l'India all'interno dei quadri geopolitici mondiali e al suo polso deciso e di matrice nazionalista.
Oltre che consolidare livelli differenti di istruzione, Modi ha radicato la sua popolarità nel saper sostenere ed incentivare più classi sociali, da quella media alle élite. Nel primo caso grazie alla cosiddetta “capacità del far funzionare le cose”; nell'alta borghesia grazie alla sua politica estera che ha generato nuove possibilità di commercio e ha incrementato l'influenza globale del paese criticando le liberali istituzioni occidentali, elemento particolarmente ben visto dai ceti alti.
]]>Sull’argomento hanno discusso Carlo Stagnaro e Simona Benedettini.
Il Carbon Border adjustment mechanism (CBAM) è un meccanismo di aggiustamento dei prezzi del carbonio alle frontiere basato su un calcolo dell’anidride carbonica emessa durante il processo di produzione del bene importato. Adottato nel 2023 dalla commissione Europea, il CBAM è finalizzato a evitare che i paesi extraeuropei possano trarre beneficio da una legislazione sulle emissioni clima alteranti meno stringente di quella vigente in Europa.
Nonostante in Europa sia già vigente un meccanismo di pricing della CO2 definito “Emissions Trading System”, l’intenzione del CBAM è quella di incrementare la competitività muovendosi all’interno del perimetro di una politica climatica di riduzione delle emissioni climalteranti. Inoltre, il CBAM dovrebbe gradualmente sostituire le politiche di distribuzione gratuita delle quote di emissione, che erano state introdotte proprio per tutelare i produttori europei dalla concorrenza internazionale.
Il CBAM interessa solo alcuni beni importati (di solito non sono prodotti finiti ma beni intermedi) per i quali diviene obbligatorio dichiarare le emissioni di anidride carbonica rilasciate durante la loro produzione, lungo l’intera filiera produttiva. Tali emissioni vengono distinte in dirette, cioè legate ai processi industriali e indirette ovvero generate dal consumo dell’energia elettrica impiegata nel processo produttivo il CBAM copre entrambe le emissioni.
Sono previste due fasi di attuazione del CBAM. La prima è detta “fase transitoria”; durerà fino al gennaio 2026 e prevede che le imprese europee operanti in alcuni settori (chimica dei fertilizzanti, acciaio, ferro, elettricità ad alta intensità carbonica, etc.) producano un report delle emissioni legate alla produzione del bene importato. Tale documento dovrà essere comunicato all’autorità competente che in Italia è il Ministero dell'Ambiente e la sicurezza energetica.
A partire dal 2026 seguirà una “fase a regime” che prevede di associare un valore monetario alle emissioni di anidride carbonica basandosi sulle informazioni precedentemente raccolte. Dal 2026 le imprese europee continueranno a dichiarare le emissioni generate dalla produzione di questi beni in paesi terzi.
In pratica, a ogni tonnellata di CO2 emessa per la produzione di un determinato bene in paesi terzi viene associato un costo, proporzionale a quello del mercato ETS..
La normativa prevede una detrazione dai certificati nel caso di beni prodotti in paesi che prevedono tassazioni basate sul carbon pricing.
Ipotizziamo il caso di un importatore di travi di acciaio (ma potrebbe essere qualsiasi bene interessato dalla normativa).
Il punto chiave è la stima della CO2 che è stata prodotta per la produzione del bene, in questo caso le travi di acciaio. Nel computo rientra la CO2 prodotta dal consumo di elettricità e le eventuali altre fonti emissive durante l’intero processo produttivo avvenuto nel paese terzo esportatore. Il valore dovrà essere diviso per le tonnellate di acciaio prodotte in modo da ottenere un valore unitario che servirà per calcolare l’ammontare di CO2 legato al quantitativo importato.
Pertanto, per arrivare al volume di emissioni prodotte sono necessarie molte informazioni: consumo di elettricità, tipologia di fonte di approvvigionamento elettrico (acquistata o autoprodotta da recupero, etc.), tipologia di precursori utilizzati (se prodotti all’interno dell’azienda o acquistati da terzi), eventuale produzione di gas di scarto, etc. Bisogna inoltre indagare se sono stati già applicati strumenti di pricing della CO2 ed il loro prezzo unitario.
Considerando che frequentemente i processi produttivi interessano più gruppi industriali o catene di approvvigionamento e che alcuni gruppi industriali presentano multiple società (spesso in paesi diversi), si evince che la produzione di un’unica certificazione richiede una coordinazione complessa fra i vari attori e con il rischio di una riduzione dell’accuratezza, anche perché non sempre le informazioni necessarie sono disponibili o verificabili.
La complessità amministrativa e l'effettivo enforcement sono due punti chiave nell’attuazione del CBAM e offrono un esempio della difficoltà dell’Europa di adottare politiche implementabili nella pratica. Infatti, per la stima delle emissioni di anidride carbonica le autorità competenti richiedono una serie di dati molto puntuali che derivano dalla mappatura delle emissioni generate dai processi produttivi degli stabilimenti localizzati in paesi terzi. La mappatura risulta ancora più complessa in caso di processi dislocati in più paesi. Ai fornitori viene pertanto richiesta la raccolta di una notevole mole di informazioni e che potrebbero non essere facilmente fornite in quanto dati sensibili. Inoltre, la mole di informazioni richiede una attività di raccolta dispendiosa e senza un reale ritorno economico e senza incentivi a fornire dati accurati.
Ipotizzando che il processo di raccolta delle informazioni e di stima sia adeguato, rimane comunque l’obbligo di verifica di quanto dichiarato; sorge spontaneo il dubbio sulla reale capacità di enforcement da parte delle autorità europee preposte al controllo a fronte di migliaia e migliaia di dichiarazioni generate.
Infine, mancano degli standard di riferimento per evidenziare possibili incongruenze. Eventuali sanzioni cadrebbero sull’’impresa importatrice, la quale non ha nessun controllo sulla veridicità, correttezza e completezza dei dati forniti dalla ditta estera produttrice.
Nella prima fase il CBAM impatterà sulle imprese in termini gestionali, organizzativi e per la raccolta delle informazioni. Le conseguenze economiche, invece, si avranno all’avvio della seconda fase prevista per inizio del 2026.
Gli effetti più probabili del CBAM potrebbero verificarsi in termini di un aumento dei costi gestionali/ organizzativi ed aumento dei costi di produzione. Come riportato dal Financial Times, le prime critiche al CBAM si sono già verificate da parte dell'Industria Europea delle turbine eoliche per la quale potrebbe divenire meno conveniente importare i materiali per la lavorazione e l’assemblamento in europa.
Inoltre, oggi le imprese ad alta intensità di uso dell’energia ed esposte alla concorrenza internazionale ricevono delle quote di CO2 gratuite: in tal modo conservano l’incentivo a ridurre le emissioni (in modo da poter vendere le quote in eccesso) ma, se non possono farlo, non sono svantaggiate rispetto ai concorrenti internazionali. Il CBAM dovrebbe gradualmente sostituire questo meccanismo. In tal modo, e assumendo che tutto funzioni perfettamente, i produttori europei potranno competere ad armi pari coi concorrenti esteri sul mercato europeo: ma sui mercati stranieri non avranno questa possibilità, perché dovranno sostenere dei costi (l’acquisto delle quote di CO2) che non sono richiesti agli altri, senza alcuna forma di compensazione o di tutela. Quindi il CBAM, se anche dovesse funzionare perfettamente sul mercato interno, potrebbe danneggiare duramente gli esportatori.
Non è da escludere che un ulteriore effetto del CBAM possa essere quindi quello di incentivare le delocalizzazioni dovute all’aumento dei costi implicitamente ed esplicitamente connessi a questa politica di fatto “protezionistica” che l’Europa sta attuando.
In definitiva, il CBAM rischia di imporre delle condizioni gravose e allo stesso tempo occorrerà anche capire se questa potenziale fonte di svantaggio sarà compensato a livello europeo da altre forme di intervento, come per esempio l’alleggerimento dei costi energetici del comparto energivoro. Non sono da escludere anche degli aggiustamenti dell’impianto normativo. Molto dipenderà dai risultati delle prossime elezioni europee.
Il CBAM prevede la tassazione di alcuni beni importati da paesi extraeuropei mediante una modulazione dei pagamenti doganali in base alla CO2 prodotta. Il suo fine è di tutelare le aziende e l’economia europea da una competizione sleale legata a politiche non sufficienti in termini di riduzione della produzione di carbonio. Pertanto, il CBAM entra a pieno titolo all’interno della politica europea tesa l’abbattimento delle emissioni di CO2. Tuttavia, il meccanismo di certificazione delle emissioni risulta di difficile attuazione per la notevole quantità di informazioni richieste, per la complessità dei processi di produzione e per la bassa presenza di incentivi al fine di una dichiarazione veritiera delle emissioni. Inoltre, l’applicazione della normativa richiede un investimento economico e prevede eventuali penali a carico delle aziende europee anche in caso di errori di dichiarazioni da parte dei fornitori, generando oneri che potrebbero portare ad azioni di bail-out o delocalizzazione. In definitiva, se il CBAM appare sulla carta come un lodevole tentativo di contrasto alle emissioni di anidride carbonica, all’atto pratico si dimostra un’azione di politica energetica onerosa e con potenziali effetti negativi sull’ecosistema produttivo europeo tale da suggerirne una rimodulazione o quantomeno una discussione.
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il glifosato è un erbicida che agisce su tutte le piante ed è qui che entrano in gioco gli OGM.
Gli OGM di prima generazione vengono divisi in due categorie HR e IR, i primi resistenti agli erbicidi di ampio spettro e gli altri capaci di produrre sostanze insetticide.
]]>2) Barbero è un ottimo divulgatore, istintivamente simpatico, e probabilmente anche un eccellente storico medievalista. Le sue riflessioni sul comunismo, tuttavia, denotano un approccio superficiale al problema, figlio di bias ideologici e di un contesto squisitamente italiano dove simili retoriche si leggono e sentono ormai come se fossero dati di fatto assodati. Cosa che non sono.
Veniamo al dunque.
In occasione del 25 aprile ritorna puntuale uno dei refrain più comuni in Italia da sempre: “nazifascismo cattivo, comunismo buono ma applicato male”. La prima volta che ho sentito questa frase fu nel contesto di un dibattito liceale in merito al nazifascismo, laddove qualcuno timidamente obiettò al professore i morti di Mao e Stalin, e il professore militante COBAS rispose una perifrasi del genere. I nazifascisti hanno teorizzato ed applicato la superiorità di una razza su un'altra, finendo a considerare le razze inferiori come non umane, architettando un cinico e sistematico sterminio di massa. Il comunismo ha al contrario teorizzato la fratellanza fra i popoli, la solidarietà, l'uguaglianza, la democrazia. Come si può essere contrari a tutto ciò? Era utopico, ma era buono, puro, genuino.
A prescindere dal fatto che in Italia troppi sembrano pensarla così anche grazie all'incredibile lusso di non averlo mai subito realmente, il comunismo è in realtà strutturalmente sbagliato per una serie di peccati capitali che sembrano solo all'apparenza superficiali e meno eclatanti di quelli nazifascisti, ma che sono altrettanto letali. Al contrario del nazifascismo con la razza, l'orientamento sessuale, e le disabilità, il fatto che non esista un tratto distinto, un'idea precisa, un qualcosa di identificabile che spinga tutti a dire “questa roba è terrificante mondezza ideologica” rende il comunismo ancora più infido e potenzialmente pericoloso. Il vero problema italiano (e non solo) è che si è comunicato poco e male PERCHÉ il comunismo abbia prodotto i morti. Non era una questione semplicemente di cattiva leadership, anche perché il comunismo è stato tentato in più di cento paesi a latitudini diversissime ed ha sistematicamente prodotto gli stessi risultati.
Qualsiasi scienziato sociale, e non, sa che un esperimento fallimentare su questa scala non andrebbe nemmeno preso più in considerazione, figuriamoci ripetuto. Accenniamo quindi, ancora una volta, pochi punti fondamentali sul perché il comunismo sia strutturalmente sbagliato e sistematicamente destinato al fallimento.
NB: per comodità, qui useremo in maniera intercambiabile i termini comunismo e socialismo. Tecnicamente e nella testa dei suoi teorici, il secondo (ridistribuzione sociale, controllo statale dell'economia, etc.) sarebbe servito da piattaforma per il primo, che consisterebbe nella meta suprema della storia: la completa assenza del concetto di classe e la totale fratellanza e cooperazione fra gli individui e i popoli.
Tralasciando tutta una serie di tecnicismi ampiamente debunkati da economisti di ogni fatta nonché il dettaglio non trascurabile che Marx stesso riconosceva valore al capitalismo più di quanto i suoi adoratori oggi facciano, diverse condizioni sociali e umane, di cui oggi abbiamo larghissima evidenza sperimentale e osservazionale, sono clamorosamente ignorate o addirittura additate come invenzioni dal comunismo sia teorico che storico.
Primo problema
Il fallimento del comunismo nell'arginare le derive dittatoriali che serpeggiano in alcuni membri della popolazione. Grazie ai progressi nel campo delle neuroscienze e della psichiatria, sappiamo oggi che nella popolazione esiste dall'1% al 5% (qui una lettura interessante sull'epidemiologia del fenomeno) di psicopatici manipolatori. Lo psicopatico / la psicopatica nel mondo reale non è necessariamente un serial killer, come siamo abituati a pensare, anzi è molto più spesso una persona abbastanza “normale” ed estremamente affascinante, che fra le altre caratteristiche annovera l'incredibile abilità nel far leva sull'empatia, sull'idealismo e sui sensi di colpa altrui per installarsi in posizioni di potere o di vantaggio sociale. Quando questo avviene a livello politico, la democrazia possiede un discreto numero di anticorpi intrinseci che pongono limiti a certe derive, o perché la persona psicopatica non viene proprio eletta, o perché più spesso non riceve abbastanza carta bianca per distruggere la democrazia stessa.
Ecco: il comunismo consegna a questa gente le chiavi dei paesi “no strings attached”, espressione inglese per dire “senza alcun tipo di vincolo”. I massacri sistematici dei vari Pol Pot, Mao, Stalin e compagnia derivano da questo punto cruciale: nessuno capisce chi debba decidere, se decide “il popolo”. Se decide “il popolo” decidiamo tutti, ma se decidiamo tutti non decide realmente nessuno, perché in un paese di milioni di persone è impossibile organizzare una costante agorà collettiva. Quindi la verità pratica è che qualcuno con le caratteristiche di cui sopra raduna una cerchia stretta di fedelissimi (illusi idealisti o veri pescecani, gente che o era come Trotsky o era come Beria, per capirci a spanne), si presenta come l'eletto che ha capito “il verbo”, ossia il vero e unico modo di realizzare la pace sociale, organizza (grazie ai fedelissimi) una struttura partitocratica totalitaria di controllo e si installa in una posizione di potere assoluto e discrezionale in nome del popolo. I fatti storici hanno ampiamente convalidato questo punto: i feudatari erano letteralmente più clementi. Gli uomini non sono tutti buoni e spontaneamente propensi alla cooperazione, alcuni lo sono di più, altri lo sono di meno, altri ancora non lo sono affatto. È sempre stato così e probabilmente sarà sempre così, il che non significa perdere fiducia nel genere umano, ma avere aspettative realistiche e sapere come arginare ciò che è patologico.
Anche dentro noi stessi, perché (altro punto oscuro a troppi) molti dei posseduti ideologici che agitano la bandiera rossa non sono probabilmente consapevoli di fino a che punto rischierebbero loro stessi di diventare carnefici quando posti dietro alla console dei comandi di una nazione.
Secondo problema
Tutto sommato siamo tutti uguali? No, siamo tutti diversi e non possiamo forzarci ad essere tutti uguali. I liberali, i libertari, la destra, la sinistra moderata e diversi intellettuali con un minimo di onestà hanno sempre evidenziato questo punto. Le disparità inter-individuali, quando si considerano le performance, la dedizione e il talento, sono ubiquitarie nelle società umane. L'ulteriore dramma è che il problema si presenta in parte anche per le opportunità, non solo per i risultati: la vulgata (a sinistra) è “se diamo a tutti pari opportunità, tutti ce la fanno”. Purtroppo, in termini di risultati questa condizione è sicuramente irrealizzabile, ma lo è anche in termini di premesse: non solo non saremo mai tutti ricchi e benestanti alla stessa maniera, ma è anche assai discutibile che riusciremo mai tutti ad avere le stesse occasioni e le stesse condizioni di partenza per avere successo nella vita.
La letteratura multidisciplinare in questo evidenzia una tendenza abbastanza deludente per chi abbia un minimo di idealismo: la correzione di “nurture”, ossia dell’ambiente esterno, su cui tante policies sono improntate, sembra sia molto meno influente di “nature”, ossia del profilo genetico e biologico che possediamo. I dati su questo punto sono eloquenti e in molteplici ambiti. Il che, sia ben chiaro, non significa che le pari opportunità non vadano perseguite, né che “nurture” sia completamente inutile. Rimane però il dato crudo che diverse disparità sembrano persistere o in alcuni casi addirittura aumentare anche nelle società più avanzate ed tendenzialmente egalitarie del pianeta. Come comportarsi politicamente in merito è materia di altro dibattito estremamente più esteso e che esula. Il punto è che il comunismo ha costruito interi sistemi di ingegneria sociale (tutti inequivocabilmente fallimentari) negando le diversità e le esigenze altrui, a livello individuale e globale, perso nella follia ideologico-religiosa che voleva le differenze fra individui unicamente come risultato di pretesi soprusi sociali. Cosa che non è e non è mai stata, almeno non nell'estensione che il comunismo (di ieri e in parte di oggi) propaganda. Il sistema nervoso umano è un sistema complesso nella definizione fisico-biologica del termine.
Il sistema sociale è a sua volta una somma di milioni (o miliardi, a seconda della prospettiva) di questi sistemi complessi, influenzati da una miriade di fattori, genetici, epigenetici, circostanziali, e così via. Ognuno di noi non sa come si sentirà domani, è probabilmente una persona molto diversa da come era 10 anni fa e da come sarà fra 10 anni. Non esiste entità terza che possa capire tutte le nostre esigenze perfettamente in qualsiasi punto dello spazio-tempo, armonizzarle a quelle di tutti gli altri, e costruire la realtà perfetta sulle basi di tutto ciò. Nessuno psicopatico e nessun partito, per quanto illuminati, possono ottenere questo risultato. Non puoi costringere un contadino a produrre acciaio, né la stagione a produrre più grano. Questa è gente che ha prosciugato il quarto lago più largo del mondo, dichiarato guerra ai passeri, e causato il più clamoroso incidente nucleare della storia nel vano tentativo di dimostrare che a livello centrale avevano il verbo.
Terzo problema
La contraddizione intrinseca sul chi è davvero uguale e chi no. Questo punto riguarda una parola che va molto di moda ultimamente, soprattutto a sinistra: lo “spettro” delle situazioni umane, che sono estremamente variegate e tendono inequivocabilmente a sfociare l'una nell'altra. Il comunismo da un lato (punto 2) sostiene che siamo tutti uguali, dall'altro se ne infischia sia dello spettro di cui sopra sia della nostra pretesa uguaglianza: o sei classe operaia o sei nemico della classe operaia, e in quale classe infilarti lo decide il popolo (cioè noi leader illuminati). Dicotomia sociale totale. Il nemico di classe non va solo espropriato ed equiparato agli altri. È un subumano, uno che ostacola il sorgere del sol dell'avvenire. E la discrezione su chi categorizzare come è assoluta.
Quindi, nel valutarti, possiamo farti leader locale del partito, capostazione, pulisci latrine, spaccapietre, o cibo per vermi a seconda della nostra insindacabile discrezione. La terrificante verità per i più strenui sostenitori del comunismo rimasti oggi risiede nel fatto che ad emancipare le masse davvero sia stato il capitalismo, che di teoria non ne aveva alcuna salvo il considerare il rispetto per lo spettro di cui sopra come assoluto e non aver mai dicotomizzato o parcellizzato la società in alcun modo salvo quelli in cui la società si ripartiva spontaneamente. In maniera straordinariamente controintuitiva, tutto ciò ha prodotto la più vertiginosa crescita economica e il più alto grado di benessere sociale mai visto in alcuna società della storia umana. Anziché parlare per slogan, basta leggersi i dati, non tanto sui parametri degli ex Paesi di orbita sovietica ai bei tempi di Breznev, quanto sull'andamento del benessere collettivo in occidente dalla rivoluzione industriale in avanti, altro argomento già ampiamente coperto su questi schermi.
Ecco, di questi punti (e di molti altri) si dovrebbe cominciare a parlare assai più spesso, in Italia. Anziché offrire palcoscenici agli storici più noti del paese che blaterano di sogno e di emancipazioni di masse operaie che non sono letteralmente mai esistite perché nel contesto del comunismo non potevano esistere. Il comunismo fu il classico esempio delle buone intenzioni di cui è lastricata la strada per l'inferno.
È ora di cominciare a dircelo meglio di come abbiamo fatto finora e di pretendere da gente come Barbero un minimo di approfondimento in più.
Lviv è famosa per i suoi caffè e la tradizione vuole che il primo caffè di Vienna fu aperto a fine ‘600 da Yuriy Kulchytsky, un nobile ucraino di Lviv al servizio del Re di Polonia. Accanto ai caffè storici tuttavia, non meno interessanti, oggi ci sono bistro e cocktail bar, parte di quella ‘food revolution’ che negli ultimi 7-10 anni ha completamente cambiato il volto della ristorazione ucraina.
]]>Per comprendere cosa sia l’Unione Europea dobbiamo rifarci alla sua storia partendo dal motivo per cui si è deciso di costituirla. Esistono vari proclami pubblicati durante la costituzione dell’Unione, ma uno particolarmente significativo è tratto dal Manifesto di Ventotene[1] dove ci viene indicata la ragione per la quale si è deciso di procedere con la costruzione Europea. E’ un passaggio che ci dice cosa non dovrebbe essere l’Unione Europea e per quale ragione ha senso la sua creazione. In esso si afferma:
"assurdo sarebbe il principio di non intervento secondo il quale ogni popolo dovrebbe essere lasciato di darsi il governo dispotico che meglio crede quasi che la Costituzione interna di ogni singolo stato non costituisse un interesse vitale per tutti gli altri paesi”
- (Spinelli, n.d.)
In questo passo viene esplicitata la volontà europea di integrazione e condivisione di certi principi fondamentali. Infatti se i singoli stati nazionali perseguissero i propri interessi in un'area geografica comune come quella Europea, avrebbero inevitabilmente un impatto sugli altri stati. È quindi essenziale garantire che tali interessi siano in armonia con l'obiettivo più ampio di pace e armonia all'interno dell'Unione Europea.
Possiamo affermare che tale obiettivo è stato realizzato in quanto l’Unione Europea è stata capace, attraverso la costruzione di meccanismi decisionali comuni, di codecisione e di solidarietà, di sterilizzare le tensioni anche quando il dibattito ha assunto contorni pesanti.
Quindi i principi alla base dell’Unione Europea sono stati scelti partendo dal presupposto che i bisogni di un singolo paese non possono andare a ledere gli interessi dell’intera comunità.
L’Unione Europea non è sicuramente uno stato. Infatti, non può essere considerata un’entità unitaria in quanto è una composizione di molti stati con interessi sovrani, che possono all’evenienza decidere di attenuarli per il bene comune. D’altro canto non è nemmeno una federazione, nonostante sia presente l’idea che con il tempo si possa arrivare ad una federazione di stati come gli Stati Uniti oppure la Svizzera.
In dottrina l’Unione Europea può essere ascritta come una sorta di Organizzazione Internazionale o se volete, sovranazionale anche se i due concetti non coincidono, infatti se da una parte la definizione di Weber ci dice che uno stato si caratterizza per l'uso legittimo ed esclusivo e monopolistico della forza all'interno di determinati confini, dall'altra parte certi elementi che si trovano nelle organizzazioni internazionali o sovranazionali (pensando all'onu) non possono essere sicuramente attribuite anche all'Unione Europea.
L’Unione Europea quindi è un ibrido fra una comunità di stati che decidono di fare un percorso comune dotandosi di regole comuni e un super stato non ancora completo. Non ha pari a livello internazionale in quanto è il primo esperimento di costruire uno stato sovranazionale attorno a dei principi comuni mantenendo specifiche prerogative relative agli stati nazionali come per esempio la mancanza di una lingua comune o di istituzioni comuni.
]]>Stavolta vorrei però porre l'attenzione su un fatto successo a UniTo, al campus Einaudi, dove un banchetto di "Democrazia Sovrana Popolare", quelli di Improta per intenderci, sono stati minacciati da alcuni studenti estremisti dal lato opposto. Sono volate frasi del tipo "ve ne dovete andare", o "l'università è nostra", colpevoli di portare idee (le stesse, tra l'altro) ritenute troppo estreme. Da ventennio. Ora, io sono anche d'accordo nel considerare fascistelli questi quattro fenomeni che hanno la medaglia al valore di portare avanti TUTTI i complotti esistenti ed essere NO TUTTO, però c'è un abisso da qui al minacciarli per farli andare via.
Pensate che stronzo, sono finito a difendere il diritto all'espressione di piccoli Improta che dicono le stesse cose di chi li vorrebbe imbavagliare. Entrambi seguono folli teorie economiche e politiche, ma una parte è più numerosa dell'altra e di conseguenza ha una potenza intimidatoria molto più organizzata. Torino e le sue piazze sono da tempo sotto controllo dell'area più estrema e violenta della sinistra, dei No Tav violenti, no euro, no nuke e simpatizzanti delle BR.
Con Luca Romano abbiamo spesso parlato e analizzato la brutta aria (letteralmente, tra l'altro) che tira in questa città, e mi dispiace come questa notizia non sia passata sotto i riflettori. Quegli studenti, la cui faccia si vede chiaramente, dovrebbero essere richiamati in base alle regole dell'ateneo ed eventualmente espulsi per aver portato avanti metodi squadristi. Alla comunità LGBT ucraina è stato vietato di portare la propria bandiera al gay pride, così come sono stati strappati manifesti di supporto alla brigata ebraica che fece parte della resistenza.
E proprio qui mi rifaccio alle manifestazioni avvenute a ridosso del 25 aprile, dove ho assistito anche personalmente ad attacchi a chi portava con sé la bandiera iraniana o di associazioni radicali. L’intimidazione da parte degli autodichiarati “organizzatori” era all’ordine del giorno, che fosse a Torino, Bologna, Roma o Milano.
La polizia non poteva fare altro che prendere atto della situazione e allontanare i diretti interessati, ma non dimentichiamoci le parole udite in questi giorni, gli slogan urlati e la paura fomentata.
]]>Durante la conferenza programmatica di FDI tenutasi a Pescara il ministro Lollobrigida ha rilasciato questa dichiarazione chiedendo di modificare l’art32: “Chiederemo di aggiungere questo passaggio: la Repubblica garantisce la sana alimentazione del cittadino. A tal fine persegue il principio della sovranità alimentare e tutela i prodotti simbolo dell'Identità nazionale, un dovere non della destra, non della sinistra, ma di tutti gli italiani”
In questo enunciato ci sono varie cose che meritano di essere esaminate.
L'art 32 è un articolo che abbiamo spesso sentito citare a sproposito durante la pandemia, in quanto afferma che “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.”
Con la modifica proposta dal ministro la repubblica dovrebbe attivamente promuovere un'alimentazione utile a migliorare o conservare la propria salute, a proprie spese. Solo tre volte la costituzione usa il termine garantisce, art 2 sui diritti inviolabili dell’uomo, art 37 sulle tutele del lavoro minorile e appunto nell’art32 sulle cure degli indigenti.
Tuttavia per il ministro Lollobrigida “sana alimentazione” ha un’interpretazione precisa e molto limitata in quanto afferma: “ a tal fine persegue il principio di sovranità alimentare”
Non si riesce bene a capire cosa centri la sovranità alimentare con una sana alimentazione, in quanto la definizione originale di sovranità alimentare è stato coniata dall’organizzazione per i diritti umana “Via Campesina” per affermare il diritto dei popoli INDIGENI a conservare i propri ecosistemi e pratiche agricole tradizionali senza essere spazzati via dalle logiche del mercato.
Da quando si è insidiato Lollobrigida chiama sovranità alimentare quello che in realtà è sovranismo alimentare. A prova di ciò possiamo notare come il ministro non si lasci mai scappare l’occasione di promuovere prodotti come il Parmigiano Reggiano, Grana Padano, Prosciutto crudo di Parma ecc.
In sostanza per garantire una sana alimentazione la repubblica dovrebbe tutelare i prodotti tipici italiani, quindi promuovendo un catalogo molto ristretto di prodotti, tra cui vino e salumi, sconsigliati nelle linee guida per una sana alimentazione del CREA. Perchè un prodotto sia sano, non basta sia italiano. Una sana alimentazione non dipende dai prodotti tipici.
Per di più molti prodotti “tipici” italiani non sarebbero possibili grazie all'import di materie prime da altri stati. Nel 2023 infatti le esportazioni italiane hanno un valore di 47 miliardi di euro, ma le importazioni ammontano a poco più di 48,6 miliardi di euro (ISMEA). Possiamo infatti notare su OEC, che la maggior parte dei prodotti che esportiamo sono prodotti lavorati, come ad esempio nel caso della pasta, per cui siamo famosi in tutto il mondo, fatta importando grano da altri stati.
Questi dati peggiorano se andiamo a vedere la filiera zootecnica da cui escono tra i prodotti tipici più importanti in italia ( prosciutto, parmigiano ecc).
La filiera zootecnica viene per lo più alimentata con mais e soia. Nell’anno 23-24 abbiamo importato 6.7 milioni di tonnellate di mais secondo l'Istat, con un prezzo medio di 190 euro a tonnellata, che significa 1,3 miliardi di euro, unito al costo di import della soia pari a 4 miliardi di euro significa che l’import di queste materie prime è pari al 138% del valore dell’export di prodotti tipici DOP, IGP e STG, al 92% dell’intero export di prodotti tipici, e 56% del valore export di prodotti tipici di origine zootecnica.
E’ facile quindi dedurre come senza il commercio con altre nazioni, non sarebbe possibile, nemmeno lontanamente produrre in quantità i cosiddetti prodotti “tipici”.
Aggiungo che forse il ministro dovrebbe preoccuparsi della salute dell’agricoltura italiana piuttosto che inneggiare un insensato protezionismo, in quanto In base ai dati Istat, nel 2023 il volume della produzione è diminuito (-1,4%) e le unità di lavoro (-4,9%).
In calo anche i volumi delle coltivazioni (-2,4%), l’ attività dei servizi agricoli (-2%) nella zootecnia (-0,8%). In flessione soprattutto i comparti del vino (-9,5%), patate (-6,8%), frutta (-5,3%) e olio d’oliva (-5%).
Che nessuno si faccia ingannare, la chiamano “sana alimentazione” ma è protezionismo, la chiamano “sovranità alimentare” ma è protezionismo, la chiamano “ tutela dei prodotti simbolo dell'identità nazionale” ma è protezionismo e il protezionismo l’italia non può certamente permetterselo nelle condizioni attuali.
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Non so neanche da dove iniziare. Se non fosse tutto deprimente, sarebbe divertente. Il professor Orsini parla chiaramente di cose che non conosce, ma con tono sicuro e frasi ad effetto (invocando “la logica”) cerca di impressionare gli ascoltatori, e chi è in studio. Poiché c’è un limite a tutto, qui riporto un po’ di fatti e di “logica”. Vado in ordine con le affermazioni fatte nel video.
Punto primo
Secondo il Prof. Orsini il sistema di difesa antiaerea iraniano Bavar-373 sarebbe in grado di colpire aerei avversari a 350-400km di distanza. Che un sistema di difesa antiaerea possa avvistare un obiettivo non significa che lo possa “colpire”, come suggerisce Orsini, e infatti le due cose sono completamente diverse. Per poter abbattere un aereo avversario in arrivo, un sistema di difesa antiaerea lo deve prima avvistare, poi identificare, poi seguire (track), e poi ingaggiare. Ovviamente, un missile terra-aria ha probabilità molto basse di colpire un aereo manovrabile come l’F-35 a 400km di distanza, perché questo avrebbe tutto il tempo di adottare contromisure e misure evasive.
Punto secondo
Il Bavar-373 è, secondo fonti del governo Iraniano, un sistema di difesa anti-aerea analogo a quello sovietico/russo S-300. E il sistema S-300 non può agganciare alcun aereo di quinta generazione (“stealth”) come l’F-35 -- a differenza di quanto sostenuto da Orsini.
È fondamentale condurre battaglie politiche analoghe a quelle condotte dall'ex presidente Reagan negli Stati Uniti. Pur non essendo stato il trasformatore radicale come spesso dipinto, uno dei suoi meriti più significativi è stato capire che, anche se si intende apportare riforme marginali, si dovrà accettare che ci saranno inevitabilmente perdite per qualcuno. In questo contesto, è cruciale resistere alle pressioni di varie lobby e accettare l'inevitabilità di essere percepiti come avversari da certi gruppi sociali. Un esempio tangibile di questa determinazione è stato il licenziamento di tutti i controllori del traffico aereo durante la presidenza di Reagan, una mossa necessaria per affrontare il problematico monopolio di potere che avevano creato. Questo gesto dimostra l'indispensabile volontà di perseguire il bene comune, anche a costo di sacrifici individuali.
La decisione di Margaret Thatcher di confrontare i sindacati dei minatori ha innegabilmente prodotto notevoli effetti, sia dal punto di vista sociale che economico. Basta guardare al confronto il Regno Unito pre e post Thatcher per valutare l'impatto. La signora Thatcher, con tutte le sue controversie, ha condotto una battaglia consapevole del fatto di rappresentare specifici interessi sociali, a discapito di altri. Ha compreso che, per tutelare questi interessi, era necessario fare lo scontro. La vera sfida risiedeva nel mantenere una forte presenza nelle piazze, dimostrando una resistenza politica incrollabile di fronte alle manifestazioni di dissenso sociale.
Anche Emmanuel Macron ha cercato di perseguire questa strada, a volte con successo, altre volte in modo meno efficace.
Tutti loro avevano compreso che la battaglia politica per trasformare il paese, persino solo per riformare il sistema del trasporto pubblico urbano, non si gioca solamente facendo affermazioni accattivanti quando si è all'opposizione, ma si concretizza quando si è al governo, prendendo posizione.
Per delineare un'alternativa al populismo rappresentato da figure come Meloni, Salvini, Schlein e Conte, è cruciale adottare una strategia basata sulla coerenza e sull'identificazione dei gruppi sociali da sostenere. È essenziale individuare con chiarezza i settori dannosi che costituiscono un ostacolo al progresso desiderato e presentare un programma definito e coeso che venga attuato sia in posizione di governo che in opposizione.
Per costruire un'alternativa credibile al populismo italiano, che superi le divisioni tra destra e sinistra, è necessario disinteressarsi preventivamente dei voti provenienti da determinati settori come il turismo balneare, i tassisti e i notai. Questi non sono i voti che si perseguono. L'obiettivo è invece conquistare il voto dei laureati in cerca di opportunità lavorative qualificate, degli studenti desiderosi di un sistema universitario funzionante e degli imprenditori seri che mirano a prosperare in settori al momento impervi. È il voto di coloro che ambiscono ad inserirsi in settori bloccati da ostacoli insormontabili, o di dipendenti di aziende come Amazon che desiderano veder crescere e migliorare l'azienda stessa.
I politici responsabili devono riconoscere che si trovano di fronte a una reale battaglia politica e sociale, in cui alcuni gruppi sociali rappresentano avversari e ostacoli al cambiamento. Questi gruppi devono essere affrontati e superati se si intende effettuare riforme significative nell'ambito dell'istruzione, dell'università, del mercato, nell'attrarre investimenti, nell'ottimizzare la fiscalità e nell'eliminare il parassitismo, oltre che nel garantire un funzionamento efficace dell'amministrazione pubblica.
Le soluzioni basate su compromessi possono essere applicate in situazioni in cui non vi siano gravi problemi strutturali e in cui gruppi sociali ostili al cambiamento economico e tecnologico non detengono un potere assoluto.
Inoltre i diritti civili non possono essere garantiti senza una base di occupazione stabile. Tra i diritti civili più cruciali vi è quello di affrontare la questione dell'immigrazione, una sfida complessa che può essere gestita, se non risolta completamente.
Costruire una coalizione capace di rappresentare gli interessi materiali concreti del 10-15% della popolazione è fondamentale. A questo nucleo si possono poi aggiungere gli interessi delle minoranze, che per motivi etici e morali si ritiene siano altrettanto rilevanti. Tuttavia, concentrarsi esclusivamente sui diritti delle minoranze si rischia di trasformare il politico in un predicatore.
L'accentuarsi dello scontro ideologico tra i movimenti populisti sembra destinato a continuare. Tutti i movimenti sembrano incapaci di affrontare i problemi strutturali dell'Occidente, preferendo soluzioni ideologiche e fughe in avanti. Questo approccio rischia di creare un circolo vizioso: offrire soluzioni semplici e ideologiche a problemi complessi. Tale strategia può portare a due esiti possibili: o l'elettorato rifiuta la proposta o la accoglie temporaneamente, per poi respingerla di fronte ai fallimenti evidenti. Nel caso in cui non venga respinta, per i politici l'unica opzione per mantenere il consenso è intensificare lo scontro ideologico e l'escalation delle promesse, con il rischio di provocare disfacimento sociale.
Basato sul video di Michele Boldrin: 6:15 - I taxi e la delirante ipocrisia del centro-sinistra
]]>Le regole contabili eurostat hanno comportato l’iscrizione del disavanzo alla voce deficit 2023 e l’Istat ha dovuto ricalcolare questa voce al 7,2%. Eravamo già in procedura d’infrazione a dicembre (NaDEF stimava 5.3%, già in aumento rispetto al 4.5% del DEF), ma ora la procedura di rientro diventa pressoché impossibile.
Dopo aver scassato il conto di competenza (deficit) il superbonus aggredisce ora quello di cassa (debito). La traiettoria del debito prevista dalla NaDef (137,5 -137,4 – 137,2 rispettivamente per 2024, 2025 e 2026) viene rivista in peggioramento col rapporto debito/pil che riprende la sua salita e, dice Giorgetti, ricomincerà a scendere solo dal 2027. Chi scrive prevede una nuova procedura d’infrazione per debito eccessivo dopo la presentazione del DPB di ottobre prossimo venturo.
C’è un’altra considerazione da fare sul superbonus e sugli stimoli fiscali: dopo lo shock pandemico erano molte e varie le domande di un boost alla domanda aggregata. Ma uno stimolo così asimmetrico genera, quando viene meno, un effetto isteresi causando un freno (al meglio un contributo nullo) alla crescita. In altre parole, oltre ad aver causato il buco di bilancio, il superbonus provocherà meccanicamente un freno all’economia una volta venuto meno. E’ il controfattuale di un fenomeno che era già stato osservato dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio nella sua relazione (inascoltata) del marzo 2023: in quell’audizione l’UPB specificava che una parte consistente degli investimenti nelle costruzioni sarebbero stati effettuati anche senza stimolo fiscale.
Il quadro programmatico
Giustificandosi con l’entrata in vigore del nuovo patto di stabilità, il MEF ha presentato un documento di economia privo del quadro programmatico e con previsioni fatte solo a legislazione vigente. La prassi di non presentare la strada verso la quale il governo vuole andare è propria dei governi dimissionari o il cui mandato è finito per scadenza della legislatura. Per un esecutivo a metà del suo mandato è una resa che indica l’incapacità di governare il bilancio. La scusa della “traiettoria tecnica” che sarà individuata solo a giugno dalla Commissione non sta in piedi. I contenuti del PCS si conoscono e obiettivi di medio termine del deficit sono assolutamente calcolabili.
Con questa bandiera bianca il governo, che aveva promesso di riconquistare un’autorevolezza perduta e “spezzare le reni” ai detrattori, si dichiara in balia dei suoi errori e di quelli dei governi precedenti.
Il taglio delle tasse
Nonostante le premesse fosche Giorgetti e Leo non hanno evitato di promettere la conferma del taglio Irpef per il 2025. Servono circa 15 miliardi che già ora non ci sono e il combinato di maggior indebitamento+rallentamento del ciclo economico rende molto probabilmente questo calcolo insufficiente. Le stime per il 2024 prevedono una crescita del Pil dell’1% nel 2024, dell’1,2% nel 2025 e dell’1,1% nel 2026. I numeri dell’economia stagnante a cui siamo abituati da oltre 30 anni. Come per quel 1,2% previsto nella NaDef di settembre anche questi numeri sembrano abbondantemente ottimistici. La banca d’Italia nel bollettino economico di marzo prevede una crescita molto più realistica dello 0,6%.
Sul fronte delle risorse da reperire per attuare il taglio delle tasse non si potranno usare le eventuali entrate da privatizzazioni (20 miliardi in 3 anni) destinate alla riduzione del debito. Le entrate fiscali sono già al limite (+24 miliardi rispetto al 2022). Insomma, non ci sono soldi: no hay plata.
Il problema PNRR
Chi scrive, e in generale tutto il collettivo di economisti di Liberi Oltre, aveva messo in guardia dal rischio enorme rappresentato dal sovraindebitamento dovuto dal PNRR.
Lungi dal fare da stimolo alla crescita, l’inefficacia delle riforme contenute nel Piano cui questo Paese è refrattario, sarebbe restato solo il fardello di un debito aggiuntivo di 230 milliardi. Il PNRR presentato dal governo Draghi prevedeva una crescita aggiuntiva 2.4% a fine 2024 e del 3,6% cumulata a fine 2026; numeri smentiti dall’osservazione empirica e ormai totalmente irrealistici.
Dei circa 110 miliardi già ricevuti attraverso 4 anticipazioni, le amministrazioni italiane sono riuscite a spenderne solo 46. Molti progetti sono fermi, le riforme mancanti neanche all’orizzonte. Un esempio plastico della pietrificazione dell’economia lo si trova nel fermo del più grande cantiere aperto con i soldi europei, la diga foranea di Genova; una maxi opera del costo stimato di 1,3 miliardi bloccata per irregolarità.
Di fronte a queste prospettive Giorgetti ha annunciato di voler proporre (e di aver già proposto) alla Commissione uno spostamento oltre il 2026 delle scadenze. Confida forse nel capitale politico a rischio della commissione uscente, oppure in una commissione entrante ancor più benevola. Ma se dalle urne di giugno venisse fuori una commissione composta da Paesi “amici” di questa maggioranza le possibilità di uno sconto sulle scadenze del debito europeo (in particolare dei Paesi “frugali”) è pari a zero. In ogni caso il Commissario agli affari economici Gentiloni ha già risposto che la scadenza del 2026 è improrogabile.
C’è un’ulteriore eventualità trapelata nel rispondere ad una domanda di un inviato stampa: che Giorgetti si dimetta dal ministero di via XX settembre per essere indicato dal governo per la prossima Commissione Europea. In questo caso sarebbe egli stesso chiamato a pronunciarsi su una richiesta avanzata dal suo governo; solo che i commissari, sebbene indicati dal loro Paese, non possono difendere interessi di una parte ma devono svolgere il loro compito nella correttezza istituzionale e a difesa degli interessi dell’Unione Europea intera. Detto altrimenti il Commissario Giorgetti dovrebbe dire di no al ministro Giorgetti. Un danno alla credibilità politica forse ancora maggiore del danno alla credibilità economica.
Conclusioni
Nel 2022 questa coalizione si era presentata agli italiani con lo slogan “Siamo pronti”. Non lo erano.
Certo non era stata prevista, se non da pochi, la voragine dei bonus edilizi, ma questo non assolve Fratelli D’Italia, Forza Italia e Lega che, ricordiamolo, erano a favore del superbonus e ne chiedevano nei loro programmi elettorali conferma ed estensione.
Si conferma dunque la validità di 2 regole:
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Di seguito riportiamo un riassunto delle tematiche trattate nel Webinar ed adattate in modo da renderle maggiormente fruibili per la lettura. Il testo è stato integrato (con annesse citazioni) per arricchire e contestualizzare la presentazione del poeta.
Le frasi tratte dal video sono riportate fra virgolettato.
Chi era Taras Ševčenko? Cenni biografici e contestualizzazione storico/letteraria.
“Poeta romantico, un poeta particolarmente complesso e originale anche nel contesto di tutta la poesia romantica europea, e per di più un poeta quasi del tutto sconosciuto in Italia”
(pag.1, Brogi, 2015)
Taras Ševčenko “è il poeta nazionale ucraino”. Nacque il 9 marzo 1814 in una famiglia di contadini servi della gleba dell’Ucraina centrale ed imparò a leggere e scrivere nella scuola della parrocchia senza ricevere una formazione di tipo accademico o scolastico superiore.
Iniziò a dipingere fin da bambino nonostante le difficoltà nel reperire gli strumenti per tale attività. A quattordici anni il padrone, un nobile tedesco di origine baltica, lo porta con sé a Pietroburgo.
Di che libri di testo parliamo?
Quella di seguito è una lista, non esaustiva, dei libri di testo in questione che da quanto ci risulta sono attualmente in uso in diverse scuole medie di città quali Bologna, Brescia, La Spezia, Lecce, Novara, Padova, Pomezia, Roma, Salerno e Torino.
Le principali narrazioni
Nei testi in questione si ritrovano un misto di affermazioni false, flagranti omissioni, mezze verità e profonde distorsioni, talvolta fra loro contradditorie, ma da cui è senz'altro possibile individuare almeno quattro narrazioni di principali:
La Regione Russa
Il curioso termine "regione russa", che non ha alcuna valenza dal punto di vista geografico, compare in ben quattro di questi testi (Namaskar 2, Katmandu 2, Aral 2 e La Via della Seta) e tende ad includere, oltre al territorio della Federazione Russa, anche quelli di Bielorussia, Ucraina, Moldova, Estonia, Lettonia e Lituania. Quella russa viene descritta come la cultura che questi paesi hanno in comune.
Il "Made in Italy" è associato a diverse credenze popolari che riguardano la qualità dei prodotti italiani. Questo concetto si estende anche alla cucina tradizionale italiana, che è ampiamente apprezzata in tutto il mondo. Credenza comune sui prodotti italiani e che siano di una qualità superiore in quanto artigianali e lontani dalle logiche produttive intensive.
Tuttavia non c’è alcun motivo per pensare che un prodotto sia migliore di un altro solo perché il processo produttivo avviene in una determinata zona, o perché i processi produttivi sono legati a una tradizione che risulta però antiquata, anche al fronte dell'evidenza che i prodotti industriali siano assolutamente sicuri e salubri.
Analizzeremo più avanti inoltre come di fatto in molti prodotti tipici, ci sia in realtà molto poco di italiano, e che made in italy sia solo una parola usata da associazioni e politicanti per raccontare al popolo una sorta di falso protezionismo dei prodotti alimentari italiani, e per sottintendere una presunta superiorità di quest’ultimi.
Coldiretti ha recentemente affermato che l’agricoltura italiana pesa il 30% sul PIL, una favoletta portata avanti dalla stessa associazione e da buona parte della politica italiana, la realtà dei fatti è ben diversa però, I Calcoli istat indicano che la quota del settore agroalimentare sul PIL è del 3,8% circa 70 miliardi di euro nel 2022.
La discrepanza deriva da una definizione generosa di coldiretti che include ristoranti e vendite al dettaglio nel settore agroalimentare va detto però che anche la Crea (consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell'economia agraria) riporta che andando a considerare l’intero sistema agroalimentare dalla produzione primaria al commercio al dettaglio l’incidenza è del 15%, la metà di quanto riportato da coldiretti. Se andiamo meglio ad analizzare i prodotti di punta dell' agricoltura Italiana troviamo come capolista il vino che ci garantisce 8.5 miliardi di euro dalla esportazioni, al secondo posto troviamo invece la pasta che garantisce 3,6 miliardi di euro dall' esportazione, tuttavia la nota dolente di questo dato è che di made in Italy la pasta ha ben poco visto che importiamo quasi tutto il grano da fuori per un valore pari a 2.25 miliardi di euro principalmente dal Canada (15.6%) Francia (13.6%) e Ungheria a(13.8%)
Le varie sigle che troviamo nelle confezioni dei prodotti vanno a normare o descrivere un prodotto alimentare (andando anche a giustificare solitamente un prezzo maggiorato)) andiamo a vederle brevemente in ordine di importanza e rigorosità
Marchi di tutela rilasciati dall’unione Europea
Altri Marchi di tutela
Come anticipato prima, molti prodotti made in italy famosi nel mondo in realtà hanno molto poco di italiano sia nei processi produttivi, sia nella loro origine, andiamo ad analizzare alcuni:
IL POMODORO DI PACHINO MADE IN ISRAELE
Il pomodoro di Pachino IGP è uno dei pochi alimenti di cui possiamo identificare luogo e data di nascita, ovvero Israele 1989, presso aziende specializzate nel settore delle ricerche genetiche in campo agricolo. Il pomodoro non è OGM, ma MAS (marker-assisted selection), in cui non viene modificato geneticamente; al contrario, si effettuano incroci e ibridazioni per creare specifiche caratteristiche fisiche, di gusto, resistenza o capacità di crescita. Il problema è che i semi provenienti dai frutti coltivati non sono in grado di mantenere le caratteristiche originali, e ogni anno i produttori devono acquistare nuovi semi. Questo assicura che i pomodori mantengano le loro qualità distintive tutto l'anno.
IL PARMIGIANO SI FA NEL WINSCONSIN
Nel 1938 fu costituito il primo consorzio che protegge la qualità del formaggio. Tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX secolo, molte persone emigrarono in America e portarono con sé le conoscenze, così che negli anni '30 nacquero in Wisconsin diversi caseifici i cui proprietari avevano nomi padani e misero sul mercato il formaggio Parmesan per ricordare la propria terra. Quindi, il parmigiano e il Parmesan sono uguali a livello della preparazione, cambiano solo le materie prime. Un'efficace politica di marketing, che esaltava la natura, la tradizione, i valori nutrizionali e il gusto, resero in poco tempo il Parmigiano e il Grana i due prodotti tipici italiani di maggiore successo nel mondo.
L’OLIO DI OLIVA MEDITARRANEO
L'olio ha origini palestinesi, ma è in Spagna che ha raggiunto la sua massima diffusione. Fin dall'antichità, l'olio si è distinto sia per la varietà di ulivo che fornisce il frutto da spremere, sia per l'oliva al momento della raccolta e della spremitura. I Romani furono grandi studiosi e consumatori dell'olio. Il progressivo miglioramento dei trasporti, delle tecniche di imbottigliamento e di conservazione dell'olio ha permesso all'alimento di diffondersi sempre di più, ma sottolineiamo che l'olio prodotto direttamente in Italia rappresenta una percentuale limitata rispetto alle aziende mediterranee del settore. Era consuetudine fare una miscela di oli per ottenere un prodotto standardizzato adatto a tutti.
Tra il secondo dopoguerra e gli anni Ottanta, i piccoli fornitori lavoravano l'olio con tecniche poco affidabili e le industrie, dopo averlo acquistato da loro, lo correggevano chimicamente. Alla fine degli anni Ottanta, la politica agricola europea cambiò e per chi produce l'olio d'oliva erano previste agevolazioni che consentivano di mantenere prezzi bassi sul mercato. Con il calo dei sussidi si rischiò di far sparire il settore dell'olivicoltura, importantissimo soprattutto nel Centro-Sud. Per evitare ciò, le denominazioni e i marchi di tutela cercarono di salvare i prodotti legandoli ai territori di origine, da cui nacque il Made in Italy. La qualità dell'olio deriva però direttamente dalle competenze e dall'impegno del produttore.
LA PASTA DI GRANO ITALIANO E’ SCADENTE
Il grano duro Senatore Cappelli, ideato da Nazareno Strampelli, è stato ampiamente impiegato per la produzione della pasta. L'obiettivo di Strampelli era migliorare la produttività delle varietà di grano tenero, dando vita al grano Ardito, che ebbe un ruolo significativo nella battaglia del grano del '25(fu una campagna lanciata durante il regime fascista da Benito Mussolini, allo scopo di perseguire l'autosufficienza produttiva di frumento dell'Italia. La campagna ebbe successo nell'ottenere l'aumento della produzione nazionale di grano e nella conseguente diminuzione del disavanzo della bilancia commerciale, ma andò a scapito di altre colture, specialmente di quelle basilari per l'industria zootecnica e, in genere, dell'armonico sviluppo dell'agricoltura nazionale). Il Senatore Cappelli deriva da incroci di varietà provenienti principalmente dalla Tunisia.Dopo la morte di Strampelli e la fine della Seconda Guerra Mondiale, le radiazioni furono utilizzate per modificare geneticamente le varietà di grano, dando vita al celebre grano Creso. Quindi attualmente, il grano duro utilizzato per la pasta è frutto della manipolazione genetica e deriva da un grano africano. Nel corso degli ultimi 30 anni, i pastifici italiani hanno guadagnato fama internazionale per la qualità dei loro prodotti, basata proprio su questi grani.
Negli ultimi anni, i prodotti tipici hanno avuto un ruolo importante nel dibattito sulle politiche agricole sia all’interno dell’UE sia in Italia, con le sue storiche debolezze nel settore agricolo. Il concetto di tipicità richiama il territorio e la tradizione, e in sé deve avere un carattere mitologico che deve essere costruito ed è qui che interviene il marketing (è lui che costruisce la storia). Ricordiamo però che la tradizione è frutto di un'invenzione più o meno recente. Il territorio e la tradizione sono elementi che identificano la produzione, in termini economici l’offerta, ma ciò è sbagliato perché il prodotto agroalimentare tipico dovrebbe essere riconosciuto attraverso coloro che lo consumano, cioè la domanda.
Chi produce e come non è rilevante, mentre chi lo consuma e da quanto tempo è importante. Un altro elemento della tipicità è il tempo del prodotto stesso, ovvero quanto il prodotto è rimasto stabile nel tempo; tanto più possiamo considerarlo tipico. Molti prodotti hanno subito delle trasformazioni nel corso del tempo, quindi considerando il tempo del prodotto, i prodotti tipici italiani sono quelli che consideriamo industriali.
Non ci si può esprimere se i prodotti industriali sono buoni o meno perché sono opinioni personali, mentre per quanto riguarda l’autenticità non ci sono dubbi.
La continuità familiare nella gestione, la trasmissione dei valori industriali e la cura per la qualità del prodotto sono maggiormente garantite dall’industria rispetto alla produzione artigianale, come, ad esempio, la Nutella messa sul mercato nel 1964. Essa è diventata simbolo di modernità e ricchezza in un'Italia che voleva lasciarsi alle spalle anni di fame e sofferenza. Il messaggio trasmesso era di un paese moderno e industriale, ma che sapeva comunque inventare e realizzare prodotti con cura artigianale.
Quindi, il mito gastronomico dell’Italia deve molto all’industria alimentare soprattutto negli anni del boom economico, quando il Paese voleva proiettare all’esterno un’immagine di modernità e capacità di innovazione, cosa che riuscì a trasmettere l'industria agroalimentare. Ora l’industria cerca di costruire un’immagine fittizia di tradizione e artigianalità. Alcuni esempi: Il Motta e la Coppa del Nonno divennero i due gelati che identificavano il mito del gelato italiano nel mondo e grazie al loro packaging così originale che fu impossibile imitarli. L’espansione delle gelaterie tradizionali deve soprattutto al successo dei gelati confezionati tra gli anni Cinquanta e Sessanta. I Baci Perugina sono un prodotto di grande successo fin dagli anni Trenta. L'unico legame della città con il cioccolato era la fabbrica della famiglia Buitoni che creò le condizioni per la nascita di altre imprese nel settore. A Perugia si tengono molte fiere e festival internazionali del cioccolato, ma è l’industria che ha creato questa immagine della città, non l’artigianato.
La capacità di innovare e proiettare un'immagine di modernità è stata quindi fondamentale per la crescita e la diffusione internazionale dei prodotti italiani. Tuttavia, è importante riconoscere che l'industria attuale cerca spesso di costruire un'immagine fittizia di tradizione e artigianalità, portando a gastronazionalismo, condito da false informazioni che pompano agli occhi degli ignari, il ruolo del nostro settore agroalimentare in italia e nel mondo mentre il tessuto produttivo italiano, dominato da piccole e medie imprese, che hanno difficoltà significative nell’ abbracciare l'innovazione in modo più ampio.
Il 10 marzo 2024, 10.819.122 elettori registrati sono stati chiamati a votare nelle elezioni legislative lampo del Portogallo, per eleggere i 230 membri dell’Assemblea della Repubblica. Il 3 marzo, 208.007 di questi elettori avevano probabilmente già espresso la loro preferenza servendosi della modalità di “voto anticipato” e “voto anticipato in mobilità”.
Prima di analizzare quali forze politiche si sono scontrate per la guida del paese e quale tra queste abbia trionfato, è bene parlare delle motivazioni che hanno portato il Presidente Marcelo Rebelo de Sousa ad indire le elezioni anticipate in questione.
Quello che viene mostrato nel documentario "20 giorni a Mariupol" è solo il preludio di un inferno.
cit. Yuliya Romanyuk
Perchè sì, il documentario "20 Days in Mariupol" ha vinto l'Oscar, il primo per l'Ucraina 🇺🇦.
Ma continuiamo con la nostra lettura:
6 marzo 2022, Mariupol, viale Stroiteley
Finché eravamo solo noi nell'appartamento della suocera, andava relativamente bene. È una vecchia spaventata dalla guerra, cosa ci si può aspettare. Il giorno dopo è arrivata da Novoselovka la cognata con i bambini. E qui è iniziato il bello. La sorella di Dmitro, che mi disprezza profondamente sin da quando ci conosciamo, dalla primavera del 2000, saluta tra i denti. Ci facciamo gli auguri educati per i compleanni dei bambini, ma non c'è calore, solo cortesia. Ha un appartamento nella casa accanto a quella della suocera, proprio di fronte al Tribunale di Primorsk, e una casa a Novoselovka. Andavano a dormire nel loro appartamento, ma di giorno passavano tutto il giorno da loro madre, la mia suocera. La tensione sale. Sento sulla pelle l'antipatia e l'ostilità della cognata. Ma cosa posso fare? Solo fingere di non notare il suo atteggiamento ostile. Naivemente pensavo, dopo aver parlato con S, con cui non avevamo avuto contatti da agosto, e con F., con cui non avevamo avuto contatti da Capodanno, che la guerra fosse un fattore di fraternizzazione e pacificazione, visto che ci trovavamo tutti in questa triste barca, non so se la barca di Caronte o il "Titanic". Ma evidentemente, a giudicare dalle azioni della mia cognata, non è così. Comunque, finora il suo disprezzo non si è trasformato in uno scontro diretto, solo in piccole provocazioni e velenose frecciate, ma conoscendola, capisco che ci scontreremo.
Sul balcone della suocera c'erano un paio di chilogrammi di carne fresca, manzo, pollo e separatamente macinato. Lei ieri stava riflettendo se farne brodo o tenerlo per dopo, l'ho convinta a cucinare tutto subito e metterlo al freddo. La suocera era indecisa, ma ha accettato. E oggi hanno tagliato il gas, penso non solo su viale Stroiteley, ma in tutta la città, come è successo con l'elettricità, internet e l'acqua. È logico, è guerra, probabilmente hanno colpito un gasdotto da qualche parte. E la suocera va in giro lodandomi per averle consigliato di cucinare la carne finché c'era ancora il gas. Ora abbiamo due pentole di brodo e una grande ciotola di carne cotta. Questo risolve il problema dell'alimentazione per la nostra orda per un paio di giorni. Ora siamo in sette, a volte otto: io, tigre, Dmitro Volodimirovich, sua madre, la cognata e i suoi due bambini, e a volte suo suocero viene qui da Novoselovka a portare notizie.
La suocera raccontava che quando hanno bombardato piazza Kirov nei primi giorni di guerra, sua nipote Sveta, cugina di secondo grado di Dims, ha ricevuto ferite da schegge. Era andata a comprare il pane in un chiosco vicino al caffè "Gusi-lebedi", e le schegge hanno perforato la gamba e il braccio. Allora le ambulanze non circolavano, e il suocero della cognata ha portato Sveta e la suocera in ospedale con la sua auto. I medici in ospedale hanno detto: lo aggiusteremo, non è un problema, puliremo le ferite, ma dobbiamo fare iniezioni di antibiotici, e noi non ne abbiamo, cercateli voi. E la suocera ha girato il centro, ha trovato a fatica gli antibiotici per Sveta in una farmacia. Tutto era esaurito.
Tutto il giorno da parte del quartiere Zapadny, dove hanno un solido garage con cantina, si alzano colonne di fumo nero. Il fumo viene verso le nostre finestre qui, su viale Stroiteley, il vento soffia in questa direzione. Ma cosa stia bruci ando esattamente non si può vedere, ostacolati da altri edifici alti. A giudicare dall'odore, odora di polvere da sparo, plastica bruciata e qualcos'altro di tecnico. I suoni del cannoneggio qui, su viale Stroiteley, suonano diversamente rispetto a casa nostra. L'eco è sonoro e lungo, e sembra che dei giganti stiano battendo su un enorme gong.
Diverse volte abbiamo sentito il lavoro dei mortai, a giudicare dal suono, dal palazzo della ex scuola 23. Ora capiamo che i mortai sono quelli che fischiano forte, e non in alto, ma all'altezza dell'orecchio, all'altezza di una persona. I mortai colpiscono il quartiere Zapadny, dove brucia e tuona.
Ieri mattina ci è stato detto da conoscenti di via Zelinsky, che, a quanto pare, era stato annunciato un cessate il fuoco, e bisognava recarsi di giorno, alle 15.00, all'edificio dello stadio Illichevets, dove si sarebbe svolto l'imbarco sugli autobus di evacuazione per Zaporizhzhia. Si diceva che ci sarebbero stati quasi cento autobus. Abbiamo discusso questa idea con i vicini. Ci sembrava piuttosto dubbia. Supponiamo che in un autobus ci stiano anche 50 persone (in realtà, penso di meno). Cento autobus sono 500 persone. Cosa sono 500 persone per Mariupol, una città di mezzo milione di abitanti? È uno scherzo, non un'evacuazione, innanzitutto.
In secondo luogo, a giudicare dai suoni, le parti in guerra non hanno sentito nulla riguardo a una sorta di tregua. I missili hanno continuato a cadere come prima. In queste circostanze, le pareti di cemento degli edifici sembrano una protezione più piacevole rispetto ai lati metallici di un autobus in una steppa aperta. Insomma, non siamo andati da nessuna parte, avevamo paura. Ho già corso abbastanza sotto il fuoco con la tigre, non ne ho più voglia. Se davvero non avessero sparato, ci sarei andata, ma così...meglio di no.
]]>Questa è una questione dolorosa separata che deve essere esposta attraverso gli occhi di un testimone oculare. All'inizio della guerra, circa fino alla seconda settimana di marzo 2022, non c'era saccheggio come tale, o almeno io non ne sapevo nulla.
Tuttavia, c'era un alto grado di disperazione tra la popolazione. Quasi nessuno aveva fatto scorte adeguate di cibo, acqua, medicinali, sigarette, pannolini - ovvero gli oggetti di prima necessità, e l'abbattimento era terribile. Nel mio appartamento avevo una scatola di plastica con pacchetti di vari cereali, circa 20 pacchetti di grano saraceno, orzo, miglio, piselli, lenticchie, orzo perlato, riso, bulgur. C'erano anche 5 pacchetti di spaghetti. C'era un grande barattolo di plastica in cui avevamo versato i resti di vari prodotti di pasta - stelline, cornetti, letterine, ecc. C'erano anche circa 10 scatole di conserve di vari alimenti, dal pesce alla carne fino al pisello verde e al mais in scatola. Ma questo era tutto. Un chilogrammo di cipolle, un chilogrammo di carote, un po' di cavolo pechinese appassito nel frigorifero - non considero questo come cibo, non si può costruire una scorta strategica di cibo con un cavolo appassito. E questa era ancora una buona situazione per quanto riguarda il cibo. Conoscevo persone che all'inizio della guerra avevano in casa solo due pacchetti di spaghetti e un barattolo di filetti di merluzzo, nient'altro. In qualche modo, noi cittadini, abbiamo perso la cultura di mantenere grandi scorte di cibo nei nostri appartamenti. C'erano così tanti fast food come Yapona Mama o la pasticceria "Sіmeyna pekarnya" che poche persone avevano realmente un sacco di farina o zucchero a casa. Avevo un pacchetto aperto di mezzo chilo di farina di riso, per varie prelibatezze nel multicooker, e un terzo di un pacchetto di farina di grano per impanare e friggere pesce e pollo. Chi potrebbe essere realmente salvato dalla prospettiva di morire di fame con questo?
In breve, nei primi giorni di guerra, quando i negozi erano ancora aperti e i prezzi del cibo stavano salendo, prevalsero ovunque sentimenti di depressione. Ah, moriremo di fame qui, come a Leningrado assediata! Così pensavano quasi tutte le donne. Gli uomini, a proposito, erano molto meno panici su questo argomento. Potrei scioccare qualcuno con questo pensiero, ma, secondo me, la maggior parte dei residenti ereditari del distretto di Primorsky sa pescare bene in modo bracconiero. Molti ragazzi, quando non era ancora chiaro che inferno avrebbero creato i russi intorno al porto di Mariupol, si accordavano per scambiare attrezzi, reti, ragni e altri accessori per la pesca. Molti uomini sorridevano malignamente, felici: almeno un vantaggio da questa dannata guerra - ora si può bracconare e nessuno ti prenderà, non c'è tempo per quello. Quindi, gli uomini avevano molto più ottimismo riguardo al cibo rispetto al pubblico femminile.
Il saccheggio effettivo nei negozi di alimentari a Cheremushki iniziò intorno al 6-7 marzo. Eravamo già dalla suocera a Bachik, dove siamo rimasti fino al 17 marzo, e non l'abbiamo visto con i nostri occhi. Più ci si avvicinava al centro, più tardi iniziavano gli atti di saccheggio dei negozi, perché c'erano più militari nel centro della città, e la gente esitava a saccheggiare i negozi in loro presenza, almeno fino a un certo punto.
Testimoni oculari a Cheremushki mi hanno raccontato da dove è iniziato il saccheggio nel nostro distretto. Inizialmente, era un atto di orrore e disperazione, non di avidità. Il 6 marzo, le persone stavano in fila fuori dal negozio di alimentari "Shans" all'indirizzo Latysheva, 23 (ho postato un video dello stato di questa casa sopra). In quel momento, un proiettile di Grad, o secondo altre fonti, due proiettili - uno nella kebabberia di fronte a Shans, l'altro sulla piazza di fronte a Shans. Tra le sei e le otto persone, secondo diverse fonti, morirono sul posto. I loro corpi giacevano all'aperto per diversi giorni. Più tardi, dopo il 17 marzo, ero seduta in cantina con persone che avevano ricevuto ferite da schegge in quell'attacco, tra cui c'erano due bambini zingari, Tolik e Radzhunya. Il più giovane, Radzhunya, è stato ferito più gravemente, aveva i capelli bruciati sulla testa, una bruciatura sulla guancia, e Tolik aveva uno scheggia che gli aveva tagliato il ginocchio.
E quando i proiettili hanno distrutto il chiosco di sigarette vicino a "Shans", gli uomini hanno iniziato a raccogliere i pacchetti di sigarette caduti a terra dalla vetrina. Vedendoli, i giovani si sono precipitati a saccheggiare il chiosco. Da lì è iniziata tutta la vicenda. Lo stesso giorno, secondo testimoni oculari diretti, a Cheremushki furono saccheggiati negozi di alimentari e i loro magazzini. ATB, "Shans", chioschi di venditori armeni di verdure e frutta, chioschi di sigarette. I proprietari di questi punti vendita erano partiti già un paio di giorni prima dell'inizio della guerra. In generale, è un argomento a parte, come il business sapesse della guerra circa 2-4 settimane prima del suo inizio. Circa due settimane prima della guerra, ho parlato con una conoscenza, Katya, che aveva a che fare con il commercio, e lei mi ha detto che nel centro della città molti punti vendita stavano chiudendo e trasportando via la merce. E il giorno prima dell'attacco a Mariupol, tutti i canali cittadini pubblicavano foto di come di notte l'elettronica costosa veniva trasportata via con i camion dal supermercato PortCity. Quindi, molti rappresentanti del business avevano informazioni interne su ciò che sarebbe accaduto.
Non sto giustificando il saccheggio come fenomeno, ma propongo di distinguere tra le sue forme perdonabili e imperdonabili.
La forma perdonabile è prendere cibo e prodotti da un negozio bombardato. Per sopravvivere in una città assediata, questo è necessario e non vedo un grande peccato in questo. Anche se è detto: non rubare. Possiamo discutere su questo argomento, se volete.
La forma imperdonabile di saccheggio è entrare in appartamenti distrutti e abbandonati e portare via l'oro del proprietario, il forno a microonde e l'aspirapolvere. È stupido perché è inutile. A cosa serve tutto questo per sopravvivere in una città senza elettricità? Inutile e stupido. Tuttavia, alcuni lo hanno fatto. La guerra è cattiva anche perché cancella immediatamente nella mente delle persone il principio dell'inevitabilità della punizione. Sorge una pericolosa illusione di permissività.
Quando siamo tornati a Cheremushki dopo il 17 marzo, abbiamo assistito a un'interessante iniziativa. Nel negozio di ferramenta "Kaskad", per evitare il saccheggio, i proprietari hanno permesso alle persone di entrare tranquillamente e prendere un sacchetto ciascuno con qualsiasi merce, a scelta. Dmitro è andato lì per la nostra famiglia, io no. Ha portato in un sacchetto tre tazze da tè (le tazze nella nostra cucina erano state rotte dall'onda d'urto), due gomitoli di corda, un metro a nastro per misurare pezzi di compensato per sigillare le finestre, un'ascia di riserva per l'ascia, due cacciaviti e una coperta calda per dormire in cantina. Ci è sembrato un set ragionevole. E quando abbiamo già bollito l'acqua su un fuoco per bere il tè nelle nuove tazze, abbiamo visto con stupore come la gente portava via da "Kaskad" scaldabagni, vasche in acrilico, cabine doccia e altri oggetti ingombranti, costosi e inutili nelle nostre condizioni. Abbiamo gridato loro: a cosa vi serve, se non c'è acqua in tutta la città? Un uomo ha risposto con decisione:
- Quando finirà la guerra, farò una ristrutturazione di lusso nella mia casa!
Mi è sembrato che questi ragionamenti fossero del regno della pelle dell'orso non ancora ucciso, ma sono in generale pessimista. Quando finirà quella guerra, e se quelle case saranno ancora in piedi, è una grande domanda. Ho alcune foto dei saccheggiatori dei negozi, scattate con il mio fotocamera con ultra zoom. Ma ora penso che questo sia un peccato minore nel contesto generale, e non vale la pena giudicare severamente le persone per l'ebbrezza di permissività che la guerra porta, soprattutto nella sua fase iniziale.
]]>Queste saranno le prime elezioni in seguito alla grandissima ondata di proteste che ha travolto il Paese in seguito alla morte di Mahsa Amini, arrestata per aver indossato l'hijab (il velo obbligatorio) in modo sbagliato nel settembre 2022 e morta mentre in custodia della polizia. La repressione nell'ultimo anno e mezzo, nella sua durezza, ha ampliato il divario fra la società civile e la classe politica. Tale divario ha però radici profonde, e per comprendere al meglio queste elezioni (e soprattutto le elezioni presidenziali del 2025) occorre fare un passo indietro.
]]>Uno Stato super indebitato che pur di piazzare le cartelle del debito pubblico ricorre ormai a tutti i mezzi. Siamo allo spot stucchevole. Dove c’è BTP Valore c’è casa. Mancano solo le ballerine. Oppure col prossimo BTP Valore saranno sorteggiate lavatrici e telefonini fra i sottoscrittori.
Per collocare il debito pubblico forse non basta l’imposta preferenziale al 12,5% invece del 26% sulle obbligazioni societarie, tipo ENI o ENEL. En passant, quest’ultime servirebbero per finanziare gli investimenti produttivi e le infrastrutture del futuro invece che per pagare i salari di cittadinanza. Ma tant`è. Non basta escludere i BTP dall’Isee, con tutti gli effetti distorsivi che ne conseguono. Per cui se Tizio ha 50000 euro di BTP è povero e può accedere al welfare, mentre se Caio ha investito gli stessi identici 50000 euro in azioni delle Generali è un ricco e spregevole capitalista. Magari anche poco patriottico.
Adesso c’è lo spot! Con le cedole trimestrali del BTP Valore si parte in crociera! Accorrete, accorrete! Tutti i numeri vincono!
E figuriamoci se nella reclame c’è un qualche riferimento al rischio dell’investimento. Neanche la recente e brutale svendita dei gilt britannici che ha fatto crollare Liz Truss dopo 50 miseri giorni di governo ha insegnato nulla. Figuriamoci, col BTP Valore si può solo guadagnare. Tutti in vacanza!
E poi chi ripagherà la montagna del debito pubblico, visto che nessun pasto è gratis? Chi pagherà il biglietto della crociera ai nostri attempati naviganti? Le maggiori tasse a venire e i tagli futuri alla spesa pubblica. In quel caso saranno i figli e i nipoti dei garruli sessantenni che pagheranno la crociera. Oppure una bella sventagliata di inflazione ridurrà il valore reale dei BTP. E allora il conto lo pagano gli allegri croceristi dopo che sono tornati a terra e hanno smaltito la sbronza. Ma chi se ne importa! Pensiamo a goderci questo cocktail sul ponte della nave! Sperando che non sia un altro Titanic. O che al timone non ci sia Schettino.
]]>Ottavo giorno di guerra. Non abbiamo luce, riscaldamento, elettricità, acqua. I vicini raccolgono acqua da un pluviale sul tetto in un secchio blu smaltato, sta piovendo forte. Certo, non è adatta per bere, ma almeno si può tirare lo sciacquone. Il gas c'è ancora. Sto bollendo l'acqua del rubinetto in un vecchio bollitore a fischio che ci era stato regalato e che di solito non usavamo. Il bollitore elettrico come gli altri elettrodomestici sono diventati accessori inutili della cucina. Solo la multicooker è stata utile: nella sua ciotola da tre litri ho conservato l'acqua. Stanno finendo i viveri. Dai negozi distribuiscono gratuitamente i rimanenti prodotti, come hanno fatto nel negozio "Orange", ma c'è stata una ressa e un grande affollamento a causa del numero elevato di persone interessate e abbiamo avuto paura di avvicinarci.
Sta nevicando con la pioggia, fiocchi di neve grandi come enormi fiori bianchi. Neve di marzo. E quanto vorrei vivere fino alla fioritura dei giardini, Signore. A Mariupol è il periodo più bello dell'anno. La città è piena di case private, e i rami di ciliegie, susine, albicocche, pesche, pere, prugnole si piegano sopra le recinzioni. Cammini in un corridoio bianco candido, intorno profuma di miele e le api ronzano. Non sai mai quale primavera sarà l'ultima. La nostra ultima primavera e l'ultimo autunno sono già passati, Signore? Circa alle 11:55 abbiamo sentito un forte ronzio sopra la casa, un aereo militare è passato veloce e ha volato verso il centro della città.
Tutti i vicini del nostro palazzo vanno a dormire in un asilo nelle vicinanze per la notte. Dicono che lì c'è un grande seminterrato sicuro. Ma è di cemento e bisogna dormire su qualcosa come letti a castello per bambini, molto vecchi e sgangherati. Fa terribilmente freddo lì e tutti dormono con giacche e scarpe. La gente se ne va poco prima del coprifuoco, alle 4-5 del pomeriggio, e torna la mattina intorno alle 8. Ma non tutti se ne vanno. Non andiamo noi. Gli alcolizzati del secondo piano, Arthur e Oksana. Gli Ivanov dell'appartamento 4 non se ne vanno, hanno la madre paralizzata, zia Zoya, dopo un ictus. E i vicini armeni del quinto piano, Andrej e Svetlana. Probabilmente, qualcuno resta, sento l'acqua scorrere nel nostro scarico. Ma non so chi sia. Ormai non mi importa più.
Vado al 5° piano, dai rifugiati armeni. È una coppia anziana, molto cordiale. Il marito, Andrej, lavora come custode nel nostro condominio. Hanno un appartamentino molto accogliente con le finestre verso il fronte dei combattimenti. È sia spaventoso che interessante. Vado lì per il loro balcone. Guardiamo attraverso il Canon come se fosse un binocolo. Ma onestamente, non si vede nulla. La curva della collina e altri edifici ostacolano la vista. Quindi, semplicemente chiacchieriamo.
Gli armeni ridono amaramente: sono fuggiti da una guerra per finire in un'altra. Ho chiesto loro quale fosse il ricordo più vivido di quella guerra in Armenia. Entrambi hanno risposto senza esitazione: la vigilia avevamo macellato un vitello, 200 chili di carne fresca! Abbiamo riempito 4 frigoriferi e una cantina. Poi si è spenta la luce e tutta la carne è andata a male velocemente. C'era un odore terribile in casa, mostruoso. Abbiamo dovuto dare tutta la carne ai cani. Non vanno al rifugio perché Svetlana ha una gamba malata e le è difficile scendere e poi risalire le scale dal 5° piano. Sembra che si siano già rassegnati al finale, ma mantengono il morale e scherzano.
Tuttavia, mi sembra ancora che a casa sia più sicuro che all'asilo. I russi hanno già bombardato così tante scuole, asili, rifugi, ospedali, che penso mireranno a qualsiasi edificio isolato che assomigli a una struttura amministrativa. Inoltre, le nostre autorità hanno commesso un errore dicendo nei primi giorni di guerra che avrebbero dato le scuole alla difesa territoriale. In realtà, non lo hanno fatto, qualcosa ha impedito, ma hanno messo in grande difficoltà le persone che si erano rifugiate lì, letteralmente sotto tiro. È stato un grande errore, ora i russi bombardano furiosamente le scuole. Hanno detto che ieri è morto un ragazzo di nome Denis, ferito durante il bombardamento della piazza Kirov da un aereo russo. Il ragazzo aveva 16 anni. Ho cercato di ricordare i problemi che mi preoccupavano quando avevo 16 anni... litigi con un'amica a scuola, un voto in biologia, ragazzi, il nuovo video delle Spice Girls... certo, qualsiasi cosa, ma non la guerra, non aerei militari sopra la città.
3 marzo 2022, Mariupol, Cheremushki (più tardi)
Da qualche parte nei campi vicino a Mangush si sente un forte rombo di cannonate. Mangush è un altro villaggio greco vicino alla città, come Sartana, distrutto da sei bombardamenti nei giorni precedenti. Per amara ironia, a Mangush sta bruciando la Via della Pace. Beh, la pace è la prima vittima della guerra. La prossima vittima è la verità. Difficilmente sopravviveremo se la fonte di questo terribile suono si avvicinerà alla nostra piccola casa. È già chiaro. Il rombo si sta avvicinando. Ma non ho più la forza di avere paura. Mi è completamente indifferente cosa accadrà. Vorrei solo che finisse, in qualsiasi modo.
Il rombo ora è incessante. Sentiamo anche un certo ronzio tecnogenico. È costante, ma non tutti lo sentono. Io lo sento. Mi sembra che sia ad alta frequenza. È simile al canto delle cicale in una serata estiva, ma continuo, senza pause. È chiaramente legato alle operazioni militari, ma non capisco in che modo. Tuttavia, ho notato che quando smette di cantare, dopo 5-10 minuti inizia il bombardamento d'artiglieria. Ho chiesto agli uomini da dove viene questo terribile rombo e cosa significa. Un vicino ha detto: i russi stanno cancellando dalla faccia della terra i quartieri industriali e la Riva Sinistra. Il suono è terribile nella sua metodicità. Ricorda una sorta di telaio industriale, solo che, a giudicare dal suono, è grande come mezzo cielo. Presto arriverà a noi e sarà la nostra fine.
Tutti stanno finendo l'acqua. Le persone mettono i secchi sotto la pioggia e drenano l'acqua tecnica dai sistemi di riscaldamento degli edifici. Io non ci sono andata. Se sopravviviamo, conosco due sorgenti e due pozzi nelle vicinanze. E se non sopravviviamo, che differenza fa se avevo due secchi d'acqua o uno? Quando ho iniziato a scrivere queste note, pensavo che mi sarebbero servite dopo la guerra. Ora, spero solo che per un paio d'ore riattivino l'elettricità e appaia il segnale mobile, così potrò inviare queste note a mia sorella Nina.
C'è stato un breve momento di calma. Non è chiaro per quanto durerà? Tutti i vicini dell'edificio si sono affrettati e hanno iniziato a muoversi. Noi facciamo diversamente. Andiamo a dormire. La cosa più difficile in guerra è l'insonnia causata dal terribile rombo e dalla costante tensione nervosa. Si impara rapidamente a dormire negli intervalli tra i combattimenti. Prima della guerra, amavo scherzare sul fatto che mio figlio dorme così profondamente che nemmeno il rombo di un cannone potrebbe svegliarlo. Era solo un modo di dire. Una figura retorica. E si è rivelato essere vero.
Più di tutto al mondo, desidero che la guerra finisca. Al secondo posto tra i desideri c'è quello di fare una doccia, indossare biancheria pulita. Mi sento terribilmente sporca, ero abituata a fare la doccia ogni giorno, a volte anche due volte. Dormo vestita, l'ultima volta che mi sono lavata i capelli è stato il 28 febbraio. Finché c'era acqua gelida al rubinetto, cercavo almeno di lavarmi le ascelle, il viso, le gambe. Ora anche questo è diventato un lusso. Finché c'era acqua ed elettricità, lavavo più volte al giorno, creando una scorta di biancheria pulita. Ora semplicemente cambiamo la biancheria intima, senza fare la doccia. L'abbigliamento sporco lo mettiamo nella lavatrice. Non credo che ci sarà l'opportunità di lavarlo. Il diesel nel generatore del negozio sta finendo. Le persone stanno razziando gli ultimi prodotti. Siamo riusciti a comprare alcune tavolette di cioccolato, un pacchetto di succo di pomodoro, un pacchetto di cipolle, un chilo di arance e ancora batterie per le torce. Nel negozio abbiamo visto dei militari, sono venuti anche loro per la spesa. La fila di civili li ha lasciati passare in silenzio per primi. Mi sono sorpresa a scrutare i loro volti come tutti gli altri. Cercavo una risposta. Una speranza. Ma i loro volti erano come sculture, con espressioni di pietra. Impossibile leggervi qualcosa.
Erano in silenzio e noi eravamo in silenzio. Semplicemente stavamo lì a guardarli andare al fronte con quei prodotti. Le mie mani tremano ancora. Probabilmente è a causa del freddo. Voglio pensarlo così.
La cannonata è ripresa. Sembra più vicina. Penso che sia la fine.
No, non è ancora la fine. Quanto sono mostruose queste installazioni, non so come si chiamino correttamente, Grad, Tornado, cannoni antiaerei o qualcos'altro. E penso che non farò in tempo a imparare i loro nomi. Fanno tremare la casa, i piatti e i mobili ballano. Tutta la città sembra un fragile giocattolo natalizio quando queste installazioni emettono i loro terribili urli. Mi sembrano un branco di tirannosauri selvaggi, Godzilla o qualche altro mostro preistorico. Ogni volta sembra che ci schiacceranno, ci strapperanno in pezzi, ci distruggeranno.
3 marzo 2022, Cheremushki, Mariupol (più tardi)
Ho saputo che ieri i russi hanno bombardato per qualche motivo l'impresa comunale "Kommunalnik", responsabile della raccolta dei rifiuti. Non vengono più raccolti i rifiuti, dicono che sono bruciati i nostri nuovi camion della spazzatura, come quelli nei film americani, con gli spazzini appesi dietro, come paggi sulle carrozze nobiliari. Anche i netturbini sono spariti. Ma per le strade non c'è neanche un pezzo di carta. Le persone mettono ordinatamente i sacchetti della spazzatura intorno ai contenitori o sulle piattaforme per i camion della spazzatura. Amo questa città!
Ora sono le 19:55, ma sembra la profonda mezzanotte nella taiga. Un silenzio letteralmente tombale, ed è strano e selvaggio per il nostro solito Mariupol rumoroso di mezzo milione di abitanti. Qui c'era sempre rumore anche di notte prima della guerra: il porto rombava, le fabbriche rombavano, la musica rombava. Ora è così silenzioso che sento la cenere cadere dalla sigaretta. La guerra sembra essersi fermata e tutti si sono congelati, temendo di attirare la sua attenzione su di sé. I nervi sono tesi come corde e ogni rumore ci colpisce dolorosamente. Siamo seduti nel corridoio. Di tanto in tanto beviamo acqua dalle poche bottiglie di minerale rimaste. Io fumo. Il bambino prega. Fuori, ancora urla quel gufo pazzo, quel metronomo spia pazzo. All'ascolto, è da qualche parte vicino al parrucchiere e al negozio di alimentari.
Poco prima dell'inizio della guerra ho ricevuto lo stipendio e ho fatto alcuni acquisti. Si sono rivelati piuttosto pratici, anche se Dmytro Volodymyrovych brontolava che ero uno spreco. Ho comprato due maglioni di lana, uno nero e uno blu. Scarpe con suola piatta. Jeans caldi. Tutto ciò è risultato molto utile. Ora penso con ironia a quegli acquisti che non ho fatto, che ora sembrano uno spreco di denaro: volevo una bottiglia del mio profumo preferito "Poême" di Lancôme, un nuovo mascara, un abbonamento a Spotify. Bene, sono contenta di non averli comprati. I soldi che erano destinati a questo li abbiamo già spesi in cibo più costoso, sigarette e acqua. Le nostre scorte dureranno ancora per alcuni giorni. Cosa ci aspetta dopo, non ci pensiamo. Non sappiamo nemmeno se sopravviveremo a questa notte? Non ha senso preoccuparsi di cose così lontane come un orizzonte di pochi giorni. Guardo con tristezza la carica che si esaurisce sullo smartphone. Già al 31%. Vorrei che la rete tornasse e potessi inviare queste note a qualcuno dei miei parenti "sulla terraferma". Notizie dall'aldilà, chiamiamole così. Siamo persone vive, ed è terribilmente ingiusto e difficile morire così, al freddo, al buio, sotto il rombo dei proiettili, dimenticati dal mondo intero, nel silenzio, nell'impossibilità di raccontare alle persone cosa ci sta accadendo. Cerchiamo di allontanare i pensieri sulla morte, ma ci assalgono costantemente. Qui e ora, non si può non pensarci. Da qualche parte in lontananza, il silenzio è rotto dal rombo delle cannonate. Ripenso a tutti i miei brutti sogni sulla guerra. Ne abbiamo parlato con gli amici, finché c'era ancora la rete. Tutti nell'ultimo anno abbiamo avuto questi terribili sogni sulla guerra. Di missili che cadono, di notti nere illuminate solo dal bagliore degli incendi, in cui corri come una lepre, scappando da persone senza volto. Alcuni sognavano missili che cadevano, altri carri armati che bruciavano, altri cadaveri per le strade. Ma tutti avevano sognato qualcosa del genere. Anch'io ho avuto un sogno molto vivido, il cui significato allora non avevo capito. Il supermercato "Primor'ye" su Pjatačok bruciava, la notte era illuminata dal fuoco di auto bruciate, e accanto a loro passavano i carri armati russi. Nel sogno, capivo molto chiaramente che erano proprio carri armati russi.
3 marzo 2022, Cheremushki, Mariupol (più tardi)
Continuo a controllare la rete sul cellulare. Non c'è elettricità da più di un giorno, il mio telefono si alimenta da un power bank, ma ha solo un misero 35% di carica rimanente. Per farlo durare di più, lo metto in modalità aereo. Ma di tanto in tanto lo tolgo dalla modalità aereo e controllo se la rete è tornata. La rete è scomparsa per la prima volta nella notte del 1 marzo. È stata ripristinata intorno alle 11 del mattino. E ora è di nuovo assente da più di un giorno. Siamo completamente tagliati fuori dal mondo. Le stazioni radio di Kyiv sono sparite dall'etere, tutto lo spettro è occupato da un fruscio bianco. Che cosa sta succedendo nel mondo ora, mi chiedo? Siamo come su un'isola deserta, nel freddo, nel buio, con un terribile rombo da tutte le parti. Ieri dovevano tenersi dei negoziati per il ritiro delle truppe e la cessazione del fuoco, ma i suoni fuori dalla casa mi convincono chiaramente che o non si sono tenuti, o non hanno portato a nulla.
Solo una settimana fa vivevamo la vita normale di persone normali: guardavamo video su YouTube, giocavamo a Minecraft, leggevamo libri, guardavamo film, andavamo a scuola e al lavoro, chiacchieravamo con gli amici e compravamo croissant per il tè. E ora siamo qui come se fossimo murati vivi e al mondo non importa di noi.
Siedo su una poltrona, avvolta in una coperta con le gambe, e digito questo testo. La poltrona è grande e situata in un posto terribilmente scomodo: in caso di bombardamento, i vetri cadranno da destra e da sinistra, da entrambe le finestre. Quando l'abbiamo comprata, ovviamente, non pensavamo ai bombardamenti. Pensavamo che sarebbe stato comodo leggere libri lì, con molta luce da tutte le parti, un accogliente profondità, un rivestimento in velluto marrone, braccioli massicci. Non c'è posto per spostarla nel nostro piccolo appartamento. Quindi mi riscaldo lì solo durante i momenti di calma tra i combattimenti. Indosso 5 strati di vestiti per tenere caldo, ma ho comunque terribilmente freddo. Il bambino è vestito con sei strati e ha anche freddo. L'unico posto caldo nella casa che si sta raffreddando è la camera da letto. Ma non è sicuro durante i bombardamenti. Abbiamo spostato il letto il più possibile nell'angolo e messo l'armadio per la biancheria vicino alla finestra, ma è stretto e ha coperto solo 2/3 della finestra.
Sta iniziando. Di nuovo. Sto scrivendo mentre corro nel corridoio. Io e il bambino abbiamo allacciato i lacci dei nostri stivali Dr. Martens in modo da poter infilare subito il piede, senza allacciarli, come in pantofole, e correre. Nessuno chiude a chiave le porte. Dicono che se un proiettile colpisce la casa, le lastre di cemento del pavimento possono spostarsi e una porta chiusa a chiave può diventare una trappola. E non c'è elettricità, quindi non si può tagliare la porta con un smerigliatrice. Abbiamo una buona porta d'ingresso in metallo pesante. Alla protezione civile ci hanno detto che si può anche scappare sul pianerottolo e nascondersi dietro la porta, dai frammenti. Non so cosa succederà dopo. Il mondo si è ristretto a un pezzetto di zona sicura nel corridoio. Un anno fa stavo scegliendo nuove carte da parati per il corridoio e l'ingresso. Mi piacevano alcune, al bambino altre. Ho ceduto e ora il nostro corridoio è tutto in foglie dorate. Mi sembra che, mentre ci nascondiamo dai bombardamenti russi, ho imparato a memoria il numero di dentelli su ogni foglia e la forma di ogni foglia.
Mio figlio prega, prega costantemente. Non si può dire che siamo la famiglia più religiosa del mondo, ma fin da piccolo l'ho abituato a rispettare la regola quotidiana della preghiera. Il primo libro che ha letto da solo dall'inizio alla fine è stata la Bibbia per bambini, Vecchio e Nuovo Testamento in una versione adattata per i bambini. Conosce molte preghiere a memoria. Ma ora prega con le sue parole. Ho ascoltato la sua preghiera: Dio, abbiamo davvero bisogno di un miracolo. Solo il Tuo miracolo può salvarci e Ti prego per una salvezza miracolosa. Amen. Prima che la rete scomparisse, io e le mie amiche nel gruppetto ci scambiavamo preghiere. Prima invece inviavamo foto di gatti e nuove borse.
]]>Questo thread sarà dedicato alla traduzione di alcuni post-memoria di persone che hanno vissuto quell'inferno in prima persona. Non oso immaginare cosa abbia vissuto questa donna che ha scritto interi quaderni di diari e che poi ha deciso di digitalizzarne una parte per pubblicarla sul suo canale Telegram. Il resto lo potete trovare sul suo canale: https://t.me/myvijily/5. Vi consiglio di iniziare dall'inizio.
Inizia così:
“Noi siamo tre abitanti originari di Mariupol che sono sopravvissuti nella città assediata e sono stati trasferiti in un campo di filtraggio russo il 16 aprile 2022. Questa è la nostra storia, i nostri ricordi.”
IL 24 FEBBRAIO 2022, MARIUPOL, QUARTIERE CHEREMUSHKI.
Quella mattina ci stavamo preparando per andare al lavoro e a scuola, bevendo caffè in cucina, erano circa le 7 o le 8 del mattino. Da quel momento è iniziata la guerra per noi. Stavo guardando la mia tazza di caffè, e improvvisamente il caffè nella tazza si è sollevato in una bolla verso l'esterno. Non avevo ancora fatto in tempo a stupirmi che una forte scossa ha attraversato la casa, la casa ha tremato, e quasi contemporaneamente ci è giunto un suono sordo e pesante - boommm. Come se la terra si fosse trasformata in un gigantesco campanile e qualche gigante avesse colpito la campana. Non avevamo paura, era solo incomprensibile - che cosa era, chi era, cosa era successo? Non è che non seguiamo le notizie, ma credere che stessimo venendo bombardati era psicologicamente difficile.
Più tardi abbiamo scoperto che erano i russi a bombardare l'aeroporto fuori città, che si trova a circa 3-4 chilometri dalla nostra casa, e in quel bombardamento è morto un uomo nel vecchio kolchoz “Shlyakh Il'icha”. Fu portato all'ospedale dove lavora mia sorella, visse ancora 2 ore, ma non fu possibile salvarlo. Di lui raccontarono una cosa interessante: viveva nel quartiere Vostochny, che fu il primo ad essere bombardato alle 4 del mattino. Allora la sua famiglia si mise in auto e cercò rifugio dall'altro lato della città, che guarda verso Berdyansk. Arrivarono, uscirono dall'auto, e in quel momento ci fu un attacco aereo, schegge...dalla morte non si può fuggire.
Ho parlato con papà e mamma. Papà era al lavoro in una clinica privata e rideva della confusione generale. Sembra che non prenda sul serio ciò che sta accadendo, scherza e ride. Papà ha studiato a Mosca e ama molto la Russia. Non ha ancora capito che stanno venendo ad ucciderci. E io non riesco a esprimermi su questa crudele verità. Mamma è più pragmatica. Non riflette. Corre per i negozi con un gruppo di altre donne della sua età e compra con entusiasmo cibo a lunga conservazione. Barattoli di mais, cetrioli, olive, tonno, salmone, carne in scatola. Anche questo entusiasmo è una medicina contro la paura, così come l'incomprensione. Io taccio di nuovo e annuisco.
Per abitudine cerco ancora di guardare YouTube, con video di varie persone intelligenti come Katz, su come la guerra non convenga a Putin. Cerco di crederci. Ma non ci credo. La guerra è qui, fuori dalla mia finestra, mentre qualcuno cerca di ragionare sulla sua convenienza economica, essa semplicemente rimbomba, semplicemente uccide. La stanza più popolare della casa ora è il bagno. E non per l'igiene. Qui c'è un condotto di ventilazione diretto che porta al tetto. Da qui si sente molto bene dove stanno combattendo, quale quartiere della città i russi stanno bombardando. Inaspettatamente per me, ho scoperto che quasi tutti i suoni che riconosco corrispondono alla direzione che poi scrivono nella chat della città. La guerra è una medicina contro l'idiozia topografica, ma preferirei non curarmi in questo modo.
25.02 - 28.02. MARIUPOL, CHEREMUSHKI.
Tutti questi giorni si sono fusi in un unico blocco di tempo, ho smesso di distinguerli. Come se fosse un unico giorno infinito, che dura e dura con brevi pause per un sonno nervoso di due ore. I passaggi dalla speranza alla disperazione avvengono rapidamente. Ora qualcosa detto da Biden o Johnson accende una speranza che tutto finirà presto. Poi viene smentito, o non supportato, o minimizzato, e ti affondi in una disperazione nera.
Internet ha iniziato a rallentare terribilmente. Il nostro provider, Trinity, si scusa profondamente sul canale Telegram della città: 3 delle loro 4 linee di fibra ottica sono state recise dagli attacchi russi, e metà città ora si accalca su questa linea a malapena funzionante. Leggendo Telegram, voglio urlare: gente, seriamente, caricate video di 200 megabyte senza descrizione? A malapena riesco ad aprire le immagini statiche! Scrivete in testo, cosa c'è lì. Non si capisce nulla.
Abbiamo sentito come i nostri difensori antiaerei hanno abbattuto al secondo tentativo un aereo militare russo che bombardava il villaggio di Sartana fuori città. Abbiamo sentito come è caduto con un fragore selvaggio. Penso sempre al pilota. Mio zio defunto era un pilota militare sovietico, morto in servizio nel 1986, e non posso fare a meno di pensare al suo collega abbattuto oggi. Chi era, questo ragazzo, uscito dalla scuola di volo? Come si chiamava? Perché è venuto a ucciderci? Perché ha bombardato Sartana per diversi giorni di fila? È un villaggio greco assolutamente pacifico, piccolo, con piccole case private, senza presenza militare. Spero che, nell'inferno in cui questo pilota andrà, dovrà guardare per sempre nei volti delle persone che ha ucciso e bruciato.
La cosa più difficile è che non è più possibile occuparsi delle solite faccende, e ci si ritrova a fare cose strane e folli. Guardo con tristezza a tre gomitoli di meraviglioso filato di angora colore del mare che ho comprato alla vigilia della guerra. Il lavoro a maglia è la mia passione, e tutti in casa ridono di questo. Tutti hanno decine di sciarpe, cappelli, snood, calzini e guanti. Il mio recente piccolo sogno era imparare a lavorare a maglia un maglione con i celtici aran. Sembra che, come tutti gli altri grandi e piccoli sogni delle persone a Mariupol, questo sogno sia morto irrimediabilmente. Mio figlio sognava di andare in Germania, quest'anno hanno iniziato a insegnare tedesco a scuola e Andrey era costantemente tra i primi studenti della classe in tedesco.
Come anche in russo. Come spiegare a un bambino che ha 2 ore di russo a settimana a scuola, che Putin ci bombarda perché presumibilmente non studiamo il russo? Finché c'era ancora internet, ho cercato di spiegare ai russi che era assurdo, ho inserito nelle loro chat foto del libro di testo di russo di mio figlio, i suoi quaderni di scuola. Tutto inutile. Credono ai loro presentatori TV, che non sono mai stati da noi. Non ci credono.
Ora mi sembrano così ridicole e assurde tutte le cosiddette difficoltà della vita pacifica che preoccupavano fino a pochi giorni fa. Tutte le liti non valevano un fico secco. Anche il bambino lo sente così. Circa una settimana prima della guerra, cioè un milione di anni fa, faceva i capricci, non volendo fare i compiti d'inglese. Oggi dice: mamma, ora imparerei non 30, ma 300 parole in inglese, solo per far finire questo incubo.
Nei negozi si nota un netto assottigliamento dell'assortimento di prodotti. Per primi sono stati acquistati pane, salumi, formaggi, acqua in bottiglia e frutta. Dicono che il municipio pagherà per qualche tipo di pane sociale a basso prezzo. Ma nessuno sa dove comprarlo. E nessuno sa cosa significhi un prezzo basso. Le persone hanno visto il pane a 103 grivnie per una pagnotta, è inconcepibile, solo una settimana fa costava tra le 12 e le 20 grivnie. I prezzi sono disomogenei. Alcuni imprenditori cercano di non alzarli troppo, altri approfittano della sventura e li quadruplicano rispetto al prezzo prebellico. In rete scrivono che ne soffre soprattutto la catena di negozi "Eva", che vende articoli per l'igiene. Non so se sia vero, ho comprato sapone e detersivo ancora alla vigilia della guerra.
In città gira uno scherzo lugubre: - Il tuono rimbomba, la terra trema - è il mondo russo che avanza.
È iniziata la terza guerra mondiale, senza dubbio. Mi sembra, a giudicare dalle notizie, che non ci sia nessuno nel mondo, dagli Stati Uniti alla Micronesia, che non abbia espresso la propria posizione su questa guerra e non abbia preso una delle parti. Dicono che l'Ungheria abbia supportato la Russia. Invece, quasi tutti gli altri paesi del mondo ci hanno supportato, grazie a loro per la solidarietà. Abbiamo tolto dalle pareti del nostro appartamento quadri e incisioni con vetro, specchi, orologi, barometri e libri dagli scaffali alti. Così ci hanno detto di fare alla protezione civile.
]]>Si tratta di una Repubblica Democratica Presidenziale, in cui vige un sistema multipartitico ed una separazione dei poteri garantita dalla costituzione del 1945.
Il potere esecutivo è gestito dal Presidente, dal suo Vice-Presidente e dal Gabinetto. È solo dal 2004 che il Presidente ed il Vice-Presidente vengono eletti direttamente dalla popolazione, in quanto precedentemente tale compito era affidato all’Istituzione principale della Repubblica d’Indonesia, ovvero l’Assemblea Consultiva del Popolo (MPR). La durata della presidenza è di 5anni con un limite massimo di 2 mandati.
Il potere legislativo è gestito dalla su-menzionata Assemblea Consultiva del Popolo, la quale, sempre dal 2004, è transitata da un sistema uni-camerale ad uno bi-camerale. È composta da una camera bassa, dotata delle funzioni principali e che ha il potere di approvare Leggi, denominata Camera dei Rappresentanti del Popolo e che conta 575 membri; e da una camera alta, il Consiglio Rappresentativo Regionale, che conta 136 membri e non ha potere legislativo, seppur possa presentare dei Disegni di Legge, esprime le proprie opinioni e partecipa alle discussioni. Ad ogni modo i disegni di Legge necessitano di un’approvazionecongiunta della Camera dei Rappresentanti del Popolo e del Presidente, il quale gode in ultimo del potere di veto e della possibilità di emanare Decreti Presidenziali.
Il potere giudiziario è indipendente e le sue principali istituzioni sono la Corte Suprema e la Corte Costituzionale.
Questo piccolo e doveroso inquadramento si rende necessario in quanto l’Indonesia è sovente denominata come “la più grande democrazia del sud-est asiatico”. Di fatti, sulla carta, lo è. Il paese ha compiuto enormi passi in avanti nel tentativo di lasciarsi alle spalle un periodo trentennale di dittatura del generale Suharto (descritto come il grande Dhalang, burattinaio) che a partire dalla metà degli anni ’60 si è macchiato costantemente di crimini contro i diritti umani, instaurando un modus operandi noto come KKK (corruzione, collusione e nepotismo).
L’eredità di tale struttura sociale ancora pesa ed è palpabile nella società indonesiana, tant’è che essa viene definita una democrazia, ma secondo un approccio “minimalista”, ovvero tenendo conto più della forma delle istituzioni che del loro effettivo risultato nell’attuazione delle politiche. Una democrazia imperfetta insomma. Ma quale democrazia, in fin dei conti, non lo è? Lungi dal giudicare, non si può comunque non constatare la presenza di partiti cartello, di un rilevante tasso di corruzione e dell’ingombrante peso della politica e del nepotismo negli affari. Oltretutto la società civile non ha modo di controllare il potere militare.
In tale quadro, un tris di candidati, ciascuno dei quali in coppia con il proprio Vice, è in corsa per la successione di Joko “Jokowi” Widodo, il popolarissimo Presidente uscente che ha esercitato per 2 mandati consecutivi:
Nata nel 1962 per coordinare gli sforzi degli Stati UE con l’obiettivo di:
In queste presidenziali non si aspettano sorprese significative. Previste per il 2025, le elezioni sono state anticipate da Aliyev a quest'anno per capitalizzare la sua incredibile popolarità dopo la riconquista del Nagorno-Karabakh. Fino a pochi mesi fa, questa regione era abitata principalmente da armeni ed era occupata da uno stato non riconosciuto sostenuto militarmente da Armenia e, in misura minore, dalla Russia.
La campagna militare azera del 2023 rappresenta la seconda vittoriosa incursione di Baku nel Nagorno in soli tre anni, rovesciando ciò che Aliyev e gran parte degli azerbaigiani considerano un "errore storico" - la divisione del territorio riconosciuto a livello internazionale come parte dell'Azerbaijan.
Tuttavia, questa riconquista non è stata indolore. Quasi tutti i circa 120.000 armeni etnici del Nagorno-Karabakh sono fuggiti, e i pochi rimasti rischiano continuamente soprusi da parte dell'esercito azero. Nonostante una recente distensione tra Baku e Yerevan, non è chiaro cosa riserverà il futuro al nuovo Nagorno azero, che è in gran parte spopolato e privo di infrastrutture significative.
La questione non sembra preoccupare Aliyev, convinto che la popolazione azera parteciperà con entusiasmo a ciò che, nella pratica, è una sorta di plebiscito sul suo operato. Nel 2018, il presidente ha ottenuto l'86% dei voti, un risultato poco sorprendente considerando che gran parte dell'opposizione è all'estero o non può partecipare liberamente. Nonostante ciò, una buona parte degli azerbaigiani ha una visione positiva del proprio presidente, soprattutto dopo la riconquista del Nagorno.
I sondaggi attuali indicano un tasso di approvazione intorno al 75%, e sorprendentemente, il governo di Baku ha persino invitato gli osservatori dell'OSCE a organizzare una missione di monitoraggio elettorale. Questo perché probabilmente neppure il governo si aspetta di dover compiere grossi brogli per vincere.
E forse qui risiede il paradosso dell'Azerbaijan: la relativa stabilità garantita da un regime molto riconoscibile, un’economia basata sugli export energetici, una vittoria militare attesa da trent'anni e i rapporti consolidati con l'Occidente (l’UE è il suo primo partner commerciale) e altri alleati (in primis la Turchia) rendono l'Azerbaijan molto stabile a livello politico. E le elezioni non rappresentano un pericolo per l’attuale élite politica. E questo consentirà ad Aliyev e alla sua famiglia di continuare a governare per un lungo periodo.
Dopo aver ricordato la buona performance dell’Italia durante la pandemia prima e in reazione alla crisi energetica e all’inflazione poi, l’OCSE fa presente che la crescita attesa è molto debole e sostanzialmente in linea con quella pre-pandemica. Per allontanare il paese da altri anni di crescita asfittica, l’OCSE mette innanzitutto in guardia sulla situazione delle finanze pubbliche del nostro Belpaese, peggiorata proprio per far fronte alle due crisi. Un richiamo già espresso da molti esperti e messo in risalto dalla proposta del Consiglio Europeo approvata a fine dicembre che chiama l’Italia ad un surplus primario significativo per molti anni a venire e con una traiettoria del debito molto più impegnativa (eufemismo) di quanto indicato nella legge di bilancio e nella NADEF. Le raccomandazioni dell’OCSE per raggiungere gli obiettivi (da considerarsi minimi) includono una serie di punti su cui il governo appare riluttante a muoversi o sta addirittura andando in direzione opposta: eliminazione degli schemi di pensionamento anticipato e introduzione di una tassa di solidarietà per le pensioni che erano state calcolate con il sistema retributivo, abbassamento del limite ai pagamenti in contanti, effettuazione di una spending review con obiettivi ambiziosi, promozione dei pagamenti digitali, riduzione dei vari regimi di flat tax, taglio delle tax expenditures, revisione del catasto, spostamento della tassazione dal lavoro alla proprietà e all’eredità – gli eventuali successi su questi fronti dovrebbero poi essere utilizzati per la riduzione del deficit e non per aumentare spese improduttive.
Su questi temi non sembra esserci convergenza sia nel governo sia di una parte importante dell’opposizione e di molti analisti che non sembrano afferrare l’importanza del riequilibrio della finanza pubblica in chiave di sostenibilità della crescita economica e degli investimenti. Quello che il report dell’OCSE non sottolinea è che in realtà, ove non dovessimo mettere a posto i nostri conti, dovremmo preoccuparci delle reazioni dei mercati prima ancora che delle eventuali procedure di infrazione provenienti dalla UE.
L’OCSE non si limita alle raccomandazioni riguardanti le finanze pubbliche e delinea un vero e proprio percorso di ammodernamento del paese al fine di incrementarne la crescita potenziale e l’occupazione. Su questi temi l’OCSE si ispira al buon senso, suggerendo misure che aprano l’accesso ai mercati, compreso il mercato del lavoro. Tra queste è messa in risalto la necessità di rilanciare la produttività dei servizi, sulla quale l’Italia presenta notevoli ritardi rispetto agli altri paesi europei e OCSE. Effettivamente il dibattito su questo tema in Italia langue e se ne sottovaluta l’importanza. Il terziario di mercato oggi rappresenta circa il 60% del Pil del paese e ne rappresenta il settore più dinamico negli ultimi 25 anni, con una crescita dal 1995 al 2023 - inclusa quindi pandemia e crisi energetica – di circa il 40% (contro il 2% del resto dell’economia). Numeri simili si riscontrano sull’occupazione. Intervenire sulla produttività dei servizi di mercato è quindi elemento cruciale per il recupero della produttività dell’intero paese e su questo l’OCSE propone varie misure (la maggior parte già segnalate da Manageritalia, da Oxford Economics Italia e dall’Associazione Liberi Oltre).
Tra queste misure (peraltro non ad alto costo) indica in particolare: a) l’applicazione della legge sulla concorrenza, con riferimento particolare alla necessità di sottoporre le concessioni in scadenza a gare d'appalto pubbliche (la questione riguarda l’intero mondo delle partecipate e non solo i balneari e i taxi di cui invece sono piene le pagine dei giornali e i talk show); b) la riduzione dell'area di applicazione dell'equo compenso per i servizi professionali, in quanto di fatto esso diventa un compenso minimo che ostacola l'entrata di nuovi player. Il terziario sarebbe peraltro il primo beneficiario di una serie di misure che l’OCSE propone per l’intero paese Italia. Tra queste il miglioramento del sistema di formazione e di competenze, con un nuovo programma di “life-long learning” integrato da un rigoroso controllo di qualità per gli enti di formazione, finanziabile con fondi PNRR.
E a proposito di PNRR, l’OCSE esorta a concentrare l’utilizzo dei fondi su grossi progetti gestiti centralmente – al contrario di quella che risulta essere la polverizzazione in tanti piccoli investimenti locali che poco impatteranno sulla produttività del sistema paese. Qui la tirata d’orecchie evidentemente non è solo al governo attuale.
Così come non è solo indirizzata al governo attuale la disamina delle problematiche relative alla decarbonizzazione del sistema economico italiano. In questo ambito, il ventaglio di misure proposte è lungo. L’accento è sulla necessità di spostare gli incentivi dai combustibili fossili alle rinnovabili, insieme all’ampliamento massiccio del trasporto pubblico. In sintesi, suggerimenti di buon senso che però possono incontrare ostacoli politici notevoli. Quello di cui invece non si dibatte in Italia e che invece l’OCSE indica come primo punto della lista è la creazione di un ente indipendente per il monitoraggio e la valutazione dei progressi sull’abbattimento delle emissioni.
Occorre dire che l’OCSE non sembra voler tenere conto di alcuni elementi di forza del nostro paese, quali la elevata ricchezza privata e la presenza di un forte tessuto di imprese di media dimensione - ma i report OCSE sono tradizionalmente orientati a dare indicazioni su misure rivolte a migliorare i punti deboli di un paese. Ed essendo tali punti deboli numerosi ma affrontati dal governo attuale con un approccio spesso diverso da quello indicato dall’OCSE, la tirata d’orecchie è altrettanto evidente (e speriamo utile).
]]>Helsinki e Stoccolma hanno presentato la candidatura il 18 maggio 2022 e nonostante la Finlandia si sia scontrata con la Turchia, è stata ammessa ad aprile del 2023.
Nel caso della Svezia, la strada è stata più tortuosa. Risolto il conflitto tra gli stati membri dell’Alleanza e il primo ministro turco Erdoğan – e ottenendo quindi la ratificazione da parte del Parlamento turco – il protocollo di adesione all’interno del Parlamento di Budapest non è tuttavia mai avanzato, bloccando la Svezia al passo antecedente al formale invito da parte della NATO, ossia l’ultimo passo che ufficializzerebbe la Svezia come trentaduesimo stato membro.
Dopo le consequenziali sollecitazioni, lo stesso primo ministro ungherese Viktor Orbán ha annunciato, sul suo canale X, di essere favorevole all’annessione del Paese scandinavo nell’Alleanza, riconfermando la posizione del governo ungherese e promettendo di “spingere l’Assemblea Nazionale Ungherese a votare favore dell’adesione della Svezia e di concludere la ratificazione alla prima occasione possibile”. Sembra quindi che il Paese sia ormai ad un passo dalla NATO e, a prescindere dalla conclusione del processo, il fatto che i due Paesi nordici siano arrivati fino a questo punto porta con sé un dubbio che dovrebbe sorgere spontaneamente: perché due Paesi dal passato neutrale hanno deciso di intraprendere un passo politico di questa portata?
Pur seguendo un percorso preciso, il processo di adesione alla NATO può a seconda dei casi variare in termini di tempistica e di complessità, ma se su queste basi la Finlandia è riuscita con tempistiche rapide ad entrare a far parte dell’Alleanza e la Svezia è ad un passo dal farlo, la preoccupazione dei due Paesi nordici può essere più realistica di quanto non si vorrebbe ammettere – e la loro decisione apparentemente condivisa dagli Stati membri sembra dare man forte alla teoria secondo cui la Russia non abbia intenzione di fermarsi.
Teoria che varie agenzie investigative internazionali sembrano confermare, in quanto ipotizzano un potenziale attacco in territori NATO da parte della Russia di Putin.
Il ministro della Difesa tedesco, Boris Pistorius, dichiara al giornale Tagesspiegel che la Russia potrebbe sferrare un attacco in un paese NATO tra i cinque e gli otto anni e, secondo il rappresentante del governo di Berlino, potrebbe trattarsi di Moldavia e Paesi baltici, in quanto ex-Repubbliche sovietiche da cui Putin non si aspetterebbe una preparazione militare sufficiente per difendersi.
“Non è un allarme polacco o tedesco: sono stime Nato. C’è chi dice sei o chi otto anni, oppure tre o cinque. Io temo che saranno tre anni: Putin vorrà anticipare la Nato, che non sarà ancora pronta per difendersi a dovere” – afferma Roderich Kiesewetter, presidente del Parlamentarischen Kontrollgremium (commissione parlamentare di Controllo per l’intelligence tedesca) e membro del Budenstag, il parlamento federale tedesco
Il capo della difesa norvegese Eirik Kristoffersen, concorda con Kiesewetter sulle tempistiche – e nonostante le ipotesi temporali diverse tra le Intelligence degli Stati membri, le classi dirigenti europee e britanniche sono d’accordo su una necessaria preparazione alla difesa. .
Il Presidente del Comitato militare della Nato Rob Bauer, al grido di si vis pacem para bellum, ci ricorda che condurre una vita pacifica non è da dare per scontato “e per questo ci stiamo preparando ad un conflitto con la Russia”.
La probabilità di un ulteriore intento espansionistico di Putin divide l’opinione pubblica italiana, creando un biforcato effetto domino di previsioni e intenti. Un’operazione militare su territorio NATO viene considerata improbabile o irrealistica da chi si affida all’Art. 5 dell’Alleanza, che sancisce la difesa collettiva; ma, secondo le previsioni delle Intelligence, non si tratterebbe di un’invasione su larga scala come quella sul territorio ucraino, bensì di una strumentalizzazione di movimenti autonomisti e separatisti – un modus operandi simile a quanto attuato nel Donbas nel 2014, anno in cui l’oppressione russa ha cominciato ad assumere una forma più concreta nonostante si ci si trovasse in un periodo post-sovietico: un contesto, quindi, in cui si pensava che la narrativa della Madre Russia, rispetto alla convivenza dei due Stati sotto l’URSS, avesse assunto altri toni.
Putin tuttavia respinge le accuse delle Intelligence, così come fece nei primi mesi del 2022 quando tentò di rassicurare l’occidente descrivendo i movimenti militari al confine con l’Ucraina come semplici esercitazioni atte a garantire la sicurezza.
L’invasione su larga scala, come tutti ricordiamo, cominciò il 24 febbraio.
La Carne Coltivata
La realizzazione di carne coltivata implica il processo di prelevare cellule staminali generalmente da feti bovini per generare carne e utilizzare tali cellule come 'starter' per promuovere la crescita della carne all’interno di un bioreattore. Va fatto notare che le preoccupazioni in merito alla carne coltivata sono pressoché infondate in quanto non ci sono né implicazioni negative dal punto di vista salutistico, né implicazioni negative per il reddito degli allevatori in quanto con ogni probabilità, andrà a coprire un mercato piccolo, 1-5% del mercato globale della carne, che non sostituirà la carne tradizionale, ma permetterà ai consumatori di fascia alta di poter avere un’ulteriore alternativa.
Farina di Insetti
Quando si parla di vietare la farina di insetti forse bisognerebbe prima ricordare che quest’ultima non è destinata necessariamente al consumo umano, ma possono essere una risorsa per migliorare la qualità e la composizione del mangime, essendo una fonte proteica sostenibile e ricca di nutrienti. E che nel momento in cui l’EFSA, European food safety agency, che ha sede a Parma, dichiara un cibo sicuro, non se ne può impedire la libera circolazione come merce all’interno dell'Unione europea.
A decretare se l’alimentazione occidentale si sposterà verso fonti proteiche alternative non sarà un decreto legislativo, ma il libero mercato che assecondare la domanda dei consumatori.
Costi energetici
Il settore alimentare è un settore ad alto dispendio energetico ad influito sui costi di produzione è quindi l'approvvigionamento di energia. Inoltre i costi elevati del carburante hanno anche influito sui costi di trasporto, osservando però le dinamiche internazionali sui prezzi dell’ energia è probabile che questi possano attenuarsi gradualmente. Un calmiere dei prezzi sarebbe solo un placebo momentaneo, bisogna pensare ad alternative energetiche più convenienti per il futuro, come l’utilizzo di trattori elettrici, e fonti di energia elettrica rinnovabile o il nucleare.
Le Tasse in Italia
In Italia esiste un regime contributivo agevolato per gli agricoltori noto come "Regime dei Minimi" o "Forfettario Agricolo". Caratteristiche principali:
Con la nuova legge di bilancio il Fondo di solidarietà nazionale, ampliando la sua platea di beneficiari con l'inclusione di pescatori, allevatori di pesce e i loro consorzi, registra una diminuzione delle risorse. Parallelamente, viene istituito un nuovo "Fondo per la gestione delle emergenze in agricoltura generate da eventi imprevedibili" con un finanziamento annuo di 100 milioni di euro. Tale fondo è parte del bilancio del Ministero dell'Agricoltura e della Sovranità alimentare e Foreste ed è aperto anche al settore della pesca e dell'acquacoltura. Al momento, non sono ancora chiare le linee guida di demarcazione tra questi due fondi nazionali e tra essi e gli altri strumenti di gestione del rischio, che, invece, sono cofinanziati dall'Unione europea nell'ambito della Politica agricola comune.
Per quanto riguarda le catastrofi naturali, le imprese agricole colpite dalle alluvioni di maggio nelle regioni Emilia Romagna, Toscana e Marche potranno beneficiare di sostegni per i danni subiti agli immobili. Tuttavia, tali benefici dovranno competere con le imprese di altri settori produttivi e non rientreranno nei fondi agricoli d'intervento già previsti. Per quanto riguarda gli aiuti all'ortofrutta, Ismea erogherà prestiti cambiari agevolati per un totale di 5 milioni di euro a fronte di interessi contenuti.
Le norme fiscali presentano alcune incertezze, come la proroga della riduzione dell'Iva sul pellet al 10%, valida solo fino a febbraio 2024, e il cambiamento di qualifica delle entrate generate da diritti reali, che dal 2024 saranno considerate come "redditi diversi". Il Masaf potenzierà la propria struttura, con benefici anche per il personale e l'opportunità di nuove assunzioni presso Agea. Inoltre, sono destinati 10 milioni di euro per la ricerca in agricoltura, con la necessità di distribuirli in diverse aree di studio.
]]>Due considerazioni molto rapide vengono immediatamente spontanee a chi non abbia definitivamente perso il lume della ragione a favore della propaganda “miserabile” (cit.) e provinciale di queste ore.
La prima è che, fino a prova contraria, scegliersi la residenza fiscale dove si vuole rientra nei diritti garantiti per legge. Gli italiani all’estero non pagano le tasse in Italia. Non pochi sono anche molto facoltosi. Alcuni rappresentano delle vere punte di eccellenza con le quali i vari governi di qualsiasi colore (in questo politicamente uniti come un blocco di marmo) sistematicamente corrono a prendersi parte del merito a successo avvenuto (“un successo italiano!”), pur avendo l’Italia contribuito in maniera assolutamente marginale al supporto delle idee e della operosità di queste persone, quando non le abbia proprio apertamente ostacolate.
La seconda dovrebbe essere ancora più immediata. Cosa farebbe, l’Italia, con questi incassi in più? Quando è che, seriamente, il grande pubblico dello stivale comincerà a chiedere conto alla sua politica di come e in che misura vengono amministrati i soldi pubblici nel paese dei superbonus? Una voragine di debito pubblico con una delle pressioni fiscali più alte d’Europa, una crescita economica stitica da 40 anni e dei servizi pubblici fatiscenti richiedono davvero, come primo punto all’ordine del giorno, che Sinner paghi le tasse in Italia per essere definito “Italiano”, whatever the f#ck that means?
Benaltrismo? L’esatto contrario. Quello è fisso nella testa di tutti quei soggetti intellettualmente poveri (prima ancora che finanziariamente, non a caso) che hanno innescato questa polemica, perché è proprio l’ordine di priorità ad essere sballato dal principio.
La vittoria culturale del grillismo, a ben guardare solo epifenomeno più eclatante di un vizio nazionale di vecchissima data, è stata da un lato il falcidiare psicologicamente le gambe a chiunque abbia un minimo di iniziativa in più, dall’altro la normalizzazione delle prebende (aka il voto di scambio travestito) a connotato culturale della nazione.
La fondamentale differenza fra un paese come gli USA e uno come l’Italia si vede nel rapporto del pubblico con il successo individuale, in qualunque forma questo si manifesti.
Uno dei problemi mentali, culturali, addirittura filosofici del sistema Italia è quello di essere un paese strutturalmente invidioso.
Punto di convergenza della destra post-fascista e della sinistra post-comunista è quello di non credere nel talento e nell’iniziativa individuale, anzi di volerla controllare e contenere. Nel primo caso per un malinteso senso di autorità mescolato a misticismo patriottico (nazionalismo e innovazione vanno raramente d’accordo), nel secondo per una malriposta fiducia nelle capacità dello “stato imprenditore” (LOL) di saper amministrare meglio e più equamente la ricchezza collettiva.
Per la politica è capziosamente molto comodo mantenere questo tipo di propaganda. Per il “popolo”, intriso da decenni di detta propaganda autoalimentatasi, risulta ormai impossibile comprendere l’inghippo.
Intanto, l’Italia rimane ferma nella melma in cui si trova: una causa persa che con queste premesse non troverà riscatto nell’immediato, medio, o anche lungo termine.
*Foto di si.robi. Licenza: Creative Commons Attribution-Share Alike 2.0 Generic
]]>Le particolarità di queste elezioni però sono svariate. L’auto proclamato ‘’CEO di El Salvador’’ ha infatti abbandonato il suo ruolo da presidente con sei mesi di anticipo, giustificando la scelta con la necessità di volersi dedicare pienamente alla campagna elettorale, e lasciando la presidenza alla direttrice dei Lavori Municipali, Claudia Rodriguez, figura scelta sempre dal Congresso a maggioranza NI.
Un’altra novità di queste elezioni è la riduzione dei distretti elettorali salvadoregni da 262 a 44. Propagandata da Bukele come una misura per ridurre la burocrazia e denunciata invece dagli oppositori e da osservatori indipendenti come un tentativo di gerrymandering per favorire ulteriormente il partito Nuevas Ideas.
Una caratteristica che ha contraddistinto la presidenza di Bukele è la sua fortissima presenza sui media, tradizionali o digitali, caratterizzata da populismo e autocelebrazione, ma anche da annunci in pompa magna di misure come la lotta alle gang e l’adozione di Bitcoin come valuta ufficiale del paese. Queste misure, come anche quella della riduzione dei distretti, godrebbero apparentemente di un forte supporto popolare. Tuttavia la versione mediatica di Bukele e la realtà dei fatti non sempre coincidono: la lotta alle gang è in realtà un accordo con le bande criminali del paese e l’adozione di Bitcoin ha messo a rischio l’economia salvadoregna durante i periodi di bear market della criptovaluta.
]]>Ciò ha portato a tutte le evidenti falle nel nostro sistema, dove, indicatori alla mano, siamo pessimi ed in emergenza critica in praticamente tutti i fondamentali: produttività, sanità, sistema pensionistico, sistema scolastico e scolarizzazione, sistema fiscale, ecc...
Il danno più grande è la totale eliminazione del popolo e delle sue responsabilità dall'equazione di audit che il legislatore attua nell'esprimersi politicamente, d'altro canto "il popolo" accetta ormai solo questo paradigma. È qui che entra in campo la semiotica.
La parola "responsabilità" perde la sua connotazione oggettiva, divenendo simbolo di attributo negativo da utilizzare tra le parti politiche verso l'avversario, per dare autorevolezza alla convergenza individuata tra loro ed il popolo e legittimare le azioni politiche che inevitabilmente divergeranno dagli avversari, con l'intento (malcelato) del puro consenso elettorale. In realtà tale paradigma è già stato scardinato dall'argentino Milei, ma, senza divagare, non esultiamo prima di vedere le azioni ed i risultati. Torniamo da noialtri.
Ciò che Calenda ha semplicemente fatto nel suo intervento è pura "riqualificazione" semiotica. Ha scardinato il paradigma dell'avversario usando il loro "vessillo": la Pace. Smascherandone la simbologia, ha chiaramente qualificato la loro "Pace", ovvero:
Con una comunicazione eccellente, chiara e schietta ma allo stesso tempo esaustiva di esempi pratici (1 caffè/ mese*cittadino) accenni alla storia moderna. La parola "PACE" ha quindi perso il suo connotato simbolico di positiva alternativa, contrapposta alla guerra.
Lo dice chiaramente: Piuttosto, dite che volete la Russia vincitrice sull'Ucraina, ma non dite che volete la pace. La vostra soluzione non è la "Pace". Smontando la simbologia avversaria ed usando la semiotica facendo assurgere quindi da ora le posizioni avversarie come chiare posizioni a favore della Russia piuttosto che "pacifiste".
L'altro punto focale è sulla responsabilità. Qui ha lavorato in maniera duale; ha prima lavorato sulla connotazione semantica della parola come relegabile solo all'avversario politico per la situazione di divergenza con gli interessi del "popolo", rimodulando il paradigma e mettendo proprio il popolo come soggetto a cui poter e dover chiedere un'assunzione positiva di responsabilità, quantomeno civile. Usando le argomentazioni dette prima (economico/sociali) non solo dimostra che la guerra in Ucraina non sia divergente dagli interessi degli italiani sotto quei due parametri, ma si schiera fortemente in posizione di convergenza, rilanciando che, anzi, sia responsabilità proprio del popolo riconoscere questa convergenza e la necessità di supportare la causa Ucraina anche a fronte di costi ben maggiori rispetto agli attuali, irrisori invero. Le cause della divergenza, diventano ora obiettivi perseguibili nella convergenza degli interessi. Il populismo ha ceduto per una volta il passo ad un breve momento di politica ricondotta ad una visione a lungo termine chiara, dello Stato e dei suoi interessi, soprattutto in ambito internazionale. Almeno stavolta, il Sen. Carlo Calenda ci mostra che anche in Italia si può.
Viva questa Italia.
Viva questa Unione Europea.
Slava Ukraïni.
Il teatro era divenuto rifugio per civili, chiaramente segnalato all’esterno dalla scritta “bambini” presente su due lati del cortile esterno all’edificio. Secondo Associated Press la stima dei morti è tra i 300 ed i 600 civili [1]
Per l’Organization for Security and Co-operation in Europe (OSCE) e Amnesty International l’evento è un crimine di guerra, mentre in Russia la giornalista Maria Ponomarenko viene condannata a sei anni di colonia penale per aver parlato dell’evento sul suo canale Telegram.
Difronte a questa dimostrazione di disumanità il pianista Alexander Romanovsky decide di inscenare un concerto in onore del massacro di fronte lo stesso teatro.
Il Royal College of Music di Londra sospende l’incarico da insegnante del pianista a seguito della vicenda [2], mentre in Svizzera la sua esibizione viene cancellata. L’unico luogo in cui il pianista sembra trovare ancora fortuna è in Italia ed in Russia.
La sua prossima esibizione è prevista il 23 Gennaio presso l’Aula Magna dell’Università “La Sapienza” di Roma, cosa che reputiamo sia contraria ad ogni valore ed insegnamento che l’accademia italiana ha il dovere e l’onore di tramandare.
Per questo abbiamo inviato presso l’Università e l’Istituzione Universitaria dei Concerti una lettera per chiedere una presa di posizione verso l’artista, richiesta che non ha, al momento in cui scriviamo, ricevuto risposta.
Sentiamo nostro dovere civico informare la popolazione e l’Università che certe scelte hanno una responsabilità civica e vogliamo dimostrare e manifestare il nostro dissenso. Fornire spazi pubblici, con l’aggravante dell’appartenenza accademica, a chi decide liberamente di supportare un regime invasore, esibendosi nel luogo che più rappresenta la mancanza del rispetto dei diritti umani, non può trovare spazio presso l’Università italiana.
Chiediamo che anche La Sapienza abbia il coraggio, come altre istituzioni, di ribadire i valori costituzionali e di diritto internazionale che tutelano la vita dei civili. L’accademia tutta ha il compito di rimarcare questi valori anche nella scelta dei propri interlocutori e invitati. Sperando che in Italia si lasci sempre meno spazio a chi sostiene crimini di guerra, noi continueremo a vegliare e denunciare questi fatti, per un Italia democratica, libera ed europea.
La manifestazione era nata come forma di protesta contro la concessione da parte del comune della sala civica ad un convegno organizzato dall’associazione Emilia Romagna Russia sulla “ricostruzione di Mariupol”.
Sulle pagine del sito di quest’associazione si possono leggere post revisionisti sull’Holodomor, invettive contro “l’occupazione illegittima di Kiev dal 2014 da parte degli usurpatori ucraini [Zelensky ndr]”, propositi dei sostenitori della causa ucraina (“propagandisti”) di spezzettare la Russia in tanti microstati. A fronte di queste surreali ricostruzioni l’associazione proclama la sua indipendenza e si richiama alla libertà di espressione sancita dall’articolo 21 della Costituzione.
Qualora occorra, lo ribadiamo ancora una volta: la nostra manifestazione non è stata contro la libertà di espressione di uno sparuto gruppo di nostalgici dell’imperialismo sovietico reincarnato dal criminale di guerra Putin; è stata contro la propaganda e l’uso a fini di propaganda di spazi comunali, cioè di tutti i cittadini, dove sarebbe stata magnificata la ricostruzione di una città che non è stata teatro di una battaglia ma che è stata deliberatamente distrutta da coloro che oggi la ricostruiscono. Un’operazione che avrebbe senza dubbio trovato l’ammirazione del peggior Goebbels.
L’Italia è da tempo il Paese occidentale più permeabile alla propaganda di Putin. Lo certificano studi indipendenti, articoli di prestigiosi testate internazionali, report basati sull’osservazione empirica dei fenomeni e, infine, fatti di cronaca.
Contro questo attacco, più vivo e invasivo che mai, ci siamo mobilitati per Modena.
Ma è anche un attacco il cui palesarsi non necessita di sofisticate ricostruzioni analisi statistiche; lo si ritrova enunciato negli scritti e nei discorsi di Putin che da anni parla apertamente di aggressione ai nostri valori democratici e di convivenza civile. Quello stesso Putin che il 21 febbraio 2022 faceva dire a Lavrov, prontamente ripreso da scodinzolanti giornalisti e opinion maker italiani, che le informazioni dell’intelligence americana su una imminente invasione dell’Ucraina erano fake news. Quello stesso Putin che dopo aver minacciato la Moldova e occupato con le stesse tecniche usate in Donbas la Transnistria oggi rivolge le proprie attenzioni ai Paesi Baltici.
Noi, ci chiamino pure occidentalisti, non vogliamo la guerra ma se chi decide di essere nostro nemico, dopo 2 decenni di tentativi di appeasement, vuole farci guerra (ibrida o infowar che sia) non possiamo restare in silenzio. Dobbiamo reagire e farci sentire se crediamo in quei valori che sono la base delle nostre costituzioni e che abbiamo faticosamente conquistato dopo il 1945.
Qui viene la seconda considerazione.
Abbiamo detto dei partiti che hanno aderito alla manifestazione; dobbiamo dire dei partiti che non hanno aderito.
]]>Dall’inizio della pandemia (1981) ad oggi, HIV ha causato globalmente oltre 40 milioni di morti, e 39 milioni di persone vivono oggi nel mondo con HIV. La maggioranza di questi individui vive in Africa subsahariana (Fig 1), ed è proprio in questi Paesi che si verifica la più elevata mortalità per HIV. In Italia, dal 2012 sono state segnalate oltre 30.000 nuove diagnosi di HIV, con un trend in discesa fino al 2020 e un leggero aumento negli ultimi due anni post-COVID-19.
]]>Seppur il governo Meloni abbia sin qui tenuto la barra dritta nella solidarietà europea verso l’Ucraina aggredita, sappiamo che dentro e fuori la maggioranza ci sono forze che non disdegnerebbero una fine delle ostilità con la resa di Kjiv. Ma non esiste una pace giusta senza un rispetto dell’identità nazionale e territoriale dell’Ucraina. Non esiste un’Europa democratica e solidale se i princìpi che l’hanno costituita del rispetto delle identità e del diritto internazionale capitolano di fronte alle pulsioni imperialiste di un criminale aggressore.
Il 20 gennaio era prevista la proiezione a Modena di un plastico esempio di propaganda russa: una conferenza sulla ricostruzione (“rinascita”) da parte dei russi di una città martire ucraina; la celebrazione capziosa di un crimine di guerra.
Molte associazioni hanno chiesto al sindaco di Modena di revocare la concessione della sala civica concessa. L’ambasciatore ucraino in Italia Yaroslav Melnyk ha definito quest’evento “un aperto insulto alla memoria di migliaia di vittime civili, un evento incentrato sulla propaganda russa e una violazione di tutti i fondamenti e principi morali”.
Per fortuna il sindaco di Modena ha poi deciso di revocare la concessione dello spazio pubblico. Tuttavia, vogliamo cogliere l’occasione per ribadire ancora una volta che Liberi Oltre le Illusioni e tutte le associazioni che hanno protestato contro l’atto di propaganda ritengono un dovere civile difendere l’Ucraina aggredita e reagire a quelle forze che vorrebbero trasformare l’Italia nella testa di ponte dei disegni criminali di Putin.
Per queste ragioni parteciperemo alla manifestazione organizzata a Modena per il 20 gennaio; per difendere la libertà, la giustizia, il diritto internazionale.
Ci vediamo a Modena il 20 gennaio alle 15,00 in piazza Matteotti
Viva la libertà
Slava Ukrainii
]]>La Guerra Russo-Ucraina si presenta come un conflitto di lungo periodo che si protrarrà per diversi anni, con buona probabilità oltre il 2025-2026. Per questo occorre sviluppare una strategia di lungo periodo di sostegno all’Ucraina.
La spesa militare russa dovrebbe toccare il proprio picco nel 2024 (circa il 40% del budget federale). L’approccio russo è tentare di esaurire la pazienza e il sostegno occidentale nel breve periodo in modo da poter ottenere dei risultati in un momento che li favorisce, il corso del 2024, per provare a strappare una qualche forma di vittoria in una finestra temporale ancora favorevole alla sua leadership e sostenibile per il proprio sforzo bellico ed economico. Al contrario, un coinvolgimento di lungo periodo si presenterebbe come sempre meno favorevole per la Federazione Russa e i paesi occidentali hanno la capacità di renderlo insostenibile intensificando e migliorando il proprio sostegno all’Ucraina.
In questo senso, è importante per gli alleati occidentali uscire dalla ‘mentalità del 2022’ secondo cui l’Ucraina deve continuamente dimostrare risultati agli alleati per ottenere in cambio più sostegno e smettere di guardare al futuro in termini di mesi, ma di anni.
Proprio perché l’Ucraina è così dipendente dall’appoggio economico e militare occidentale è importante sviluppare un approccio che si concentri non sulla continua richiesta e/o dimostrazione di risultati di breve periodo, che per altro rischiano di creare incentivi distorti, bensì sul rafforzare la posizione ucraina e di tutto l’occidente in un’ottica di lungo periodo.
Il 2024 si presenta quindi come un anno di ricostituzione che l’Ucraina e gli alleati occidentali dovrebbero usare per affrontare le difficoltà strutturali individuate fino ad oggi ed effettuare quei miglioramenti che possano consentire di essere in una posizione di vantaggio nel 2025.
2. Come l’Ucraina può prepararsi per il 2024 e oltre
3. La teoria della vittoria ucraina e la centralità della Crimea
La Federazione Russa si trova nel dilemma strategico di non riuscire ad avanzare in maniera significativa sul campo e allo stesso tempo di non poter abbandonare il conflitto senza aver ottenuto nessuno dei propri obiettivi strategici. A fronte dii questo l’Ucraina deve adottare un approccio asimmetrico concentrandosi sul colpire le debolezze russe.
L’obiettivo ucraino è la rimozione e/o espulsione di tutte le forze russe dal territorio ucraino come riconosciuto dai trattati internazionale dal 1991. Questo può essere ottenuto rimuovendo le forze dal combattimento, ma anche e soprattutto rendendo le loro posizioni in Ucraina sempre più difficili fino a farle divenire insostenibili. È in questo modo in effetti che è stato liberato circa il 50% del territorio tornato in mano ucraina fino ad oggi. In questo disegno la Crimea ha un ruolo centrale.
Troppo spesso la penisola della Crimea viene erroneamente trattata da certi analisti e commentatori politici come una sorta di ‘bonus’ o ‘supplemento’ slegato dalle considerazioni militari ucraine. La verità invece è che la Crimea è l’elemento fondamentale e cruciale per una risoluzione del conflitto favorevole all’Ucraina, per le seguenti ragioni:
Per isolare la Crimea l’Ucraina dovrebbe intensificare e concentrare i propri attacchi a lungo raggio sui seguenti obiettivi:
A questo dovrebbe unirsi una campagna di terra che metta pressione sul corridoio di terra occupato dalle forze russe nell’Ucraina sudorientale.
Contrariamente a quanto si possa pensare, in mancanza di un altra mobilitazione le forze russe incontreranno difficoltà non indifferenti in termini di quantità di uomini. La campagna di reclutamento è stata senz’altro sufficiente a rimpiazzare le perdite inflitte dalla controffensiva ucraina e per generare l’offensiva in corso ad Avdiivka, ma non riuscirà a garantire la rotazione nel 2024 e tantomeno a generare forze sufficienti per lanciare offensive su vasta scala nel resto dell’anno. Se si guarda al quadro delle situazione russa, in mancanza di un’altra mobilitazione il governo russo ha a disposizione sempre meno ‘sacche’ di popolazione da reclutare: il tasso di immigrazione netta è in calo, la popolazione carceraria è scesa da 420,000 a 266,000 a causa del reclutamento lo scorso inverno, il mercato del lavoro è sempre più rigido (con un tasso di disoccupazione del 2.9%), una situazione quest’ultima intensificata dalla carenza di manodopera qualificata (si calcola che circa 800,000-900,000 cittadini russi, tendenzialmente maschi e qualificati, abbiano lasciato il paese). Questo non significa che l’Ucraina dovrebbe cercare di esaurire la capacità russa di trovare uomini da mandare al fronte nel lungo periodo, obiettivo chiaramente irrealistico, bensì di deteriorare la capacità russa di generare le forze necessarie, l’equipaggiamento, e la logistica per rifornire le proprie operazioni nei tempi richiesti. L’idea che la Federazione Russa possa ottenere i propri obiettivi strategici semplicemente attingendo ad una riserva illimitata di uomini da mandare al fronte non è particolarmente realistica ed è stata causa di sconfitte russe in passato (Guerra di Crimea 1853-1856, Guerra Russo-Giapponese 1904-1905).
4. Le false prospettive di negoziati di pace
Sia dalle proprie dichiarazioni pubbliche che azioni, il regime russo non sembra avere alcun interesse a negoziati di pace:
Le uniche condizioni che la Federazione Russa sembra disposta ad accettare rappresenterebbero quindi la capitolazione ucraina e la fine dell’Ucraina come stato indipendente e sovrano. In questo senso, è chiaro che a fronte all’insuccesso della controffensiva ucraina e le difficoltà incontrate da alcuni degli alleati a rinnovare il proprio sostegno militare, la leadership russa veda il 2024 come un’opportunità per intensificare la propria offensiva e ottenere successi sul campo nell’anno in cui la propria spesa militare raggiungerà il suo picco. Stabilito questo, perché mai avrebbero alcun interesse a negoziare ora?
Non solo, la transizione ad economia di guerra effettuata dalla Federazione Russa è più facile da effetturare che da invertire. In altre parole, riconfigurare la propria economia per mitigare l’effetto delle sanzioni e adattarsi ad uno stato di guerra è possibile, ma invertire il processo, con sanzioni che difficilmente verranno rimosse, sarebbe estremamente difficile e, a questo punto, non nell’interesse della leadership russa.
Questo non significa che il Cremlino non abbia un interesse a dare l’impressione di essere interessato a negoziare per tentare di persuadere gli alleati dell’Ucraina che vi sia una possibilità concreta di risolvere il conflitto diplomaticamente, e così facendo rallentare e ostacolare lo sforzo militare, economico, e politico in sostegno dell'Ucraina.
Nulla soddisferebbe più il Cremlino che ottenere un cessate il fuoco o un congelamento delle ostilità nel corso del 2024 per avere l’opportunità di ricostituire le proprie forze e adattare la propria dottrina per riprendere le ostilità nell’arco di 2-3 anni.
Conclusioni
Tutti i conflitti terminano con un negoziato e questo tendenzialmente avviene quando una parte si ritiene sconfitta o entrambe le parti ritengano di non riuscire ad ottenere sul campo condizioni migliori di quelle che otterrebbero attraverso una trattativa.
Occorre riconoscere che qualsiasi sia l’esito del conflitto, esso non porterà ad un periodo di stabilità e cordialità nelle relazioni fra Stati Uniti, Unione Europea, & Nato e la Federazione Russa. In caso di una mancata sconfitta russa in Ucraina, gli alleati europei si ritroverebbero come principale vicino una potenza militare revanchista, con una leadership vendicativa, non nota per la più grande lucidità nelle decisioni di carattere strategico, la cui lezione dall’invasione dell’Ucraina sarrebbe quella che è in grado di ‘sconfiggere l’Occidente’. Difficile vedere come questo esito sarebbe nell’interesse europeo.
L’Ucraina è riuscita, nel corso del 2022, ad ottenere una vittoria strategica mantenendo la propria sovranità e indipendenza e salvando la propria identità culturale e nazionale dal tentativo russo di cancellarla. Una volta superata questa fase, il dilemma ucraino è diventato entro a quali confini lo stato ucraino continuerà ad esistere, mentre la strategia del Cremlino è diventata quella di distruggere ciò che non può prendere cercando di rendere la statualità ed economia ucraine insostenibili.
L’Ucraina non è solo i suoi confini, è la sua popolazione, economia, e infrastruttura ed è per questo che lo sforzo in suo sostegno deve concentrarsi non solo sulla capacità di recupeare questo o quel territorio, ma seguire una strategia che le consenta di ottenere un risultato che ne gararantisca l’indipendenza e sicurezza nel lungo periodo.
*Fonte mappa: britannica.com
]]>Dal punto di vista strategico la controffensiva non ha avuto successo né in termini degli obiettivi minimi (i.e. raggiungere Tokmak) né massimi (i.e. raggiungere Melitopol e tagliare in due l’occupazione russa dell’Ucraina meridionale) che erano stati annunciati dalla leadership politica e militare ucraina.
]]>Durante il suo fu istituito il mercato unico, riformata la politica agricola comune e furono firmati
- l'Atto unico europeo;
- gli Accordi di Schengen;
- il Trattato di Maastricht, che istituì l'Unione europea.
Tra le varie attività che intraprese dalla fine degli anni novanta e per il nuovo decennio, nel 2007 collaborò alla realizzazione degli "Stati generali dell'Europa" a Lille (Francia). Nel 2010 sostenne la creazione del “Gruppo Spinelli”. Nel 2004 firmò una petizione per elaborare un "Trattato sull'Europa sociale"; l'anno successivo sostenne l'approvazione della costituzione europea nel referendum francese e nel 2007 si espresse a favore di una "Comunità europea dell'energia.
Egli, dunque, fu protagonista di processi ancor oggi in atto, e che sono di fondamento per gli attuali orientamenti politici e per i dibattiti in ogni livello.
In particolare qui interessa sottolineare il tema della formazione e della scuola. Un altro significativo documento internazionale, oltre al Libro bianco della Commissione Europea, è il rapporto pubblicato nel 1996 dalla commissione dell'UNESCO da Lui coordinata, di cui il rapporto porta il nome, Jacques Delors, Nell’educazione un tesoro (Learning: the treasure within).
Pur mettendo al centro della sua analisi e progettazione l'apprendimento, come fa anche il Libro bianco, questo rapporto esprime l’esigenza e il dovere di prestare una maggiore attenzione alla persona che apprende nella sua integralità, al cittadino che abita responsabilmente il mondo e se ne prende cura in quanto bene comune.
La scuola così intesa ha il dovere di promuovere quattro pilastri fondamentali di apprendimento tra loro interconnessi:
1. Imparare a conoscere, cioè, acquisire gli strumenti della comprensione
2. Imparare a fare, in modo tale da essere capaci di agire creativamente nel proprio ambiente
3. Imparare a vivere insieme in modo da partecipare e collaborare attivamente all'interno di un contesto fatto di relazioni comunitari
4. Imparare ad essere, un percorso che deriva dall'evoluzione degli altri tre
La scuola, quindi, dovrebbe consentire di "sperimentare le tre dimensioni dell'educazione: etico-culturale, scientifico-tecnologica, economico-sociale". Queste tre aree di apprendimento racchiudono "le dimensioni della persona (aspetto teoretico, scientifico, etico, religioso, estetico, espressivo), del cittadino (aspetto relazionale, comunicativo, sociale, civico, politico, organizzativo) e del lavoratore (aspetto progettuale, operativo, produttivo, economico)": alla scuola il compito di coltivarle nell'ambito del curricolo scolastico.
Il rapporto pone sfide impegnative ai docenti e alle scuole, nel rendere le scuole più aperte verso le comunità sociali di riferimento, aderente al qui ed ora, in quanto "non è più possibile lasciare ai cancelli della scuola i problemi sociali: la povertà, la fame, la violenza e la droga entrano nelle classi insieme agli alunni, mentre fino a non molto tempo fa questi problemi rimanevano al di fuori".
La scuola è un luogo di vita, di costruzione di esperienze e non solo un passaggio verso il mondo del lavoro. Nel rapporto non vengono trascurate le richieste del mercato, ma il percorso educativo di chi frequenta la scuola è al centro delle preoccupazioni: la scuola deve contribuire a dare significato alle esperienze della persona, alle relazioni sociali, alla costruzione della personalità.
Il profilo dell'alunno/a è costruito a partire dalle sue esigenze, dal basso, quindi, avendo in mente non solo la formazione del futuro lavoratore/lavoratrice (imparare a fare è uno dei pilastri), ma il cittadino/a di domani (imparare ad apprendere, a vivere e a convivere).
Le parole chiave sono la significatività, la cooperazione e la cittadinanza volte ad aprire la porta alla metafora della scuola-comunità. Questa costruzione avviene con tempi lenti, lavorando insieme, collaborando tra gli alunni, gli insegnanti e i genitori), sapendo comunque di non pretendere l’accordo uniforme, perché i conflitti esistono e possono costituire una strategia coordinata di apprendimento.
A parole anche i tombini dei marciapiedi sono è in accordo con tali indicazioni per ogni stato membro dell’Unione Europea. E non è un caso infatti che questi principi, orientamenti di pratica politica, condivisione di valori sono declamati da più di trenta anni. Certamente se si analizzano le situazioni degli stati membri dal 1990, assieme a quelli dei paesi dell’ex patto di Varsavia che proprio in quegli anni iniziarono a chiedere l’ingresso nell’Unione Europea, molti passi in avanti si sono compiuti nell’aderire dal punto di vista legislativo, gestionale e di diffusione culturale in accordo ai quattro pilastri.
Eppure, dal singolo, a coloro che hanno la capacità di orientare le opinioni, si avverte una fatica maggiore nel proseguire nel cammino. Stante che si tratta di un processo in continuo divenire in cui gli attori in campo, hanno anche visioni antitetiche e conflittuali, nonostante tutto sembra che lo stesso sentiero, in cui l’Unione Europea è instradata, sia sempre più friabile e cedevole al passo.
In Italia, in particolare si sono avuti negli anni, dei propri e veri blocchi dei processi di riforma e anche di semplice ratifica e minima attuazione. E oggi anche avendo recepito a livello legislativo ed amministrativo le Indicazioni, i Regolamenti e le Direttive Europee in merito, rimangono comunque tendenze che tarpano le possibilità per ognuno per poter agire in un ambiente di apprendimento che sia democratico e che abbia come stella polare un senso di cittadinanza verso una società della conoscenza più libera ed accogliente.
Nel primo decennio, molte polemiche a livello politico, sindacale, e da quella parte dell’opinione pubblica più attenta ed informata, imputavano al sistema istituzionale di latitare anche nelle minime attuazioni per l’avvio sistematico delle indicazioni della Commissione Europea. Oggi invece, dalla opinione pubblica nel suo complesso, si avverte principalmente:
La spinta politica di Jacques Delors nella capacità di integrare diverse visioni delle comunità di apprendimento in ogni stato, verso un cammino comune, e il lavoro della Commissione da lui preceduta che formulò in termini operativi i passi da compiere, costituiscono gli elementi, oggi, da cui porci nuove domande per rilevare in modo più analitico, prudente e approfondito, le parti critiche che inceppano tale processo.
La permanente opacità e la contraddizione degli interventi a livello centrale e quello degli enti locali a livello amministrativo, di offerta, manutenzione e sviluppo. La certificazione delle competenze oggi inevasa, inefficace, inattendibile, schizofrenica talvolta. La perenne continuità di problemi che risalgono agli stati risorgimentali: una separazione netta tra le aree del sapere, viste come antri sacrali che determinano una condizione di ceto inamovibile. La possibilità residuale delle donne per un pieno accesso agli ambienti formativi. L’impossibilità di integrare diversi e paralleli percorsi di formazione per ognuno nei diversi stadi della sua vita. La presunta separazione dei saperi della formazione e quelli del lavoro. Il riconoscimento della propria biografia della formazione e la quasi totale mancanza di riconoscimento messa a tema, dei saperi di chi è provenuto da altri paesi.
Se l’educazione è un tesoro, noi ne abbiamo usato solo qualche soldo, e il resto o rimane inutilizzato, oppure è gettato nel vento, e quindi alla fine non rimane che la povertà di vita, di possibilità di cittadinanza, di prospettare nuovi assetti del futuro, sempre più ampi, ovvero di una società per la conoscenza.
Occorre ricordare Jacques Lucien Jean Delors, ma non per una mera commemorazione, quanto per riprendere il suo pensiero punto per punto e analizzarlo dal punto di vista amministrativo, gestionale, di valore, e principalmente DIDATTICO E PEDAGOGICO, nel merito con pazienza, chiarezza, umiltà, determinazione, per definire una sintesi che sia alla fine operativa, attendibile e pronta ad essere controllata e valutata da terzi. Tutto ciò questo è stato lo stile di questa persona, che è un impegno politico, pratico e di azione di tutti i giorni.
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Tuttavia, leggendo il decreto pare manchi un punto essenziale nel processo di formazione degli insegnanti, qualcosa che dovrebbe avvenire all’inizio del percorso di abilitazione: l’orientamento alla professione. Fino a che punto, infatti, il futuro insegnante conosce quale sarà il suo ruolo professionale all’interno di un’organizzazione scolastica? E fino a che punto il futuro insegnante conosce quali problematiche ricorrenti esistano nel contesto scolastico (e non solo) in cui opererà? E soprattutto, fino a che punto il futuro insegnante è consapevole se insegnare faccia al caso suo?
Una ricerca condotta da Feng et al. (2021) su tale argomento fa emergere come l’orientamento alla professione (processo non solo empirico, ma anche psicologico) sia un fattore essenziale nella formazione del docente. Ciò permetterebbe, nel lungo termine, di creare figure professionali che svolgano con passione il proprio lavoro, garantendo, quindi, un maggior successo nella qualità del servizio che offrono alla società. Per questo motivo (dichiarano gli autori), lo stesso concetto di orientamento alla professione dovrebbe diventare parte integrante del curriculum di apprendimento del personale scolastico.
Un aspetto interessante che questo articolo porta alla luce è la discrepanza tra due figure di insegnante: colui che possieda “marcate doti di insegnamento” e colui che sia “altamente motivato ed entusiasta”. Tale discordanza tra queste due figure dimostra come il possedere rilevanti doti comunicative e didattiche, non implichi necessariamente una forte motivazione (nel lungo periodo) a svolgere la professione di docente. Allo stesso modo vale il viceversa. Entrambe le condizioni risultano necessarie, ma non sufficienti. Eppure, la combinazione di esse pare essere essenziale.
L’aspirante docente può apprendere nel corso del proprio tirocinio professionale metodi didattici e pedagogici che egli andrà ad affinare nel tempo e con l’esperienza. La motivazione, tuttavia, permette di instaurare un processo a lungo termine, in cui l’ insegnante proverà piacere e soddisfazione nello svolgere la propria mansione (Reeve & Su, 2013). Tale soddisfazione personale si rifletterà in un maggiore entusiasmo del docente, con un conseguente effetto positivo sulla motivazione degli alunni stessi (Geerts & Van Kralingen, 2016).
Ecco che, come dichiarato da Feng et al. (2021), una fase di orientamento che preceda l’apprendimento vero e proprio della professione (il tirocinio), favorirebbe l’innescarsi di tale processo a lungo termine, dando al futuro insegnante maggiore consapevolezza del proprio ruolo e diventando così parte di un processo di formazione che vada oltre la semplice (ma spesso ricorrente) “bocciatura del candidato”.
]]>Per comprendere il funzionamento delle regole europee, sia quelle vecchie che quelle riformate, è indispensabile una legenda che chiarisca il significato dei termini.
Accreditamento/indebitamento: è il risultato algebrico delle entrate totali meno le spese totali; quando le entrate sono superiori alle spese si ha un avanzo, quando le spese sono superiori alle entrate si ha un disavanzo (deficit)
Disavanzo strutturale: è il risultato della stessa operazione al netto degli effetti del ciclo sulla finanza pubblica e delle misure una tantum; ovvero, dall’operazione vengono scorporati i disavanzi (o gli avanzi) derivanti dalla congiuntura economica.
Avanzo/disavanzo primario: è il risultato di entrate meno spese al netto della spesa per interessi sul debito.
Ciclo economico: può essere espansivo (crescita generalizzata delle attività economiche) o recessivo (si pensi al Covid o al rallentamento dovuto a shock inflazionistici).
PIL potenziale: è il valore aggiunto generato da un sistema economico utilizzando in modo ottimale i fattori della produzione; si calcola dal lato della produzione secondo la formula Cobb-Douglas
PIL reale: è il prodotto interno lordo generato dal sistema economico
Output gap: è la differenza fra Pil potenziale e Pil reale nell’unità di tempo T
Debito pubblico: è la somma dei fabbisogni di cassa cumulati dalle amministrazioni pubbliche; il suo rapporto con il Pil è indicatore della sostenibilità delle finanze pubbliche
Obiettivo di Medio termine: è l’obiettivo di riduzione del rapporto debito/pil in un arco di tempo definito.
Braccio preventivo: è la procedura di sorveglianza degli andamenti di finanza pubblica
Braccio correttivo: è la procedura di correzione degli andamenti di finanza pubblica in caso di squilibri rispetto agli obiettivi di convergenza
Nella precedente versione del Patto di Stabilità i Paesi con un rapporto debito pil superiore al 60% avrebbero dovuto ridurre il loro rapporto di 1/20 l’anno per 20 anni. Poiché il ciclo economico può essere favorevole o sfavorevole, e onde evitare l’assunzione di misure fiscali pro cicliche, erano stati adottati dei temperamenti che consentissero di tener conto degli effetti del ciclo o delle cd. misure rilevanti e di conseguenza rendere più morbida la traiettoria di avvicinamento all’obiettivo di debito.
Il disavanzo (di competenza) viene coperto da emissione di debito (per cassa), dunque per ridurre il debito è necessario ridurre il disavanzo. A questi fini era stato individuato il disavanzo strutturale. Dunque la regola del debito si applicava mediante riduzione del disavanzo strutturale nella misura dello 0,5% annuo, fatto salvo il limite assoluto del 3%; in questo modo veniva soddisfatto l’obiettivo di medio termine. Inoltre, poiché le economie sono soggette ai cicli, l’obiettivo poteva essere considerato soddisfatto sia che la riduzione del disavanzo fosse stata ottenuta nei 3 anni precedenti il periodo di osservazione (backward looking), sia se fosse stata ottenuta nel triennio successivo (forward looking). L’Italia non ha mai soddisfatto la regola in backward looking e mai soddisfatto la regola forward looking. La circostanza che, pur entrando 3 volte in procedura d’infrazione, non sia stata mai sanzionata è dovuta alla difficoltà di calcolare puntualmente il ciclo economico e i suoi effetti sulla finanza pubblica, dunque l’output gap come differenza fra capacità produttiva del sistema economico e sua effettiva crescita . Di volta in volta i ministri delle finanze e i tecnici del MEF sono riusciti nelle loro negoziazioni con la Commissione in sede di presentazione del Draft Budgetary Plan a far passare traiettorie di riduzione del debito più blande dell’atteso.
In qualche modo, l’abbiamo scritto molte volte su queste pagine, l’output gap ha permesso all’Italia (e agli altri Paesi europei) di sfruttare margini di flessibilità non dichiarati.
In seguito alla pandemia da Covid, e alla conseguente riduzione del prodotto interno lordo, la Commissione europea attivò il 20 marzo 2020 la General Escape Clause ai sensi degli artt. 5, 6 e 9 del regolamento 1466/97 (relativo al cd. braccio preventivo) e gli artt. 3 e 5 del regolamento 1467/97 (cd. braccio correttivo).
In entrambi i regolamenti sono contenute sia clausole di mitigazione della correzione, sia le clausole di sospensione del Patto.
Durante il covid l’applicazione delle clausole ha consentito ai Paesi europei di fare disavanzi importanti (-9,7% 2020, -9% 2021, -8% 2022) coperti dal debito pubblico (+162 miliardi 2020, +105 2021, +85 2022).
Terminati gli effetti della pandemia era normale si ritornasse all’applicazione del Patto di Stabilità.
IL NUOVO PATTO DI STABILITA’
Gli interessi di revisione del Patto, individuato all’interno dell’Ecofin in sede di Consiglio Europeo, sono stati rivolti a 2 aspetti del vecchio patto: l’output gap e la traiettoria tecnica di riduzione del rapporto debito Pil.
Del primo abbiamo già detto che il suo calcolo è stato via via considerato difficile e per molti poco comprensibile. Sebbene abbia permesso deviazioni dagli obiettivi (flessibilità) è stato considerato quasi unanimemente una complicazione aggiuntiva all’interno di un quadro di norme per forza di cose non semplice.
Per il secondo (la traiettoria di riduzione del debito) è stato considerato che le diverse condizioni di partenza (i.e. rapporto debito Pil 140% dell’Italia e 112% Francia) avrebbero comportato aggiustamenti differenziati e in alcuni casi, come per l’Italia, troppo profondi. Non è questa la sede per esprimere un giudizio su queste considerazioni (sebbene il lettore presumo sappia qual è la posizione dello scrivente sugli aggiustamenti), tuttavia i percorsi di riduzione del debito differenziati per Paese hanno un senso logico.
Il compromesso trovato dai ministri delle finanze è stato quello del doppio obiettivo di medio termine in un arco temporale differenziato e allungato: dai precedenti 3 anni a 4 o 7.
Se col vecchio Patto l’aggiustamento passava attraverso la riduzione del deficit strutturale, col nuovo i parametri sono di volta in volta concordati con la Commissione. L’aggiustamento può avvenire in 4 anni oppure, in presenza di riforme che si collochino all’interno del framework di priorità stabilite dalla commissione (i.e. transizione ecologica), in 7 anni.
I Paesi sono stati divisi in 3 categorie: quelli con rapporto debito Pil inferiore al 60% che, ovviamente, non necessitano di aggiustamenti macroeconomici (ma che comunque devono concordare con la commissione i piani fiscali pluriennali; i Paesi con rapporto debito Pil fra il 60% e il 90%; i Paesi con rapporto debito Pil superiore al 90%.
I secondi devono garantire una riduzione del rapporto dell’0,4% all’anno; i terzi devono impegnarsi alla riduzione del rapporto debito Pil di 1 punto all’anno. Va da sé che l’obiettivo non deve essere ottenuto necessariamente ogni anno bensì alla fine del periodo (4 o 7 anni).
L’altra differenza, quella senza dubbio più rilevante, è la sostituzione del parametro del deficit strutturale con quello della spesa netta. E’ su questo punto che le discussioni più aspre si sono concentrate.
Abbiamo detto che la riduzione del debito passa attraverso il contenimento dei disavanzi; i disavanzi sono la differenza negativa fra le entrate e le uscite.
Nella versione approvata il 20 dicembre, la spesa netta è definita come la spesa al netto degli interessi sul debito contratto per gli investimenti in transizione energetica, transizione digitale e difesa. Le 3 branche di spesa sono quelle alimentate tanto dalla spesa autonoma di uno Stato attuata mediante le politiche fiscali interne, quanto quella derivante dagli impegni europei previsti dal PNRR e dagli altri fondi comunitari come il React EU. Gli Interessi pagati sul debito contratto per queste 3 voci non saranno considerati ai fini dell’individuazione della spesa netta. Tale esclusione vale solo per gli esercizi 2025 2026 e 2027, più o meno coincidenti col periodo di attuazione del PNRR.
La Germania, mal fidandosi del rispetto del Patto (dal 1997 al 2019 ci sono state in EU 116 violazioni) ha voluto una clausola di salvaguardia: per i Paesi con rapporto debito/pil superiore al 90% l’aggiustamento deve portare comunque il deficit strutturale all’1,5% (2% per i Paesi fra 60 e 90%).
A quanto corrisponda l’aggiustamento strutturale in termini di riduzione del debito è difficile dirlo. Sulla stampa (Fubini per Corriere) si legge che corrisponde allo 0,4% se il percorso concordato è pari a 4 anni e 0,25% se il percorso è pari a 7 anni. Per ora non possiamo confermare queste cifre perché quando si parla di disavanzo in termini di deficit strutturale il calcolo passa necessariamente attraverso quello del pil potenziale, ragion per cui l’output gap ( o qualunque altro parametro corrispondente) estromesso dalla porta probabilmente rientrerà dalla finestra. L’accordo raggiunto dovrà tener conto di questo aspetto e per questa ragione sostengo che il nuovo Patto è ancora incompleto e il dossier ancora aperto; tanto è vero che la Commissione confida di chiudere il regolamento non prima della primavera 2024.
La deviazione massima consentita (flessibilità) all’interno del braccio correttivo è 0,3% annua e 0,6% cumulata.
Il MES all’interno delle norme sulla stabilità Finanziaria
Mentre sul Patto di stabilità si è trovata una fragile convergenza, sulla ratifica della riforma del MES l’Italia, unica su 20 Paesi dell’eurozona, ha deciso con voto parlamentare di non ratificare. Il MES, trattato intergovernativo pienamente in vigore, resta com’era stato concordato firmato e ratificato fra il 2011 e il 2012.
Il Punto 4 del Considerando del Trattato istitutivo del MES, inserisce il Meccanismo all’interno del quadro di sorveglianza macroeconomica istituito dal Patto di Stabilità. Nei regolamenti e nelle linee guida per l’assistenza finanziaria è stabilita la collaborazione con la Commissione europea e con la BCE. Il Consiglio dei Governatori interloquisce con la Commissione nel giudizio sulla sostenibilità del debito del Paese richiedente assistenza finanziaria sia ai fini dell’erogazione della linea precauzionale sia di quella rafforzata. Dunque il MES, pur dotato di autonomia giuridica, è a tutti gli effetti una delle funzioni operative previste dal funzionamento europeo. Le discettazioni sulla terzietà, e quindi sulla natura privatistico-affaristica del Fondo rispetto alla sovranità dei Paesi euro-membri. non hanno alcun fondamento.
Il testo della riforma rafforzava il coordinamento del MES all’interno del quadro normativo europeo, aggiungendo, unica vera e sostanziale novità, la possibilità per il MES di sostenere il Fondo Europeo di Risoluzione bancaria (SRF). In caso di insufficienza della dotazione del fondo, alimentato dai versamenti delle banche aderenti all’eurosistema, il MES sarebbe potuto intervenire mediante l’emissione di titoli sul mercato per finanziare la ricapitalizzazione delle banche in crisi e scongiurare l’effetto contagio. Questo tipo di intervento non è nuovo. Il MES era già intervenuto a sostegno del settore bancario spagnolo nel 2012 (ca. 41 miliardi di euro) e, parzialmente, a sostegno di quello cipriota nel 2013 (7,8 miliardi di cui 1,5 a favore della ricapitalizzazione delle banche).
Renderlo strutturale, il braccio finanziario dell’SRF, avrebbe rafforzato la capacità del sistema di far fronte a crisi potenzialmente pericolose. Rigettare questa possibilità è stato sciocco e autolesionistico.
Ma non è detto che la partita sia chiusa. Come per il Patto di stabilità c’è la necessità di completare la definizione delle norme di sorveglianza e monitoraggio, allo stesso modo di MES si tornerà a discutere partendo da un testo di riforma parzialmente rivisitato.
Foto freestocks.org* / Pexel
]]>Il dibattito conseguente nei media complessivamente ha inteso i risultati come un indicatore di un calo drammatico delle prestazioni da parte degli studenti e dalla incapacità di insegnare la matematica da parte degli insegnanti, qui in Italia.
L'Unione Matematici Italiani ritiene che certamente vi siano criticità, ma che, per innescare un fruttuoso tentativo di miglioramento dello status attuale sia necessaria un’analisi più approfondita. Per l’UMI, considerando che tale indagine sia campionaria e che quindi produce stime, occorre valutare quali siano le differenze significative tra i vari paesi.
Il calo che i nostri studenti registrano in matematica è in linea con il calo che si registra nella maggior parte degli altri Paesi OCSE.
PISA fa riferimento alla literacy matematica, definita nel nuovo quadro di riferimento come «la capacità di una persona di ragionare in modo matematico e di formulare, utilizzare e interpretare la matematica per risolvere problemi in svariati contesti del mondo reale. Il ragionamento matematico (sia deduttivo che induttivo) sono parte integrante della literacy matematica proposta.
Il contributo del quadro di riferimento di PISA 2022, diversamente dai precedenti, è quello di evidenziare la centralità del ragionamento matematico sia nel ciclo di risoluzione dei problemi sia nella literacy matematica in generale. Il punteggio medio nelle scale dei processi matematici, quello italiano è risultato in linea con la media internazionale.
Le scale dei quattro ambiti di contenuto (Quantità, Spazio e forme, Cambiamento e relazioni e Dati e incertezza), non mostrano, per l’Italia, particolari punti di forza o di debolezza rispetto ai punteggi medi dei paesi OCSE.
Il calo significativo dei paesi suggerisce che forse sia stato accentuato dalla carenza di formazione derivata dalla pandemia della Sars-Covid, nonostante però che vi erano cali precedenti in lettura e scienze, a differenza invece della matematica
In Italia comunque si registra una differenza significativa delle prestazioni relativa al genere, per un punteggio medio superiore di rendimento dei ragazzi rispetto alle ragazze per tutto il territorio. L’UMI ritiene che tale divario implica aspetti ulteriori a quelli scolastici, nella fattispecie quelli legati alla sociologia, all’antropologia culturale.
Nonostante tutto le criticità vi sono e per l’UMI un fattore dirimente è quello relativo alla formazione continua degli insegnanti e ad una loro organica pianificazione del reclutamento degli insegnanti.
Occorre che sia favorito l’uso di metodologie innovative in classe, l’implementazione di attività didattiche interdisciplinari, il potenziamento del problem solving e didattiche esplorative anche sacrificando aspetti più tecnici e aulici della disciplina. Con un concomitante approccio che consideri sia la componente emotiva sia quella riflessiva per incentivare la motivazione all’apprendimento della matematica.
Ed è fondamentale favorire la sperimentazione verso applicazioni concrete, proprio di un approccio laboratoriale stretto.
Dalle riflessioni finali dell’Unione Matematica Italiana vi sono indicazioni condivisibili anche per chi non è dentro tali attività di studio e di lavoro, ma non sono nuove. Se si leggono gli studi, i programmi, i testi dei convegni, le migliaia di sperimentazioni attuate per decenni in tutta Italia, tutto ciò è già stato proposto, richiesto, riformulato, indicato, esortato. Se si leggono le sperimentazioni già per l’allora scuola elementare degli anni ottanta del secolo scorso, tutto questo fu già trascritto in modo ineccepibile, rigoroso, coerente.
E allora proprio da questi risultati OCSE PISA 2022, come dai precedenti degli ultimi venti anni, al minimo, occorre compiere un passo in più. Poiché la formazione dei docenti è già praticata e che ogni Collegio dei Docenti in tutta Italia esprime il compito, il dovere, l’auspicio, l’impegno a una relazione stretta tra una didattica che sia attiva, concreta, flessibile, attenta alle individualità di ogni studente e studentessa, allora il punto di discussione è sulla natura, sulla logica, sull’estensione, sull’impiego non straordinario, ma consueto e giornaliero di tale approccio.
Ad esempio: la formazione dei docenti è correlata strettamente alla episodicità e alla forma particellare della contrattazione, quindi a una negoziazione buona, giusta e doverosa, ma che agisce in modo contingente, induttivo, e alla fine con ricadute isolate.
E allora perché non cominciare a riflettere su una politica di intervento organica in cui la formazione permanente sia correlata agli scatti stipendiali, all’anzianità, a possibili benefit e possibilità di scelta e di promozione di ruoli ulteriori di responsabilità per gli insegnanti?
Esistono queste pratiche negli altri paesi dal punto di vista normativo, organizzativo, gestionale?
Sì.
Con riferimento alle pratiche di didattica laboratoriale, queste erano già praticate negli istituti tecnici industriali e professionali da decenni. Tra insegnanti di laboratorio tecnico pratici e quelli di “teoria”. Hanno avuto e hanno il limite di essere state e di essere ancora oggi, locali, personali, e quindi non intersoggettive o sistemiche, nonostante la mole oceanica di sperimentazioni e scritti sepolti nella polvere reale e quella digitale.
Si può fare tutto, ma è ora veramente necessario un passo in avanti pratico, diretto, operativo, e non più una esortazione o invito alle masse e alle anime pie.
]]>Il Parlamento Europeo ha approvato la sua versione del testo della legge nel giugno 2023. I rapporteur (ossia i relatori) erano Brando BENIFEI - (Gruppo dei Socialisti e Democratici) e Drago Tudorache (Gruppo dei Liberali). Ma c’erano anche altri co-rapporteur o shadow rapporteur come per esempio la bulgara Eva Maydell (Gruppo dei Popolari). A seguito della seconda lettura in Parlamento, ha fatto seguito il cosiddetto trilogo.
Nell'ambito della procedura legislativa ordinaria dell’Unione europea, un trilogo è un negoziato interistituzionale informale che riunisce rappresentanti del Parlamento europeo, del Consiglio dell’Unione europea (Stati Membri) e della Commissione europea [2]. Lo scopo del trilogo è raggiungere un accordo provvisorio su una proposta legislativa che sia accettabile sia per il Parlamento che per il Consiglio (ossia i co-legislatori). Tale accordo provvisorio dovrà poi essere adottato mediante le procedure formali di ciascuna delle due istituzioni. Un passaggio che nel 99% è puramente formale, dato che al trilogo partecipano ampie delegazioni di Parlamento e Consiglio.
Nelle prossime settimane elaboreranno i dettagli che potrebbero modificare la legislazione finale, che dovrebbe entrare in vigore all’inizio del prossimo anno e applicarsi nel 2026, anno in cui l’Act entrerà a pieno regime. Per ora quindi esiste un accordo di natura politica che andrà integrato nelle sue componenti tecnici da gruppi di lavoro di tecnici che si occuperanno dei dettagli più complessi.
Fino ad allora, le aziende sono incoraggiate a firmare un patto volontario (AI Pact) sull’intelligenza artificiale per attuare gli obblighi chiave delle regole. Più specificamente, il Patto incoraggerà le aziende a comunicare volontariamente i processi e le pratiche che stanno mettendo in atto per prepararsi alla conformità dell’AI Act e garantire che la progettazione, lo sviluppo e l’uso dell’intelligenza artificiale siano affidabili. Anche alcuni dettagli del patto saranno integrati dai tecnici attualmente al lavoro sul testo [3].
L'AI Act stabilisce obblighi per fornitori e utenti a seconda del livello di rischio rappresentato dall'intelligenza artificiale [4]. Questa è la base pratica della legislazione. Il quadro normativo definisce 4 livelli di rischio associati all’intelligenza artificiale: Rischio inaccettabile, Alto rischio, Rischio limitato ed infine Rischio minimo o nullo.
Per il Rischio inaccettabile, si intendono tutti i sistemi di intelligenza artificiale considerati una chiara minaccia alla sicurezza e ai diritti delle persone, dai punteggi sociali da parte dei governi ai sistemi che utilizzano l'assistenza vocale per incoraggiare comportamenti pericolosi. Questo tipo di tecnologie saranno vietate dalla legislazione europea.
Nel caso dell'Alto rischio, i sistemi di AI identificati come ad alto rischio includono la tecnologia utilizzata in infrastrutture critiche (come i trasporti o le telecomunicazioni), che potrebbero mettere a rischio la vita e la salute dei cittadini, la formazione scolastica o professionale, o ad altri fattori che possono determinare l'accesso all'istruzione e al percorso professionale della vita di qualcuno (ad esempio il punteggio degli esami).
I sistemi di IA ad alto rischio saranno soggetti a obblighi rigorosi prima di poter essere immessi sul mercato, come ad esempio sistemi di valutazione e mitigazione del rischio (il cosiddetto risk assessment). In alcuni casi, le aziende saranno obbligate a registrare delle attività per garantire la tracciabilità dei risultati prodotti con intelligenza artificiale. Ad esempio, tutti i sistemi di identificazione biometrica remota sono considerati ad alto rischio e soggetti a requisiti rigorosi. In linea di principio, è vietato l'uso di identificazione biometrica remota in spazi accessibili al pubblico e, laddove necessari, saranno soggetti a restrizioni molto stringenti.
Per quanto riguarda il Rischio limitato, ci si riferisce ai sistemi di AI con specifici obblighi di trasparenza. Nei sistemi come i chatbot, gli utenti dovranno essere informati e consapevoli di stare interagendo con una macchina.
Infine, per il Rischio minimo o nullo, la proposta consente un uso libero dell'AI. Ciò include applicazioni come videogiochi abilitati all'intelligenza artificiale o filtri antispam. La stragrande maggioranza dei sistemi di AI attualmente utilizzati nell'UE rientra in questa categoria.
Eccezioni delle forze dell'ordine
L’AI consente l'uso di sistemi di identificazione biometrica remota in tempo reale (a volte riconoscimento denominato live facial) in spazi accessibili al pubblico solo se strettamente necessario a fini di applicazione della legge e solo da parte di forze dell’ordine. Ciò è tuttavia consentito solo in determinate circostanze eccezionali, come l'identificazione delle vittime di reati quali rapimento, traffico o sfruttamento sessuale, la prevenzione di una specifica minaccia terroristica…etc. In sostanza, la legislazione riconosce che le forze dell’ordine debbano comunque sottostare ad alcuni obblighi in modo da garantire i diritti fondamentali dei cittadini.
Sandbox o “test nel mondo reale” e deroghe per le PMI
Per facilitare l’innovazione, la legge sull’intelligenza artificiale prevederà sandbox normativi e “test nel mondo reale”, istituiti dalle autorità nazionali per sviluppare e formare un’intelligenza artificiale innovativa prima della sua immissione sul mercato.
In altre parole, i sandbox normativi contribuiranno a creare un ambiente controllato per lo sviluppo, il test e la convalida di sistemi innovativi. In modo simile, le disposizioni di “test nel mondo reale” riguarderanno la possibilità di testare i sistemi di intelligenza artificiale in condizioni simili a quelle del mondo reale, ma con garanzie specifiche. Nelle intenzioni del legislatore, questo potrebbe favorire soprattutto le startup e le piccole aziende interessate a sviluppare sistemi AI senza il rischio di incorrere in sanzioni. Del resto, l'accordo comprende anche un elenco di azioni a sostegno delle imprese più piccole e prevede alcune deroghe limitate e chiaramente specificate per la ricerca e lo sviluppo.
Sanzioni, applicazione e governance
Le sanzioni massime, in caso di infrazione della legislazione, saranno molto importanti. Arriveranno fino a un massimo di 35 milioni di euro o al 7% del fatturato globale per violazioni relative ad applicazioni di AI vietate in aggiunta a sanzioni di 15 milioni di euro o del 3% del fatturato per violazioni di altri obblighi della legge. Infine sono previste sanzioni di 7,5 milioni di euro o 1,5% del fatturato per violazioni nella fornitura di informazioni erronee agli organi europei. Tuttavia, verranno imposti limiti più proporzionati per le PMI e le start-up.
In precedenza, i colloqui si erano arenati su come regolamentare l’AI addestrata su grandi quantità di dati e in grado di svolgere un’ampia gamma di funzioni. Queste tecnologie sono state denominate, nel corso delle trattative, in vari modi tra cui ‘foundation models’ or ‘general purpose AI’. In particolare, gli Stati Membri volevano garantire un modello più permissivo a grandi aziende che elaborano foundations model. Per esempio, la Francia, con il sostegno di Germania e Italia, si opponeva a qualsiasi regola vincolante per questi modelli.
L'accordo di compromesso trovato aggiunge nuove disposizioni per tenere conto delle situazioni in cui i sistemi di AI possono essere utilizzati e svilupparsi in settori diversi rispetto ai quali erano stati originariamente pensati.
Per esempio, esistono delle eccezioni se una tecnologia per scopi generali viene successivamente integrata in un altro sistema ad alto rischio. Nelle comunicazioni europee a riguardo, viene spesso fatto l’esempio di Chat GBT e al fatto che alcune sue parti possano, in futuro, venire integrate in un modello ad alto rischio.
In queste ore, i dettagli tecnici stanno venendo discussi e approvati da incontri di personale tecnico, che chiariranno le basi giuridiche e le definizioni di questi sistemi. Per questo, ad oggi, è molto complicato fare previsioni su come questi modelli verranno impattati dalla legislazione.
I Problemi dell’AI Act
C’è una critica di natura politica. Alcuni, soprattutto osservatori dell’industria del Tech, ritengono che la Commissione Europea non sia stata all’altezza del suo compito, preferendo creare sistemi di standardizzazione locali (ossia a livello europeo), piuttosto che globali, magari in cooperazione con organi americani, britannici, cinesi.
Esiste poi una critica economica, tra l’altro riportata anche da esponenti politici europei. Per esempio, Emmanuel Macron ha evidenziato che la nuova legislazione europea rischia di ostacolare le aziende tecnologiche europee (che sarebbero obbligate a rispettare questi standard) rispetto ai rivali di Stati Uniti, Regno Unito e Cina, che invece hanno molta più libertà legislativa [5]. E questo avverrebbe, nuovamente, in un ambito estremamente complesso e ancora in divenire, come l’intelligenza artificiale. Del resto, delle 100 più grandi aziende del tech per market cup, solo una decina sono europee. E il confronto è impietoso non solo con Cina e USA. Ma anche con Giappone, Taiwan e Corea. Esiste quindi il timore che l’AI Act possa limitare ulteriormente le aziende europee mentre i competitor mondiali potranno operare, al di fuori dell’Unione, come maggiore libertà.
Infine esiste anche una considerazione pratica, che non ha a che fare con la legislazione in sé ma con il fatto che l’integrazione europea è ancora limitata. Del resto, l’UE non è uno stato. Ma un’unione di stati. E questo impatta sull’efficacia della legislazione.
Per esempio, per quanto riguarda il GDPR (General Data Protection Regulation)non esiste un organo europeo unico che sanziona il non rispetto dei dati. Ma, nella stragrande maggioranza dei casi, l’aspetto giuridico e sanzionatorio dipende dai paesi membri e dai loro organi nazionali mentre gli organi europei hanno funzione di coordinamento.
In concreto, nel caso del GDPR un numero elevatissimo di casi di infrazione è gestito in Irlanda dal Data Protection Commission (DPC), che è il corrispettivo garante della privacy irlandese, visto che quasi tutte le grandi tech hanno sede a Dublino. Ed è chiaro che non è semplice per un organo nazionale monitorare casi cosi’ complessi.
Appare possibile, quindi, che l’AI Act potrebbe incappare negli stessi problem. Anche l’Unione ne è consapevole, tanto che nell’AI Act è prevista la creazione di un nuovo organo europeo (AI Office), che servira’ a monitorare l’applicazione dell’AI Act a livello legislativo. Ma non ad imporre direttamente le sanzioni, gestire i ricorsi e le procedure legali. In altre parole, per il momento, a questo nuovo organo europeo verranno affidati compiti di coordinamento simili a quelli che ricopre l’European Data Protection Board [6] che è competente per il GDPR. In altre parole, esiste il rischio che siano ancora le autorità nazionali ad avere compiti di natura investigativa e sanzionatoria.
Insomma, se l’AI Act sarà o no un successo, è presto per dirlo. Anzi, ci vorranno mesi o anni per capire se e come l’Unione Europea sarà in grado di provare con i fatti le sue ambizioni, per il momento, solo legislative.
Per approfondimenti, vi invitiamo a seguire il nostro EuroTalks sull’argomento con ospite Luana Lo Piccolo, consulente legale indipendente in ambito IT e AI.
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1) Ratificare la riforma significa APPROVARE TUTTO IL TRATTATO, comprese le sue parti più assurde
Non si è mai vista una ratifica di un trattato che non ratifichi tutto il trattato. Questa non è neanche economia, è logica elementare.
2) La riforma del MES PEGGIORA uno strumento già famigerato perché figlio degli interventi di austerità contro la Grecia. I Paesi UE vengono divisi in "buoni" e "cattivi". L'Italia è, guarda caso, fra i cattivi.
a) Lo strumento famigerato ha salvato la Grecia consentendole di tornare sui mercati dai quali era stata estromessa nel 2013-14. Prima dell'uscita dai mercati la Grecia si indebitava a tassi prossimi al 30% (grafico 1)
Ma non lo faremo da soli. Grazie agli interventi di vari ospiti ed esperti cercheremo di approfondire i principali aspetti di Euromaidan.
Dallo scoppio delle proteste alla repressione violenta portata avanti dall'allora presidente ucraino Viktor Yanukovich.
Dalle legittime richieste democratiche dei giovani ucraini ad aspetti piú sconosciuti o ignorati come la percezione del Maidan nel Donbas.
Lo speciale di Liberi Oltre vuole parlare a 360 gradi di Euromaidan, senza dimenticare elementi che hanno polarizzato l'opinione pubblica occidentale, come il presunto ruolo dell'estrema destra ucraina o come la Russia abbia avuto un ruolo nelle violenze contro i manifestanti.
Con il prof. Andrea Graziosi proveremo a fare luce su come Euromaidan abbia contribuito a cementificare una nuova identità nazionale ucraine.
Con Jaroslava Barbieri ci concentreremo sulle violenze e le repressioni dei Berkut e, al di là della propaganda russa, quale sia stato il coinvolgimento dell'estrema destra ucraina.
Con Vittorio Emanuele Parsi discuteremo di come Euromaidan abbia avuto un impatto sull'Europa e sulle prospettive europe dell’Ucraina.
Con Vladislav Maistrouk ragioneremo sul ruolo dei media nel raccontare e ricordare gli eventi del Maidan.
Con Kateryna Zarembo ci concentreremo sul Maidan nel Donbas e sulle analogie e differenze nella percezione del significato delle proteste a Donetsk e Luhansk.
Con Nona Mikhelidze parleremo di altre rivoluzioni colorate in paesi dell'Europa Orientale e del Caucaso e il loro eventuale legame con il Maidan.
Con Yaryna Grusha illustreremo le innovazioni portate dal Maidan in ambito culturale in Ucraina, con particolare attenzione all'aspetto artistico e letterario.
Con Andrea Gilli infine esploreremo aspetti legati all'ambito militare, con particolare attenzione alla guerra di invasione che la Russia inizio nell'Ucraina post-Maidan, nel 2014 in Donbas e in Crimea e nel 2022 su larga scala.
Non mancate!
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“Questa settimana ho ricevuto in maniera del tutto inaspettata un encomio dalle autorità ucraine. Tempo fa, in seguito ad alcune attività personali, che avevo seguito insieme ad Oxana Polataitchouk del consolato onorario di Ucraina di Firenze, ormai da tempo amica e "socia" mi chiesero, se avessero voluto ringraziare qualcuno, a chi avrebbero dovuto intestare il tutto. Io decisi che fosse giusto intestare il ringraziamento a Liberi, Oltre le Illusioni. L'ho fatto perché se ho avuto l'opportunità di conoscere persone meravigliose della comunità ucraina è grazie a Liberi Oltre, perché le decine di persone che quotidianamente lavorano nella redazione ucraina, supportano la causa tanto, se non più di quanto faccia io. L'ho fatto perché, nella mia visione, se il risultato di uno, diventa un traguardo per tutti, la magnitudo di quel risultato cresce esponenzialmente, ed è il gruppo a diventare più forte, non il singolo.
Questo riconoscimento, impagabile, di cui sono infinitamente onorato, è per me non un punto d'arrivo, bensì un corroborante incentivo a fare ancora di più, sperando che sia anche un modesto incoraggiamento per chiunque supporti la causa ucraina a fare altrettanto. “ (Afferma Stefano su un suo post su Instagram)
Sebbene tali azioni non siano rivolte contro di noi riteniamo doveroso rispondere punto su punto alle questioni sollevate da Cambiare Rotta in ragione dell’amore per la verità storica e contro la propaganda negazionista.
1) Quanto alla presenza di Oles Horodetskyy si contesta la sua vicinanza a partiti di estrema destra come Svoboda e Pravy Sektor. Posto che le simpatie politiche individuali sono un fatto personale su cui non sta a noi o ad altri, al di fuori dell’interessato, commentare, da quello che sappiamo Horodetsky è presidente dell’Associazione Cristiani Ucraini di Roma e la sua unica affiliazione politica è con i Radicali Italiani. Accusare i Radicali Italiani di simpatie banderiste è surreale.
Fonti:
- What is Azov Regiment? Honest answers to the most common questions
- Oles Horodetskyy
2) Svoboda è un partito politico di estrema destra analogo a molti altri partiti nazional-conservatori e/o etno-nazionalisti europei. Possono non piacere, ma esistono e, al contrario che in Ucraina, in diversi paesi europei siedono in colazioni di governo. Svoboda esiste dal 1995, ha avuto il suo massimo consenso nel 2010 (10%) ed è in declino politico dal 2014. Ad oggi ha un seggio (1!) in parlamento e grazie ad un collegio uninominale, visto che alle ultime elezioni parlamentari, nel 2019, ha ottenuto il 2.15%. Pravyj Sektor è una confederazione che raccoglie diversi movimenti frange di estrema destra. Ha avuto un certo risalto mediatico tra il 2013 e il 2016, quando ha iniziato a sfaldarsi e perdere di rilevanza. I suoi tentativi di convertire l’esposizione mediatica in successo politico sono sempre stato fallimentari: quando si sono presentati alle elezioni hanno preso lo 0.7% e l’1.8%.
Fonti:
- Understanding Contemporary Ukrainian and Russian Nationalism
- Western Ukraine under Polish rule
- The Causes of Ukrainian-Polish Ethnic Cleansing 1943
3) Cambiare Rotta afferma che lo Holodomor fu ‘inventato di sana pianta negli anni '80 da Robert Conquest. Nulla di più falso.
Il termine Holodomor risale a più di mezzo secolo prima della pubblicazione del libro di Conquest. Nonostante la censura sovietica, lo Holodomor fu descritto da giornalisti quali Gareth Jones, Malcom Muggeridge, Ewald Ammende, e Rhea Clyman, nonché nella corrispondenza del consolato italiano a Kharkiv. Nel 1933, la femminista ucraina Milena Rudnytska testimoniò sullo Holodomor davanti alla Società delle Nazioni e alla Camera dei Comuni. Rafael Lemkin, che nel 1943-1944 coniò il termine ‘genocidio’, si riferiva allo Holodomor come un ‘classico esempio di genocidio sovietico’.
‘Raccolto di Dolore’ fu pubblicato nel 1986 e per forza di cose con un accesso alle fonti molto limitato e contribuì ad iniziare un dibattito storiografico su un tema prima trascurato e che nei decenni successivi è stato trattato da altri e in maniera più puntuale ed esaustiva.
Ad oggi nessun accademico di qualche serietà nega lo Holodomor e il fatto almeno 3.9 milioni di ucraini morirono di fame tra il 1932-1933. Nessuno nega che le cause di questa carestie furono la somma di condizioni meteorologiche ostili, scellerate scelte politiche sovietiche (collettivizzazione etc.), e che le misure repressive nei confronti dei contadini inflissero ancora più morte e sofferenza sulla popolazione ucraina.
Esiste semmai un dibattito accademico sulla misura in cui i fattori di cui sopra contribuirono alla mortalità e sul grado di intenzionalità nel colpire la popolazione ucraina in quanto tale. In altre parole: fu la carestia interamente pianificata dal regime staliniano come piano per sterminare la popolazione ucraina? Fu essa l’effetto involontario di politiche economiche disastrose le cui conseguenze furono per scelta dirette da Stalin contro una nazionalità, quella ucraina, percepita come nemica? O fu la morte di milioni di ucraini semplicemente considerata da Stalin come un danno collaterale necessario?
È possibile definire lo Holodomor come genocidio secondo la definizione delle Nazioni Unite?
Queste sono domande che è legittimo farsi e su cui è importante discutere. Cambiare Rotta invece si spende nel più banale e ridicolo negazionismo. Rimandiamo Cambiare Rotta alla lettura di Andrea Graziosi, Timothy Snyder, Raphael Lemkin, David Marples, Norman Naimark, etc. Infine, in ordine alla russofobia, anche i media indipendenti russi riconoscono lo Holodomor citando come tesi più completa quella del nostro prof. Graziosi. Russofobi anche i russi?
Fonti:
- L'Urss di Lenin e Stalin
- Lettere da Kharkov. La carestia in Ucraina e nel Caucaso del nord nei rapporti diplomatici italiani 1923-33
- Shcherbytsky says famine was a result of collectivization of Soviet agriculture
- Holodomor 1932 - 1933 as genocide: gaps in the evidence base
- The Ukrainian Famine of 1932-1933 and the UN Convention on Genocide
- No. 46 THE UKRAINIAN WEEKLY SUNDAY, NOVEMBER 16, 2003
Liberi Oltre è intimamente antifascista e da sempre vicina all’Ucraina e in questa, come in altre questioni, ritiene importante ribadire che l’Università deve restare quel luogo nel quale ricercare e sviluppare la conoscenza e nel quale ciascuno deve essere libero di farlo partendo da ogni punto di vista, senza intimidazioni, paure o condizionamenti
Il Direttivo di Liberi, Oltre le Illusioni
Video Liberi Oltre su Holodomor:
- Holodomor: la carestia sovietica in Ucraina. Con Andrea Graziosi
- Holodomor in Ucraina: storia di un genocidio
Foto utilizzata: Holodomor Remembrance Day 2019 in Kyiv. Autore: President.gov.ua. CC BY 4.0 DEED
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Di fatto, i dieci anni di Euromaidan marcano anche dieci anni di guerra con la Russia.
La propaganda russa descrive la Rivoluzione del 2014 come "un golpe" dell'estrema destra orchestrato dagli Stati Uniti, che ha costretto la Russia a intervenire prima in Crimea e poi in Donbas a protezione dei "russofoni".
Capire cosa fu davvero Euromaidan per l'Ucraina è cruciale per capire il contesto della guerra oggi e la posizione degli ucraini sulle "proposte di pace" attuali.
Ucraina: perché ricordare #Euromaidan. Dalla Rivoluzione del 2014 all'invasione russa del 2022
In questo video parliamo di Euromaidan con la ricercatrice Jaroslava Barbieri.
La comunità scientifica ha sviluppato metriche specifiche per quantificare l'impatto di questi gas serra, spesso viene usato il CO2 equivalente che misura l'effetto sul riscaldamento globale di un determinato gas serra rispetto alla stessa quantità di anidride carbonica (CO2).
La metrica più comunemente utilizzata per quantificare le emissioni di gas serra è nota come GWP100. Questa metrica considera il GWP dei gas serra nell'arco di 100 anni. Ad esempio, il metano ha un GWP di 34 che significa che una tonnellata di metano equivale a una tonnellata di gas serra. Ciò significa che 1 tonnellata di metano equivale a 34 tonnellate di CO2 e quindi cattura più calore per molecola rispetto alla CO2.
Secondo le ultime evidenze scientifiche gli inquinanti possono essere anche suddivisi in due categorie principali: quelli con una vita breve e quelli con una vita lunga. Tra i primi troviamo la fuliggine, il particolato PM2.5 e il metano, mentre tra i secondi figurano la CO2 e il biossido di azoto. La CO2, un gas a lunga vita, impiega centinaia di anni per decomporsi nell'atmosfera e, di conseguenza, si accumula nell'atmosfera..
Recentemente è stato introdotto un nuovo metodo più puntuale di misurare il carbonio nell'atmosfera, prendendo in considerazione la rimozione di gas a vita breve dall'atmosfera, il GWP*. Tale metodo permette di rendicontare le emissioni equivalenti al riscaldamento catturando gli impatti contrastanti degli inquinanti climatici a vita lunga e breve.
Secondo le evidenze scientifiche, l'adozione di buone pratiche agricole agro-ecologiche e di allevamento rappresentano uno strumento essenziale per la mitigazione delle emissioni. In tal modo, l'agricoltura si configura come parte integrante della soluzione ai problemi ambientali.
]]>L'acquacoltura è l'insieme delle attività umane, distinte dalla pesca, praticate per la produzione controllata di organismi acquatici. L'acquacoltura può essere anche definita come coltivazione dell'acqua salata, salmastra o dolce finalizzata alla raccolta di pesci, molluschi, crostacei e alghe. Questo settore è estremamente ampio e abbraccia molteplici aspetti, dalla produzione di pesci all'alimentazione dei pesci e alla trasformazione dei prodotti primari.
Un elemento chiave nell'acquacoltura è la ittiopatologia, che è lo studio delle malattie degli organismi acquatici. Queste malattie possono avere differenti cause anche legate all'ambiente circostante. L’ittiopatologia si interfaccia con la sorveglianza, monitoraggio e controllo degli agenti patogeni e con la distribuzione e frequenza delle malattie richiedendo un approccio integrato che combina conoscenze biologiche, economiche e ingegneristiche. Ad esempio, è importante comprendere i mercati, la biologia dei pesci e anche l'ingegneria dei sistemi di flusso d'acqua.
Il concetto di "One Health" è particolarmente rilevante quando si tratta di allevare organismi acquatici. I molluschi per esempio essendo organismi filtratori, prendono tutto ciò che l'ambiente circostante offre e sono quindi parte di un ecosistema che contribuisce al mantenimento della biodiversità.
“ho visto episodi analoghi (al presunto bombardamento dell’ospedale Al Ahli di Gaza City), a Sarajevo fu bombardato due volte il mercato; ci furono dozzine di morti una volta altre dozzine di morti l’altra volta; fu attribuito ai serbi, alcuni anni dopo si scoprì, dopo lunghissime indagini, che questi bombardamenti erano stati fatti dalle milizie bosniache”.
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In questo articolo, esploreremo in profondità le complesse implicazioni di questo fenomeno, analizzando il ruolo della classe dirigente, la necessità di dati accurati e le possibili soluzioni per proteggere il nostro patrimonio comune.
Uno dei punti cruciali da considerare è l’overtourism, definito come "l'impatto del turismo su una destinazione, o parti di essa, che influenza eccessivamente e in modo negativo la qualità della vita percepita dai cittadini e/o la qualità delle esperienze dei visitatori". Questo fenomeno richiede pertanto non solo un'analisi approfondita ma una regolamentazione adeguata e stringente.
Innanzitutto sarebbe fondamentale avere dati reali. Al momento attuale infatti il settore è travolto da una immensa mole di dati che sono però restituiti ad usum delphini, oppure sono dati storicizzati, che servono ad analizzare il passato ma poco utili per intervenire sul presente. L'attuale modello di analisi dell'andamento turistico si basa principalmente sul conteggio dei flussi di passeggeri aerei, autostradali e sulla raccolta delle registrazioni negli hotel e bed&breakfast. Il dato del fatturato però non può essere utilizzato come indicatore affidabile, in quanto questo settore è spesso vittima dell'evasione fiscale.
Inoltre i dati quantitativi annunciati in maniera roboante sui media, non considerano mai i parametri qualitativi nè la capacità di carico , cioè i costi che i numeri comportano e il loro impatto sulla popolazione locale e sui luoghi.
Ad esempio, i profitti delle attività di bar e ristoranti sono anche dovuti ai contesti in cui si trovano: centri storici , piazze, monumenti , paesaggi, il cui costo di manutenzione grava sull’intera cittadinanza. Così come i costi della raccolta e smaltimento dei rifiuti, dell’’erosione delle strade.
La richiesta sempre più pressante di affitti brevi sta portando il fenomeno della gentrificazione a livelli mai visti in precedenza. I ricavi dalle locazioni brevi sono molto più convenienti per i proprietari di appartamento e di conseguenza il mercato di riferimento diventa la trasformazione degli appartamenti in case vacanza mentre gli affitti a medio e lungo termine diventano inaccessibili.
Questa tendenza spinge i residenti a spostarsi sempre più lontano dai centri storici, mentre le città si trasformano in hotel diffusi con lavoratori a basso costo per i servizi collaterali (lavanderie, check in, pulizie, ecc...). È il paradosso del turismo: quando i luoghi diventano desiderabili vengono travolti dalle masse che vogliono vivere quell’esperienza e di conseguenza ne deprimono l’attrattività.
Quindi ciò che aveva un valore accresciuto dalla domanda, diventa una bolla che scoppia, con le conseguenze tragiche che abbiamo potuto vedere in altri Paesi .
Inoltre il turismo come “monocoltura” inzia ad essere un problema per il territorio, come succede ad esempio in Toscana. Secondo i dati dell'IRPET, vi è un impoverimento progressivo dato dal lavoro a bassa specializzazione e dai bassi salari, spesso peraltro erogati al nero .
Secondo l'opinione del professor Boldrin, si invoca invano il libero mercato nell'ambito del turismo, poiché si tratta sempre di fattori non riproducibili, a differenza di oggetti come telefoni cellulari, automobili, ecc., che nel corso degli anni contribuiscono a una riduzione del prezzo di tali beni riproducibili.
Molti Paesi stanno cercando di mettere un freno al fenomeno con provvedimenti anche estremi, ad esempio la città di Amsterdam sta adottando misure attive per scoraggiare i visitatori e così sta facendo Barcellona, anche a seguito delle manifestazioni di protesta dei residenti che hanno portato i governi e la politica a emanare ordinanze di calmieramento.
Le soluzioni sarebbero chiare ma radicali: si potrebbe optare per una tassazione più incisiva sulle attività turistiche, aumentando così il costo e rendendolo accessibile a una cerchia più ristretta. L'alternativa è l'ipotesi di statalizzare l'intero settore, limitando l'accesso e assegnando tramite asta la gestione dei servizi. Tuttavia, è improbabile che la classe politica adotti queste soluzioni, dato che preferisce rimandare sempre le decisioni impopolari. Purtroppo i cittadini che subiscono le esternalità negative dell’ overtourism quasi mai riescono ad organizzarsi e a fare lobbying, mentre gli operatori privati che traggono beneficio dall'attività turistica rappresentano gruppi di pressione.
Il Ministero del Turismo, che nel nostro Paese sconta il doversi confrontare con le Regioni, che per il Titolo V della Costituzione hanno la delega sulla materia, anziché operare per controllare il problema , persevera in campagne pubblicitarie di attrazione del turista, creando un mismatch fra percezione e realtà. Le Regioni a loro volta promuovono se stesse senza un coordinamento a livello nazionale, con notevoli sprechi di risorse.
È giunto il momento di porsi una domanda fondamentale: quale eredità vogliamo lasciare alle future generazioni, una terra depauperata o una nazione che sa tutelare e valorizzare il proprio patrimonio comune?
Sinossi a cura di: Harry Shergill e Ernesto Vinci
Per iniziare è bene definire cosa sia questo spread di cui si sente parlare periodicamente da almeno una dozzina di anni.
Nel campo finanziario, il termine "spread" rappresenta una differenza tra i rendimenti o i tassi di interesse di due strumenti finanziari. Questa differenza costituisce un indicatore prezioso per gli investitori. Ad esempio, prendendo in considerazione due obbligazioni con identiche caratteristiche (come scadenza, tipo di tasso, valuta, ecc.), ma emesse da entità diverse, lo "spread" riflette la diversa capacità di tali entità di rimborsare i fondi presi in prestito o, meglio, la valutazione degli investitori su questa capacità nel corso del tempo. Di conseguenza, lo "spread" rappresenta una misura del rischio aggiuntivo assunto dagli investitori quando optano per l'obbligazione con il rendimento più elevato.
]]>La guerra lampo che sta riportando, dopo decenni, il Nagorno-Karabakh sotto il controllo azero potrà sembrare totalmente imprevista all'osservatore occidentale. Ma era ampiamente prevedibile da chi ha familiarità con questo curioso ma sanguinoso conflitto. Se la situazione odierna ha sicuramente origine nel trauma del genocidio armeno del 1915-1917 è pur vero che la guerra di oggi è il risultato della guerra del 1988-1994 che ebbe origine addirittura prima della caduta dell'URSS e si risolse con una grande vittoria armena
]]>2) Nuove tasse
La tassa sugli extraprofitti è semplicemente demenziale. Lo dicono gli operatori finanziari, lo dice la BCE e lo dice il buon senso. Come altre misure da strilloni (lotta all’evasione, colpire la speculazione, abolire la povertà) serve giusto il tempo che i quotidiani vi dedichino la prima pagina: il problema resta lì e con esso il principio di realtà.
3) Immigrazione
Il governo che prometteva il blocco navale e le frontiere ripulite si trova ad affrontare la più grande ondata migratoria dai tempi della nave Vlora carica di albanesi nel 1991. Salvini, il più incompetente ministro che si sia mai visto sul globo terracqueo, dà la colpa a un misterioso complotto contro il governo italiano da parte di quelli che questo governo lo temevano. Erano ad esempio terrorizzati da questo governo l’uragano Daniel e le placche tettoniche africana ed euroasiatica che si sono scontrate generando un devastante terremoto in Marocco.
Morale: lungi dall’affrontare un fenomeno inarrestabile e millenario con la cooperazione europea, la destra di governo, che ha sempre evitato di partecipare ai vertici per il superamento del Trattato di Dublino, è rimasta sola.
Intanto la situazione a Lampedusa è disperata.
4) Il rapporti diplomatici con la Commissione
Dai banchi dei ministri si attacca il commissario Gentiloni perché fa bene il suo lavoro e non fa favori all’Italia. E’ il frutto di una mentalità parassitaria e provinciale in cui si aspetta il favore dell’amico dell’amico per sistemare con l’inganno ciò che non si può sistemare con la competenza.
Ieri Ursula Von Del Leyen ha annunciato il ritorno con un ruolo istituzionale di Mario Draghi. Subito Giorgia Meloni si è fatta avanti con la mano elemosinante protesa: “ci tratterà con riguardo”. Fra poco il governo dovrà concordare con la Commissione il Draft Budgetary Plan che anticiperà la Legge di Bilancio. Attaccare un commissario alla vigilia di un esame ha un che di romantico.
5) L’inflazione
La squadra di Giorgia Meloni, per lo più composta da parenti e affini, è riuscita pure ad attaccare la Banca Centrale Europea per una delle poche decisioni sensate che si sono viste negli ultimi anni, e cioè l’aumento dei tassi d’interesse per contenere e ridurre l’inflazione. Poi, quando l’inflazione ha iniziato a scendere, se ne è assunta inopinatamente il merito.
6) La schiavitù da propaganda
Siamo gli unici in Unione che si ostinano a non ratificare il MES sui salvataggi bancari. Neanche loro sanno perché non ratificare il MES che darebbe un po’ di sollievo ad un sistema interbancario esposto all’andamento del ciclo economico. Ma l’autoschiavismo delle promesse insensate val bene un suicidio: la coerenza!
7) Le regole fiscali
Il nuovo Patto di Stabilità proposto dalla Commissione non decolla esposto allo sciocco ricatto meloniano “volete il PSC, cancellate il MES”. Quando il 31 dicembre arriverà varranno le vecchie regole del Fiscal Compact. Un caro amico di Liberi Oltre qualche anno fa descrisse così la situazione: “fate come vi dico o mi faccio esplodere”.
8) Il PNRR
II PNRR non procede. Gli investimenti, la parte core del NGEU sono fermi. La rata di giugno è stata ottenuta con un taglio e una ridefinizione del piano ma ci sono 103 fra milestones ed obiettivi da raggiungere per fine anno.
9) Le dismissioni
La vendita di ITA, dopo decenni di mala gestio di Alitalia e 14 miliardi dei contribuenti volatilizzati, si è arenata perché il governo non "ha capito" le domande della Commissione. Comico.
10) La congiuntura
Il ciclo economico rallenta, l'economia cresce dello 0 virgola, la Germania da cui dipende buona parte della nostra industria manifatturiera è in recessione. Le già scarse risorse con questa congiuntura rischiano di diventare scarsissime.
Le cose fatte
Però il governo ha mostrato reattività e prontezza di spirito quando ha affrontato i pericoli alla convivenza civile e alla tenuta dell’ordine costituito rappresentati dai rave party; ha organizzato un consiglio dei ministri a Cutro dopo la tragedia nel mar Ionio; non si è lasciato intimorire dalle richieste di aiuti dei sindaci romagnoli dopo le alluvioni di primavera.
Forse ingannata dal cap al prezzo del gas di draghiana memoria (era sbagliato anche quello come dimostrato dai fatti) ha inventato un cap al caro voli per le isole e agli algoritmi che adeguano i prezzi in base alla domanda.
Morale: Ryan Air annuncia un taglio dei voli creando scarsità e quindi aumento dei prezzi.
In tema di prezzi come non ricordare l’invenzione del prezzo medio dei carburanti esposto su tutta la rete stradale. Prima i gestori si facevano la guerra a suon di sconti e al limite i prezzi erano uniformi per microaree e strade provinciali; oggi sono uniformati verso l’alto a quelli praticati sulla rete autostradale.
In questo quadro sconfortante Meloni pensa bene di rinsaldare a colpi di sorrisi lascivi il suo rapporto con Orban preannunciando la difesa nientepocodimenoche di Dio. Salvini fa lingua in bocca con la plurisconfitta Marine Le Pen in vista delle europee.
Lo scopo è chiaro: compattare l’elettorato più becero in contrapposizione ai risultati disastrosi del governo.
Ieri Luigi Marattin ha fatto alla camera un magnifico intervento. L’unica cosa con cui sono in disaccordo è il passaggio in cui descrive gli italiani come un popolo di non scemi. Mi spiace, forse non sono scemi ma neanche tanto intelligenti. Se fossero intelligenti non ci sarebbero questi qui a governare.
]]>Il successo (inatteso) di questi contributi, mi ha spinto a credere che possa risultare di interesse un testo in italiano che provi a far chiarezza sulla proposta e in particolare sul perché andrebbe abbandonata dal governo. Concludo con una proposta semplificata che ritengo potrebbe andare nella direzione voluta dalla “buone intenzioni” menzionate, senza effetti dirompenti sul sistema finanziario del paese.
Nell’idea che alcuni debitori insolventi possano liberarsi dell’obbligo di ripagare i propri crediti versando un importo fissato dallo stato. Il beneficio è limitato solamente ai casi in cui il creditore originario abbia riconosciuto l’insolvenza in un certo intervallo temporale ed abbia poi venduto il credito ad un soggetto terzo. Vediamolo con un esempio.
Anna e Marco sono due gemelli, entrambi hanno ricevuto da Banca Cattiva un prestito per 100mila euro ciascuno. Supponiamo che nell’intervallo di tempo previsto dalla nuova proposta di legge, Banca Cattiva riconosca la loro insolvenza: questo significa che la banca ritiene che non saranno in grado di restituire del tutto i soldi che hanno preso in prestito. Per continuare ad operare nell’interesse dei propri clienti e azionisti, Banca Cattiva ha la necessità di provare a recuperare almeno in parte i crediti verso i debitori insolventi. Può farlo chiamandoli al telefono per proporgli una transazione (non recupero tutto, ma incasso qualcosa), avviando azioni legali per pignorargli lo stipendio o la casa (questo avviene quando i debitori dispongono di redditi o beni aggredibili), oppure vendendo il credito a terzi investitori.
Supponiamo che Banca Cattiva decida di recuperare i crediti verso entrambi con una esecuzione immobiliare: il giudice ordinerà la vendita delle 2 case che garantiscono i due crediti e disporrà che il ricavato sia utilizzato per ripagare i creditori. Supponiamo poi che Banca cattiva venda solo il credito nei confronti di Marco e lo faccia per 30mila euro pagati da un terzo che chiamiamo per comodità Investitore Perfido.
La nuova proposta dice che Marco può cavarsela pagando 36mila euro a Investitore Perfido, che sarà obbligato ad accettare questo importo a fronte di un credito da 100mila che ha legalmente acquistato. Anna dovrà invece ripagare 100mila euro a Banca Cattiva perché il suo credito non è stato ceduto. Nel sistema giuridico italiano, che non prevede forme di fallimento individuale, se dalla vendita della casa di Anna, si dovessero ricavare solo 80mila euro (trascuriamo per il momento interessi e spese), Anna resterà debitrice dei 20mila euro che non ha restituito, anche se non le resta altro per poter pagare. Se Banca Cattiva avrà cura di interrompere il decorso della prescrizione chiedendo a Anna di pagare quello che manca, Anna resterà debitrice finché rimane in vita o non trova un qualche accordo con Banca Cattiva.
Gli estensori della proposta raccontano di voler aiutare Marco, ma di fatto finirebbero per discriminare Anna, perché in realtà hanno scritto una norma per punire Investitore Perfido. Pensano che sia immorale che vengano realizzati guadagni ingenti a spese dei debitori e anche delle banche, che hanno venduto in un momento storico in cui era in difficoltà (per questo motivo nella proposta c’è un intervallo temporale di riferimento).
Parecchie cose, proviamo a illustrare le principali in modo schematico:
1. Non è vero che Investitore Perfido faccia tanti soldi alle spalle dei poveri debitori e neanche che abbia approfittato del momento di difficoltà di banca cattiva
2. Non è giusto che Marco riceva un trattamento privilegiato rispetto a Anna e ancora meno che il costo di questo privilegio sia pagato, oltre che nell’immediato da Investitore Perfido, anche in prospettiva dai clienti non insolventi di Banca Cattiva
3. Visti gli interventi significativi dello stato nel mercato dei crediti deteriorati (e in generale la tendenza dello stato a sostenere le banche in difficoltà) una proposta di questo genere produrrebbe degli oneri anche per i contribuenti.
Perché il racconto semplificato degli estensori della proposta, nel quale chi opera in questo settore compra un credito che vale 100, lo paga forse 30 (se è garantito da immobili) e poi ne incassa magari 70 o 80 è falso e fuorviante.
Investitore Perfido NON consegue guadagni esorbitanti o immorali (qualsiasi cosa con questo si voglia intendere) perché:
1. Opera in un contesto competitivo caratterizzato da operatori professionali altamente specializzati, nel quale è molto improbabile realizzare extraprofitti (che sono una cosa diversa da quelli tassati alle banche)
2. Acquista attività finanziarie illiquide in un contesto di asimmetria informativa: chi gli vende i crediti li ha inizialmente concessi e li ha gestiti prima e durante il riconoscimento dell’insolvenza – al punto che la direttiva 2021/2167 ha introdotto degli obblighi di informazione nei confronti di chi acquista i crediti – il compratore che ne sa meno del venditore non può imbrogliarlo
3. Sostiene una serie di costi erode il margine teorico che gli estensori della vorrebbero “punire”.
A titolo esemplificativo:
– Il servicer che recupera i credito trattiene una percentuale sul recuperato che varia dal 6-7% per i crediti ipotecari al 15-20% per i crediti non garantiti
– promuovere un azione legale ha costi che incidono maggiormente sui crediti più piccoli, un’azione esecutiva per recuperare 100mila euro può avere costi (incluso il compenso del CTU) anche nell’ordine di 15mila euro
– chi compra un credito deve pagare consulenti, legali e tecnici che facciano una stima di quanto si potrà recuperare, formulino una proposta che tuteli l’acquirente e negozino un contratto di cessione con il venditore
– I soggetti che che possono comprare i crediti sono SRL di un tipo particolare previsto dalla legge 130/99 oppure intermediari iscritti all’albo bankit ex art 106 TUB usare questi strumenti ha un costo iniziale e costi ricorrenti di mantenimento
– spesso gli acquisti dei crediti avvengono mediante strutture di cartolarizzazione che richiedono il coinvolgimento di altri soggetti (arranger, master servicer, agenzie di Rating) che hanno un costo
In parole povere Investitore Perfido ottiene dai suoi investimenti un rendimento più o meno simile a quello di altre attività comparabili e qualche volta anche inferiore (se nella valutazione si tiene conto in modo corretto dei rischi affrontati), a giudicare dagli operatori che hanno provato a entrare nel mercato italiano e poi ne sono usciti, evidentemente insoddisfatti.
Perché i debitori insolventi sono una categoria molto vasta costituita in larga maggioranza da soggetti che non possono permettersi di pagare neanche l’importo fissato dalla legge. Il sottoinsieme individuato dalla proposta è arbitrario (come provato dall’esempio di Anna e Marco), per nulla rappresentativo della categoria e si determina solo in virtù della volontà di punire chi ha acquistato i crediti. Come spiegato nel paragrafo precedente anche questa volontà di punizione è arbitraria e male indirizzata, perché si rivolge ad operazioni che si svolgono in paesi con una elevata tutela dei consumatori e coinvolgono operatori vigilati.
Perché in Italia le difficoltà attraversate dagli istituti di credito sono sempre state risolte storicamente o con l’intervento di altri istituti più solidi (spesso sotto la regia della banca centrale o del governo) oppure dello stato (in varie forme ed eventualmente con una liquidazione ordinata parziale o totale). La vendita di crediti non performing rientra tra le attività ordinarie con le quali una banca si libera di alcune attività considerate NON CORE.
La missione principale di una banca è concedere crediti e raccogliere depositi. Gestire e recuperare crediti problematici è un lavoro diverso, specifico e gli istituti che non trovano conveniente farlo in casa (bisogna assumere persone che sappiano farlo, monitorare che lo facciano bene etc) scelgono in modo razionale di affidare il recupero ad operatori specializzati oppure di cedere a terzi investitori. Ciascuna delle alternative possibili ha costi e benefici.
Le banche che hanno ceduto i propri crediti deteriorati hanno semplicemente valutato che gli conveniva farlo e non è pensabile che in operazioni tanto strutturate e vigilate qualcuno abbia approfittato di qualcun altro.
Perché la quantità di credito che le banche concedono e i tassi che applicano è influenzata dall’ambiente in cui operano e dai rischi ai quali le banche sono esposte. L’esistenza di una legge che consente ad alcuni debitori di avere “uno sconto” fa aumentare la probabilità che tutti i debitori non paghino. Se è più probabile che la gente non paghi è più rischioso concedere finanziamenti dunque le banche presteranno di meno e a tassi più elevati.
Inoltre la punizione eventualmente accordata a Investitore Perfido scoraggerà tutti gli altri dall’acquistare crediti e in ogni caso spingerà i prezzi dei crediti a un livello inferiore al limite fissato per legge. Se è meno conveniente per le banche vendere i crediti e più difficile trovare chi li compra, si renderanno necessarie meggiori cautele in sede di erogazione che vuol dire, ancora meno credito e ancora tassi più alti.
La punizione ipotizzata chi investe in NPL e il vantaggio arbitrariamente accordato ad alcuni debitori insolventi avrebbe l’effetto di modificare il sistema in cui operano le banche inducendole a concedere meno credito a tassi più elevati penalizzando in ultima istanza i clienti non insolventi.
Perché tra i soggetti che hanno acquistato NPL sono presenti rilevanti interessi dello stato e delle stesse banche cedenti. Una quantità di crediti ceduti che vale circa un terzo del totale è costituita da crediti riferibili ad operazioni di cartolarizzazione assistite da GACS (Garanzia sulla Cartolarizzazione Sofferenze).
Il discorso potrebbe sembrare complicato, ma per farla breve si può dire che lo stato per aiutare le banche a vendere meglio i propri crediti deteriorati (che vuol dire a un prezzo più alto di quello che pagano gli investitori cattivi) ha concesso delle garanzie che comportano un esborso nel caso di recuperi sui crediti venduti inferiori a quanto previsto al momento della vendita.
Dunque, se la proposta fosse applicabile ai crediti ceduti nelle operazioni garantite dallo stato è molto probabile che, la riduzione degli importi recuperati sui crediti comporterebbe l’escussione delle garanzie verso lo stato con conseguente esborso per i contribuenti.
Oltre alla concessione di garanzie sulle cartolarizzazioni, lo stato italiano interviene nel mercato dei crediti deteriorati mediante società direttamente controllate (per esempio AMCO) e per il contributo diretto e indiretto nel salvataggio di banche in difficoltà (Cfr MPS e simili).
Perché gli operatori dei mercati finanziari definiscono le proprie strategie di investimento sulla base delle aspettative in merito a quello che può accadere in futuro e non attendono che le leggi siano varate. Se dico pubblicamente che farò una legge che punisce chi investe in Italia, chi pensava di farlo nel dubbio si astiene.
Le banche che operano nel nostro paese devono valutare costantemente i rischi a cui vanno incontro: l’incertezza che una legge del genere possa essere emanata è di per sé un rischio.
Ne consegue che una parte del danno collegato a questa proposta si è già realizzato per il solo fatto di averne parlato.
Di sostituire la proposta in circolazione con un provvedimento, che non abbia conseguenze tanto evidenti in termini, non solo di distorsione del mercato, ma anche e soprattutto di ingiusto vantaggio accordato ad una minoranza di soggetti selezionata in modo arbitrario e a spese della collettività.
Un modo per dare una mano ai debitori insolventi potrebbe essere introdurre nel nostro ordinamento giuridico una forma di fallimento per le persone fisiche. Alcuni passi in questa direzione sono già stati compiuti con la disciplina del sovraindebitamento, si potrebbe continuare su questa direttrice usando come modello la disciplina del fallimento individuale che esiste ad esempio negli Stati Uniti. A questo link la sintesi che ne fa Investopedia
– ci sono argomenti concreti per sostenere che l’introduzione della misura proposta costituirebbe un danno per la collettività
– il mero fatto che una ipotesi del genere sia in discussione costituisce un disincentivo a investire nel nostro paese e un motivo per restringere l’offerta di credito da parte delle banche italiane
– la buona intenzione di aiutare i debitori insolventi potrebbe essere perseguita in modo molto meno distorsivo con l’introduzione di una disciplina del fallimento individuale nel nostro sistema giuridico
– i guadagni ingiusti e immorali che la norma vorrebbe colpire non esistono e il tentativo di punirli avrebbe un costo rilevante per le banche, lo stato e, in ultima istanza, i contribuenti.
Articolo pubblicato su Econopoly (ilsole24ore)
]]>L’articolo ha sollevato un vero e proprio caso negli Stati Uniti e nel mondo occidentale, perché affronta un argomento che progressivamente sta diventando taboo: la guerra ideologica contro concetti biologici che riguardano la natura umana. A differenza delle classiche battaglie antiscientifiche contro la teoria dell’evoluzione fatte dalla destra reazionaria, questa guerra è combattuta principalmente dalla sinistra radicale, in nome di nobili principi egualitari (molto) male intesi. La provenienza da sinistra rende più pericolosa questa offensiva ideologica, poiché la comunità scientifica è in genere orientata su posizioni liberal ed è quindi particolarmente a disagio di fronte ad accuse di proporre ipotesi biologiche (molto solide sperimentalmente, peraltro) in contrasto con i principi vessillo della sinistra politica.
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Non è molto sorprendente venire a sapere che lo stato controlli il 60% del Pil.
]]>L'educazione artistica e musicale sono presenti nei programmi scolastici, ma perché l'educazione finanziaria dovrebbe essere considerata un tabù?
Una delle ragioni potrebbe essere il carattere culturale del paese. In Italia, parlare di arricchimento o di denaro è eticamente considerato sconveniente, probabilmente a causa delle profonde radici della cultura cattolica. Anche all'interno delle famiglie, l'argomento del denaro è raramente discusso.
Il risultato di questa mancanza di educazione finanziaria è che molti giovani italiani acquisiscono autonomia finanziaria tardi. Molti continuano a dipendere dalle finanze familiari e dalle decisioni economiche della famiglia fino a quando non si spostano da casa, spesso a un'età avanzata.
Biologico (organic in inglese) è detto un prodotto agropastorale ottenuto osservando un disciplinare europeo che è stato scritto e riscritto negli anni, a partire da circa 30 anni fa e poi mano a mano aggiornato. Si tratta di una certificazione del processo produttivo, non di qualità del prodotto. Disciplina gli aspetti commerciali, non quelli sanitari.
L'agricoltura biologica viene portata al giorno d’oggi su un vassoio d'argento dagli ambientalisti[1] nostrani, secondo i quali i metodi biologici non utilizzano sistemi “troppo violenti” (impattanti) per l’ambiente, con l’idea che agrofarmaci[2] o interventi meccanici tradizionali possano preservare flora e fauna autoctone, aumentando la biodiversità locale, consegnando dei prodotti più sani anche per la salute umana (in virtù di una presunta minore quantità di residui nei prodotti finali).
A questo si aggiunge anche l’idea secondo la quale le sementi geneticamente modificate (anch’esse vietate nel disciplinare biologico) siano pericolose per l’uomo e per la natura.
La propaganda sui prodotti biologici si basa sul mito dei “cari bei tempi andati”, quando tutto era naturale e quindi buono, e non ci si ammalava mai a causa del cibo. Anche se siamo ormai lontanissimi da quei concetti di agricoltura “vecchio stampo”, sentiamo rassicurante questa idea di un'agricoltura tranquilla, amichevole e il richiamo alle tradizioni.
Fare semplificazioni dipingendo un prodotto buono e uno cattivo risulta non solo irrealistico, ma anche controproducente e pericoloso.
Dal punto di vista economico la maggior parte dell’agricoltura tradizionale europea non sta in piedi: fare l'agricoltore non porta a un reddito economicamente sostenibile. Non è mai stata un’attività abbastanza redditizia. Basti dire che i Giubilei sono una invenzione ebraica, non cristiana e accadevano ogni 50 anni. Nello specifico serviva a riequilibrare il rapporto tra agricoltori (poveri) ed allevatori (piu’ facoltosi) che finivano per prendere in affitto tutte le terre coltivate rischiando di far mancare la produzione agricola: “Da un punto di vista giuridico, la legge del giubileo in effetti bandiva la vendita di terra come proprietà assoluta, mentre la terra poteva solo essere affittata per non più di 50 anni. La normativa biblica continua specificando che il prezzo della terra doveva essere proporzionale a quanti anni rimanevano prima del giubileo, diventando più conveniente man mano che l'anno giubilare si avvicinava.Come scala temporale parliamo quindi di millenni, da allora ottenere produzioni primarie redditizie è diventata una sfida difficilissima, soggetta a complicazioni di tutti i generi. Per favorire il reddito del singolo agricoltore ed agevolare l’economia locale, una volta i governanti, un’altra i produttori, hanno via via cercato di attribuire un fantomatico “valore aggiunto“ ai propri prodotti. La forma che si sono inventate alcune lobby tradizionaliste ed autarchiche all’interno dell’Unione Europea (con l’Italia in prima linea) è di farci illudere che comprando un prodotto “col bollino bio” mangeremo un cibo più sano, più pulito e più ecologicamente compatibile.
L'Unione Europea nasce, alla luce dei modelli eco logico/nomici calcolati dagli scienziati cooptati da Lenin, attorno al sostegno alla produzione primaria (agricoltura e pastorizia) e soprattutto con l’intento di evitare che ci siano scontri feroci tra le varie nazioni che, massimizzando le produzioni più “comode” per il proprio territorio, finirebbero per produrre in eccesso un certo prodotto, abbassandone così i prezzi.
Ad esempio, negli anni ‘70 la Germania produceva “troppo” latte bovino rispetto all’Italia (perché la loro geografia fisica era favorevole), loro hanno seguito le normative europee, noi abbiamo cercato di imbrogliare, ed il risultato sono state le proteste contro le quote latte[3] ed il movimento dei forconi[4]. Per quelle dicharazioni mendaci italiane (avevamo dichiarato di produrre la metà del latte che realmente producevamo illudendoci di pagare così la metà), l’Italia ha dovuto pagare le relative multe ossia subire mancati trasferimenti di fondi per 4,4 miliardi di euro.
Alla fine della seconda guerra mondiale l'efficienza delle produzioni spingeva verso una attività che fosse un'attività imprenditoriale, non un'attività da orticoltore dilettante della domenica che produce poco curando a mano il proprio campetto.
Oggi, per non essere schiavi delle illusioni, dovremmo comprendere che servono attività meccanizzate ed organizzate con mentalità industriale, in modo da abbassare i costi ed aumentare l'efficienza. Bisogna anche accettare che la GDO (Grande Distribuzione Organizzata) pretende di avere disponibili ogni giorno nel reparto ortofrutticolo tutti i tipi di prodotti, privi di imperfezioni, marcescenze o avvizzimenti.
Uno degli obiettivi fondamentali del settore primario di garantire ai consumatori di non avvelenarsi andando a fare la spesa, obiettivo già ampliamente garantito dall’ EFSA “autorità europea per la sicurezza alimentare”, un ente comunitario di valutazione del rischio in sicurezza alimentare e dei mangimi istituito dal regolamento CE n. 178/2002. Per gli anti-europeisti, ricordiamo che la sede è a Parma, e le regole più restrittive sono finora state proposte dall’Italia.
Analizzando secondo i metodi prescritti dall’EFSA due prodotti equivalenti, ad esempio due broccoli, uno proveniente da agricoltura biologica e uno da agricoltura tradizionale, noteremo che entrambi sono sicuri per la salute umana e che i residui di agrofarmaci sono sotto la soglia massima consentita. Questo perché in Europa c'è una straordinaria attenzione a controllare l'intera filiera per evitare di immettere nel mercato dei prodotti che possano avere dei residui pericolosi.
Nell’ambito della sicurezza alimentare, secondo l’Agenda 2030 dell’ONU, va affrontato anche l’argomento della marcescenza e degli sprechi alimentari. La marcescenza, termine tecnico per “andare a male”, è un fenomeno inevitabile e naturale. Se un prodotto X, a parità di tecniche di conservazione, non va a male velocemente quanto quello Y, vi possono essere solo tre spiegazioni: o è stato selezionato per l’assenza di malattie, o è stato trattato con fitofarmaci conservanti per impedirne la marcescenza, o è stato modificato geneticamente per avere una maggiore shelf-life[5].
Nel caso delle produzioni biologiche, i fitofarmaci permessi sono pochi e scarsamente efficaci, per garantire una shelf-life accettabile si deve quindi fare una forte selezione dei singoli ortaggi da portare sul mercato (leggasi: gettare quelli inadatti), e questo comporta un ulteriore spreco di risorse.
Sostenere che un prodotto biologico sia più sano di uno “senza bollino” è quindi una manovra di Marketing che punta a screditare gli avversari, cioè l’agricoltura tradizionale e quella 4.0.
Abbiamo detto che i residui di agrofarmaci sugli alimenti è controllato dall’EFSA. Vediamo quello su suolo, acqua ed animali (parleremo dell’aria nel capitolo sull’anidride carbonica). A tal fine, si monitorano queste variabili: la dose/ettaro necessaria per avere l’effetto desiderato; il numero di dosi da somministrare durante l’anno; se la sostanza rimane vicino alle piante su cui deve agire, o viene spostata dai fattori ambientali (per esempio dall’acqua inquinando le falde acquifere o dal vento contaminando le zone circostanti); dopo quanto tempo si degrada; se agisce solo sul proprio target o anche su altri organismi.
A meno che non si abbia una visione religiosa, la natura non ha mai pensato di tutelare noi (tant’è che i veleni più letali al mondo si trovano in natura), ed i cicli ecologici agiscono secondo le leggi naturali indipendentemente se l’agrofarmaco sia prodotto in laboratorio, prodotto da una pianta o estratto da una miniera. Basta ricordare che l’amianto, il petrolio o il curaro sono prodotti naturali.
Nelle discussioni generaliste ed imprecise svolte dai sostenitori del bio, quando una molecola si estrae da una pianta, viene descritta come biologica, quando invece la stessa identica molecole viene sintetizzata in laboratorio, la si descrive come chimica. Sappiamo tuttavia che anche l’acqua è una molecola chimica, e questo dovrebbe bastare per smontare la narrativa terroristica che ci opprime.
Parlando di agrofarmaci con effetto erbicida, pesticida ed anticrittogamico, la maggioranza delle molecole utilizzate sono contenute in piante o microorganismi, vengono detti tecnicamente allelopati[6]. Le piante sono organismi sessili, ossia non possono scappare o migrare verso lidi felici, e devono quindi difendersi dai parassiti e dalle altre piante nella competizione per le risorse locali, per questo tantissime sostanze (chimiche per definizione di “sostanza”, ma naturali secondo la definizione utilizzata nell’agricoltura biologica) vengono prodotte dalle piante esattamente con lo stesso scopo per cui l’uomo le produce in laboratorio.
Il 99,99% in peso di tutti i pesticidi esistenti al mondo sono pesticidi biologici ovvero naturali.
Svolgendo analisi chimiche sull’estratto “naturale”, questo contiene dozzine, se non centinaia, di altre molecole oltre a quella desiderata, che è invece l’unica rilevabile nel preparato sintetico. Semplificando: un estratto vegetale è sempre meno puro di un prodotto di sintesi, e quindi avrà più effetti collaterali dovuti alle impurità.
Se questo non bastasse, in agricoltura biologica sono ammessi anche prodotti di sintesi utilizzati fino ad un certo periodo storico (considerati come tradizionali, e quindi miracolosamente buoni), e vietati altri più nuovi, nonostante funzionino a bassi dosaggi e siano più biodegradabili. Questo senza parlare delle deroghe che consentono di usare quasi tutto dopo che i “rimedi” biologici hanno fallito.
Riguardo gli agrofarmaci fertilizzanti, in agricoltura biologica non si possono usare i moderni fertilizzanti sintetici a lento rilascio e soprattutto titolabili[7], ma si possono usare tutti gli scarti di macellazione: ossa, corna, zoccoli e sangue ridotti in farina tramite dispendiosi ed inquinanti processi di essiccazione, cottura e frantumazione. Alternativa, sempre biologica, agli scarti di macellazione sono i letami, ma vengono impiegati in piccole percentuali essendo molto più difficili da gestire. Al calcolo degli impatti di questi fertilizzanti andrebbe quindi sommato quello della pastorizia. Sempre poi considerando che non esiste una certificazione vincolante di scarto di macellazione o letame biologico e quindi dato che l’87,5% di tutti i mangimi circolanti in Italia contiene Ogm, indirettamente quei fertilizzanti derivano da mangimi Ogm.
Ad aggravare l’impatto su acqua, suolo ed organismi viventi dei prodotti antiquati permessi in biologico, si consideri che spesso hanno bisogno di dosaggi maggiori rispetto a quelli moderni per ottenere effetti comparabili. Inoltre in genere hanno una maggiore persistenza (non si biodegradano) sia negli ecosistemi che nei prodotti finali. Come ad esempio gli ossidi del rame (composto incredibilmente biologico) usati come fungicidi a dosi doppie rispetto a quanto necessario in un campo non bio.
Come già detto nell’introduzione, le sementi OGM non sono ammesse nell’agricoltura biologica (incomprensibilmente lo sono, in percentuali ben definite per legge, nella pastorizia e nella produzione di cibi a marchio bio).
Non esistono studi scientifici recenti secondo i quali gli organismi geneticamente modificati a fini agricoli possano danneggiare la salute umana. Esistono alcuni studi secondo i quali vi potrebbe essere un impatto negativo sulla vegetazione circostante qualora le piante OGM si incrociassero con quelle spontanee, ed il problema è risolvibile con piante modificate per produrre polline incompatibile con altre piante.
Alcuni tipi di OGM consistono in piante ingegnerizzate per la semina su sodo, ovvero il posizionamento dei semi in fessure del suolo evitando l’aratura. Senza aratura, inoltre, si evita di fare ossidare l’humus del suolo (e quindi si libera molta meno CO2 sequestrata nei suoli sotto forma di residui vegetali) e si evita di creare un ambiente prospero per le erbe infestanti (di conseguenza si useranno meno diserbanti). Non dovendo mettere in moto il trattore per arare, concimare e diserbare, verrà emessa meno CO2 e si utilizzeranno meno fitofarmaci.
Altri tipi di OGM producono per conto proprio allelopati che li proteggono da parassiti ed infestanti, rendendo inutile l’uso di pesticidi, erbicidi ed anticrittogamici. Nei vegetali OGM è possibile anche la soppressione dei geni che ne causano la marcescenza, aumentandone la shelf-life. Per questi prodotti si risparmierà quindi sia sui conservanti che sulla refrigerazione ed in generale sullo spreco di cibo.
Altri OGM ancora possono crescere in terreni poveri di nutrienti o inquinati, sopravvivere in zone con condizioni metereologiche siccitose o resistere alle gelate. Il limite per queste piante è quanto si investe nella ricerca scientifica.
Queste produzioni, ben più sostenibili di quelle biologiche, in Italia sono totalmente vietate, ma non è vietato importarne i prodotti.
Tutte le statistiche dicono che a parità di superficie coltivata, l’agricoltura biologica produce meno cibo di quella tradizionale (e di quella innovativa 4.0), e contemporaneamente ha maggiore impatto ambientale. Vediamo degli esempi.
Un articolo su Nature Communication del 2017 risponde alla domanda: cosa succederebbe se entro il 2050 tutta la produzione agricola diventasse biologica? Con i dati a loro disposizione hanno calcolato che sarebbe aumentato il consumo di suolo tra il 16 e il 33%, la deforestazione tra l’8 e il 15% le emissioni di gas serra tra l'8 e il 12%, il consumo d'acqua del 60%.
]]>10 novembre 2022
Al Ministro Fitto viene conferita la delega al PNRR
22 novembre 2022
Prima sorpresa (amara): le casse pubbliche son vuote, il prezzo del petrolio è in calo e allora il Governo decide di tagliare lo sconto sulle accise deciso qualche mese prima dal governo Draghi. Il panico si diffonde e al pari della mitologica partita Italia Inghilterra di fantozziana memoria (21-0 gol di testa anche di Zoff) cominciano a circolare voci di prezzi a 6 zeri. Accortisi di avere pestato un merdone, loro che nelle campagne elettorali dell'ultimo decennio avevano promesso di azzerare le accise, prima minacciano commissione d'inchiesta per individuare i prezzi praticati dai gestori quando basta aprire il sito del ministero dell'ambiente per scoprire i prezzi di tutte le stazioni di servizio sparse per l'italia, poi si inventano l'esposizione del prezzo medio.
Intanto proseguono fitti i lavori sulla Legge di Bilancio. Di solito arriva in ritardo in parlamento e le opposizioni lamentano di non poterla neanche leggere: solo che ieri a lamentarsi era la destra contro la sinistra, oggi viceversa. Infatti si teme l'esercizio provvisorio, scongiurato as usual il 30 dicembre con approvazione a scatola chiusa. C'è da dire che la LdB è molto più razionale di quanto si temesse. Ma c'è un motivo: si chiama principio di realtà.
1 dicembre 2022
Viene approvato l'aggiornamento del Piano di gestione del rischio alluvioni per l'Appennino settentrionale. Paradossale visto quello che poi è successo in primavera nelle Marche ed in Emilia Romagna
16 dicembre 2022
Attuazione della delega al Governo in materia di contratti pubblici. Dovrebbe aiutare l'implementazione del PNRR. Funzionerà?
28 dicembre 2022
Disposizioni urgenti per la gestione dei flussi migratori. Altra coincidenza surreale (si veda il punto successivo)
25 - 26 febbraio 23
Un barcone partito dalla Turchia e con a bordo 181 migranti si rovescia a pochi metri dalla costa di Cutro. Il ministro Piantedosi (quello che considera i migranti carchi residuali) abbozza una ricostruzione dei fatti che non convince nessuno tranne Giorgia Meloni. Il bilancio è di 94 morti.
9 marzo 2023
Il Consiglio dei Ministri si tiene a Cutro. Riparazione, coda di paglia or what else? In ogni caso un disastro comunicativo
16 marzo 2023
"Disposizioni urgenti per la realizzazione di un collegamento stabile fra Calabria e Sicilia". Si chiama così la riesumazione del progetto del Ponte di Messina, una misura tanto voluta dal ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, che qualche giorno fa si era selfato davanti al Ponte Oresund; un'opera che non c'entra nulla né tecnicamente né finanziariamente col ponte sullo stretto. Ma un selfie ci sta sempre bene e se proprio si deve scegliere meglio questo di quelli seminudo del Papeete. Sempre nello stesso Consiglio dei Ministri si attribuisce la delega fiscale. Il contenuto non è demenziale come ci si potrebbe aspettare tranne che per la comica idea della flat tax incrementale
28 marzo 2023
Altra emergenza nazionale (sigh) altro decreto urgente: dopo i rave c'è da combattere l'esistenziale battaglia contro la carne coltivata (presto ribattezzata "sintetica"). Si lascia passare l'idea che saremo costretti a mangiare plastica invece delle amate e succose chianine. Ovviamente non è così, ma chissenefrega.
11 aprile 23
Dichiarazione dello stato d'emergenza su tutto il territorio nazionale a causa dell'eccezionale incremento dei flussi migratori. Ma come, non avevano detto che andavano al governo per risolvere in quattro e quattr'otto l'emergenza "invasione"? Ma niente paura, Giorgia dichiara che perseguiteranno i trafficanti d'esseri umani per tutto il globe terracqueo, Isola di Pasqua compresa.
Al 5 luglio sono sbarcati in Italia 66.741 immigrati irregolari contro i 22.670 del 2022.
1 maggio 23
Varato il decreto lavoro e il taglio del cuneo fiscale per 2,9 miliardi. Queste 2 misure entreranno in vigore il primo luglio. Casualmente i dati del mercato del lavoro in Italia vanno meglio del previsto e subito la solerte macchina della propaganda mette in rete le locandine con il miracolo compito con la sola apposizione della penna: il DL non funziona ancora ma già si vedono i suoi effetti!!!
5 maggio 2023
Scambio di accuse sull'immigrazione fra Francia e Italia. Volano stracci manco fossero ad una riunione di condominio. Ma tranquilli che poi arriverà il Consiglio Europeo...
15-17 maggio 2023
In Emilia Romagna esondano 21 fiumi, 44 comuni colpiti, circa 30.000 sfollati, 15 vittime Si mette in moto la macchina della solidarietà. Il Governo vara un primo aiuto di 20 milioni. Poi qualche settimana dopo il ministro Musumeci affermerà ai sindaci che chiedono aiuti che il governo non è un bancomat. Lo stesso governo che ad oggi non è ancora riuscito a spendere 1 euro del fondo europeo per la calamità naturali.
29 giugno 23
In commissione Esteri della camera si consuma una scena surreale: i componenti della maggioranza non partecipano ai lavori (roba tipo Aventino) per non essere costretti a votare la ratifica del MES che il Ministero delle Finanza ha spiegato essere vantaggiosa
30 giugno 2023
Salta (per ora) la terza rata del PNRR.
Non sono stati raggiunti una quindicina di obiettivi. A quello che si sa dal lacunoso cruscotto di monitoraggio solo 2 obiettivi su 55 previsti per il semestre appena passato sono stati raggiunti; si vocifera che la quarta rata neanche sarà chiesta
1 luglio 2023
Il Consiglio Europeo non raggiunge un accordo sulla gestione dell'immigrazione. Per Giorgia Meloni, che qualche settimana prima aveva annunciato trionfante il "cambio di passo", è uno smacco: a far saltare l'accordo sono stati i suoi alleati Orban e Morawiecki. Ma lei da brava sovranista li giustifica. L'Italia resta Paese di frontiera e la ricollocazione volontaria.
Ovviamente questa ricostruzione è parziale e basata su quanto ricordo. Una cosa positiva che ricordo bene è che solo grazie alla determinazione di Giorgia Meloni oggi l'Italia è ancorata all'occidente nella difesa dell'Ucraina contro il criminale russo.
Forse basta per la promozione. Forse
]]>La premessa doverosa è la seguente: non esiste alcun insieme di raccomandazioni universali per scegliere una password sicura e facile da usare.
Come spesso accade nel campo della cybersecurity, occorre sempre confrontare il rischio da cui ci vogliamo difendere (per esempio, il furto dei nostri dati online) con le contromisure che vogliamo applicare per mitigarlo, e quindi fare una valutazione personale costi/benefici. Le osservazioni nel resto di questo articolo cercano di individuare alcune raccomandazioni abbastanza generiche supportate da evidenza scientifica, ma per forza di cose occorre adattarle al proprio caso personale.
Innanzitutto, cominciamo dalla questione più annosa: quanto deve essere lunga una password, da che caratteri deve essere composta, e quanto dev'essere casuale? Qui la teoria dell'informazione ci dà un risultato netto (e scomodo): se una password è completamente casuale, l'unica soluzione per un avversario è di provare tutte le combinazioni a forza bruta. Quindi, più una password casuale è lunga e definita su un alfabeto esteso (maiuscole, minuscole, cifre, simboli vari), più è sicura.
Operativamente, quanto dovrebbe esser lunga? Il minimo suggerito nelle ultime raccomandazioni del NIST [2] è di 8 caratteri. Quindi, sembrerebbe in linea con quanto detto anche nel post dell'ACN [1]. Ad ogni modo, occorre considerare che il documento del NIST dà indicazioni ai progettisti dei sistemi di autenticazione, piuttosto che agli utenti. Dal punto di vista dell'utente finale, considerando la potenza di calcolo a disposizione oggi per attacchi a forza bruta, 8 caratteri è un po' "sul filo del rasoio". Meglio usarne dunque almeno 12. A onor di cronaca, un bollettino pubblicato all'inizio dell'invasione russa dell'Ucraina, da parte del Computer Security Incident Response Team (CSIRT) dell'ACN, suggeriva di usare anch'esso almeno 12 caratteri [3].
Detto questo, come generare una password casuale? Lasciate perdere i vari trucchi mentali ed espedienti che si leggono in giro su internet per fare password "complesse". Sono perlopiù fuffa, e si è dimostrato più volte che gli esseri umani non sono bravi a tirare numeri a caso [4].
Meglio far generare le vostre password ad un password manager, un software che incidentalmente è anche in grado di memorizzarle sui vostri dispositivi in maniera cifrata. Per sbloccare questa "cassaforte" di password vi serve ricordare una sola master password, anch'essa meglio se generata casualmente tramite il password manager. La master password occorre poi custodirla bene. Ricordarla a memoria è probabilmente l'ideale (e a furia di sbloccare il password manager, non si fa troppa fatica a ricordarla). Può essere però rischioso se, per qualsiasi motivo, doveste scordarla. Meglio dunque scriversi la master password su un foglio, e custodirlo in modo sicuro (cassaforti fisiche, lucchetti, ecc.).
Come alternativa, alcuni suggeriscono di usare le passphrase, cioè frasi segrete più lunghe di una normale password. Sicuramente, frasi di senso compiuto sono da evitare anche se molto lunghe, considerando il recente successo di modelli generativi di AI per il linguaggio naturale come ChatGPT. Quindi, una passphrase dovrebbe essere composta da parole casuali. L'idea è sensata, ma per ottenere una sicurezza comparabile ad una password casuale di ~12 caratteri vi serve usare almeno 6 parole. A quel punto, diventa più una questione di comodità e usabilità: quanto è difficile ricordarsi 6 parole a caso (per ciascun nostro account!), e soprattutto, quanto tempo ci impieghiamo per scriverle (~30 caratteri) ogni volta che ci dobbiamo autenticare? Questo metodo è stato studiato a fondo, e vari esperimenti hanno mostrato che le passphrase non sono molto diverse dalle password in termini di usabilità e sicurezza [5]. Inoltre, data la lunghezza di una passphrase, è molto più facile commettere un refuso in fase di digitazione.
Un password manager, viceversa, vi permette di fare copia e incolla. A quel punto, cambia poco sia che abbiate 12 caratteri casuali, sia che ne abbiate 30 da una frase di 6 parole casuali, visto che non li dovete ricordare. Per questo, uno dei consigli migliori che si può dare in materia di password è: imparate a usare bene un password manager. Ne esistono parecchi molto validi, sia gratuiti che a pagamento.
Altro aspetto annoso menzionato nel post dell'ACN: le password vanno cambiate regolarmente o no? Le raccomandazioni del NIST di 20 anni fa dicevano di sì [6]. L'evidenza che abbiamo accumulato in tutto questo tempo suggerisce invece che far cambiare le password periodicamente diminuisce la sicurezza. Questo perché le policy di scadenza password su vari siti/sistemi finiscono più che altro per innervosire gli utenti, i quali per aggirare questo fastidio scelgono password più deboli e facili da indovinare. Se invece si cambiano periodicamente le password per conto proprio, non si guadagna nulla a livello di sicurezza. D'altro canto, diventa molto più complicata la gestione e il rinnovo periodico, considerando con quante password abbiamo a che fare.
Quindi, la raccomandazione odierna è di NON cambiare le password periodicamente, a meno che non ci sia il ragionevole sospetto che siano state compromesse. Un modo possibile per scoprirlo è di controllare se le vostre password appaiono su Have I Been Pwned? [6]. Questo sito controlla se la password che inserite è presente all'interno di elenchi apparsi online nel corso degli anni, in seguito a vari data breach. Il sito è sicuro, nel senso che non conosce la password che inserite (ciò che controlla è invece un hash della vostra password).
Un'ultima raccomandazione molto importante è di abilitare l'autenticazione a due o più fattori ove disponibile, per esempio con un codice one-time come secondo fattore mandato tramite SMS (non proprio l'ideale) o app di autenticazione (meglio). Altri metodi come token hardware o passkeys sbloccate da biometriche sono anche molto utili, laddove disponibili.
Per concludere, tornando all'osservazione iniziale, è sostanzialmente impossibile dare raccomandazioni universali che vadano bene per tutti. Alla fine, dipende molto dal caso individuale, e occorrerebbe imparare a fare un minimo di modellazione del rischio personale dei propri dati online. Per esempio, su alcuni siti che vengono usati sporadicamente e che contengono dati non troppo importanti, si potrebbe anche decidere di usare password che deviano dalle raccomandazioni sopra. Giudicare poi quanto questi dati siano "importanti" sta ad ognuno di noi.
]]>E’ abbastanza evidente che nel trattare la questione elementi di carattere politico, come la volontà di investire per supportare lo sviluppo di alcune aree del paese si sovrappongono a valutazioni di carattere economico, inerenti il rapporto tra costi e benefici del ponte.
Bisognerebbe perciò, valutare la convenienza economica e la fattibilità dal punto di vista strettamente tecnico ed è questo l’obiettivo del presente articolo basato sul progetto definitivo disponibile ad oggi.
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L’obiettivo di questo articolo è comprendere:
Innanzitutto, dalla sua risposta si capisce che la giornalista Ranieri non sa qual è la differenza tra disinformazione e misinformazione. Quest'ultima è un'informazione errata, fuorviante e decontestualizzata, spesso utilizzata come arma mirando selettivamente a punti di vista opposti e cercando di delegittimare fonti di informazione alternative attraverso la manipolazione delle narrative. La disinformazione, invece, è una falsa informazione (fake news) diffusa deliberatamente al fine di influenzare l'opinione pubblica o oscurare la verità.
]]>In una sala gremita e interessata,
si sono interrogati su temi delicati e di grande attualità.
L’invasione russa e le atrocità commesse in Ucraina (che sottendono ad un altro conflitto, quello tra ordinamenti fondati su valori liberali e democratici e ordinamenti autoritari e autocratici); le distorsioni della propaganda e le difficoltà dell’informazione nel mantenere la giusta distanza dai condizionamenti; la difficoltà per l’opinione pubblica di comprendere che anche la nostra libertà è sotto attacco e che la difesa della libertà ha un costo, ma che il costo più terribile da pagare sarebbe quello di perdere la democrazia nella quale la pace e la libertà sono custodite.
La democrazia liberale è costata tanto ed è un bene da difendere con la forza del pensiero, con la forza della retorica e, qualche volta, con la forza delle armi, soprattutto quando, come in questo caso, chi aggredisce lo fa con cieca violenza e determinazione a distruggere e imporre il proprio regime.
Di seguito si riporta la trascrizione ridotta dell’intervento di Vittorio Emanuele Parsi
]]>Ci sono due aspetti da seguire: uno è il punteggio (score) frutto di un calcolo che include diversi aspetti, l’altro è la graduatoria risultante (rank) tra i diversi paese. Nel corso degli anni la graduatoria di un paese riflette non solo il proprio punteggio assoluto ma soprattutto l’andamento dei vicini di rank, che possono a loro volta migliorare e peggiorare. Una nazione potrebbe essere stabile o anche peggiorare come punteggio ma migliorare in graduatoria se gli altri peggiorano ancora di più. Per questo motivo nella presente analisi pongo l’attenzione principalmente al punteggio, come fattore più stabile e oggettivo nel tempo.
I punteggi vanno da 100 (nazione con il valore massimo teorico nella libertà di stampa) fino a zero, con i valori minimi. Per il 2023 il valore massimo va alla Norvegia (95.18) e quello minimo alla Korea del Nord (21.72). Fin qui non ci sono sorprese.
Qui potete prendere atto visivamente dei dati 2023 e anche degli anni precedenti e scaricare i dati. A livello generale notiamo come i migliori punteggi (non pesati) siano nell’Europa geografica (UE+Balcani) e i peggiori nell’aggregato EEAC.
]]>Diversamente da come la politica, soprattutto nostrana, tende a raccontare, la coltivazione di cellule animali parte da lontano, almeno all’inizio del ‘900, con una accelerazione nei primi anni 2000, quando iniziano a comparire cibi alternativi che includono non soltanto cibi vegetali o vegani che sembrano carne, ma anche cibi che sanno di carne ma che non sono carne. Parte del sapore della carne è dovuto alla presenza di gruppi eme nel sangue, a base di ferro, che sono necessari per il trasporto dell’ossigeno ai tessuti. I gruppi eme si trovano anche nei noduli delle radici della soia. La compagnia USA Impossible Foods ha depositato un brevetto per produrre eme da batteri ricombinanti, con un costo molto basso. L’aggiunta di queste sostanze a proteine vegetali come quelle descritte più sopra permette di migliorarne il sapore, che diventa molto più simile a quello della carne.
La coltivazione di cellule animali in bioreattori è un processo molto più complesso. La produzione di carne coltivata parte prelevando da un animale cellule staminali, cellule grasse, o cellule dei muscoli, che vengono poi fatte crescere e modificate in bioreattori speciali. Le cellule indipendenti ottenute nel processo vengono poi assemblate in piccoli aggregati, simili per consistenza ai granuli di carne macinata, tramite l’uso di supporti (scaffold) che possono essere formati da grasso o particelle di tessuto connettivo.
I metodi utilizzati sono moltissimi e non possono essere descritti in un breve pezzo divulgativo. Il lettore interessato puo’ riferirsi ad una delle eccellenti disamine sull’argomento (in Inglese): "Cellular agriculture — industrial biotechnology for food and materials". È importante notare che i metodi per l’assemblaggio di cellule animali in carne coltivata sono analoghi a quelli sviluppati e utilizzati nelle colture cellulare per uso biomedico, che vanno sotto il nome di ingegneria tissutale.
Il cuore del processo di produzione delle cellule animali è il bioreattore, un ambiente ottimizzato per la crescita cellulare. I bioreattori sono utilizzati da secoli per la crescita dei microorganismi nella produzione di vino e birra, ma anche di moltissimi composti per uso biomedico e industriale. Lo scopo principale di una categoria di bioreattori, tra i quali quelli utilizzati per la carne coltivata, è moltiplicare le cellule iniziali (inoculo) il più rapidamente possibile, alla piu’alta concentrazione finale, e al più basso costo possibile. Si parla in questo caso di agricoltura cellulare perché le cellule vengono fatte crescere grazie all’introduzione nel bioreattore di componenti nutritivi e fattori di crescita, analogamente a quanto si fa con i fertilizzanti in agricoltura.
Gli svantaggi della carne coltivata sembrano essere al momento: bassa accettazione del consumatore, costo di produzione ancora, rischi per la salute non completamente documentati (al momento il report piu esaustivo è quello del technical group FAO-WHO su cell-based food ), caratteristiche sensoriali insufficienti (ovvero: poco sapore e scarsa consistenza).
Tra le altre criticità tecnologiche, la necessità di utilizzare estratti di feti bovini per alcune fasi della coltura cellulare. Tuttavia, un’azienda di Singapore afferma di aver risolto questo problema, e di essere pronta ad aumentare la produzione su scala industriale nei prossimi anni.
Secondo i proponenti della carne coltivata, i suoi vantaggi sono una minore necessità di suolo, acqua e consumo di materie prime, il fatto che potrebbe essere ambientalmente più sostenibile (ma ci sono ancora opinioni scientifiche contrastanti), più sicura e “progettabile” secondo le esigenze del produttore e del consumatore, e può soddisfare quelle minoranze religiose che hanno alcune restrizioni di tipo alimentare.
Si possono mettere in risalto gli effetti positivi sulla salute ma anche il fatto che attraverso stringenti controlli, la carne coltivata non dovrebbe veicolare agenti causa di malattie (Listeria spp, E.Coli, Salmonella spp, etc..).
Dal punto di vista ambientale, gli allevamenti e la filiera zootecnica hanno un certo impatto su emissioni e su riscaldamento globale per cui si pensa che le carne coltivata potrebbe risultare eco-friendly, ma ci teniamo a precisare che non esistono statistiche certe.
Superati gli ostacoli della scalabilità, la carne coltivata potrebbe essere disponbile in tempi ragionevoli ad un prezzo non troppo alto. Si tratterà, con ogni probabilità, di un mercato piccolo, 1-5% del mercato globale della carne, che non sostituirà la carne tradizionale, ma permetterà ai consumatori di fascia alta di poter avere un’ulteriore alternativa.
Sinossi a cura di: Harry Shergill, Lorenzo Viviani, Francesco Lucà, Martina Oddo.
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Ok, ora che ci siamo sfogati nel modo in cui ci si sfogava nelle vecchie sezioni del PCI prima di iniziare la riunione, passiamo alle considerazioni serie.
Lo abbiamo detto in ormai decine di occasioni - e lo ripetiamo stile disco rotto finché qualcuno non si sveglierà dal sonno della ragione, che in Italia sembra eterno. La sinistra italiana scopre con 15 anni di ritardo mode populiste idiote che, altrove, puzzano già di muffito da un bel po’. Dal 2018 in avanti stiamo banalmente assistendo a l'americanizzazione ritardata (in entrambi i sensi) della sinistra italiana. Per giunta con contenuti e modalità anche più effimeri: i fashionable sono di sinistra da decenni nel mondo anglosassone e fra un po’ non saranno piu’ fashionable perché la ruota gira. L’elettorato “popolare”, negli USA, o ben va a destra o smette di votare.
Perché una simile moda pseudo-intellettuale? E perché la provenienza da certi ambienti? Chi si sia preso la briga di approfondire ha identificato un pattern sociale preciso: la upper class del settore servizi (specialmente se pubblici) non guadagna molto da concorrenza ed innovazione, anzi molto poco. L’innovazione tecnologica, nel 2023, è vista da queste élite “tecnologicamente vecchie” come una fastidiosa spina nel fianco che mette a repentaglio privilegi acquisiti e mai realmente ripudiati. Detta upper class preferisce, pertanto, staticità e poca crescita. Noi siamo arrivati e stiamo bene così, gli altri è opportuno rimangano indietro, altrimenti ci vengono ad affollare i concerti, fanno compere dove le facciamo noi, mangiano Km0 anche loro, ci infastidiscono con il loro essere proletari (veri) e rischiamo di vedere concorrenza nel caso la scuola venga riformata e generi un minimo di mobilita’ sociale come negli anni ‘60-’70. E, come se non bastasse, fra un po’ una di queste AI scriverà gli stessi articoli retorici e privi di proposte concrete su cui abbiamo fondato il nostro successo di pubblico.
La migliore manifestazione di questa tendenza è il dibattito sul turismo: c'è un filo rosso che connette un Montanari esultante durante il lockdown perché finalmente poteva godersi le strade di Firenze prive di turisti e la discussione di adesso, nella quale più gli interlocutori si professano di sinistra, più sostengono che sia necessario farla finita con il turismo di massa (= i pezzenti) e passare al turismo di qualità (= i ricchi). Un’altra plastica dimostrazione riguarda il dibattito sul cambiamento climatico, con i pretoriani della sinistra-vera-sinistra tutti nevroticamente allineati a pontificare di riduzione dei consumi superflui attraverso interviste su Vogue e vacanze in isole molto esclusive e CO2-costose da raggiungere.
Peccato che ogni stima realistica su cio’ che circa 7 miliardi e mezzo di umani intendano fare ne preveda un aumento vertiginoso da qui ai prossimi 20-30 anni, perché i poveri hanno questa pessima e fastidiosa abitudine di voler smettere di essere poveri il più presto possibile. E siccome vogliono smetterla di essere poveri, al momento l’unico lavoro che li possa condurre fuori dalla condizione di povertà non passa da emissioni zero e da consumi negativi. Decoupling? Green premium? Innovazione tecnologica? Nucleare? Investimenti in Africa per favorire sviluppo rapido e non contaminante? No, parliamo di armocromia, agli emarginati sicuramente premerà quello.
Il passaggio dalla fascinazione per la classe proletaria all’odio per i poveri segna il discrimine tra progressismo riformista/liberante e progressismo correttivo. Una volta c'era la lotta di classe, che aveva una base materiale e, con i dovuti distinguo, durante alcuni decenni è stata utile al progresso economico e sociale. Il cambio tecnologico l'ha in gran parte risolta, almeno in occidente e in quella forma, spostando altrove lo scontro sociale e le famose diseguaglianze.
Questo aspetto ha colto completamente alla sprovvista la cosiddetta "elite progressista", che aveva (a suo, autoreferenziale, dire) in mano la chiave della storia e del progresso. Quindi ha dovuto correggere toni e modi. Il progresso è diventato il “progressismo correttivo", ovvero lo stato etico che ci dice come si debba parlare, vestire, dove dobbiamo andare al bagno, e cosa dobbiamo mangiare. Tutto, ovviamente, nel nome del progresso.
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Di cosa si parla quando si discute di energia nucleare?
Il nucleare si divide in due gruppi: fissione e fusione.
La fissione nucleare, utilizzata da decenni per produrre energia elettrica, consistere nel rompere atomi pesanti (tipicamente uranio o plutonio) per formare atomi più leggeri.
La fusione consiste invece nel fondere atomi leggeri (isotopi di idrogeno) per formare atomi un po' più pesanti (elio). Nonostante certe dichiarazioni recenti la fusione è ancora allo stadio di ricerca e sviluppo, e ci vorranno decenni prima che possa (potenzialmente) produrre elettricità in maniera economicamente sostenibile (spoiler: le ragioni le trovi nel video associato a questo articolo, se ti interessa).
Ma perché ci si concentra solo su atomi molto pesanti (fissione) o molto leggeri (fusione)?
La ragione è che questi atomi sono più “instabili” (a più alta energia) rispetto agli atomi rispettivamente un pò più leggeri (fissione) o pesanti (fusione). Di conseguenza, sia la rottura di atomi molto pesanti che la fusione di atomi molto leggeri rilascia energia, che poi deve essere convertita in una forma da noi utilizzabile (per esempio elettricità).
Per avere un guadagno energetico netto, però, l’energia necessaria per causare la fissione/fusione deve essere minore dell’energia ottenuta alla fine del processo (ad oggi questo è vero per la fissione, ma non per la fusione).
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ChatGPT, the state-of-the-art AI language model from OpenAI, recently encountered a temporary suspension in Italy following a restrictive order issued by the Italian Data Protection Authority (DPA). Citing privacy, data misuse, and ethical concerns, the order has sparked a debate on whether the decision is rooted in legal matters or driven by political agendas. This article aims to clarify the restrictive order, evaluate its legal soundness, and examine the DPA's seemingly politically-tinged commentary on the issue.
]]>Oggi vorrei focalizzarmi sui seguenti aspetti:
Per iniziare, di che tecnologie si parla quando si discute di “rinnovabili”? Tipicamente ci si riferisce a idrico, solare, eolico, biocarburanti, e geotermico. In questo articolo guarderemo a tutte queste tecnologie.
]]>La vicenda comincia con l’iscrizione di Maria Sofia ad Only Fans, sito che già di per sé genera un po’ di biasimo per chi utilizza la piattaforma in questione. Non è la prima volta che sentiamo di divulgazione di foto contenute sulla piattaforma bianco-blu al di fuori della stessa, in questo caso però non parliamo di foto contenute nella bacheca del creator in questione, ma di foto sessualmente esplicite inviate ad una persona, in chat privata, dopo aver ricevuto un pagamento ulteriore rispetto al semplice abbonamento che si paga per accedere al feed.
]]>Cosa significa?
]]>Questo avvenimento è un’autentica pietra miliare nel corso degli eventi, perché segna un punto di svolta dopo il quale nulla può essere come prima. Nell’arco degli ultimi 20 anni la Corte Penale Internazionale ha emesso solo quattro mandati di arresto nei confronti di capi di stato, ricordiamoli brevemente:
- Omar Al Bashir, 2009 (ex-presidente del Sudan, accusato di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio durante la guerra del Darfur)
- Mu’ammar Gheddafi, 2011 (leader della dittatura militare in Libia, ucciso ad ottobre 2011, accusato di crimini contro l’umanità)
- Laurent Gbagbo, 2011 (ex-presidente della Costa D’Avorio, accusato di crimini contro l’umanità, poi assolto).
- Vladimir Putin, 2023 (presidente della Federazione Russa, accusato di crimini di guerra).
Un mandato di arresto della CPI è una più che valida motivazione, per qualsiasi leader mondiale, dal guardarsi bene dall’essere associato pubblicamente al leader russo. Da questo momento in poi parlare di concessioni, riconciliazioni o trattative con la Russia sarà quanto meno opinabile, almeno finché al potere c’è un ricercato internazionale.
]]>Partiamo dall’inizio: l‘Uranio impoverito è il prodotto di scarto del processo di arricchimento, ed è quindi Uranio 238 sostanzialmente puro (la percentuale di U-235 è inferiore allo 0,2%). Dal momento che l‘Uranio 238 NON è fissile, ne consegue ovviamente che l’Uranio impoverito non può fisicamente dare luogo ad un’esplosione nucleare.
Né peraltro può dare luogo a un’esplosione di altro tipo: l’Uranio impoverito non è esplosivo. E già qui capiamo che, tanto per cambiare, i giornalisti italiani hanno consumato ossigeno inutilmente.
Per cosa si usa l’Uranio impoverito, quindi? In ambito civile ha alcune applicazioni in aeronautica e in alcuni casi si usa addirittura come materiale schermante per radiazioni (è più denso del piombo). In ambito militare invece viene utilizzato come anima in alcune tipologie di munizioni, in particolare per quelle anticarro, dal momento che l’elevata densità lo rende particolarmente penetrante e che, se lavorato adeguatamente, può acquisire caratteristiche di durezza e resistenza paragonabili a quelle dell’acciaio.
Dal momento che poi l’Uranio è piroforico (se surriscaldato si può incendiare a contatto con l’aria) è possibile fabbricare proiettili anticarro penetranti E incendiari, molto superiori a quelli al tungsteno solitamente utilizzati (che tra l’altro sono anche più costosi, perché l’Uranio impoverito essendo un prodotto di scarto costa abbastanza poco).
L’Uranio impoverito è un’arma non convenzionale? No! Attualmente NON è vietato dalle convenzioni internazionali (come ad esempio il fosforo bianco).
Quanto è radioattivo? Molto poco: l’Uranio 238 è un alfa-emettitore puro, per cui può essere maneggiato anche a mani nude. In caso di inalazione o ingestione può ovviamente creare problemi, ma non dovuti alla radioattività: il tempo di dimezzamento biologico dell’Uranio va da poche ore a pochi giorni, mentre il tempo di dimezzamento fisico è di circa 4,5 MILIARDI di anni, quindi la dose equivalente assorbita dal corpo umano resta in ogni caso bassa.
Talmente bassa che, a meno di grandi concentrazioni, l’Uranio impoverito è meno radioattivo del fondo naturale. I problemi possono insorgere a causa della tossicità chimica, dal momento che l’Uranio è comunque un metallo pesante e all’impatto produce una polvere che, se inalata, può produrre effetti analoghi a quelli dell’amianto, ma in questo non è molto diverso dalle alternative.
Quindi, le commissioni di inchiesta sui morti per Uranio impoverito nei Balcani? Posto che un legame causa-effetto NON È MAI STATO DIMOSTRATO e che anche nei risarcimenti alle famiglie dei militari deceduti si parla di “morte in servizio” e non si fa riferimento all’Uranio impoverito, è possibile che i soldati non fossero stati adeguatamente preparati a proteggersi dall’inalazione del particolato di Uranio (che si produce all’impatto del proiettile), e che quindi si siano ammalati per quello. È anche possibile che vi fossero altre cause, che ovviamente nessuno si è disturbato ad indagare.
Quindi, niente bombe, niente escalation nucleare, semplicemente proiettili anticarro particolarmente efficaci, che peraltro i russi utilizzano dall’inizio della guerra (nonostante le dichiarazioni improbabili di Putin). Se ai russi la cosa non sta bene possono sempre ritirarsi, così nessuno userà quei proiettili su di loro.
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Non mi riferisco ai minions, quelli che insistono come l’Occidente sia caparbiamente deciso a “combattere fino all’ultimo ucraino”, ignorando tanto l’analoga caparbietà dei russi che il diritto degli ucraini a decidere da sé, quando agli osservatori competenti che osservano la situazione sotto le lenti asettiche di chi ha deciso di porsi in maniera imparziale di fronte al conflitto.
]]>Di che minerali stiamo parlando?
Si va da minerali necessari per tutte le tecnologie citate sopra (rame e acciaio) a minerali usati in una o parte di esse: silicio, litio, nickel, cobalto, manganese, grafite, terre rare, platino/palladio, e uranio. Guardiamoli uno ad uno.
Il rame (21 Mtons nel 2021) è di particolare importanza strategica, quando si parla di elettrificazione.
Metà di questo viene estratto da tre paesi: Cile (25-30%), Perù (10-15%) e Cina (10%). E viene processato per più della metà da: Cina (40%), Cile (10%) e Giappone (5%). Quindi parliamo di un mercato gigantesco ma anche ben strutturato. Nonostante ciò, la transizione energetica imporrà uno stress notevole: Da qui al 2040, la domanda annua è attesa aumentare fino a 30-35 Mtons (IEA) – ovvero +50/75%.
A questo si aggiunge un problema qualitativo: la qualità del rame che estraiamo oggi è minore di quello di 10-20 anni fa (grafico IEA). Cosa vuol dire? Vuol dire che, per unità di rame (e ne dovremo produrne tanto), dovremmo estrarre di più, generando più scarti. Già oggi questo vuol dire che, per ottenerecirca 20 Mton di rame, dobbiamo estrarre più di 2 miliardi di tonnellate (Gton) di minerali.
]]>A fronte delle migliaia di aggregazioni possibili inizierei con un paio di tabelle inerenti la spesa pubblica aggregata per il solo 2020.
]]>Durante la lezione di arte ha disegnato un'immagine che ha sconvolto l’insegnante la quale è corsa ad avvertire il preside della scuola.
La maestra d’arte, Ekaterina Ovsyannikova, aveva chiesto agli alunni di fare un disegno che celebrasse I militari russi. Il disegno di Masha mostrava una donna e un bambino, mano nella mano, accanto a una bandiera ucraina. I missili volano verso di loro e sulla bandiera russa si legge “No alla guerra”, su quella ucraina “slava ukraini”.
Il preside chiama la Polizia e, gli agenti della sezione di sicurezza federale (FSB), raggiungono la scuola. Masha viene interrogata sui motivi di quel disegno e, terminato l’interrogatorio gli agenti dell’FSB decidono che Masha deve essere tolta alla famiglia ed affidata ad un orfanotrofio statale deputato alla correzione dei minori.
]]>Nona Mikhelidze
Esperta di relazioni internazionali e volto noto delle TV italiane ha moderato l’incontro. Nona, ha rilevato come ci sia, in generale, mancanza di conoscenza da parte dei nostri giornalisti e politici del fenomeno della disinformazione russa. Molti giornalisti italiani non sapevano nulla di chi erano esattamente e da chi erano pagati i giornalisti russi o filorussi che invitavano nelle loro trasmissioni.
Fin dai primi giorni dell’invasione russa dell’Ucraina, venivano invitati per parlare dell’Ucraina, giornalisti della televisione di stato russa o del ministero della difesa russa e veniva dato a questi ampissimo spazio per parlare nei talk show italiani.
Molti di questi giornalisti sono stati sanzionati dalla Commissione europea ed inseriti in uno speciale elenco così come i media per cui gli stessi lavoravano. La Commissione Europea ha dichiarato che per il Cremlino l’informazione rappresenta uno strumento bellico e che le sanzioni inflitte a questi giornalisti mirano a limitare la diffusione della disinformazione.
Mikhelidtze lamenta che, dopo questa prima fase in cui sono stati esclusi dai talk show i giornalisti al soldo del Cremlino, i media italiani non hanno poi ospitato nei loro programmi la parte liberale dell’opinione pubblica russa o ucraina per sapere cosa pensa il popolo dissenziente della politica del Cremlino ed in particolare di Putin.
Luigi Germani
Il Professor Germani, nel suo intervento ha messo in luce l’esistenza di una influenza russa sul mondo accademico italiano dei think tank, ricordando che su questo tema ha pubblicato un Paper insieme a Massimiliano Di Pasquale. Ha poi sottolineato come la narrazione strategica russa si inquadra in un tema più ampio che è quello della guerra cognitiva in cui la mente umana rappresenta il campo di battaglia.
Questo tipo di guerra si avvale delle nuove tecnologie digitali, dei social-media, dell’intelligenza artificiale e delle neuro-scienze. Oggi l’attore geopolitico che pratica la guerra cognitiva con maggiore intensità e sistematicità a livello globale è la Russia di Vladimir Putin. Il Prof. Germani denuncia che dai politici italiani non è stato ancora previsto un sistema difensivo capace di fronteggiare le campagne cognitive ostili delle potenze straniere.
Massimiliano Di Pasquale
Di Pasquale docente dell’Istituto Germani, ha ricostruito gli eventi accaduti in Ucraina dal 2014 fino all’invasione russa, per poi spiegare come la Russia stia utilizzando massicciamente una guerra di tipo trasversale. Spiega che dal marzo 2020 al mese di aprile 2021, la guerra in Ucraina era per il Cremlino un conflitto ad intensità medio-bassa. Questa guerra, passava in secondo piano in quanto tutta l’attenzione era concentrata sulla pandemia da Covid-19. In questo periodo, la principale narrazione sui media del Cremlino era che: gli Stati NON democratici sono più bravi ad affrontare la pandemia da Covid-19; il vaccino Sputnik è molto più efficace dei vaccini occidentali, perché i vaccini occidentali sono solo un business di Big Pharma ed agli occidentali non interessa curare il popolo ma soltanto fare soldi.
Il Dr. Di Pasquale ci informa che è molto importante soffermarsi su questo periodo, perché, molte delle Chat e dei Gruppi che sono nati non sostengono la guerra in Ucraina. Si tratta di gruppi No Vax e di gruppi che sostengono il vaccino Sputnik. Questi Gruppi social, dal 24 febbraio 2021, si trasformeranno in gruppi pro-Putin e in gruppi a favore dell’operazione militare speciale, la c.d. Guerra Ibrida.
Cosa succede il 10 aprile 2021?
“Sputnik”, il canale informativo creato nel 2013 da Putin per diffondere la politica statale all’estero, il 10 aprile 2021 pubblica un editoriale di Timofey Sergeytsev dal titolo l’Ucraina di cui nessuno ha bisogno, Russia in primis.
Andando a leggere a distanza di un anno quell’editoriale, vi troviamo tutti i nuclei tematici con cui Putin ha legittimato in Russia l’operazione militare speciale.
Nell’articolo virulento si legge: l’Ucraina è destinata ad avere lo stesso destino della Germania denazificata del dopoguerra, in quanto l’Ucraina ha prestato un giuramento neonazista ed esegue la glorificazione sistematica del nazismo; In Ucraina viene praticato l’antisemitismo; Il neonazismo ucraino è in guerra nel Donbas contro il popolo Russo; Il nazismo ucraino ha commesso l’intero gruppo dei crimini qualificati e condannati dal Tribunale internazionale di Norimberga nei processi del 1946-1949; L’Ucraina non rispetta gli accordi di Minsk; A Odessa nel maggio 2014, i Terroristi nazionalisti ucraini hanno bruciato i corpi dei manifestanti; Euromaidan è stato un golpe nazista appoggiato dall’Occidente.
I messaggi presenti in questo articolo ricordano da vicino i messaggi diffusi nella primavera del 2014 quando l’operazione militare russa in Donbas guidata dall’ex colonnello Igor Strelkov era costantemente accompagnata da una fervida attività editoriale degli outlet e dei social media controllati e/o collegati al Cremlino.
L’ex colonnello Strelkov è stato dichiarato terrorista dalla Ue. Inoltre, un tribunale olandese nel 2019 ha spiccato un mandato di arresto nei suoi confronti con l’accusa di omicidio, per l’abbattimento il 17 luglio 2014 del volo 17 della Malaysia Airlines.
Narrazioni dello stesso tipo vengono dal sito geopolitica.ru di Aleksandr Dugin, finanziato dall’oligarca russo Konstantin Malofeev, fedelissimo di Putin.
Questo sito ha pubblicato diversi articoli sul conflitto con i quali ha sostenuto che: La guerra ibrida russa non esiste e che questo concetto è stato creato dalla Nato per spaventare i propri cittadini e per spostare l’attenzione dai numerosissimi problemi dell’occidente; La Crimea è diventata parte della Russia dopo regolare referendum; Gli Stati Uniti d’America avevano promesso che la Nato non si sarebbe espansa ad Est oltre la Germania riunificata; I russofoni del Donbass sono vittime di un genocidio ad opera di nazisti ucraini; La popolazione del Donbass è insorta contro il colpo di stato di Kiev; La Nato sta trasformando l’Ucraina in una testa di ponte contro la russia.
Il 20 settembre 2022, un editoriale su euvsdisinfo.eu ha parlato di come la russia abbia creato proprio sulla questione del nazismo ucraino, un vasto consenso all’interno del paese. Ovviamente tutta la questione sull’esistenza di una destra nazista in Ucraina è smentita dal fatto che i gruppi di destra i Ucraina restano sotto il 3% in ogni tornata elettorale.
Il 30 novembre 2022, un corrispondente della Rai di Mosca, ospite del programma Carta Bianca, ha sostenuto che il motivo per cui i russi sono stati costretti a cominciare l’operazione militare speciale, risiede nelle violenze dell’esercito ucraino e dei battaglioni ultranazionalisti contro la popolazione civile russofona.
Il 3 dicembre 2022 a Roma nel corso della presentazione di un libro sulla guerra in Ucraina l’editore del libro, ritorna sul tema della denazificazione. Questi nel dibattito ha sostenuto che i russi non devono dire al mondo che è necessaria la denazificazione in quanto in Ucraina ci sono dei battaglioni di esaltati fascisti e nazisti, ma che deve dire che la denazificazione è necessaria perché è il governo ucraino ad essere nazista, e perché il Presidente ebreo antisemita Zelensky, annovera tra gli eroi protettori della patria Stepan Andrijovič Bandera, massacratore di ebrei e partigiani sovietici.
Sergej Lavrov
(Ministro egli Esteri russo) il 1^ maggio 2022, durante l’intervista a rete 4 ha paragonato il presidente ucraino Zelensky a Hitler, sostenendo che i maggiori antisemiti che ha conosciuto la storia sono proprio gli ebrei. La questione della narrativa sull’antisemitismo di Zelensky è importante perché viene usata dal Cremlino come arma storica.
Alessandro Vitale
Il Prof. Vitale (Università degli Studi di Milano), apre il suo intervento ricostruendo i fatti accaduti a partire dal 19 agosto 1991, con la caduta del governo di Mosca. Ricorda che in quell’occasione si trovava a Mosca e aveva intervistato un difensore del Palazzo Bianco di Boris Elstin. Il militare intervistato, affermò che quella lotta che tanti cittadini stavano combattendo per strada contro il regime sovietico non avrebbe potuto limitarsi a tagliare qualche testa di un’idra dalle mille teste, perché senza abbattere, bruciare definitivamente quel “corpo”, le teste, come nel mito classico, sarebbero ricresciute e quel mostro sarebbe tornato a dominare per un altro mezzo secolo. Cosa che si è puntualmente verificata, come ci ha insegnato la storia. Infatti, nei 10 anni successivi la stessa idra ha lavorato per riprendere saldamente in mano le leve del potere in Russia.
Con Putin, ci troviamo di fronte non solo alla stessa classe politica sovietica, ma anche agli stessi identici metodi utilizzati dalla propaganda dell’ex Unione Sovietica. Si continuano ad eliminare gli oppositori, i dissidenti, a ucciderli o a incarcerare tutti coloro che esprimono un’ opinione diversa dal presidente Putin e dalla propaganda del Cremlino, che continua a mostrare lo stesso volto totalitario e violento.
Lev Gudkov, uno dei maggiori sociologi russi, ha scritto che ci troviamo difronte ad un totalitarismo “recidivo”, basato sul potere dei servizi segreti, sulla propensione alla guerra, sulla creazione di reparti per la propaganda del Cremlino; sulle sezioni specializzate nell’attacco psicologico del nemico. La propaganda del Cremlino è riuscita a dare al popolo russo l’idea che quella contro l’Ucraina è una guerra difensiva contro l’espansionismo occidentale. E, le cause di questa guerra vengono tutte ascritte a minacce provenienti dall’esterno, come ad esempio l’allargamento indiscriminato della Nato. Secondo il Prof. Vitale siamo di fronte al collasso di una nazione, all’ultimo colpo di coda di un impero che si è disfatto. Putin sta facendo un ultimo tentativo per tamponare la disfatta, ma questa volta vuole farlo secondo la sua mentalità, con l’uso massiccio della violenza.
Il tentativo di usare la violenza per tenere unito il paese, non era riuscito all’Unione Sovietica perché il potere centralizzato al tempo del colpo di Stato del 19 agosto 1991 si era spaccato. L’Unione Sovietica e il suo Presidente dovevano fare i conti con la Repubblica Russa di Eltsin. Oggi la Russia di Putin sta facendo un tentativo di frenare la disgregazione imperiale attraverso la negazione della esistenza della nazione ucraina; attraverso un nazionalismo angusto e fanatico che esclude ogni comprensione e riconoscimento dei diritti degli altri popoli e nazioni.
Un altro punto su cui si sofferma il Prof. Vitale sono le misure attive. L’efficacia della propaganda del Cremlino nel nostro paese cioè, la tattica dell’uso dell’informazione di massa per influenzare il nemico occidentale. La chiave di volta della narrativa del Cremlino è rappresentato dall’essere riuscito a dare continuità alla Guerra fredda. Infatti, quella guerra aveva preparato nei sentimenti del popolo russo un terreno fertile per l’attuale propaganda del Cremlino.
C’è stata quindi una propaganda che ha permesso il ritorno alla mentalità fondata sull’antioccidentalismo, sull’anticapitalismo, sull’antiamericanismo. Inoltre, la politica russa è riuscita a costruire una immagine totalmente falsa del tenore interno di vita, fino a portare alla creazione di una figura mitica del tiranno Putin, trasformandolo in un eroe un combattente contro il complottismo occidentale.
Tutto questa narrativa russa ha visto in Italia diverse misure attive. Una di queste è stata (ed è ancora), utilizzare gli ex corrispondenti italiani vicini al Cremlino che hanno lavorato a Mosca, per diffondere fake news, tagliando fuori esperti dell’Ucraina da dibattiti pubblici e dai social italiani. In questo terreno grigio del giornalismo italiano la propaganda del Cremlino ha avuto vita facile. Stesso dicasi per l’influenza che hanno avuto sui gruppi social, che sono riusciti a silenziare completamente il dissenso russo.
Il DISSENSO RUSSO il grande assente nei Media europei
Il Dissenso russo sta pagando a caro prezzo l’opposizione al regime putiniano. Omicidi, arresti, minacce e torture, sono il pane quotidiano di chi tenta di proporre una visione del mondo e della russia diversa da quella del dittatore del Cremlino. Nei media europei, ma soprattutto in quelli italiani e nell’opinione pubblica il messaggio molto articolato e documentato dei dissidenti russi non passa e non può raggiungere le coscienze, a causa di innumerevoli filtri e sbarramenti. Quando qualcosa arriva, viene sempre filtrato attraverso le rimanenze della guerra fredda, che portano a interpretare tutto come se si stesse parlando dell’Unione Sovietica. Tutto questo, nonostante l’autorevolezza di molti dissidenti, fra i quali:
Svetlana Aleksievich
Premio Nobel nel 2015. Cresciuta in Bielorussia, è stata costretta a lasciare l’Ucraina in seguito alle false accuse di essere una spia della CIA. È autrice di un libro sulle enormi proteste popolari scoppiate in Bielorussia dal 9 agosto 2020 dopo le elezioni truccate dal dittatore Lukashenko e la violenta repressione condotta dal regime di quest'ultimo contro coloro che stanno ancora lottando per la democrazia. Svetlana ha raccontato le storie di cittadini arrestati e torturati nelle famigerate carceri bielorusse e di quelli costretti ad abbandonare la Bielorussia per vivere liberi.
Boris Nemtsov
Politico, capo dell’opposizione russa, è stato freddato con 4 colpi di pistola alla schiena il 27 febbraio 2015, nei pressi del Cremlino. Aveva mosso critiche contro le politiche di Putin. È stato assassinato due giorni prima dell’inizio della marcia contro Putin, marcia che è stata di conseguenza annullata. Membri del suo partito, hanno dichiarato che Nemtsov stava per pubblicare un dossier sulla presenza di truppe russe in Ucraina, rivelando particolari molto compromettenti per Putin e il suo governo.
Ilya Yashin
Oppositore russo, ha guidato il Partito Repubblicano della Russia dal 2012 al 2016. È uno dei fondatori del movimento politico Solidarnost. Condannato nel dicembre 2022 a 8 anni e 6 mesi di carcere per aver denunciato che i responsabili del massacro di Bucha erano le forze armate russe. Nel gennaio 2023 Yashin ha inviato, dal carcere dove è rinchiuso, una lettera inviata al quotidiano la Repubblica di dodici pagine in cui racconta la sua battaglia per la verità sul conflitto in Ucraina.
Orio Giorgio Stirpe
L’ex colonnello dell’esercito italiano concentra il suo intervento sulla Guerra Ibrida e la strategia militare del capo di stato maggiore, il generale Gerasimov. Questo risulta indispensabile per comprendere il pensiero militare della Russia di Putin.
Le premesse della guerra ibrida sono:
Per meglio comprendere la fobia russa nei confronti dell’occidente dobbiamo necessariamente fare uso di cartine geografiche, cominciando con la cartina che individua il fronte occidentale russo nel 1942 alla vigilia della battaglia di Stalingrado chiamata dai russi la Grande Guerra Patriottica. (vedi cartina 1) Prima della battaglia di Stalingrado esisteva un fronte di guerra che tagliava trasversalmente la Russia partendo grosso modo da Leningrado arrivando fino a Rostov per complessivi 1700 chilometri. Questo fronte distava meno di 500 chilometri da Mosca e rappresentava per la Russia una minaccia mortale.
Alla fine della Seconda guerra mondiale l’URSS è riuscita a respingere la minaccia proveniente da Occidente con gli immensi sacrifici della cosiddetta “Grande Guerra Patriottica” e come risultato abbiamo una nuova linea di fronte, quella che W. Churchill ha coniato con il nome di cortina di Ferro. Questa linea va da Lubecca fino a Trieste per un fronte complessivo di soli 1200 chilometri. Dal punto di vista della sicurezza militare questo è importante perché un fronte corto è più facilmente difendibile. Ma soprattutto questa linea distava 2000 chilometri da Mosca, il che dava un senso di sicurezza al Regime. (vedi cartina 2)
Successivamente, con la caduta del Patto di Varsavia, si viene a creare una nuova linea di fronte molto più arretrata verso Mosca. Questa linea, che corrisponde geograficamente a quello che si chiama istmo ponto-baltico, va da Kaliningrad a Odessa per una lunghezza complessiva di 1500 chilometri. Adesso la distanza del fronte rispetto a Mosca si è accorciata a soli 1000 chilometri. Dal punto di vista dei politici di Mosca questo è una grave smacco. Successivamente, nel dicembre del 1991 con la fine dell’URSS, la linea arretra ancora e la nuova frontiera con l’occidente ora va da San Pietroburgo a Rostov per una lunghezza di 1700 chilometri e meno di 500 chilometri da Mosca: esattamente come nel 1942. (vedi cartina 3)
Dal punto di vista Russo questo costituisce non solo una minaccia per il Regime, ma soprattutto è l’annullamento di quello che si era ottenuto attraverso grandi sacrifici con la grande guerra patriottica. È un’umiliazione forte che viene percepita dal popolo russo e, questa umiliazione, viene sfruttata dal regime come una minaccia che viene dall’occidente sempre più vicino e pericoloso per la loro sopravvivenza. Tuttavia, non c’è stata nessuna avanzata militare da parte di alcuno dal 1991 ad oggi e nessun russo è caduto sotto il potere di potenze occidentali.
Infatti, a differenza della narrativa russa sul punto, le nazioni ex sovietiche hanno deciso in modo autonomo di diventate indipendenti ed hanno deciso di non essere più alleate della Russia, che LORO percepiscono come una minaccia.
Quindi, …qual è la strategia a lungo termine della Russia?
È quella di recuperare più fronte territoriale possibile, allontanando da Mosca quella che viene percepita dal Regime come la minaccia dell’occidente.
]]>Quello della guerra russa all’Ucraina rappresenta il terzo shock che noi europei viviamo negli ultimi venti anni, dopo la crisi economico finanziaria del 2008, nata dallo scandalo dei mutui sub-prime e la crisi connessa alla pandemia di COVID-19. Una delle conseguenze dirette è stato l’aumento dei costi dell'energia e milioni di profughi da ricollocare nei vari paesi europei.
]]>Monacelli fa l’irrilevante “errore” di menzionare Reagan come responsabile della politica fiscale restrittiva, forse non ricordando che Ronald Reagan (RR) andó al potere in gennaio del 1981. RR, quindi, non determinó i bilanci del 1980 e (buona parte) del 1981. Il suo punto non era certo applaudire Ronald Reagan ma sottolineare che i deficit controllati aiutano la politica monetaria anti-inflattiva.
Nel suo thread, infatti, sottolinea che, a fronte di una politica monetaria debolmente restrittiva (come è di fatto oggi quella della BCE) una politica fiscale che sussidi a destra e a manca per "compensare" l'inflazione rischia di rendere proibitivo il compito della banca centrale. Ovvero di perpetuare l’inflazione nonostante l’aumento dei tassi nominali, ricetta perfetta per la stagflazione.
Ma Monacelli, nel suo tweet, nomina Ronald Reagan e questo per alcuni è una muleta a cui non si sa resistere. Il 27/01/2023 Francesco Saraceno apostrofa con divertita ironia il thread di Monacelli ricordando che la politica fiscale di Reagan fu molto espansiva e generò molto debito addizionale. Cosa nota a tutti ma che iniziò solo nel 1983!
Saraceno intende negare che politiche fiscali restrittive aiutino a ridurre l'inflazione e lo dice esplicitamente. Esiste infatti una “corrente di pensiero” che vorrebbe compensare l’aumento dei tassi con un ulteriore aumento della spesa pubblica a deficit, corrente particolarmente diffusa in Italia. A supporto della sua critica ci offre questo grafico che descrive il rapporto fra debito pubblico e negli USA in quegli anni. Il grafico va studiato attentamente; facciamolo assieme.
I dati riportati sulle ordinate sono trimestrali e indicano il valore percentuale del rapporto debito/GDP. Sulle ascisse troviamo i trimestri, quattro per anno. Cosa vediamo?
]]>"La scuola bloccata" di Andrea Gavosto fornisce una breve ma efficace analisi critica della situazione attuale della scuola italiana. Il libro esplora i problemi che affliggono il sistema educativo del nostro paese, affrontando in un limitato numero di pagine un notevole numero di argomenti: i problemi curriculari, la struttura dei cicli, il reclutamento e la formazione degli insegnanti, le risorse e i tempi della scuola, e così via. Gavosto fornisce una panoramica dettagliata della situazione attuale e propone possibili soluzioni per migliorare la scuola italiana. Il libro è scritto in modo chiaro e accessibile, è breve (l’ho letto in tre o quattro ore durante il mio ultimo viaggio) e rappresenta una lettura importante per chiunque sia interessato al futuro dell'istruzione in Italia e voglia comprendere le sue problematiche. È consigliabile in particolare a tutti i genitori con figli in età scolare.
Mi soffermerò in questa recensione su alcune (poche) criticità che ho potuto riscontrare, ma spero si capisca anche che a me il libro è piaciuto molto: non credo lo avrei scritto tanto diversamente, considerando che è rivolto ad un pubblico di non specialisti.
L’autore è ricercatore e direttore della Fondazione Giovanni Agnelli, che da anni si occupa di politiche educative tramite varie iniziative a tutti i livelli: ricerca pura, conferenze, divulgazione e informazione per le famiglie (per esempio l’eduscopio, uno strumento per orientare la scelta della scuola superiore basato sui risultati post-diploma ottenuti dagli studenti). Gavosto è per sua stessa ammissione un economista. La scienza economica negli ultimi 30 anni è entrata di prepotenza nell’analisi delle politiche educative, un po’ per interesse specifico (lo studio dell’acquisizione del capitale umano, cioè dell’insieme delle conoscenze e abilità che gli individui portano sul mercato del lavoro, è di diretto interesse), un po’ per la capacità (qualcuno potrebbe dire pretesa) delle metodologie dell’economia di analizzare anche temi di competenza meno specifica. Oggigiorno si trovano ricercatori di formazione economica in praticamente tutti i dipartimenti dove si studiano scienze dell’educazione, così come ricercatori interessati a politiche educative si trovano nei dipartimenti di economia, ma non solo: si trovano anche nei gruppi di ricerca delle banche centrali e delle varie istituzioni internazionali. Gavosto appartenendo a questa cultura tiene a supportare le proprie argomentazioni con l’evidenza scientifica esistente, ma lo fa con tatto, accompagnando con tatto il lettore fra i meandri della ricerca accademica, con le dovute citazioni, senza divagare in tecnicismi.
Il primo capitolo inquadra le problematiche della scuola italiana confrontando i risultati riportati dalle rilevazioni internazionali con quelli ottenuti in altri paesi. Ho affrontato in passato il tema anche in numerosi articoli facilmente rintracciabili sul sito noisefromamerika, dunque ai miei venti lettori (o erano trenta?) la sostanza è nota: i risultati della scuola italiana sono mediamente scarsi a tutti i livelli (un po’ migliori alle elementari), e sono tragici in gran parte delle regioni del sud. Siccome la media è fatta da tutte le regioni, questo implica che in alcune regioni del nord i risultati sono più che decenti, il che fa sorgere la domanda: ma se vivo a Vicenza o ad Udine, devo davvero preoccuparmi dei problemi della scuola italiana? Devo farlo per spirito di solidarietà nazionale e semmai rimpiangere i premi Nobel mancati se al nord la scuola fosse migliore di quel che già è?
Domande retoriche, ma più seriamente, le disparità interregionali sono un mistero: a parità di risorse (almeno in teoria), di regole di reclutamento e formazione degli insegnanti, e tenendo conto dell’accentramento sicuramente estremo dei curricula (uno dei problemi, ma ne parlerò sotto), come sono possibili tali divari? Purtroppo, a scapito di una ventina d’anni di raccolta di dati Invalsi, le cause sono ancora misteriose. Rimangono spiegazioni residuali: la ricerca sui “peer effects” (e cioè: studio di più perché, e solo se, incentivato a farlo da chi mi sta attorno) rivela che questi effetti esistono ma secondo Gavosto “non sono trascendentali.” Io tendo a credere che siano importanti. Di spiegazioni "culturali", o di riferimenti (sempre di moda) al capitale sociale, l’autore non fa menzione, forse per political correctness, forse perché si tratta spesso di concetti definiti piuttosto vagamente, pertanto difficili da misurare.
Fatte le dovute premesse sullo stato dell’istruzione, il capitolo 2 affronta la problematica dei contenuti dell’insegnamento. Il 90% dei lettori sarà probabilmente sorpreso nell'apprendere che i programmi scolastici ministeriali non esistono, essendo stati aboliti addirittura da piu’ di 20 anni: dalla riforma Berlinguer del 2000 esistono solo “indicazioni” piu’ o meno generiche (a seconda della materia e dell’ordine di scuola): un professore creativo è libero di insegnare quel che vuole, con pochi limiti. L’autonomia scolastica, almeno sulla carta, per quanto riguarda i programmi non è un concetto astratto, così come la possibilità di realizzare traiettorie di apprendimento più o meno personalizzate. Il problema è quello di avere insegnanti preparati e motivati a farlo. È molto più semplice farsi guidare nella definizione dei contenuti del corso dall’indice del libro di testo, che ricalca con ogni probabilità le indicazioni ministeriali, o che comunque si rifà, magari per pigrizia degli autori stessi, ai programmi ministeriali pre-riforma. Il problema è che nelle scuole che funzionano (almeno quelle che ho potuto conoscere io per esperienza diretta, ma non in Italia), i libri non si usano più, e da parecchio tempo (e non sono sostituiti dai tablet, magari in modo approssimativo e inefficace, come invece ho potuto conoscere, sempre per esperienza diretta, in Italia). Quindi, continuiamo ad adottare i soliti libri, contenenti le solite nozioni, che ci conducono per esempio a spendere un anno cruciale allo scientifico ad insegnare trigonometria e ad ignorare la statistica (i lettori mi scusino, mia fissa personale).
Ovviamente una differenziazione dei programmi richiederebbe docenti competenti, tema che viene affrontato in un capitolo successivo. Qui invece Gavosto sottolinea la frammentazione dei curricula: troppe materie insegnate, soprattutto nella media inferiore, ma anche in quella superiore, e al contempo nessuna possibilità di scelta di materie opzionali, alla quale si fa fronte tramite una quantità enorme di sotto-indirizzi e “curvature” che però vengono scelte prima di poter imparare le proprie attitudini e in modo praticamente definitivo ad un’età troppo giovane.
La riduzione delle materie curricolari è stata sperimentata di recente in altri paesi, ma andrebbe accompagnata ad una riforma dei cicli scolastici, altro tema cruciale in ogni proposta di riforma, che io trovo essere la criticità più marcata dell’attuale sistema. Gavosto sostiene che i cicli andrebbero rivisti, possibilmente allungando la scuola elementare accorpando le medie, e al contempo riformando la durata degli studi e l’obbligo scolastico. Tuttavia non sembra preferire uno schema preciso, vuoi perché sa benissimo che ogni ministro di turno avrà idee personali a riguardo che rendono inutile anche la fatica di pensarci, vuoi perché non sembra avere un’idea precisa di quale sia la struttura migliore: due cicli da 6/7 anni? 7+5? 4+4+4? Nel libro vengono descritti vari modelli basati sulle esperienze francese, tedesca, e scandinava.
Gavosto è cauto, forse persino timido, anche nei confronti dell’idea di uniformare l’istruzione superiore e introdurre ability tracking (cioè offrire corsi di diversa difficoltà nella stessa scuola) che ritiene irrealizzabile sia per lo stigma che comporterebbe la frequenza dei corsi di livello inferiore, sia perché contrasterebbe con l’equità della scuola italiana. Sembra dimenticare che il tracking già esiste, ma si fa a livello di scelta di scuola, non di classe, amplificando lo stigma, e rendendo enormemente più difficile e costoso il passaggio ad un track superiore (o inferiore, quando serve). Accenna anche alla possibilità di istituire percorsi flessibili, in cui uno studente brillante possa in una materia seguire i corsi dell’anno successivo (o precedente), a seconda delle sue attitudini. Fantascienza? Queste cose succedono davvero, in quelle
"scuole che funzionano” di cui parlavo sopra, ma richiedono un’organizzazione diversa dei curricoli (non da fantascienza).
Meno timido è il suggerimento di sottolineare e incrementare il ruolo orientativo della scuola media. Io non ne sono tanto sicuro. Davvero vogliamo spendere più tempo e risorse durante la scuola media, il ciclo di studi più deficitario nei confronti internazionali, per convincere un tredicenne a diventare perito industriale o ragioniere o a vincolarsi irrevocabilmente a studiare il greco antico per cinque anni? L’orientamento puo’ essere utile per l’università, ma oso dire dovrebbe venire naturalmente nel corso degli studi; l’idea di obbligare tutti gli studenti a spendere una settimana o più l’anno ad orientarsi per le scuole superiori (come da recentissima linea guida ministeriale) quando, come documentato nel primo capitolo, in molte regioni il 70% non sa nemmeno leggere e far di conto in modo soddisfacente, mi sembra assurda. La domanda di orientamento scomparirebbe se i cicli fossero riformati come dovrebbero. A nessun genitore entusiasma l’idea di far scegliere la scuola ai figli a 12-13 anni, e credo questa sia una delle poche riforme su cui sia possibile formare una coalizione con una maggioranza solida.
Il capitolo 3 si focalizza sugli insegnanti e sul loro percorso professionale: la formazione, il reclutamento, e la progressione di carriera. In poche pagine riassume la travagliata storia del modo bizzarro in cui la scuola recluta il proprio capitale umano e le sostanziali carenze con cui viene formato (ad eccezione degli insegnanti della scuola primaria, che ricevono una formazione pedagogica specifica nel loro percorso universitario). Gavosto propende per una riforma del reclutamento che preveda un’abilitazione preventiva delle competenze (tramite una laurea abilitante oppure tramite commissioni permanenti, similmente a come avviene a livello universitario), cui faccia seguito una chiamata diretta da parte delle istituzioni, che trova preferibile a concorsi nazionali o locali. Al che il mio cervello ha intonato: You may say, I’m a dreamer, but I’m not the only one …
C’è poi la questione della carriera degli insegnanti. Sia Gavosto che molti addetti ai lavori che ho avuto modo di ascoltare sottolineano la necessità di istituire un percorso professionale che incentivi i docenti a mantenere e sviluppare le proprie capacità, e riconoscere livelli crescenti di responsabilità che premino chi si assume responsabilità organizzative, prevedendo figure intermedie tra gli insegnanti e il dirigente. Idea condivisibile, ma trovo strana l’assenza, sia nel libro che nel dibattito, dell’idea che la progressione di carriera, o anche solo il livello stipendiale, possano anche essere previste per chi insegna meglio degli altri, senza dover assumere incarichi amministrativi. Una possibile “scusa” viene dal fatto che l’insegnamento dovrebbe essere (vogliamo sognare? facciamolo!) un lavoro collaborativo fatto da un team di docenti, e che quindi il ruolo pedagogico del singolo è difficile da valutare; e che sarebbe poco incentivante all’interno di questi team innescare rivalità derivanti da una competizione salariale. Sarà, ma ancora, avendo conosciuto almeno una scuola dove la coordinazione di team di insegnanti domina sulle iniziative dei singoli, posso garantire che anche in quei corridoi dove scorre il latte e miele tutti sanno quali siano, fra i componenti del team, gli insegnanti bravi, quelli medi, e quelli scadenti. Lo sanno gli studenti, lo sanno i genitori, lo sanno i colleghi; oso ritenere che a un dirigente che non voglia chiudere occhi e orecchie, e sia meno occupato a firmare circolari, possa arrivare la notizia.
Il quarto capitolo si focalizza sulle strategie di insegnamento. L’autore prende per mano il lettore probabilmente inconsapevole dei passi da gigante fatti negli ultimi anni (diciamo trenta, ma probabilmente le origini sono anche precedenti) nei metodi di insegnamento o, almeno, in quelli che quasi universalmente la comunità educativa ritiene efficaci. Dico che il lettore è inconsapevole perché probabilmente, anche se giovane, è stato formato con metodi e tecniche tradizionali, che si basano principalmente sulla ripetizione di nozioni comunicate tramite lezione frontale. Esiste credo la quasi unanime opinione fra gli esperti che questa sia la peggiore forma di insegnamento, nel senso che non produce un efficace apprendimento concettuale che consenta allo studente di imparare ad applicare le nozioni apprese in ambiti diversi (acquisendo capacità di astrazione), o anche più semplicemente di ritenere mnemonicamente le informazioni acquisite (la lezione di storia appresa dal professore in cattedra, ripetuta a casa, e rigurgitata a memoria la settimana successiva si dimentica dopo tre mesi).
Piu’ efficaci risultano invece tecniche ove lo studente partecipa attivamente all’apprendimento, con modalità che lo coinvolgono direttamente attraverso dimostrazioni, discussioni, lavori di gruppo in una scala di qualità che vede al suo apice l’insegnamento ai propri pari come lo strumento piu’ efficace. Era l’idea sottostante le famose “sedie con le ruote” che dovevano facilitare la “didattica innovativa” che, effettivamente, può essere facilitata da un agile spostamento degli studenti nell’aula. Il principio non era secondo me sbagliato; sbagliata era l’idea che la rimozione di una molto specifica barriera ad una molto specifica forma di didattica potesse essere imposta dall’alto per decreto ministeriale. L’idea di far decidere agli insegnanti quali siano i tipi di strumenti di cui abbisognano i loro metodi fa fatica ad entrare nella testa di qualsiasi ministro, accentratore per natura. Nelle “scuole che funzionano”, gli insegnanti hanno la propria aula, che arredano secondo le proprie esigenze, sia con i banchi adatti, con o senza ruote, sia con gli altri strumenti specifici che la propria materia necessita. Questo in Italia non succede, sia per le carenze della formazione in corso di servizio, sia perché sembra mancare la consapevolezza anche fra gli esperti della utilità di disporre degli spazi adeguati. Gavosto sottolinea le carenze per esempio del PNRR il quale, pur destinando risorse all’edilizia scolastica, non è guidato da un preciso modello didattico che dovrebbe orientare le ristrutturazioni. Io non sono certo che tale modello debba essere imposto dall’alto.
I capitoli conclusivi si soffermano sulle motivazioni per cui le riforme sono bloccate, che sostanzialmente sono riconducibili alla scarsa capacità di coordinazione dei beneficiari (genitori, opinione pubblica), corredata anche da un’altrettanto scarsa informazione sulle problematiche, cui questo libro certamente potrebbe sopperire, se venisse letto ogni domenica dai pulpiti delle chiese al posto della prima lettura. Nella conclusione, Gavosto riassume le sue principali proposte: 1) accorpamento di scuole elementari e medie in un unico ciclo accompagnato a 2) una riduzione delle materie che preveda un passaggio più graduale ai cicli superiori con l'introduzione di materie opzionali in modo crescente; 3) introduzione di una didattica dell’orientamento alla fine delle medie e delle superiori; 4) reclutamento basato su procedure di abilitazione, e successiva assunzione, che non avrebbe bisogno di una barriera selettiva; 5) scatti di carriera che accompagnino la progressiva assunzione di responsabilità; 6) allungamento dei tempi di scuola (una criticità soprattutto al Sud). Il tutto dovrebbe essere accompagnato da 7) una costante valutazione dell’operato delle scuole, che andrebbe pubblicizzato in modo trasparente per migliorare la consapevolezza dell’opinione pubblica e le scelte dei genitori.
Questo riassunto non rende giustizia al modo articolato, sia pure sintetico, in cui l’autore descrive le sue proposte, motivate dall’evidenza presentata nel resto del libro. Tuttavia, mi si consenta un’opinione personale, probabilmente dettata da una discreta dose di idealismo. Le proposte accennate sono tutte più che ragionevoli e desiderabili, ma mi stupisce che non si faccia un passo ulteriore: prevedere la possibilità di creare istituti che scelgano i loro cicli scolastici, la quantità di materie che vogliono imporre o lasciare opzionali, i metodi con cui insegnarle, oltre che i contenuti (che, come ora sappiamo, sono liberi dal 2000) e così via per arrivare al reclutamento e alla remunerazione e incentivazione dei propri insegnanti. E lasciare ai genitori la possibilità di decidere, tramite la scelta della scuola, quale sia il modello educativo appropriato alle caratteristiche dei propri figli.
Questi istituti potrebbero essere realizzati sul modello delle “charter schools” e potrebbero essere gestiti da cooperative di genitori e/o insegnanti, senza scopo di lucro, finanziati dallo stato attraverso un trasferimento in funzione del numero di studenti ammessi, ma altrimenti liberi di gestire la durata degli studi, i percorsi formativi, i programmi, il reclutamento e l’incentivazione del personale (che comunque potrebbe essere soggetto all’abilitazione nelle modalita’ proposte da Gavosto), e la logistica degli edifici e degli ambienti adeguata a realizzare gli obiettivi desiderati. Non sto dicendo che tutte le scuole dovrebbero essere organizzate così, solo che il sistema dovrebbe prevederle.
Proposta troppo idealista? Forse, ma non tanto più delle altre presentate. Sarebbe importante avanzarla, perché credo oggigiorno non esista un modello educativo perfetto, sia per quanto riguarda la struttura dei cicli scolastici, sia per quanto riguarda i metodi di insegnamento, le materie e i programmi. Come dimostrato da numerosi studi citati nel libro, non esiste un accordo sull'efficacia di molti aspetti o politiche dell'educazione. Questa varietà di giudizi non dovrebbe sorprendere, poiché ogni studente è unico e ha esigenze diverse in termini di insegnamento. Alcuni hanno bisogno di un insegnamento strutturato e diretto, mentre altri necessitano di maggiore libertà per esplorare materie, argomenti e metodi diversi.
Uno dei difetti della scuola italiana attuale è proprio la sua eccessiva rigidità e la scarsa possibilità di scelta per i genitori nella sostanza dei fattori che contano, mascherata dalle decine di percorsi curricolari offerti dopo la scuola media inferiore.
Concludo con una precisazione metodoologica. Questo libro sarebbe potuto facilmente scadere in un elenco delle politiche preferite dall’autore supportate con l’ultimo studio sfornato dall’NBER, “nel quale si dimostra credibilmente che… (sostituire a piacere)”. Invece, pur citando spesso vari studi a supporto delle sue affermazioni, Gavosto lo fa con cautela, senza esagerare la rilevanza dei risultati (ma senza coinvolgere il lettore divagando sui loro limiti teorici ed empirici). Aggiungo questa precisazione perché credo che la crescente attenzione all’evidence-based policy tenda a prendere come oro colato l’ultimo articolo sfornato dall’economista famoso di turno, magari non ancora passato al vaglio della peer-review, dimenticando che il consenso su questi temi arriva, se arriva, spesso dopo decenni di ricerche, dibattiti, e conferme tra gli studiosi. Si dimentica pure la tendenza, che viene dalla natura stessa delle metodologie di ricerca la cui adozione si è diffusa negli ultimi 20-30 anni, ad adottare spiegazioni monocausali dei vari fenomeni, e ad ignorare complessità, non linearità, fenomeni di equilibrio generale, etc… che nell’analisi di un sistema come quello educativo non possono che essere dominanti e che mal si prestano ad essere studiate con tecniche di causal identification, diffuse dal fenomeno che è stato denominato con una geniale operazione di marketing la “credibility revolution”. Gavosto pur presentando al lettore l’evidenza scientifica sulle diverse proposte, si fa guidare prima di tutto dal buon senso, e a mio parere questo è un grosso pregio del suo libro.
In sintesi, "La scuola bloccata" è un libro estremamente informativo che offre una panoramica dettagliata sulla struttura e sui problemi della scuola italiana, e contiene proposte interessanti e condivisibili per migliorarla. Lo consiglio vivamente a chiunque sia interessato a questo argomento.
Da alcuni anni vi è in Ucraina un dibattito sulla possibilità di adottare definitivamente il calendario gregoriano e celebrare il Natale in 25 dicembre. L’opinione dominante negli anni scorsi era che due Natali fossero meglio di uno, ma la nuova invasione russa sta spostando l’equilibrio in favore del 25 Dicembre. Nel 2022 per la prima volta anche le chiese di rito ortodosso hanno cominciato a celebrare il Natale il 25 di dicembre, in aggiunta al 6 Gennaio.
Inoltre, è sempre importante tenere presente che la scelta della data del Natale è una questione di calendario (gregoriano vs Giuliano), non di confessione religiosa. Altre chiese ortodosse (bulgara, greca, romena) già seguono il calendario gregoriano. Definire quello del 7 gennaio “Natale ortodosso” è quindi improprio.
Va ricordato infine che l’Ucraina è un paese estremamente vasto e variegato e che qualsiasi generalizzazione in questo articolo potrebbe fare torto alle particolarità di una regione o una comunità.
]]>L’articolo in questione sembra un adattamento agli eventi recenti, di una serie di articoli pubblicati svariati anni addietro (tra il 2017 ed il 2020) su riviste che seguono l’evolversi della situazione socio-politica in quella regione. In termini di analisi fattuale, quindi, nulla di particolarmente originale o di specifico degli ultimi mesi. Il modello analitico sottostante sembra essere quello “leninista classico”: la classe operaria delle grandi fabbriche, organizzata dal partito e dal sindacato social-comunisti, costituisce la colonna d’acciaio e l’impacaltura fondamentale di ogni buona rivoluzione. Se manca quel tipo di classe operaia allora la rivoluzione diventa difficile o impossibile e la colpa, una volta ancora, va data alla nota araba fenice chiamata “neoliberismo” che quella classe operaia “distrusse”.
Lasciamo stare il vago romanticismo reazionario del tutto (ridateci le fonderie e le catene di montaggio d’un tempo che a noi mosche cocchiere della rivoluzione socialista manca l’operaio massa davanti alle cui fabbriche amiamo volantinare testi rivoluzionari ad ogni cambio di turno, loro turno sia chiaro) e cerchiamo di comprendere i propositi e le finalità dell’articolo in questione. L’idea di un regime teocratico e dittatoriale – dove tutto quanto venga dall’Occidente, e dagli USA in particolare, è farina del diavolo – che gestisce il proprio sistema economico ispirandosi a criteri “liberali” (con o senza neo) lascia perplessi e richiederebbe almeno qualche pezza giustificativa[1]. Ma siccome tutto è possibile (anche se non tutto è probabile) proviamo a verificare se i) corrisponde al vero che la Repubblica Islamica abbia vissuto un periodo “neoliberista”; ii) se gli effetti di quelle riforme di circa 25 anni fa abbiano effettivamente un ruolo nelle proteste iniziate dopo l’uccisione di Mahsa Amini; iii) quale coordinamento esista, se esiste, fra chi da quasi 90 giorni scende in piazza per protestare contro il regime e se questo coordinamento è mosso effettivamente da istanze di carattere economico; iv) se una qualche evidenza esiste che i supposti cambiamenti “neoliberali” siano il fattore frenante del movimento rivoluzionario.
La rivoluzione del 1979 che aveva portato al rovesciamento del regno di Mohammad Reza Pahlavi e all’insediamento della Repubblica Islamica aveva momentaneamente raccolto le aspirazioni dei movimenti marxisti del Paese. Dall’esilio di Parigi Khomeini aveva teorizzato una dottrina politica e sociale vicina a quella marxista in contrapposizione ai “fasti per pochi”, e alla corruzione, della monarchia. Tuttavia, nelle settimane seguenti alla presa del potere egli si distanziò da quelle teorie e impartì alle Guardie Rivoluzionarie l’ordine di non violare la sacralità delle proprietà. Si era reso conto che, nella sua rivoluzione, la classe media, specialmente i commercianti ed artigiani urbanizzati oltre a molti dipendenti pubblici, aveva giocato un ruolo cruciale e che del comunismo iraniano poteva fare a meno. Insomma, quella volta erano stati i socialisti ed i comunisti iraniani a funzionare da “utili idioti”, come il signor Il'ič Ul'janov definirebbe forse anche ora gli autori di molti “studi”.
Nei primi anni della Repubblica l’economia iraniana subì un tracollo. Il GDP per capita (a prezzi costanti) passò dai 7,600 dollari del 1976 ai 2,932 del 1988.
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Egli ha infatti affermato quanto segue:
]]>Mi domando se il razionalismo possa avere connotazione negativa.
Vediamo ora i numeri:
La spesa pubblica, secondo il bilancio di previsione assestato, è nel 2022 pari a 1.097 miliardi, il 57,1% del PIL. Negli anni passati la spesa su PIL è sempre stata intorno al 50%
]]>E non c’è eccezione culturale (in questo caso: fortunatamente) che possa permetterci di prescindere dal quadro internazionale per agire in modo coerente con il necessario sviluppo della nostra offerta culturale, la reale valorizzazione del patrimonio, la crescita del pubblico e l’ampliamento dei pubblici.
Mutamenti in corso. È questo il racconto che ci arriva dai musei di tutto il mondo, mentre impariamo – tanto per cominciare – che lo scenario è planetario, la fruizione si smaterializza parzialmente e, di conseguenza, i linguaggi si trasformano.
Un museo oggi non è più solo il luogo fisico che conserva ed esibisce il suo patrimonio, ma rappresenta un servizio culturale rivolto alle comunità che deve essere in grado di suscitare partecipazione ed engagement nei suoi visitatori, e un hub di sviluppo territoriale, innovazione sociale ed educazione culturale. Quindi non si può perdere di vista la missione - non solo possibile ma necessaria - di proporlo senza timidezze come attore mondiale della cultura, costruendo leadership e brand reputation sulla base della sua specificità, di ciò che lo contraddistingue e che non necessariamente passa dall’enciclopedismo della collezioni.
In termini cartesiani - esercizio non ozioso - accertato l’hardware (il patrimonio), il software (l’articolazione dell’offerta e dei servizi, in senso lato) deve agire nel quadrante di segno positivo individuato dagli standard minimi e in esso ottenere il massimo della valorizzazione possibile.
Qual è il timone di questa azione? Risposta secca: il visitatore che è turista ma anche cittadino. Non più spettatore né semplice fruitore, ma partner. Di una relazione che chiama a gran voce la condivisione di nuovi codici, leggasi: partecipazione, generazione di contenuti, storytelling del quale è al contempo testimone e protagonista. Co-protagonista, ca va sans dire, il web, community mista fatta dalle istituzioni culturali ma anche da un pubblico di appassionati globale e multilingue, partecipanti entusiasti di un racconto collettivo fatto di hashtag, cinguettii e selfie. Risultato: una vivacità di scambi e interazioni che è andata ogni oltre aspettativa, unendo luoghi, esperienze e persone da tutto il mondo, da Roma a New York, da Bamako a Sidney.
Ma anche nell’esperienza fisica della visita, il pubblico cerca situazioni culturali e musei che siano piacevoli, accessibili, sorprendenti. Luoghi in cui scambiarsi conoscenze, raccontarsi storie, condividere impressioni e scoprire emozioni.
In quest’ottica la dimensione non è più contemplativa né commemorativa, ma è di fertilizzazione: il museo del futuro è una specie di rivoluzione spazio-temporale, in cui passato e presente, memoria e contemporaneo, interagiscono. Non un tempio per eletti, nè un supermercato della cultura, ma uno spazio aperto in cui l’arte dialoga con la scienza per generare nuove idee, la socialità produce inclusione per fondare un welfare della mente. I musei devono rappresentare uno dei nodi di un sistema che costruisce coesione sociale a base culturale e su di essa progetta il futuro.
Nuove agorà, dove si dibatte e ci si interroga nel contesto di reti policentriche alternative al centro unico, poli diffusi di attrazione delle città intorno ai quali si generino nuove visioni urbane (e non solo) di concerto con università, centri di ricerca, altre istituzioni culturali.
Nuovi luoghi di formazione transgenerazionale, dove i giovani possano incontrare i maestri e i maestri imparare dai giovani, in un confronto che sprigioni ispirazione e liberi nuove energie creative.
E dove possibile i musei devono uscire da se stessi, investendo di arte la città in modo innovativo, intelligente e partecipativo.
Istituzioni culturali, pubblico e ,last but not least, imprese. Una triangolazione virtuosa e indispensabile, ora che il rapporto pubblico-privato sui beni culturali comincia ad essere finalmente sdoganato. Ma lanciamo il cuore oltre l’ostacolo, e non fermiamoci al mecenatismo, che è cosa buona ma è solo uno degli ingredienti energizzanti di una ricetta più completa in cui la produzione industriale è sempre più produzione creativa e/o a ricaduta culturale. Attestati gli effetti positivi sulle economie nazionali degli investimenti pubblici in cultura e la capacità della filiera culturale e creativa privata di scatenare un indotto rilevante, le imprese non possono che investire nella nuova rivoluzione culturale.
La bellezza certamente salverà il mondo, ma sarà la cultura a nutrirlo per molti anni a venire. Siamo pronti, Eddy?
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Una risoluzione simile da parte del parlamento italiano avrebbe un alto valore simbolico, su due fronti. Il primo è storico: riaprire pubblicamente un dibattito approfondito sulla storia dell’Unione Sovietica. Una storia fatta di conquiste tecnologiche ed industriali viziate dalla loro funzionalità allo sforzo bellico ed imperiale e macchiata da una infinita serie di orrori, coercizioni, repressioni e corruzione. Tutti elementi che hanno ottenuto come risultato finale il collasso dell’URSS stessa, nonché la strutturale mancanza di benessere ed avanzamento sociale per cui i cittadini russi tuttora pagano salate conseguenze. Il secondo fronte è politico-strategico: prendere consapevolezza dell’insanguinato filo imperialista che collega tutti i grandi leader della Russia zarista, sovietica e post-sovietica. Le recentissime dichiarazioni di Putin il quale, paragonandosi allo zar Pietro il Grande, ha ribadito una volta ancora le vere ragioni dell’invasione (riconquistare territori che gli imperatori russi ritengono “propri”, sottomettendone con la violenza le popolazioni) ne costituisce l’ennesima conferma.
Qui veniamo al perché sia una occasione persa. Una tendenza, subdolamente diffusa in occidente, ha particolarmente attecchito nel dibattito pubblico italiano: minimizzare le colpe storiche e le fallacie ideologiche russe. La tendenza è figlia sia di circostanze documentabili (il PCI fu sia grande che fedele all’URSS sino a quasi la sua fine) che di scelte culturali e politiche recenti. Non aiuta il fatto che, nella scuola italiana, la storia contemporanea in generale e quella dell’Unione Sovietica in particolare siano state sempre insegnate malissimo. È troppo spesso passato il messaggio che in qualche modo il comunismo sovietico sia stato “meglio del nazifascismo” perché, dopo essersene alleato, fu costretto a combatterlo. Bias smentito dai fatti e dal costrutto teorico dello stalinismo stesso.
Se poi si dovesse studiare meglio la storia recente forse ci si accorgerebbe che negli ultimi 30 anni alla diplomazia si è dato forse troppo spazio. Se c’è un grave errore da imputare all’Occidente è probabilmente quello della diplomazia esasperata, quasi connivente, con un regime che, dopo la brevissima parentesi Gorbachev, ha immediatamente riassunto i suoi caratteri totalitari. Si scoprirà, per esempio, che l’amministrazione di Bush senior fece di tutto per evitare il crollo dell’URSS al fine di non creare risentimento in una Russia in ginocchio ma ancora proprietaria di un gigantesco arsenale nucleare con il quale, allora come ora, minaccia(va) il mondo. Si scoprirà inoltre che l’amministrazione Clinton ed il FMI inviarono decine di miliardi dei contribuenti occidentali alla Russia di Boris Yeltsin per facilitare la ripresa durante quei turbolenti anni. Si ricorderà altresì che Bush junior fece di tutto per costruire ponti di dialogo con la Russia e così fecero diversi altri leader occidentali, dai PM del Regno Unito al nostrano Berlusconi alla Merkel. Questi ultimi due macchiatisi del torto storico di aver avviato una troppo stretta, e a tratti non pulitissima, dipendenza energetica dalle aziende degli oligarchi putiniani.
La sequenza di - storicamente molto discutibili - distinguo sulla natura dell’Holodomor che girano per il paese non ha altro fine che il ridimensionamento dei crimini staliniani: giocare con le definizioni non cancella i fatti. Fatto: non abbiamo creato noi occidentali il nemico russo, anzi abbiamo fatto di tutto per farcelo amico. Fatto: l’imperialismo russo è una costante storica radicata nella cultura di un impero che tuttora racchiude lo straordinario numero di 120 gruppi etnici e numerosi movimenti indipendentisti che ribollono sotto la superficie. Altro fatto: la passione russa per i leader autoritari ed espansionisti deriva dalla paura strutturale di un dissolvimento di questo gargantuelico colosso, tenuto insieme attraverso la soppressione violenta delle identità etniche non russe. Abbiamo troppo a lungo chiuso gli occhi di fronte a tali fatti. Lo abbiamo fatto con la Cecenia, con la Georgia, con gli avvelenamenti degli oppositori politici e con tanto altro. Tirare in ballo la via diplomatica (ampiamente battuta anche prima dell’invasione), avviare pelose operazioni di revisionismo storico e sbandierare richiami ad una complessità che aggrava, invece di alleggerire, i crimini a cui stiamo assistendo, ci sembrano sintomi della stessa malattia: il pregiudizio ideologico spacciato per virtuosismo.
Ed infine, nonostante gli sforzi di buona parte della “sinistra storica” di far apparire come "preterintenzionale" l’affamamento di milioni di persone, i fatti dicono altrimenti. 1) Le altre regioni affette dalla fame in quegli anni (Kazhakistan, Caucaso, regione del Volga) erano tutte parte dell’URSS e furono tutte vittime della medesima follia collettivista scelta da Stalin. 2) Questi fece cadere il peso delle carestie molto di più sulla periferia dell’impero che sulla madre Russia tant’è vero che a Mosca e San Pietroburgo la carestia non fu praticamente un problema. 3) Gli esecutori materiali della ridistribuzione della produzione agricola non solo espropriarono terreni e deportarono kulaki in Siberia, ma si peritarono di chiudere completamente i confini dell’Ucraina al resto dell’Unione, permettendo ai generi alimentari di attraversare la frontiera solo in direzione da Kiev a Mosca, vietando ingresso ed uscita a beni e persone, ed imponendo un lockdown capillare anche ai singoli villaggi di poche centinaia di anime. 4) La fame che ne derivò fu brutale ad un livello che ai giorni nostri riusciamo difficilmente ad immaginare. Se decidi di isolare un paese, espropriarne l’intera produzione agricola obbligando la sua popolazione alla fame, il fatto che tu lo stia facendo per motivi etnici, religiosi, ideologici o nazionalistici diventa del tutto irrilevante.
L’Holodomor fu genocidio intenzionale voluto da Stalin e dalla classe dirigente russa esattamente come la distruzione dell’Ucraina, oggi in corso, è un tentativo di genocidio voluto da Putin e dalla classe dirigente russa. Sic, et simpliciter.
]]>Putin prende il potere a seguito delle dimissioni di Eltsin, le prime elezioni che deve affrontare sono quelle del 2000.
Boris Berezovskij è una figura controversa, nasce nel 1946, fonda la società LogoVAZ che sviluppa software per il settore automobilistico. Nel 1994 è vittima di un attentato e le indagini sono condotte da Alexander Litvinenko (FSB). Durante le privatizzazioni degli anni novanta ottiene il controllo del principale canale televisivo russo “Primo Canale” (Первый Канал). Nel 1996 gioca un ruolo importante nella rielezione di Boris Eltsin a capo dello Stato e sostiene Putin nelle elezioni della primavera del 2000. Nel Maggio 2000, commentando una proposta di modifica alla costituzione che avrebbe dato il potere al presidente di rimuovere i governatori delle regioni dichiara: “non voglio essere coinvolto nella rovina della nazione e nella restaurazione di un regime autoritario” e critica pubblicamente Putin per la gestione del caso del sottomarino Kursk; tanto che quest’ultimo in un’intervista al Le Figaro, annuncia che non verranno più tollerate critiche al governo da parte di media controllati degli oligarchi. Da quel momento Berezovsky sosterrà molti degli oppositori di Putin. Nel 2001 Berezovsky cede il controllo di “Primo Canale” (Первый Канал), nel 2006 quello del giornale economico Kommersant (Коммерсант). Dal 2003 si rifugia in UK; sempre nel 2003, secondo Litvinenko, e nel 2007, secondo il The Sun, l’FSB avrebbe pianificato due volte l’assassinio di Berezovsky sul suolo britannico. Nel 2006 Alexander Litvinenko muore a Londra. Nel 2013 Berezovsky viene trovato morto in casa sua a Sunninghill nel Berkshire.
Sergei Yushenkov nasce nel 1950 ed è deputato dal 1989. Il 22 ottobre 2002 fonda il partito Russia Liberale (Либеральная Россия). Fa parte delle commissioni d’inchiesta sulle esplosioni negli appartamenti avvenute in Russia e sulla strage del teatro Dubrovka. Viene assassinato il 17 Aprile 2003 dopo aver registrato il partito per le elezioni del Dicembre 2003.
Yuri Shchekochikhin nasce nel 1950, è un giornalista investigativo e politico. Deputato dal 1990, nel 1995 viene rieletto alla Duma nelle file del partito liberale Yabloko (Яблoко); dal 1996 è vicedirettore del giornale Novaya Gazeta (Новая Газета). Nel 2002 anche lui fa parte delle commissioni d’inchiesta sulle esplosioni negli appartamenti avvenute in Russia. Muore il 3 luglio 2003.
Anna Politkovskaja nasce nel 1958 a New York da due diplomatici sovietici presso le Nazioni Unite. Studia giornalismo all'Università statale di Mosca e nel 1982 inizia a collaborare con il quotidiano Izvestia (Известия). Nel 1999 approda a Novaja Gazeta. La sua attività giornalistica sarà incentrata sugli abusi delle forze armate russe durante le guerre in Cecenia e sulla critica ai regimi instaurati da Akhmat Kadyrov e da Putin. Nel 2001 durante uno dei numerosi viaggi in Cecenia viene arrestata, interrogata, malmenata e umiliata dalle forze armate russe. Sempre nel 2001 è costretta a rifugiarsi a Vienna a seguito delle continue minacce ricevute da Sergey Lapin, un caporale della polizia russa. Tornata in Russia, nel 2004 viene avvelenata su un volo Aeroflot mentre si sta recando a Beslan per negoziare il rilascio dei bambini sequestrati nella scuola del paese. Viene assassinata a Mosca nell’ascensore del suo palazzo il 7 Ottobre 2006; il processo condanna gli esecutori materiali dell’omicidio ma non identifica i mandanti.
Mikhail Khodorkovsky nasce nel 1963, nel 1986 è membro del Komsomol (Unione della Gioventù Comunista), nel 1990 fonda la banca Menatep, nel 1995, durante le privatizzazioni acquista la compagnia petrolifera Yukos e altre società, sostiene ed è consigliere di Eltsin. Nel 2001 fonda la piattaforma Open Russia per promuovere in Russia la democrazia e i diritti umani. Nei primi anni 2000 grazie alla ristrutturazione di Yukos e ai prezzi del greggio crescenti Khodorkovsky diventa l’uomo più ricco di Russia. Nell’Ottobre 2003 viene arrestato con l’accusa di aver commesso illegalità durante il processo di privatizzazione; in precedenza nel Luglio 2003 erano stati arrestati Platon Lebedev, suo socio in affari e Alexei Pichugin, capo della sicurezza in Yukos. Nel Maggio 2005 Khodorkovsky viene condannato a nove anni di reclusione. Il 29 Novembre 2004 il Consiglio d’Europa si è espresso come segue: “le circostanze dell'arresto e del perseguimento di importanti dirigenti della Yukos suggeriscono che l'interesse dell'azione dello Stato in questi casi va oltre il mero perseguimento della giustizia penale, per includere elementi tali da indebolire un aperto oppositore politico, intimidire altre persone facoltose e riprendere il controllo di asset economici strategici”. Nell’Ottobre 2005 viene inviato ai lavori forzati nella regione di Čita. Nel Febbraio 2007 Khodorkovsky e Lebedev vengono accusati di appropriazione indebita e riciclaggio di denaro e condannati a dodici anni di reclusione. Durante la reclusione scrive un saggio politico “Svolta a Sinistra” che viene pubblicato dai quotidiani Vedomosti (Ведомости) e Kommersant (Коммерсант). Nel 2013 viene graziato dal presidente Putin e viene rilasciato il 20 Dicembre dello stesso anno dopo 10 anni di reclusione. Lascia la Russia, si trasferisce in Svizzera e poi in UK; nel 2014 rilancia le attività di Open Russia e il 9 Marzo tiene un discorso a piazza Maidan a Kyiv. Open Russia è una piattaforma, coordinata da Kara-Murza, che sostiene i media indipendenti, diffonde in Russia la cultura della politica dello stato di diritto; ha un vasto programma di riforme relativo alle forze dell'ordine e alla Costituzione per garantire giustizia, democrazia e elezioni libere ed eque. Nel 2017 Open Russia viene iscritta nella delle organizzazioni “non gradite” in Russia, impedendole di fatto operare. Nel Maggio 2021 Open Russia ha cessato le sue attività in Russia. Nel 2022 Khodorkovsky è inserito dal governo russo nella lista degli “agenti stranieri”. E’ membro fondatore dell’Antiwar Committee of Russia (Антивоенный комитет России).
Vladimir Kara-Murza nasce nel 1981 è un giornalista e regista che dal 2000 è in attivo in politica collaborando frequentemente con Boris Nemtsov; ha un ruolo importante nella formulazione del Magnitsky Act e dal 2014 coordina Open Russia. Nel 2015 e nel 2017 viene ricoverato in ospedale a seguito di due probabili avvelenamenti. Il 22 Aprile 2022 è accusato di diffondere false informazioni e screditare l’esercito russo, a Luglio 2022 viene accusato di cooperare con una ONG “non gradita”, reato che prevede fino a sei anni di reclusione. Ad Ottobre 2022 è accusato di tradimento, reato per il quale è prevista una pena fino a venti anni. Ad oggi si trova in carcere.
Boris Nemtsov nasce nel 1959, è eletto alla Duma nel 1990, durante il tentativo di colpo di stato del 1991 si schiera con Eltsin. Nel Novembre del 1991 diventa governatore della regione di Nizhny Novgorod e attua un programma liberale; nel 1992 è eletto al Consiglio Federale. E’ contrario alla prima guerra cecena e nel 1997 è nominato vice Primo Ministro. In quel periodo assieme ad Anatoly Chubais cerca di riformare il paese ristrutturando l'economia e il sistema di welfare. A seguito della crisi del 1998 si dimette e nel 1999 fonda, insieme a Chubais e Gajdar, l’Unione delle Forze di Destra (Сою́з пра́вых сил); alle elezioni del 2000 il suo partito supporta Putin e Nemtsov viene eletto alla Duma. Nel 2004 pubblica un articolo, in collaborazione con Kara-Murza, in cui avverte sulle tendenze dittatoriali del putinismo. Alle elezioni ucraine del 2004 sostiene Yushchenko (avvelenato durante la campagna elettorale con diossina) mentre il governo russo appoggiava Yanukovych. Non si candida alle elezioni del 2008 e lo stesso anno fonda con Garry Kasparov il movimento Solidarnost (Солидарность) con l’obiettivo di aggregare le forze di opposizione a Putin. Nel 2010 è tra i firmatari di un manifesto anti Putin e sempre in quell’anno fonda quello che poi diventerà il Partito della Libertà popolare (Партия народной свободы) con il quale nel 2011 vorrà iscriversi alle liste elettorali, ma la sua domanda verrà respinta dal Ministero della Giustizia. Viene più volte arrestato per aver organizzato e partecipato a manifestazioni non autorizzate. Nel 2013 denuncia il clientelismo e l’appropriazione indebita dell’amministrazione Putin nell’organizzazione delle olimpiadi invernali di Sochi e suggerisce la formazione di una commissione civica d’indagine. Sempre nel 2013 si spende pubblicamente per l’avvicinamento dell’Ucraina all’Unione Europea dichiarando “Sostenendo l’Ucraina sosteniamo noi stessi”, è contrario all’annessione della Crimea e denuncia i piani del potere russo di creare lo stato fantoccio della "Novorossiya", nel 2014 critica la gestione clientelare e i legami di Putin con Kadyrov in Cecenia e indaga a fondo il ruolo dei militari russi, ufficialmente sempre negato, durante le operazioni in Crimea e Donbass. Viene ucciso il 27 Febbraio 2015 con dei colpi di pistola alla schiena sul ponte Bolshoy Moskvoretsky (Большо́й Москворецкий) nei pressi del Cremlino. Vengono condannati per il suo omicidio due uomini di etnia cecena, tuttavia il mandante rimane ignoto. Le conclusioni delle inchieste di Nemtsov sono state presentate da Ilya Yashin nel 2015 in un rapporto chiamato Putin. War (Путин. Война).
Ilya Yashin nasce nel 1983, dal 2005 collabora con Novaya Gazeta, nel 2008 aderisce a Solidarnost, collabora attivamente con Nemtsov e Alexei Navalny, partecipa alle manifestazioni di piazza del 2012 e del 2013 organizzate dalle opposizioni e per questo viene fermato dalla polizia. Nel 2016 e nel 2018 presenta due rapporti che criticano rispettivamente la situazione della Cecenia di Ramzan Kadyrov definendola "Una minaccia alla sicurezza nazionale", e i risultati politici, economici e sociali del governo di Putin, dove si conclude che il tenore di vita in Russia è diminuito e la dipendenza dell'economia dal petrolio è aumentata. Molto attivo nel campo della controinformazione sui social, da febbraio 2022 denuncia la barbarie dell’esercito russo in Ucraina e le pessime condizioni in cui versano i soldati russi. Ha dichiarato più volte di conoscere i rischi legati alla sua attività politica ma di non voler comunque lasciare il paese, nonostante ne abbia avuto l’opportunità. Il 12 Luglio 2022 Ilya Yashin viene arrestato con l'accusa di aver diffuso false informazioni sulle forze armate della Federazione Russa. Ad oggi si trova in carcere.
Alexei Navalny nasce nel 1976. La sua storia politica inizia tra le fila di organizzazioni nazionaliste dalle quali prenderà in futuro le distanze. Ricopre ruoli minori nella politica regionale russa, come quello di consulente del governatore dell’oblast’ di Kirov nel 2009, sede in cui inizia ad occuparsi di ciò che diventerà la sua cifra politica, ovvero la lotta alla corruzione. Nel 2009 infatti acquista pacchetti azionari di grandi aziende russe, che gli permettono di accedere a documentazione che Navalny pubblica sul suo blog al fine di informare i cittadini sulle dubbie condotte dei dirigenti, il blog inizia quindi ad acquistare seguito. Nel 2011 lancia RosPil (РосПил), una piattaforma online dove i cittadini possono denunciare casi di corruzione dei quali sono a conoscenza e la Fondazione per la lotta alla corruzione (Фонд Борьбы с Коррупцией), piattaforma grazie alla quale, mediante l’aiuto di donazioni volontarie, Navalny e la sua squadra indagano sui singoli casi di corruzione. Nel 2012 Alexei partecipa in qualità di leader alle proteste contro la rielezione di Putin, venendo trattenuto e poi rilasciato dalle forze dell’ordine. Nel 2013 si candida come sindaco di Mosca riuscendo a piazzarsi al secondo posto, dopo l’uscente Sergei Sobyanin (sostenuto da Russia Unita), Navalny denuncia irregolarità durante le votazioni alla Corte Suprema del comune di Mosca con l’obiettivo di riconteggiare i voti, ma la Corte non accoglie il suo appello. Nel 2014 critica l’annessione della Crimea sostenendo che la mossa di Putin porterà danni alla Russia nel lungo termine, senza però dichiararsi apertamente contrario all’annessione. Critica inoltre la ‘’sponsorizzazione’’ russa della guerra nel Donbass. Nel 2016 annuncia la sua candidatura alle elezioni presidenziali, la quale viene però rifiutata con motivazioni pretestuose, Amnesty International ed altri osservatori internazionali sostengono infatti che il reale motivo dietro il rifiuto sia l’opposizione a Putin. Navalny subisce numerosi attacchi sul piano fisico durante la sua carriera politica, due volte nel 2017 e nel 2020, quando viene avvelenato con l’agente nervino ‘’Novichok’’ durante un volo di linea. Viene trasportato d’urgenza in Germania e, dopo il periodo di degenza, pubblica un'inchiesta in collaborazione con The Insider, Bellingcat, Der Spiegel e CNN dove dimostra che chi l’ha avvelenato lavora per l’FSB. Nonostante le evidenti minacce alla sua incolumità, il 17 gennaio 2021 fa ritorno in Russia, dove viene immediatamente arrestato e processato. Dal carcere denuncia le condizioni inumane nelle quali vivono i detenuti e la sempre crescente barbarie del regime russo, specialmente in seguito allo scoppio della guerra.
Evgenij Čičvarkin, imprenditore, nasce nel 1974. Nel 1997 co-fonda Euroset (Евросеть), che diventerà il più grande retailer di telefonia mobile della Russia. Dal 2005 al 2007 riceve svariate accuse come quella di evasione fiscale o quella di aver importato illegalmente telefoni in Russia, le quali vengono giudicate da Čičvarkin come pretestuose e fini a rilevare la sua quota dell’azienda. Nel 2008 una nuova accusa, secondo cui l’imprenditore avrebbe organizzato un sequestro di persona ai danni di un suo ex collaboratore, porta Čičvarkin a vendere la sua quota di Euroset e scappare in UK. Una volta emigrato, inizia a denunciare le sempre più avverse condizioni per fare impresa in Russia, a causa dell'ingombrante presenza di forze dell’ordine corrotte e desiderose di rilevare attività attraverso false accuse e pratiche di corporate raiding. Nel 2014 si schiera dalla parte delle proteste di Piazza Maidan e contro l’annessione della Crimea, denunciando le derive autoritarie dello stato russo. Ad oggi vive a Londra e promuove attività di beneficenza e raccolte fondi per l’Ucraina.
Secondo reporter senza frontiere in Russia sono stati imprigionati dal 2016 ad oggi una media di 11 giornalisti l’anno. Nel 2022 la Russia si è classificata 155esima nel World Press Freedom Index. Concludendo quindi questo breve percorso nella politica russa degli ultimi decenni, dopo aver visto il destino degli oppositori politici in Russia, aver constatato le barbarie della guerra scatenata dal regime putiniano e avendo ancora negli occhi le manifestazioni dei cittadini russi per le strade delle maggiori città, ritengo importante sottolineare che la battaglia di resistenza ucraina è una battaglia in difesa dei valori fondanti della nostra società democratica. Stare dalla parte del popolo ucraino è un dovere per ogni cittadino libero. Nonostante pressioni e minacce i personaggi citati in questo articolo hanno fatto la loro scelta, quella di combattere per la libertà. Un caloroso invito a chi sta leggendo a fare lo stesso a Bologna, in Piazza San Francesco, il 26 Novembre 2022 alle ore 17, a fianco della comunità ucraina e della nostra Associazione.
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Mykhailo Pilipchuk nacque nel 1924 nella regione di Zhytomyr, nell’Ucraina centrale, in un villaggio vicino all’odierna Khoroshiv. Quando iniziò l'Holodomor, tra 1932 e 1933, era solo un bambino. La fame indotta dai Sovietici in Ucraina fu devastante. Milioni di persone morirono di fame. Il numero esatto, particolarmente complesso da documentare, oscilla dai 3.9 ai 10 milioni[1]. Nella regione dove viveva Mykhailo si stima che tra il 15 e il 19.9% delle persone morirono per fame indotta. Nelle campagne, dove la mancanza di cibo fu più dura da sopportare, i più deboli furono decimati. Per esempio, nel suo villaggio, Mykhailo fu uno tra i pochi bambini che sopravvissero.
Dopo la fame arrivó la russificazione. A partire dagli anni 30, politici e intellettuali ucraini come Mykhailo Hrushevsky (primo presidente ucraino) vennero deportati o uccisi. È il periodo del Rinascimento Fucilato. La lingua russa diviene la lingua principale delle città, i sistemi scolastici ucraini soppressi e l'uso dell'ucraino limitato a contesti di propaganda, come ad esempio le pompose celebrazioni dell’unità fra russi e ucraini. Tutto ciò lascierà un segno generazionale. Nel 1989, all’alba della caduta dell’URSS, soltanto l'85% degli abitanti di Zhytomyr si considererà ucraino.
Gli anni di fame e paura lasceranno un segno sulla vita di Mykhailo. Traumatizzato, sviluppò l'abitudine di nascondere compulsivamente pane e altro cibo sotto il letto o in buchi nascosti nel pavimento, per paura che i russi facessero una seconda Holodomor. Conservò questo triste comportamento sino alla morte, nel 2014.
Tuttavia l'Holodomor non intaccò il suo sentirsi ucraino. Divenuto uno studente, Mykhailo iniziò a scrivere poesie in lingua ucraina, soprattutto sulla sua terra natale, sulla natura e sugli animali. Ottenne un discreto successo, soprattutto a Kharkiv dove era andato a studiare. Ma ai sovietici la cosa non piacque.
Poco più che ventenne, nel 1946, venne condannato a 15 anni di Gulag a causa delle sue poesie. Fu spedito prima a Norilsk, in Siberia, ai lavori forzati. Poi a Karaganda, nell’odierno Kazakistan, regione sede del famigerato campo Karlag, che forse gli italiani conoscono per alcuni libri come Arcipelago Gulag.
Nel 1956 un'amnistia sotto Kruscev gli abbonò 5 anni di reclusione. A Mykhailo fu permesso di tornare in Ucraina, nella regione di Leopoli, dove lavorò come ingegnere e, quando possibile, scrivendo poesie di nascosto. Un suo pamphlet verrà portato di nascosto e pubblicato in Canada, dove ottenne anche qualche premio letterario. Negli anni 80 si unì clandestinamente all'Unione degli Scrittori Ucraini e contribuì a fondare i primi movimenti ecologisti dell'Ucraina, che il regime sovietico in crisi tollerava a malavoglia.
In conclusione, perché la storia di Mykhailo Pilipchuk ha a che fare con l’appello di un’associazione italiana oggi? In primis, perché i motivi per cui quest'uomo venne prima quasi ucciso di fame e poi deportato sono gli stessi che muovono la macchina da guerra di Putin e della Russia del 2022. Ovvero lo sterminio del popolo e della cultura ucraina. In secondo luogo perché l'Holodomor e la sua dimensione di genocidio è largamente ignorata da moltissimi intellettuali italiani. Nonostante alcuni brillanti libri di Andrea Graziosi, in pochi sanno il perché e il come l’Holodomor è accaduto.
In ultimo, la storia di Mykhailo è identica a quella di milioni di vittime dell'imperialismo russo, di ieri, oggi e domani. Come cittadini, in questo particolare momento storico, è nostro dovere tenere alta l'attenzione sul valore della libertà e la difesa democrazia. Perché se non agiamo oggi, in futuro, le vittime dell’imperialismo altrui potremmo essere noi.
Не для слави я вірші пишу
Вічна мрія - куди її діну
Може долю твою зворушу
Боже милий - врятуй Україну
Non scrivo poesie per la fama,
Ma per un sogno eterno. Verso dove?
Forse cambierò il tuo destino
Oh mio Dio, Salva l’Ucraina!
Mykhailo Pilipchuk
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Si tratta di Katrin (Katya) Cheshire, sedicente attivista del Movimento pacifista ucraino. Ora, chi conosce l'Ucraina sa che la sua società civile è fra le più attive al mondo. Ma, proprio per questo, la scelta di far parlare Katya Cheshire è apparsa molto strana.
]]>Per quale motivo, qualcuno che non sia un evasore o un delinquente, dovrebbe aver bisogno di concludere transazioni in contanti di importo superiore a 1000 euro?
Personalmente non mi viene in mente una risposta veloce alla domanda, che pure sembra costruita per dispensare sano buonsenso a basso costo (da pagare rigorosamente con carta) e non conosco nessuno che abbia una necessità ricorrente di concludere transazioni in contanti di valore superiore a 1000€.
E' sufficiente questo per giustificare l'introduzione di un tetto all'uso dei contanti?
No, per nulla e crederlo denota un atteggiamento superficiale, egoistico, e scarso senso civico. Imporre un divieto ha dei costi per la collettività e si tratta di una regola che dovrebbe essere introdotta solo in presenza di comportamenti chiaramente dannosi per un numero ragionevole di individui e in ogni caso per conseguire benefici superiori ai costi della misura.
Proviamo allora a rifare il test del buonsenso in modo meno superficiale.
Quale è il danno arrecato alla collettività dalle transazioni in contanti superiori a 1000€?
Quale è il beneficio che si consegue vietandole?
Ammesso e non concesso che ve ne sia alcuno, si tratta di un beneficio superiore ai costi legati all'introduzione del divieto?
Devo dire che non mi vengono in mente risposte ovvie e veloci a nessuna di queste domande. Posto che si tratta di un tema che ricorre nel dibattito politico facendo qualche ricerca troviamo più o meno quel che segue:
Entrambe le argomentazioni risultano logicamente abbastanza deboli.
Quanto incide il limite all'uso dei contanti per un professore che da ripetizioni in nero e usa i proventi per pagare il barbiere o l'idraulico?
La risposta è facile: non incide affatto. Gli evasori che fanno affari con altri evasori se ne infischiano di qualsisi limite al contante la fantasia sadica del regolatore ipertrofica possa concepire. Oppure suddividono l'impiego delle somme in diverse transazioni inferiori al limite.
Per arrecare un qualche fastidio sensibile agli evasori occorrerebbe portare il limite a zero e abolire l'uso dei contanti. Ma questo avrebbe complicazioni pratiche rilevanti (chi ci impedisce di usare un qualche bene di uso comune al posto dei contanti per es buoni benzina o voucher supermercato?) e costituirebbe una odiosa limitazione della libertà personale, come testimoniato dalla Eurosystem Cash Strategy della Banca Centrale Europea:
Cash is an important part of your freedom to choose how to pay and essential for the financial inclusion of all groups in society. Our cash strategy aims to ensure that cash remains widely available and accepted as both a means of payment and a store of value.
Dunque il limite logicamente serve a poco.
Cosa ci dice l'evidenza empirica?
In questo articolo di F.Lippi, per lavoce.info, si osserva come cambiano le abitudini degli italiani al variare del tetto all'uso dei contanti in un periodo in cui questo è stato modificato molte volte. Quello che emerge di fatto le abitudini non cambiano il che, paradossalmente è coerente con le nostre prime osservazioni di buonsenso:
Se quasi nessuno fa operazioni in contanti di importo superiore a 1000€ a che serve imporre un vincolo? Perchè impedire un comportamento raro senza un'indicazione concreta che possa arrecare danno a qualcuno?
Certo, i borsoni carichi di banconote che vediamo nelle serie TV come Gomorra o i Soprano ci lasciano pensare che i delinquenti veri facciano largo uso dei contanti ed è verosimile che sia così. Allora al solito test buon senso dovremmo chiederci:
Quanto è utile un tetto all'uso dei contanti nei confronti di criminali che operano al di fuori del circuito della legalità?
Se è verosimile e logico che molti criminali ed evasori facciano largo uso di contanti non si capisce per quale meccanism una restrizione alla circolazione dei contanti nell'ambito delle transazioni legali dovrebbe influenzare il comportamento di chi opera fuori dalla legalità.
Non si potrebbe colpire i frutti dell'illecito quando si prova a spenderli o a "riciclarli" nel sistema legale?
Certo che si, ma imporre un tetto alle transazioni limita appunto le transazioni, non colpisce necessariamente i tentati di riciclare o reimpiegare proventi illeciti. Per questa finalità è opportuno identificare le controparti, come appunto prevede la normativa antiricilaggio: non è importante che si spendano 50, 1000 o 100mila euro. E' importante identificare i soggetti che potrebbero essere, ad esempio affiliati ad organizzazioni terroristiche (le finalità di prevenzione del terrorismo sono portate avanti con strumenti analoghi a quelle dell'anti terrorismo) e soprattutto tracciare la provenienza dei fondi.
Per riassumere:
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Il 26 aprile 2021, il Premier Mario Draghi ha presentato alla Camera la nuova versione del Piano Ripresa e Resilienza, superando la precedente versione proposta dal governo Conte II. Il Piano cerca di affrontare diverse lacune del sistema Italia, tra cui la digitalizzazione, il divario di genere per quanto riguarda l’occupazione e il salario medio, oltre all’ovvio intervento sulle difficoltà create dalla pandemia di Covid-19. Il Piano inoltre interviene su alcuni punti in cui l’Italia ha già seguito le direttive europee e mostrato delle performance adeguate, come ad esempio la transizione ecologica.
1. Le politiche attive del lavoro
La bozza del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza del 12 gennaio 2021, su cui il governo Draghi ha lavorato, accenna diverse volte alla necessità di una riforma per le politiche attive del lavoro. Il problema di questi accenni però, è il livello approssimativo delle proposte e il collegamento con altri obiettivi che richiederebbero politiche ad hoc. Per esempio, nella prima citazione del PNRR sulle politiche attive per il lavoro, queste ultime vengono presentate come strumenti per accompagnare la transizione ecologica e digitale. Ma l’obiettivo principale delle politiche del lavoro non sono gli investimenti in questo settore, che devono essere perseguiti con altre politiche dal lato dell’offerta. Le politiche attive del lavoro infatti hanno come obiettivo il reinserimento del lavoratore con competenze che la sua ex azienda non riteneva più necessarie. E perciò il lavoratore deve essere messo in condizione di seguire dei corsi ritenuti come necessari dalle aziende che possono impiegare il lavoratore. Durante questo aggiornamento delle competenze il lavoratore deve poter avere un sostegno economico per poter seguire I corsi proficuamente. Il PNRR assegna 1 miliardo e mezzo alle politiche attive per il lavoro. Assieme ai fondi rimanenti dal meccanismo SURE si potrebbe comunque pensare ad un miglioramento delle politiche attive per il lavoro come precedentemente proposto. Lo sviluppo di capitale umano, dagli studi di Gary Becker[1]in poi, mostra chiaramente il suo potenziale come creatore di occupazione. Le problematiche che queste politiche devono puntare a risolvere, riguardano soprattutto i lavoratori poco qualificati. Questi ultimi, avrebbero bisogno di seguire dei corsi formativi, più o meno in linea con il lavoro precedente, per potersi adeguare al profilo di lavoratore ricercato dalle imprese in cui il lavoratore punta ad essere assunto. Devono essere gli uffici di collocamento e le agenzie per il lavoro private, a far conoscere al lavoratore le possibilità di impiego a cui può aspirare. In base alle preferenze di stipendio e di località, il lavoratore poco qualificato, potrà poi scegliere quali competenze sviluppare per accedervi. I fondi assegnati servirebbero per coprire sia il costo dei corsi che l’indennità di disoccupazione.
Il costo dei corsi potrebbe essere coperto tramite la fornitura di voucher controllabili dai lavoratori e spendibili per dei corsi idonei secondo le competenze richieste. In modo da eliminare i possibili azzardi morali delle imprese e del settore pubblico. Che potrebbero favorire un certo fornitore di corsi, in caso di criteri di accesso fissati tramite un bando pubblico. Per evitare la creazione di monopoli in una certa tipologia di corsi, si lascia quindi al lavoratore la scelta del corso. Le imprese fisserebbero dei criteri per quanto riguarda le competenze richieste da insegnare e le procedure per dimostrare che le competenze sono state apprese. In questo modo la NASPI verrrebbe applicata come un temporaneo aiuto e gli uffici di collocamento, in collaborazione con le diverse aziende del lavoro private, si presenterebbero come istituzioni per l’avvicinamento del lavoratore, poco qualificato, alla domanda di lavoro in un settore in cerca di uno specifico tipo di competenza.
Il PNRR specifica anche che la retribuzione deve essere proporzionata alla qualità e alla quantità del lavoro, omettendo che ogni zona del paese ha le sue caratteristiche e richieste di competenze da parte delle aziende. Il documento dovrebbe quindi anche concentrarsi sul come far spostare il lavoratore verso un’azienda che può offrire una paga adeguata per le competenze richieste. Diversi contributi (Adda et al. 2017)[2](Pinelli et al. 2017)[3]sottolineano la necessità di agire sul mercato del lavoro italiano tenendo in conto delle differenze strutturali nord e sud. Le due zone hanno delle divisioni tipiche della regionalizzazione economica. Storper (1997)[4]elenca le 3 dimensioni della divisione regionale: la distribuzione geografica delle aziende (geografia). Le dimensioni delle aziende e la struttura che ne deriva a livello regionale (tecnologia). Il tipo di settore in cui l’azienda opera, e l’assetto manageriale che ne deriva (organizzazione).
1.1 Lo scenario delle aziende italiane
La concentrazione di imprese è maggiore al nord. Queste imprese oltretutto sono in media di dimensioni più grandi. E palese quindi, che sarebbe necessario che certi lavoratori del sud si spostassero al nord per accedere a degli stipendi più alti. Tuttavia, i contratti nazionali e la dimensione ridotta delle imprese a livello nazionale, non permetteranno una crescita verso un maggior livello di pil pro capite potenziale. Che sarebbe accessibile solo con un framework legislativo che avvicinasse gli stipendi e il valore delle aziende, alle loro rispettive valutazioni risultanti dalla dinamica tra domanda e offerta. Ma anche mantenendo ceteris paribus la struttura delle aziende e dei contratti, sarà necessario incen-tivare un sistema che possa connettere I lavoratori e le imprese delle due macro zone. La necessità di connettere queste due regioni è esemplificata dal livello di disoccupazione che il sud sperimenta strutturalmente. Le statistiche del mercato del lavoro a livello europeo mostrano come su 4 regioni europee al di sotto del 50% di occupati, 3 sono del Sud Italia, ovvero Sicilia, Calabria e Campania. Inoltre, in Sicilia si ha anche un tasso di disoccupazione giovanile superiore al 50%.
Case Study: I programmi ANPAL
Attualmente è l’ANPAL (Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro) che in Italia si occupa di gestire e proporre le politiche attive per il lavoro. Secondo lo stesso report dell’ANPAL del 2019[5], le attuali politiche attive del lavoro in Italia vengono principalmente gestite dai centri pubblici per l’impiego. Questi ultimi non hanno collaborazioni permanenti con le agenzie private di ricerca del lavoro. Questa mancanza di collaborazione si fa sentire soprattutto nelle zone dove le imprese non hanno una forte presenza e riconoscibilità nel territorio.
Infatti, le politiche attive con una logica di miglioramento del capitale umano del lavoratore, sono state attivate dell’ANPAL esclusivamente nelle zone in cui il mercato del lavoro è già tra I più dinamici in Italia. Il report dell’ANPAL porta l’esempio dei circa 35 mila tirocini attivati nel Piemonte nel 2017 e l’assegno di ricollocazione implementato a Trento. L’assegno di ricollocazione consiste nell’erogazione della NASPI con in parallelo dei servizi di coaching e tutorato personalizzato. L’esperimento dell’as-segno di ricollocazione a Trento ha avuto un successo in linea con il benchmark dei paesi scandinavi. Questi paesi sono tra le prime posizioni in Europa per la brevità del periodo di disoccupazione, l’effi-cacia delle politiche attive e in generale tutto ciò che appartiene al macrogruppo della ‘’Flexicurity”. La misura applicata a Trento segue infatti le metodologie scandinave, con un impiego delle politiche passive (sussidio di disoccupazione) e attive del lavoro (coaching, tutoring). Considerando che I paesi migliori d’Europa hanno un tasso di successo del 30%[6]a livello nazionale, possiamo dire che l’esperi-mento di Trento sia stato un successo. Infatti dopo I primi 6 mesi il 23% dei partecipanti al progetto risulta occupato, e dopo 12 mesi il 37%. Questo risultato è sicuramente un incentivo per applicare questa misura anche in altre zone del paese.
2.1 L’approccio ottimale delle politiche nel divario nord sud
Va però rimarcato che l’erogazione dell’assegno di tutorato non può portare agli stessi effetti in due mercati del lavoro così diversi. Bisogna quindi, oltre che coordinare le due zone, comprendere anche quali competenze possono facilitare l’entrata del lavoratore nel mondo del lavoro regionale o nazionale. Infatti, come vediamo dallo stesso rapporto dell’ANPAL, le politiche attive al sud si concentrano verso un’assunzione pubblica dei lavoratori o di un incentivo alle imprese per assumere. Ne sono esempio: la garanzia over in Abruzzo, ovvero un incentivo alle imprese per l’assunzione di over 30. I piani locali per il lavoro in Calabria. Essendo degli incentivi all’assunzione limitati nel tempo, hanno anch’essi effetto limitato. Visto che rendono vantaggiose le assunzioni solo fino alla fine del sussidio. Il lavoratore profittevole anche senza sussidio invece, sarebbe stato assunto comunque.
I gestori degli uffici di collocamento al sud hanno una chiara difficoltà nel reperire informazioni e nell’attirare I disoccupati. Questa difficoltà è tipica di un mercato del lavoro frammentato e con alta incidenza di lavoratori low skill. Per migliorare le informazioni e attirare I disoccupati, bisogna entrare in collaborazione con le agenzie private di politiche attive per il lavoro e con le imprese, a livello regionale e nazionale. Il ruolo del centro di collocamento pubblico infatti, non riesce ad avere al suo interno tutti I professionisti necessari per un tutoring adeguato. Serve che l’ufficio di collocamento metta in contatto il lavoratore con delle agenzie private che possano fornirgli le competenze per un posto di lavoro adatto, considerando la paga e il luogo di lavoro disponibili in tutta Italia. A quel punto gli stessi uffici di collocamento dovrebbero utilizzare I fondi del recovery fund per pagare al cittadino disoccupato o al migrante questo corso di aggiornamento. C’è anche una volontà politica che frena la connessione dei lavoratori con imprese di tutta Italia. Infatti lo spostamento dei lavoratori potrebbe creare scontento sia ai lavoratori del nord che ai disoccupati del sud. Si preferisce quindi mantenere delle imprese e dei lavoratori in una situazione di rigidità del mercato lavorativo. In ogni caso, un aumento della migrazione dei lavoratori non accrescerebbe la migrazione dei lavoratori qualificati, che già si spostano in gran parte verso il nord (uno studio del 2018 di Vecchione mostra come, nei precedenti 15 anni, 200mila laureati siano migrati da sud verso nord[7]). Questi lavoratori spesso si formano nelle università del nord e possono accedere a sistemi di ricerca del lavoro molto più efficaci nel mercato high skilled, come Linkedin.
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Fatto: le istituzioni occidentali sono le più solide, eque ed inclusive che la razza umana abbia mai conosciuto. Da ripetere: che abbia mai conosciuto. Non si contano i luoghi, nel mondo, in cui non possiamo dire, pensare o agire come vogliamo. Non si contano le pseudo-democrazie o le plateali dittature. Se vogliamo offrire una definizione che connoti realmente l’occidente, potremmo partire da qui: è quel posto dove non ti licenziano / arrestano / squartano se non ti piace il governo, sei gay, o sei membro di un’associazione e/o di un partito di minoranza. Ed è lo stesso posto che pur garantendoti queste libertà, ti permette addirittura di sostenere apertamente che ti facciano schifo, fintanto che non cerchi di negarle agli altri.
Nonostante i massacri di Bucha e Izyum, nonostante le fosse comuni, nonostante le camere di tortura, nonostante i continui bombardamenti sui civili da parte dei russi, a doversi fermare secondo costoro dovrebbe essere “il pazzo di Kiev”che interrompe il traffico di rifornimenti di armi su un ponte illegittimo costruito su territorio ucraino.
Contro questa narrazione distorta e disturbante abbiamo deciso di lanciare un appello alla società civile e alle associazioni di cittadini perché la richiesta di pace passi attraverso una netta individuazione delle responsabilità della guerra. La Russia di Putin è uno Stato terrorista e solo attraverso il riconoscimento di questa realtà storica si potrà arrivare ad una pace giusta. Non c’è pace senza verità, non c’è verità senza libertà.
L’appello è stato subito accolto da Marco Bentivogli di Base Italia ed è stato sottoscritto da altri cittadini.
Il 13 ottobre e nei giorni a seguire porteremo la nostra voce davanti all’ambasciata russa chiedendo, in questo modo, che sia la Russia a fermare la guerra. Il messaggio non sarà rivolto solo ai rappresentanti russi ma anche ai tanti, troppi, che in Italia continuano a raccontare una verità distorta.
Michele Boldrin, Costantino De Blasi
Sondaggio con metodi misti (CATI/CAMI/CAWI) Interviste: 16.700 - Rifiuti: 71.950 Margine di errore compreso tra +/- 0,4% e +/- 2,7% sulle stime relative al totale degli intervistati Sondaggio realizzato da 22/08/22 a 22/09/22 (solo in Italia)
Le caratteristiche socio demografiche seguite sono:
Sono stati seguiti i tre poli (CD, CS e AZ+IV) i partiti singoli (M5S), le «altre liste» e gli astenuti.
Tecnica di colorazione delle celle: gradiente attorno al valore mediano (giallo) con indicazione dei punti forti (verde) e deboli (rosso).
Visione di insieme (cliccabile per scaricare il foglio di calcolo)
]]>Mentre scriviamo lo spread è poco sotto i 250 punti base e il rendimento del decennale abbondantemente sopra il 4,5%.
]]>E adesso, iniziamo!
Di cosa si parla?
Intanto per "rinnovabili" qui mi riferirò a idrico, solare, e eolico. Escludo geotermico, moto ondoso etc. perché le tecnologie adiacenti o le risorse necessarie sono ad una scala troppo piccola per giocare un ruolo rilevante, a livello globale, da qui al 2030/2050.
E parlerò con una prospettiva globale, in quanto a livello regionale le cose possono cambiare significativamente (enorme capacità idrica in Brasile o di vento in Danimarca), ma il problema della transizione è globale e come tale va analizzato.
Idrico
L’idrico è una delle fonti più antiche di produzione elettrica, e dovrebbe essere usata ove possibile. Detto ciò questa fonte ha, ovviamente, un limite: una volta usati tutti i bacini idrici adatti non puoi fare molto di più.
Oggi l’idrico fornisce, a livello mondiale, poco meno del 20% dell’elettricità, ovvero più del solare e eolico insieme. In futuro si spera cresca, ma non potrà soddisfare tutti i nostri bisogni - anche senza considerare l’aumento significativo di domanda elettrica mondiale che avremo nei prossimi decenni.
Un numero da avere in testa su questo punto: ad oggi ci sono circa 700 milioni di persone senza accesso all’elettricità, più dell’intera popolazione europea.
Solare e eolico: Enorme potenziale insieme a qualche non trascurabile difetto
Solare e eolico sono tecnologie il cui prezzo è sceso notevolmente nell'ultimo decennio, non ultimo grazie ai piani industriali Cinesi, e che saranno chiave per la decarbonizzazione (solare in testa).
Solare e eolico, però, soffrono di due problemi fondamentali.
Il primo, noto a tutti, è che sono intermittenti. Il secondo, spesso ignorato, è che implicano l’uso di molti minerali per unità di energia. E che sia questi minerali che il loro raffinamento sono geograficamente molto concentrati.
Spoiler: Il secondo aspetto è paradossalmente il più problematico.
Problema n°1: Intermittenza
Il primo problema può essere mitigato in vari modi, tutti, però, non banali. Primo tra tutti i sistemi di stoccaggio elettrochimico, ovvero le famose batterie.
In particolare oggi si parla tipicamente di batterie a ioni litio (più o meno le stesse del cellulare o del PC che stai usando in questo momento, solo un po' più grandi), mentre in futuro si potrebbero usare anche batterie redox-flow e (all) solid-state.
Parlando di batterie si devono avere (almeno) due parametri in mente: il costo e la capacità produttiva sia delle batterie che dei minerali necessari alla loro produzione.
Per quanto riguarda il costo, il prezzo delle batterie a ioni litio è diminuito già di un 80-90% circa rispetto ai livelli del 2010 grazie all'economia di scala, raggiungendo circa 130 $/kWh.
Usare le batterie per sopperire alla variabilità di solare e eolico vuol dire, però, aggiungere il loro costo nella bolletta (niente è gratis). Cosa vuol dire questo? Facciamo qualche scenario molto banale e semplicistico per avere qualche ordine di grandezza in testa.
Assunzioni: costo dell‘energia elettrica di 20 centesimi $/kWh (già relativamente alto), un costo delle batterie ioni-litio a 100 $/kWh (un target agognato da molti), e una cycle-life di 4000 cicli (circa 10 anni con carica/scarica giornaliera).
I tre scenari:
Il costo in bolletta sarà calcolato semplicemente come costo della batteria per kwh diviso per il numero di utilizzi. In altre parole, sto azzerando il ritorno sull’investimento di chi compra le batterie inizialmente ed i costi di gestione, che ovviamente aumenterebbero ulteriormente i costi.
Scenario 1: Il costo della batteria sarebbe 100$/kwH diviso 10*365 (10 anni*numero giorni). Ovvero circa 3 centesimi $/kWh. Questi si sommerebbero ai 20 centesimi del costo di produzione, con un aumento nell’ordine del 10%. Non banale, ma gestibile.
Scenario 2: In prima approssimazione si potrebbe assumere un costo simile allo scenario 1, ma le batterie dovrebbe essere tenuta in vita 70 anni (usate 7 volte meno spesso). Ovviamente, questo farebbe aumentare gli interessi e i costi di gestione, aumentando il vero costo in bolletta. Inoltre le batterie si degradano anche senza usarle, quindi è difficile immaginare che possano essere mantenute operative per 70 anni con carica/scarica settimanale.
Scenario 3: Qui le cose si fanno veramente difficili. Anche considerato un periodo di vita delle batterie di 100 anni e qualcuno disposto a fare un investimento di così lunga durata (entrambi molto improbabili), questo vorrebbe dire solamente 100 cariche/scariche.
Ovvero 1$ da aggiungere agli 0.2$ per kW o, in altre parole, un aumento del 500%. Insostenibile per le economie moderne, per non parlare delle economie più deboli.
Da aggiungere un “dettaglio” importante: lo stoccaggio di energia (come tutto) non ha un’efficienza del 100%, ovvero si perde una parte dell’energia nel tempo (self-discharge). Fenomeno che da solo potrebbe mettere fuori gioco le batterie per lo stoccaggio stagionale.
Si potrebbe aggiungere che in realtà i numeri sopra sono calcolati per eccesso, perché non useremmo le batterie per il 100% dell’energia prodotta dalle rinnovabili, ma solo per una frazione di essa. E sarebbe un’osservazione corretta.
Detto ciò, considerato le assunzioni benevole (mancanza di interessi, costi di gestione e self-discharge, alto costo dell’elettricità e basso delle batterie), direi che l’aumento di costi (in particolare per lo stoccaggio stagionale) rimane fuori portata.
Quindi buttiamo a mare tutte le batterie?
No. Quanto detto sopra non vuol dire che le batterie non abbiano un ruolo da giocare. Lo avranno, sia per la mobilità (macchine elettriche) che per lo stoccaggio – mondi che si potrebbero parlare/supportare con concetti del tipo vehicle-to-grid o vehicle-to-home.
Ma vuol dire che le batterie non possono essere vendute come LA soluzione per l’intermittenza delle rinnovabili. Sono, alla meglio, una soluzione parziale.
Nonostante la densità energetica delle batterie sia aumentata notevolmente negli ultimi decenni (e il loro prezzo crollato), a riprova degli investimenti e sforzi profusi nel settore, le batterie sono sistemi molto complessi, e non si possono pretendere miracoli.
Per inciso, altre tecnologie più adatte per lo stoccaggio stagionale, come pumped hydro or gas – ovvero stoccare acqua o gas compresso in depositi al fine di stoccare energia -, idrogeno, e elettro-combustibili, esistono.
A mio avviso, pumped hydro e gas sono promettenti, per quanto richiedono l’identificazione di siti idonei, e sarei ben contento che queste tecnologie venissero discusse di più.
L‘idrogeno, e in particolare l’idrogeno (verde) prodotto da elettricità ottenuta con basse emissioni, è sicuramente promettente. Nonostante ciò, la sua produzione, stoccaggio, trasporto su tubi (densità energetica per volume circa un terzo del metano), e uso hanno molte sfide davanti, sia scientifiche che tecnico-industriali, che ne rallentano l’applicazione su larga scala.
Sono convinto che l’idrogeno giocherà un suo ruolo, e sarà probabilmente chiave per decarbonizzare processi industriali che hanno bisogno di temperature estremamente elevate e difficilmente elettrificabili (tipo acciaio), e per sostituire l’idrogeno grigio (prodotto da fossili) per i processi industriali che ne fanno uso: primo fra tutti la produzione di ammoniaca, alla base di tutti i fertilizzanti di sintesi.
Viste le difficoltà tecniche menzionate prima, io punterei a usare tutto l’idrogeno verde che possiamo produrre per decarbonizzare questi settori industriali.
E temo che questo non lasci larghi margini di manovra per l’uso massiccio di idrogeno per stoccaggio e produzione di elettricità (ma sarei contento di sbagliarmi). A meno che non lo si produca sia con fotovoltaico che con nucleare (eh sì, un bel vantaggio del nucleare).
Il discorso di cui sopra si può generalizzare al concetto di power-to-X (dove X=idrogeno, metano, etc.), classe di cui fanno parte gli elettro-combustibili. Questi ultimi, infatti, per quanto promettenti, sono proibitivamente costosi, ed abbassarne i costi sarà tutt’altro che semplice. Di conseguenza, renderli competitivi e portarli alla produzione di massa richiederà molto tempo e, come nel caso dell’idrogeno, darei la priorità ad utilizzi altrimenti non o difficilmente decarbonizzabili (come gli aerei).
Problema n°2: Minerali
E adesso arriviamo al secondo problema (tardi, ma ci arriviamo): i minerali necessari per la transizione energetica.
Solare (e in particolare fotovoltaico), eolico, e batterie richiedono molti più minerali (per unità di energia) delle fonti fossili (o del nucleare).
La lista è lunga, si va dall’argento per i pannelli solari e le terre rare per i motori elettrici (pale eoliche e veicoli elettrici), al litio, cobalto, nickel, manganese e grafite per batterie – insieme a tantissimo rame/alluminio per i cavi elettrici. Molti di questi materiali sono prodotti in poche regioni del mondo, spesso non particolarmente stabili economicamente e politicamente, e con alti livelli di corruzione e stress idrico (l’estrazione di minerali necessita di molta acqua pulita).
Vediamo rapidamente qualche numero chiave.
La situazione diventa ancora più complicata quando si guarda al raffinamento. In questo settore la Cina domina per tutti i minerali citati, con shares che vanno dal 60% al 90% della produzione globale.
La produzione di batterie o pannelli solari non è diversa. Esemplare è il caso dei pannelli fotovoltaici, per i quali tutti gli step di produzione sono dominati (dal 75% al 95%) dalla Cina.
Con queste percentuali, e ad oggi sapendo quanto sia difficile sostituire “solo” il 40% dei propri approvvigionamenti energetici (vedi Russia e Italia/Germania), non è difficile predire tensioni geopolitiche notevoli all’orizzonte.
Inciso: è vero che i minerali sono necessari per le infrastrutture, e non per far funzionare una centrale. Ma avremo bisogno di questi minerali, e moltissimi, per decenni, visti i piani di decarbonizzazione. In più, anche a regime il riciclo non potrà contare per più del 5-20% del mercato, lasciando ampio margine per una domanda sostenuta di minerali anche in futuro.
Minimizzare una dipendenza tale da un singolo paese (in questo caso la Cina) sarebbe, perlomeno, estremamente miope.
A maggior ragione considerate le proiezioni di crescita della domanda di questi minerali. Per dare un’idea, la domanda di litio è attesa crescere di decine (10-40) di volte da qui al 2040. Grafite, cobalto e nickel tra 5 e 20 volte. Terre rare: 5-6 volte. Rame: circa 3.
Sono numeri che fanno paura e, se non vi spaventano, dovrebbero.
A maggior ragione considerato che lo sviluppo di nuove miniere prende anni (se non decenni), e visto dove questi minerali vengono estratti e processati. L’uso massiccio di queste risorse porterà ad una corsa globale per accaparrarsele, con tutto ciò che ne consegue.
E vorrei sottolineare che questi sono numeri tali da poter non solo rallentare notevolmente la transizione, rendendo ancora più difficile, se non impossibile, completarla nei tempi che ci stiamo dando. Ma possono anche stravolgere la politica internazionale.
Chi controlla una parte significativa del settore energetico ha un notevole leverage sul resto del mondo. Questa è una cosa che, soprattutto di questi tempi, dovremmo tutti avere ben chiaro in mente. Se a questo aggiungete che nuove miniere possono causare disastri sociali, ecologici e distruzione di ecosistemi, e che sicuramente la fretta con cui dovremo costruirle non aiuterà, a mio modestissimo avviso è critico che si collabori strettamente a livello internazionale e con le maggiori compagnie minerarie per incrementare gli investimenti (oggi troppo bassi per rispondere alla domanda attesa) e per un controllo rigoroso delle condizioni sociali e ambientali delle nuove e vecchie miniere.
Perché servono anche gli stati? Perché deve essere molto chiaro, come comunità internazionale, quali sono i nostri obbiettivi e le nostre tempistiche, perché da questi dipenderà l’aumento della domanda. E senza predicibilità su questi punti gli investimenti arrancheranno, rischiando di arrivare troppo tardi per paura di cambi di regolamentazione nel tempo o crescita della domanda minore delle attese (parliamo di investimenti decennali, come dicevo prima).
E quindi che si fa?
Per tutti i motivi discussi sopra (e sicuramente altri che qui ho trascurato per amor di sintesi), per me è difficile immaginare un mondo in cui l’elettricità sia prodotta solamente da solare, eolico, e idrico. Abbiamo altre fonti sicure, applicabili su larga scala, che non emettono e con bassa domanda di minerali per unità di energia prodotta?
Si, il nucleare. Il nucleare è estremamente sicuro ed emette molto poco (entrambi ai livelli di solare e eolico). Oltre a ciò, il suo approvigionamento di minerali è ordini di grandezza meno rischioso e complesso di quello di pannelli fotovoltaici, eolico, e batterie.
Ma, anche se non vi fidate, anche se avete paura di scorie e dei rischi di una proliferazione nucleare (per quanto mi riguarda entrambi assolutamente gestibili tramite gli enti nazionali e internazionali preposti, ma posso capire i timori, soprattutto per il secondo punto), lo sviluppo delle sole rinnovabili è tutto fuorché esente da rischi. Secondo me, uno sviluppo di sole rinnovabili sarebbe, difatti, molto più rischioso rispetto ad avere, insieme ad uno sviluppo massiccio delle rinnovabili, uno sviluppo altrettanto massiccio del nucleare
Ad ognuno l’onore (e l’onere) di farsi un’idea su questo tema, sperando che questo articolo sia stato utile a qualcuno. Tema che, a mio avviso, contribuirà a plasmare il nostro futuro come pochi o nessun altro.
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L’italiano medio crede ancora oggi nella favola dei poteri forti e dei burocrati di Bruxelles che avrebbero desiderato il nostro fallimento nel 2011 e non ha compreso che forse erano le finanze dello stato a non essere più credibile e sostenibili. Le mance elettorali ed i bonus hanno contraddistinto la seconda repubblica portando la grande Italia ad essere seconda in Europa per rapporto debito/Pil.
Non illustrerò la crisi finanziaria del nostro paese; mi limito a spiegare che il 44,3% circa del debito pubblico (fonte ISTAT) è posseduto da soggetti esteri indi per cui bisogna risultare credibili ripagandolo. La mancanza di fiducia nell’Italia potrebbe costarci cara poiché i compratori dei titoli di stato richiederebbero maggiori tassi d’interesse o peggio ancora si rifiuterebbero di sottoscriverne altro.
Mi perdoneranno gli economisti per questa brutale sintesi (che esclude decine di altri fattori) ma è necessario trasmettere ai cittadini che siamo arrivati ad un punto critico in cui emettere altro debito renderebbe l’Italia sempre meno credibile e addosserebbe sulla prossima generazione gli oneri di oggi. Se un giorno il nostro paese si dichiarasse inadempiente dovremmo inginocchiarci e subire le conseguenze di essere una seconda Grecia.
Ora che abbiamo compreso la vitale importanza della sostenibilità del debito è giusto chiedersi se per queste elezioni i politici avranno adeguato le loro proposte. I partiti (al di là delle idee che in questo paper non saranno messe in discussione) propongono riforme sostenibili? Spiegano come e con che risorse intendono
soddisfare le promesse mantenute? Spoiler: NO. Nessuno escluso.
Ma vediamo insieme uno ad uno i programmi depositati al ministero degli interni dalle maggiori forze politiche ponendo però attenzione alla parte di spese che coprono e sulle spese che invece andrebbero ad incrementare il nostro caro amato debito pubblico.
Partirei con il primo partito nei sondaggi: Fratelli d’Italia. Il programma non è altro che una lista di voci di spesa che vanno dall’abolizione dell’IRAP (costo di 26 mld, fonte: MEF) ad agevolazioni sull’acquisto di una casa (spesa inquantificabile) alla flat tax (costo di 58 mld. Fonte: lavoce.info). Non mancano le promesse tanto generali quanto mal formate per i giovani. Il totale della spesa calcolabile secondo Costantino De Blasi (di Liberi Oltre) si aggira sui 160-200 mld (circa il 10% del PIL). È una cifra spropositata ma giustificabile se ci fossero delle coperture. Purtroppo il fabbisogno dichiarato dal programma oltre al ricalcolo delle pensioni d’oro è inesistente.
Chi ben incomincia è a metà dell’opera no? Proseguiamo con l’arcirivale Enrico Letta, leader del secondo partito italiano. Il Partito Democratico nel suo documento fa emergere una certa attenzione per le coperture, purtroppo però fa finta di non sapere che sono del tutto insufficienti per coprire il fabbisogno finanziario delle proposte scritte. Con le sue promesse vaghe e la reticenza che contraddistingue il programma il costo stimato per la sua attuazione è di 110 mld (Fonte: Liberi Oltre). Le uniche coperture quantificabili indicate derivano dalle gare per il 5G. Utile sottolineare la proposta della riduzione dell’IRPEF del 50% per le start up. Peccato che queste non siano soggette all’imposizione IRPEF in quanto non si tratta di persone fisiche (Perciò questa spesa non è stata inclusa nel conteggio).
Cosa potrebbe mai andare peggio? La risposta è semplice: il programma del Movimento 5 Stelle. 13 pagine di elenco puntato in cui non si presenta nemmeno una voce di entrata per lo Stato. L’unica copertura segnalata è rappresentata da una non spesa, in quanto promettono di tagliare un costo futuro programmato seguendo le direttive NATO: quello per il riarmo (2,6 mld). Il totale delle spese per realizzare le promesse ammonta a 106 mld.
Due settimane prima delle elezioni il Movimento pubblica una versione estesa del programma che oltre ad inserire qualche dettaglio in più sulle proposte dice questo: (parafraso) “l’Italia ha sempre rispettato le direttive europee e per colpa del debito pregresso e delle banche che si arricchiscono oggi ci troviamo ad affrontare un debito maggiore”.
Oltre al fatto che sia falso, se queste sono le cause del rapporto debito/PIL al 152.5% allora forse vi è mancanza di cultura civica, storica e finanziaria anche nella nostra classe dirigente.
Per tornare dove “si è stati bene” è giunto il momento del programma dell’immortale Silvio Berlusconi e la sua Forza Italia. Programma storico uguale in buona parte a quello del 2018. Le coperture non sono significative (spesso sono in contraddizione con il programma stesso) e non sono quantificate con nessun numero. In compenso il totale della spesa necessaria a soddisfarlo eguaglia i 108 mld (Liberi Oltre). Chiudendo la coalizione del cdx andiamo sul partito che merita il premio finanziamenti 2022: la Lega Salvini Premier. A sorpresa i costi del suo programma sono solo 178 mld (comprendendo i costi pluriennali derivati dalla proposta sulle infrastrutture). Inoltre risulta molto articolato nelle proposte bandiera (flat tax, decreti sicurezza ecc..) quanto altrettanto vago in tutte le altre. Ma arriviamo al punto forte: la parola “coperture” compare due volte per un risultato finale di 0 mld di introiti per lo stato, in quanto la prima volta si riferisce alle coperture agricole e la seconda alle coperture vaccinali. Sicuramente sotto l’aspetto finanziario il peggior programma della coalizione.
Dove i primi tre poli falliscono ci riuscirà il quarto? Il polo Calenda propone un programma economicamente migliore ma non per questo sufficiente. Migliore perché presenta dati e articola nel dettaglio alcune proposte molto tecniche (es: piano energetico). Insufficiente perché di fronte ad un costo di realizzazione di 52 mld le coperture certe sono 11 mld. Le coperture semi-certe (quelle derivate dal miglioramento strutturale della lotta all’evasione) potranno essere 10 mld nel 2024. Il programma è competente e tecnico ma il saldo finale rimane negativo.
Senza entrare nel dettaglio citerò solo il programma dell’Alleanza Verdi/Sinistra italiana e quello di Unione Popolare. Il primo oltre a non contenere una singola voce di entrate pubbliche presenta caratteri anti-
scientifici e spese inquantificabili. Il secondo presenta un saldo negativo di 173 mld (Liberi Oltre). Avete letto bene: SALDO.
Sabato 17 Settembre, sul canale youtube di Liberi Oltre STEM, dalle ore 13:00
Presentano: Giulio Anichini, Michele Boldrin
Panels: Carlo Stagnaro, Gerardo Favaretto, Roberto Gambelli, Michele Boldrin, Giulio Anichini + special guests
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Per comodità, e perché si possa apprezzare meglio l'eloquio del professore, ho trascritto fedelmente le sue risposte.
Leggetele tutte d'un fiato con un momendol a portata di mano.
Dunque Conte si dice assolutamente orgoglioso dei risultati ottenuti con l'invio delle armi
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Due giorni fa il Fatto Quotidiano, altro volenteroso organo di propaganda filo Putin, titolava "sei mesi di sanzioni, l'economia russa non crollerà".
E' vero che il saldo di bilancio russo è positivo, proseguendo tra l'altro un trend di lungo periodo L'accelerazione è dovuta a 2 fattori:
Secondo i dati GIE-AGS le scorte italiane sono al 79,72%, quelle tedesche all'80,14%. Prima di procedere con il ban al gas russo e con l'approvvigionamento da altri fornitori i principali Paesi importatori hanno, giustamente, riempito i "magazzini"
Da qui l'enorme surplus russo; destinato a finire. Già in Q4 22 e in Q1 23, i nostri Paesi potrebbero iniziare a fare a meno delle forniture russe. A quel punto l'economia di Putin crollerà definitivamente, peggiorando una recessione che è già la peggiore dal 1990.
]]>I fatti di queste settimane parlano chiaro: circa 150-200 politici di professione stanno compilando le liste dei candidati ai 600 posti disponibili in Parlamento (400 Camera e 200 Senato). L’esistenza di sondaggi piuttosto precisi e di informazioni storiche sui comportamenti elettorali nei vari collegi permette di prevedere con accuratezza – direi al 90%, a meno di grandi sorprese nel prossimo mese – come si distribuirà il voto sia nei collegi uninominali che in quelli proporzionali. Questi fatti implicano che, con altissima probabilità, dove ed in che posizione della lista si viene candidati determina l’elezione finale.
Questo suggerisce un gioco che, forse, qualcuno con più tempo di me potrebbe fare. Estrarre dalle migliaia di “candidati apparenti” un elenco di circa 700 “candidati veri”. Controlleremo poi il giorno 27 settembre quanti dei 600 parlamentari effettivamente eletti erano contenuti in quella lista di previsioni. Il voto a cui circa 50 milioni di italiani sono chiamati il giorno 25 settembre serve SOLO a risolvere questa marginale incertezza.
Vi son buone ragioni per credere che gli “esperti elettorali” dei grandi partiti abbiano già fatto o stiano facendo il gioco che ho appena suggerito: la composizione del prossimo Parlamento l’hanno già stabilita loro, prima del voto. La democrazia elettorale italiana funziona così da svariate legislature e la riduzione del numero di parlamentari ha solo reso il tutto più esplicito.
Questa forma di democrazia plebiscitaria – in cui l’elettore può solo prendere o lasciare il menù predisposto dai 150-200 “padroni dei partiti” – è il punto di arrivo d’un processo di trasformazione dell’assetto costituzionale reale che iniziò circa 40 anni fa. Allora l’assetto politico-istituzionale della Prima Repubblica si dimostrò incapace, fallito il “Compromesso Storico”, di gestire le trasformazioni avvenute tra la fine degli anni ’60 e quella degli anni ’70 e, sotto la guida di Craxi, si diresse silenziosamente verso una forma di presidenzialismo tecnocratico.
Presidenzialismo, perché i processi di selezione democratica interni ai grandi partiti si dissolsero rapidamente assieme ai medesimi – molti forse non sanno o non ricordano ma sia la DC che il PCI oscillavano fra 1,5 e 2 milioni di iscritti – per venire sostituiti da leader suppostamente “carismatici” e dalle loro segreterie, composte di fedeli ed obbedienti assistenti. Tecnocratico perché sia i fenomeni di malaffare che il progressivo scadimento della qualità dei parlamentari (conseguenza della dissoluzione dei processi di selezione meritocratica interna ai partiti di massa) trasferirono di fatto il potere legislativo e regolatorio alle burocrazie dei ministeri centrali.
Il ruolo di quest’ultime nella gestione effettiva dello Stato divenne esplicito con l’intervento “tecnico” di salvataggio del 1992-94, poi di nuovo nel 1995 e via di seguito sino al recente governo Draghi. Nel frattempo si è continuato a vaneggiare di “Seconda Repubblica” senza che questa venisse mai ad avere una propria definizione sia costituzionale che in termini di leggi e regolamenti elettorali. Basti guardare al continuo blaterare di “premier eletto dai cittadini”, l’invenzione delle coalizioni con il candidato primo ministro che poi si realizza solo per caso. Il risultato: un sistema di fatto “signorile” in cui una vera e propria “casta auto-perpetuantesi” (protestate fino a che volete, ma quel termine ci sta ed è giustificato dai fatti) coopta, seleziona e riproduce se stessa lasciando ai 50 milioni di elettori solo l’opzione della ratifica in blocco o della negazione in blocco. Niente altro.
Forse tutto questo è inevitabile, e lo dico molto seriamente. Tendenze simili – anche se neanche lontanamente così accentuate – si possono rintracciare in altri paesi liberal-democratici europei e negli USA. Non posso, quindi, escludere che in questo l’Italia abbia solo anticipato i tempi essendo entrato in crisi da noi, molto prima che altrove (negli anni ’70 vs inizio di questo secolo), quell’equilibrio socio-politico ed istituzionale che, nel secondo dopoguerra, aveva garantito crescita, consenso sociale e partecipazione politica come non si erano mai viste prima.
Ma, d’altro canto, non vi è dubbio alcuno che quanto ho brevemente descritto sia oggi molto più tipico nei paesi autocratici ed autoritari che in quelli liberal-democratici. Insomma, può essere che stiamo solo mostrando il futuro della democrazia compiuta nell’era della comunicazione digitale, del “uno vale uno” e delle tecnocrazie ministeriali che tutto controllano e possono, ma può che essere, invece, che ci siamo incaminati verso una forma tutta italiana di autocrazia dove l’esercizio dell’attività democratica si limita a due elementi: concorrere per essere cooptati nella elite politico-tecnocratica dirigente e vidimare, plebiscitariamente, le scelte di questa ogni 5 anni.
Una breve nota non è luogo per discutere approfonditamente un problema tanto complesso e vorrei evitare di dare l’impressione d’essermi convinto che l’Italia sia già una democrazia autoritaria, non lo è. È una democrazia signorile-plebiscitaria nella quale l’apparente grande partecipazione al dibattito pubblico (in nessun paese che io conosca si parla tanto e tanto intensamente di politica tutti i santi giorni) ha un ruolo di puro sfogatoio. Le decisioni vere, il vero potere decisionale, risiede in un circolo molto ristretto di circa 1000-1500 persone (politici e alti burocrati) dentro al quale non si viene eletti/selezionati a seguito di competizioni elettorali ai vari stadi dell’amministrazione dello stato ma dentro al quale si viene cooptati da chi già vi appartiene. Come stanno per essere cooptati Crisanti e Fittipaldi: per decisione dei leader del mandarinato. L’elettorato o ratifica l’atto compiuto o si astiene.
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Ma andiamo avanti e veniamo all’unico punto nuovo ed interessante: cosa farà il piccolo gruppo di Italia Viva? Come abbiamo visto del “grande centro” che potenzialmente avrebbe potuto formarsi (e di cui Calenda ed altri straparlavano per evitare si realizzasse) non rimane altro che IV. Quest’ultima, come credo di aver scritto decine di volte oramai, non ha ancora deciso se vuole essere (oltre al gruppo degli aficionados di Matteo Renzi con tanto di R rovesciata alla Roberta di Camerino come simbolo!) carne, pesce o vegetale. Mi sembra chiaro, visto da dove vengono e le loro storie politiche recenti, che loro si ritengano un partito di governo nell’area del centro-sinistra. Non vorrei farla tanto lunga quindi la farò breve: non lo sono più.
Non sono partito di governo perché, nonostante l’indubbia intelligenza parlamentare del loro leader, sono fuori dal “governo” dal lontano 2016 e la probabilità che vi rientrino dopo il 26 settembre son vicino a zero. Non sono di centro-sinistra perché, nonostante i loro desideri e background ideologici, la sinistra reale li ha scacciati e, letteralmente, vuole vederli sparire.
Meglio se ne rendano conto e partano da questi due fatti di base: sono un partito “non di sinistra” e sono un partito di opposizione. Devono marcare un territorio loro ed esclusivamente loro per costruire un loro elettorato non da qui al 25 settembre 2022 ma nei cinque anni che seguiranno. Come possono farlo? Anzitutto individuando quale possa essere il loro elettorato e se l’elettorato che potrebbe essere loro coincide in buona parte con quello che loro vorrebbero avere. Questo passaggio non è per nulla ovvio: le storie personali, le ideologie, le fantasie proiettive delle persone costruiscono modelli del mondo e nell’ambiente intellettuale e politico da cui i maggiori esponenti di IV provvengono è radicata l’idea di essere un partito “generalista”, che rappresenta il cittadino medio e che, per questa ragione, fa gli interessi della nazione.
Questo modello del mondo e dell’attività politica è non solo erroneo in senso tecnico – questo è argomento accademico che ci porterebbe troppo lontano – ma, soprattutto, è drammaticamente rigettato dall’attualità politica italiana. La destra va dritta verso la vittoria perché ha scelto di rappresentare una parte d’Italia contro l’altra e questa divisione, già palese nel 2018, è diventata (purtroppo) chiarissima a seguito delle insane politiche di chiusure “anti-Covid” adottate dal governo Conte-2 e poi (ri-purtroppo) troppo lentamente alleggerite da quello Draghi. Ma il punto qui non è di rifare la storia degli ultimi tre anni bensì di riconoscere che così stan le cose.
E se la destra si rivolge anzitutto ai gruppi sociali che abbiamo detto, a cosa si rivolge la sinistra, insurrezionale o socialdemocratica che sia? I contorni qui sono più vaghi ma non invisibili: pensionati del settore industriale e di quello pubblico, impiego pubblico di livello medio in particolare nel settore dell’educazione e della sanità, dipendenti protetti della grande industria ed un po’ di gruppi intellettuali e professionali ideologicamente schierati a sinistra e residenti nelle ZTL buone. Parte di questo mondo – una parte relativamente piccola a dire il vero e temo che questo lui non l’abbia mai interamente compreso o accettato – era rimasto affascinato dalla proposta riformatrice di Matteo Renzi leader del PD. Potrebbe esserlo ancora? Forse, ma solo in seconda battuta perché ora buona parte di quel mondo vede i barbari alle porte e, quindi, cercherà (io credo inutilmente) il voto utile per fermarli.
Cosa rimane, quindi, di “disponibile” per Italia Viva? Rimangono quei gruppi sociali che dx e sx ignorano e penalizzano, salvo poi cercare di convincerli con mancette del tipo “10mila euro di tesoretto a 18 anni” che così non è. Questi gruppi sociali corrispondono – se sbaglio correggetemi – a quelli che nella prima puntata di questo diario elettorale avevo individuato come il target privilegiato di una eventuale “alleanza di centro liberaloide”. Al tempo questa sembrava possibile dato che Calenda non aveva ancora reso chiaro a tutti che bluffava e che il suo unico obiettivo era passare da “preferita” a “unica e suprema consorte” del PD. Come calcolai allora, l’intersezione di quei gruppi – l’intersezione che potrebbe entusiasmarsi, mobilitarsi, votare e far votare per un partito “immoderato” – viaggia fra il 10% ed il 15% dell’elettorato potenziale.
Quante di queste persone possono essere attratte da Italia Viva entro il 25 settembre? Complicato, perché dipende da molte cose che provo telegraficamente ad illustrare in chiusura, lasciando per la terza puntata un’analisi più attenta (che potrà così basarsi sulle scelte che IV farà nei prossimi cinque o sei giorni). Prima, però, una riflessione strategica.
Renzi ed il suo partito hanno l’opportunità di proporsi come l’asse attorno a cui costruire il partito immoderato solo perché sono stati messi nell’angolo dall’eccesso di tatticismo a cui hanno contribuito e dalla convinzione, infondata, di essere destinati ad essere quelli alla cui porta alla fine tutti bussano. Così non è: ogni scelta politica che non parta da questo atto di umile riconoscimento dei fatti (e degli errori) li perderà. SE, maiuscolo, DAVVERO credono che sia un bene provare a realizzare la versione “immoderata” del programma Draghi del 17/2/21 ALLORA è importante capiscano che la prossima legislatura non sarà quella in cui questo può avvenire. La prossima legislatura è persa, devono accettare che governerà la destra o almeno qualcosa dominato da Fratelli d’Italia e che questo è un passaggio NECESSARIO della storia nazionale. Non c’è uscita dal declino senza questo passaggio. Si tratta di portare in parlamento un nucleo di persone capaci e rappresentative che, dall’opposizione, usi la prossima legislatura per costruire un partito immoderato di massa. Occhio: “massa” qui vuol dire, 15-20% max, non pensate a numeri maggioritari: l’avenir dure longtemps.
La parola chiave, qui, è “costruendolo” non pensando di poterselo prendere con un abile takeover o attirando parlamentari scontenti da qui e da lì. Costruendolo nel dibattito pubblico, nei social, nelle sezioni, nei militanti, nei tecnici, nei programmi, nelle battaglie politiche, nel disegno di un’Italia non più in declino ma capace di offrire un futuro migliore a chi oggi ha 40 anni o meno. Sopravvivere e conquistare con 4-5-6% un fortino parlamentare da cui poi costruire l’esercito per la battaglia elettorale del 2027 e per quelle intermedie. Questa, a mio avviso, la scelta strategica fondamentale che IV può scegliere di fare o non fare: se non la fa, suggerirei bussare a piedi nudi alla porta del PD ed accettare il pane senza sale che quel convento di funzionari ministeriali passerà dal pertugio.
Fattori chiave, telegraficamente
1) Renzi ma non solo Renzi. I nomi non devo farli io ma sant’iddio, ne hanno e ce ne sono nel paese. E togliete quell’orrenda R della Roberta di Camerino.
2) Fare autocritica per diventare credibili. Che vedano quanta il loro orgoglio gli fa digerire (ho apprezzato Marattin da Ivan Grieco l’altro ieri, anche se continua a tirarsi indietro nelle aree che ritiene, erroneamente sue: nelle università mediocri italiane, ovvero nell’80%, vi odiano) ma che la facciano e cerchino di parlare, come dire, come mangiano. Semplicemente e pragmaticamente.
3) Decidano per una volta di smetterla di voler fare i socialdemocratici. Con chi debbano stare in Europa non lo so, anche io personalmente preferisco PPE a PSE, ma per favore non un altro ambiguo e privo di senso “social-liberalismo-democratico-conduegoccedangostura”!
4) Dire esplicitamente che l’obiettivo è governare dal 2025 (in qualche regione) e dal 2027 (a livello nazionale) non ora. Ora si tratta di opporsi ai partiti del declino ed ai loro programmi alle loro folli narrative.
5) Fare una campagna elettorale che proponga un modello di paese alternativo a quello decadente, parassitico, autarchico, corporativo, triste, improduttivo e, alla fine, popolato da ladruncoli e furboni, che PD e Fd’It propongono. Questo si fa solo se si è convinti che l’Italia possa smettere di declinare e ritornare a crescere, ridiventando un paese guida dell’UE. Io nel 2012 ci credevo, ora non ne sono più certo ma spero qualcuno di loro lo sia per davvero. Perché, quando diventa tutta una messinscena, poi qualcosa succede che fa crollare il palco.
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Da allora la normativa che regola l’Esame di Stato è cambiata diverse volte, anche per venire incontro al mutamento della scuola e della società, ma possiamo individuare almeno tre problemi che caratterizzano l’Esame di Stato nella sua forma attuale e che ne pregiudicano la validità.
Il primo, il cui sintomo è la mancata selettività che osserviamo, sta non tanto nella facilità dell’Esame in sé, ma nel fatto che sia pensato non come prova certificativa finale e separata, ma come parte integrante del percorso quinquennale, tanto che il suo mancato superamento comporta la ripetenza della classe quinta.
A livello strutturale la cosa si percepisce nel modo con cui viene formato il voto di diploma, che per 40 punti su 100 dipende dalla media del triennio finale del corso di studi[3] e solo per 60 punti dalle tre prove di esame, tutte in ventesimi. Questo comporta che il punteggio minimo di accesso all’esame è di 27 punti (8 in terza, 9 in quarta e 10 in quinta[4]) e per raggiungere il 60 è sufficiente mantenere una media di 11/20 nelle tre prove, cioè un cinque e mezzo.
La selezione, quindi, non avviene al quinto anno, ma negli anni precedenti, specialmente durante il primo biennio. In quinta, a meno di situazioni eccezionali e marginali, i Consigli di classe ammettono all’Esame anche i candidati con diverse lacune, accompagnandoli poi alla fine del percorso con una bassa votazione.
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When the word “Assange” is brought up in political discourse, things get controversial. This is because the debate on Julian Assange is extremely polarized, and people either praise him as a fearless journalist who exposed the wrongdoing of governments and militaries, or condemn him as a traitorous criminal who leaked secret documents and thus endangered the lives of countless innocents. What is the truth about Julian Paul Assange?
Julian Assange’s legal troubles started in the early 2010s, shortly after the Afghanistan and Iraq wars leaks (Ross, 2020). Two Swedish women accused him of sexual assault, and as Stockholm tried to extradite him in 2012, Mr. Assange sought political asylum at Ecuador’s embassy in London (Ross, 2020). Then President Rafael Correa welcomed Assange’s request, and although this latter thus managed to avoid jail, he nonetheless spent the following seven years confined within the walls of the Ecuadorian embassy (Ross, 2020). In April 2019, newly elected President Lenin Moreno decided to expel the Australian asylee as he had allegedly violated “the conditions of his asylum” (Ross, 2020). British authorities had established a perimeter around the embassy since the very beginning of Assange’s asylum, so when he got expelled he was immediately arrested and charged with defying extradition to Sweden. British judges later dropped the charge but still kept him in jail as, in the meantime, the U.S. had now requested he be extradited (BBC News, 2021). In April 2022, a London court ruled that Washington’s request was legitimate and it ordered Assange’s extradition (John et al., 2022). Two months later, UK Home Secretary Priti Patel approved the court’s ruling, thus completing the last “formal” step necessary to hand Mr. Assange over to the U.S. judiciary (John et al., 2022).
Who really is Assange? Is he a free press advocate or a criminal? Apparently simple questions like these cannot be answered unless many other questions are asked. What did Assange do? Did Assange’s actions constitute acts of civil disobedience or did he just commit a series of crimes? Were the means he adopted justified by the circumstances? Did Assange have no alternatives other than leaking all documents unredacted? Should Assange face criminal charges? Should the US incriminate and incarcerate him, would that set a preoccupying precedent for press freedom in the West? The next sections will provide answers to all of these questions.
In 2006, Julian Paul Assange founded WikiLeaks as “an online outlet for posting secret documents from anonymous leakers” (Welna, 2019). Behind Mr. Assange’s entrepreneurship lays his cypher-punk ethics. Anderson explains that “for the cypher-punks, censorship and surveillance were the twin evils of the computer age, but they viewed encryption as a means to circumvent both” (2020). Assange once declared: “What I opposed, and continue to oppose, is the use of secrecy by institutions to protect themselves against the truth of the evil they have done” (Anderson, 2020). Is he right? Are intelligence and state secrets inherently wrong? Should their use be banned? No, and the next paragraphs point out why.
In the past, we erroneously assumed wars could only be fought with weapons and ammo. Then, history taught us that strategy and information are assets that are just as important in the fight against an enemy. For this reason, academics started doing research on the field of strategic studies and governments established intelligence agencies, and the reasoning hereby offered is particularly concerned with these latter.
Indeed, most of the work done by intelligence services involves the gathering, handling, and analysis of sensitive information, namely data that has to be kept secret since potential wrongdoers could use it to undermine a state’s national security. In simpler words, intelligence services sometimes have to “keep secrets” to protect society from threats like foreign espionage and terrorism. Obviously, the power held by intelligence agencies can lead to abuses, just like any other type of power. Politicians are among the most powerful people on the planet, and some of them abuse of their powers, but that does not mean that all politicians are corrupt. The same applies to intelligence services, where abuses do sometimes occur, but that does not imply that intelligence and secrecy are always illegitimate. Going back to Assange, being a cypher-punk, he would disagree with all that has been stated so far. In Assange’s eyes, governments should not hide any information from the public, no matter what, no matter the context. Yet, regardless of how unrealistic, naïve, and potentially harmful this idea may be, this is the philosophy that inspired the activity of WikiLeaks.
On April 5th, 2010, WikiLeaks hit the headlines worldwide by posting the classified recording of a U.S. helicopter attack occurred on July 12th, 2007, in New Baghdad (Froomkin, 2010). The video shows the crew of a U.S. Apache attack helicopter firing 30mm rounds on more than a dozen innocents, resulting in just as many casualties, including two Reuters journalists. The attack also left two children seriously injured. The footage is still easily accessible by anyone on the internet, and it is now known by the name WikiLeaks gave it, “Collateral Murder.”
A few months later, WikiLeaks and its Australian editor-in-chief once again found themselves at the center of the world stage after they had done something unprecedented: publish hundreds of thousands of secret U.S. documents. A full database of intelligence papers whose access was strictly limited to U.S. military officers and senior officials suddenly became available to anyone who simply had an internet connection. To be more precise, the first batch of leaked documents was released in July 2010, when WikiLeaks published 75,000 reports by the U.S. Department of Defense on the War in Afghanistan, which later became known as the “Afghan War Diaries” (Ross, 2020). WikiLeaks successively declared it had withheld an additional 15,000 reports for security reasons.
In October 2010, WikiLeaks stroke again and leaked the so-called “Iraq War Logs,” namely 400,000 classified reports on U.S. Army operations in Iraq from 2004 to 2009 (Ross, 2020). One month later, the U.S. government found out WikiLeaks had obtained 250,000 U.S. State Department cables which the website intended to publish (Ross, 2020). About half of them were classified, yet WikiLeaks nonetheless proceeded to release them.
Between 2011 and 2015, WikiLeaks did not stop, but its actions did not draw as much attention as they first did in 2010. Then, in July 2016, WikiLeaks made a feisty comeback to public debate by “post[ing] nearly 20,000 emails and 8,000 attachments from leaders of the Democratic National Committee” (Welna, 2019). In October of that same year, that is, just one month before the 2016 US presidential election, Assange’s website released “more than 2,000 hacked emails from the account of John Podesta, who at the time was campaign chairman for Democratic presidential nominee Hillary Clinton” (Welna, 2019).
To sum up, on one hand, Assange’s supporters believe WikiLeaks played a crucial role in unearthing uncomfortable truths regarding the wars in Afghanistan and Iraq as well as in denouncing the allegedly unfair process that led Hillary Clinton to become the 2016 Democratic presidential nominee. On the other hand, Assange’s detractors claim WikiLeaks does more harm than good. They accuse the website of putting the lives of hundreds of innocent Afghan and Iraqi collaborators at risk and of having de-facto favored Trump’s victory by having misleadingly shed a bad light on the Democratic Party. How can one distinguish truth from false narratives? Find the answer in the second part of this article.
]]>Ciò che rende le elezioni in arrivo molto particolari è, anzitutto, il fatto che, dopo 76 anni circa di repubblica anti-fascista gli eredi storici (politici, morali ed intellettuali) del regime fascista potrebbero non solo andare al governo ma anche andarci come partito di maggioranza relativa che esprime il Presidente del Consiglio. So già che definire il partito Fratelli d’Italia semplicemente “fascista” attirerà molte rimostranze, ma così è perché così dicono i testi, i fatti e la logica ma di questo ci occuperemo in una futura occasione. Come ci occuperemo in una futura occasione di molte altre tematiche rilevanti: la situazione economica prospettica, il ruolo dell’Italia nella guerra russo-ucraina, il conflitto fra gruppi sociali sottostante lo scontro politico-ideologico, il ruolo dei due tronconi dell’ex Movimento 5S, il posizionamento del PD ed il suo ruolo di principale ostacolo alla costruzione di un movimento per la rinascita nazionale ... i temi sono tanti, ma da qui al 25 settembre c’è tutto il tempo di cui abbiamo bisogno.
Siccome questo è un diario personale non seguirò un percorso logico predeterminato ma mi farò guidare dagli eventi e dai temi che l’attualità mette al centro del dibattito. In questi giorni il tema centrale, a me sembra, è quello dell’eredità politica di Mario Draghi e di questo mi occuperò oggi. In termini molto semplici la questione è la seguente: nella geografia politica italiana un partito che si ispiri a quel che Draghi aveva affermato di voler fare dovrebbe collocarsi al centro dello spettro politico. Questo partito non esiste, ma la corsa alla sua costruzione è ufficialmente aperta.
L’abbandono di Draghi lascia orfana una galassia di piccole organizzazioni politiche che proclamano di volerne raccogliere la bandiera: ottimo proposito che, personalmente, io auspico si realizzi. In questa e nelle prossime riflessioni vorrei riflettere sul “che fare?”, ovvero su quali scelte potrebbero massimizzare le probabilità di successo di una tale formazione politico. In termini pratici il “che fare?” si traduce in: chi dovrebbe esserci in questo partito, come dovrebbe posizionarsi e con che programma dovrebbe presentarsi?
Il programma non può essere altro che quello di rinnovamento nazionale tracciato da Draghi nel suo discorso d’investitura al Senato il 17 febbraio, 2021, con un’ovvia aggiunta. L’Italia è parte integrante della NATO ed il regime russo è nostro nemico, quindi l’Italia contribuirà alla difesa dell’Ucraina senza indugi ed al meglio delle sue risorse finanziarie e militari sino a quando l’aggressore russo non abbandonerà i suoi propositi imperiali.
Sul chi deve esserci in questo mitologico partito vorrei tornare, se possibile, in una prossima occasione ma la risposta telegrafica è semplice: chiunque ci stia a sottoscrivere esplicitamente il programma appena menzionato attraverso un confronto aperto e pubblico che avrebbe dovuto iniziare mesi fa. Senza snobismi, esclusioni a priori, ripicche, personalismi ed esami del sangue.
Con che posizionamento? A questa domanda rispondo dicendo: senza compiere l’eterno e fatale errore dell’area di centro, ovvero quello di mediare a-priori rispetto alle posizioni ideologiche di uno, o entrambi, dei suoi avversari. Esiste una solida minoranza di italiani che disperatamente vuole vengano messe con forza sul tavolo le riforme che Mario Draghi aveva delineato all’inizio del suo governo. Questa minoranza di elettori è andata crescendo, identificandosi ed anche omogeneizzandosi politicamente durante l’ultimo anno ed oggi non ha alcun partito che la rappresenti in modo convincente. Riflettiamo per un momento su alcuni fatti abbastanza incontestabili.
La stragrande maggioranza degli italiani vuole rimanere nell’Alleanza Atlantica. Circa il 30% è anche convinto che occorra dare supporto economico, politico e militare all’Ucraina sino a quando Putin non rinunci all’invasione e ritiri le truppe accettando il terreno negoziale. Questo dicono i sondaggi, suggerendo pure che circa 1/4 degli italiani sarebbe favorevole a riconsiderare la questione del nucleare. Ad oggi non esiste un singolo partito che su queste due questioni fondamentali abbia preso una posizione precisa e non ambigua.
Un altro terzo dei cittadini italiani (forse gli stessi di prima?) ritiene che la spesa pensionistica sia troppo elevata. Batti e ribatti circa un terzo degli italiani si è reso conto che una spesa pensionistica sul PIL pari al 17% non solo è economicamente insostenibile e distruttiva di posti di lavoro ma, proprio per questo, è anche ingiusta. Anche su questo tema non esiste una singola forza politica che affermi questa banale verità mentre entrambi i grandi blocchi cercano di negarla, mentendo agli italiani.
La stragrande maggioranza degli italiani, stakeholder soprattutto, si dichiara insoddisfatto del sistema scolastico italiano, di quello secondario e terziario in particolare. Tale insoddisfazione ha motivazioni diverse, a volte opposte, ma la sua ampiezza segnala che, da 60 anni, un grande bubbone siede al centro dello stato e della vita quotidiana degli italiani. Trovo ragionevole argomentare che tra ¼ ed ⅕ dell’elettorato sia consapevole che scuola e università italiane non formano i nostri giovani per lavorare e prosperare nel mondo moderno. Lo vogliono veder cambiato per davvero e da cima a fondo. Se qualcuno pensa che “La Buona Scuola” di Matteo Renzi possa essere una risposta a questa domanda, meglio che dia un’occhiata ai risultati. Di nuovo, il problema che pure è chiarissimo in strati ampi della società civile sembra del tutto assente in quella politica.
A nessun italiano piace il sistema fiscale esistente: tutti lo ritengono disegnato esattamente per far loro danno. All’interno di questo gigantesco marasma quanti sono quelli che ritengono necessaria una drastica semplificazione (sulla falsariga di quella che la pseudo-riforma appena approvata avrebbe dovuto realizzare ma molto più incisiva e determinata)? Forse non più del 15-20% dell’elettorato ma, se sondaggi ed altre mille segnali non mentono, questo stesso 15-20% è anche consapevole che esiste una sola strada percorribile per ridurre il carico fiscale dopo averlo semplificato: porre sotto controllo la spesa pubblica che, già insostenibile nel 2019, ha preso il volo durante gli ultimi due anni.
Questo vale, in particolare, per il tema “cuneo fiscale” che appare e scompare nel dibattito pubblico senza esser mai risolto. Una soluzione non c’è a meno che non si accetti di ridurre la spesa pensionistica e di avviare quelle riforme che aumentando concorrenza, libertà di entrata e cambio nella composizione dimensionale del settore servizi, sono la vera precondizione per ogni incremento sostanziale di produttività. Se due romani su tre, secondo i sondaggi, son favorevoli alla Bolkenstein non credo sia folle presumere che un italiano su 5 abbia voglia di queste riforme per la semplice ragione che ha capito che gli convengono, niente altro. Di nuovo, anche su questi terreni, quel che l’attuale panorama politico offre sono, al meglio, frasi fatte, risposte ambigue e nessuno, assolutamente nessun impegno di contenimento della spesa e di effettiva e stabile riduzione del carico fiscale.
Potrei continuare con una lista che comprende sia atti simbolici, come la privatizzazione di RAI e ITA, che riforme invisibili, difficili e cruciali come la trasformazione della PA italiana in qualcosa che assomigli vagamente a quella spagnola o francese ed il progressivo drastico sfoltimento di quella corrotta foresta di sussidi, sottogoverno e distorsioni che chiamiamo “partecipate degli enti locali”. Ma lo spazio manca, veniamo quindi al punto rilevante: esiste una minoranza informata di italiani che disperatamente vuole vengano adottate, o per lo meno messe con forza sul tavolo, alcune politiche considerate generalmente “impossibili” perché ad esse si oppongono la maggioranza degli italiani.
Quante sono queste persone? Non lo so, ma azzardo un numero non del tutto campato in aria: 7-8 milioni. Non me lo sono inventato bevendo: in una prossima occasione farò il possibile per spiegare come sono arrivato a questo numero. Qui mi interessa sottolineaere che una buona parte di queste persone non votano o, se votano, disperdono stancamente il loro voto in uno dei gruppuscoli centristi o nelle componenti “moderate” dei due opposti populismi, ovvero PD e FI. Questa minoranza chiede di essere rappresentata in Parlamento e questa minoranza definisce la constituency, l’unica constituency possibile, per questo mitico partito di centro. Sic et simpliciter.
Considerato che non è facilissimo spiegare cosa sono, si può più semplicemente chiarire cosa NON sono. In particolare è abbastanza utile ribadire che NON si tratta di monete.
Per metterla giù in modo molto semplice una moneta è qualcosa che è largamente accettato come mezzo di pagamento, che si può utilizzare come riserva di valore e come unità di conto.
Nè il Bitcoin, nè nessun altro crypto asset che possiate trovare in giro risponde a questi requisiti. Dunque non sono monete.
Perchè nonostante esistano da più di un decennio (che per gli standard dell'innovazione digitale è un periodo lunghissimo) non si sono affermati come mezzo di pagamento?
Una prima risposta convincente è che ben poche persone sono disposte ad essere pagate con un oggetto che può perdere un quinto o un quarto del proprio valore nel giro di pochi giorni se non di ore.
Dunque non funzionano bene come intermediario negli scambi perchè il loro valore oscilla troppo e troppo spesso.
Ma a ben guardare questa è una conseguenza di uno dei principi fondanti dei Crypto assets ossia l'assenza di una autorità centrale di controllo.
Dunque se volete un riassunto super veloce, quando si parla di moneta la stabilità del valore nel tempo è una faccenda molto seria nel tempo abbiamo messo su un sistema articolato come quello delle banche centrali esattamente per difendere il valore della moneta.
Uno strumento che manca di autorità centrale è per definizione debole da questo punto di vista e le persone e le aziende normali, quelle che non sono disposte a tollerare oscillazioni a 2 cifre nell'arco di una giornata preferiscono non usare questi strumenti.
Se non vanno bene per per fare acquisti, qualcuno potrebbe pensare che i Crypto asset siano utlizzabili come riseva di valore o come elemento di diversificazione dei portafogli e alcuni investitori istituzionali hanno anche sperimentato questa possibilità. Ad oggi l’estrema variabilità di questi strumenti li rende più adatti a distruggere il valore che non a conservarlo. Inoltre, il fatto che di recente abbiano iniziato a muoversi in modo correlato con altre attività finanziarie come le azioni ne vanifica qualsiasi ipotetica funzione in ottica di diversificazione.
Da ultimo rimane l’unità di conto. Perché non vediamo il prodotto interno di una nazione espresso in bitcoin? Perché quando si stima la dimensione di un mercato lo si fa in dollari o in euro? Per il solito problema della variabilità: se esprimo il Pil degli Stati Uniti in Bitcoin dovrei indicare a che data e a che ora ho fatto la misurazione perché successivamente il significato di quel valore potrebbe essere molto diverso.
In sintesi: le crypto non sono valute perché il loro valore cambia troppo nel tempo e troppo di frequente e questo avviene perché uno dei loro elementi fondanti , l’assenza di una autorità centrale di controllo è anche il principale elemento di debolezza.
PS
Se non sono monete, non sono beni rifugio e non servono a misurare grandezze allora cosa sono? Risposta ironica: oggetti che dovreste astenervi dal comprare finchè non ne comprendete il funzionamento.
Risposta meno ironica: per il momento si tratta di attività di carattere speculativo, oggetti che alcuni comprano sperando di poterli rivendere a qualcun altro a prezzo più elevato. La storia a partitre dalla bolla dei tulipani e la letteratura del campo dei Miracoli insegnano che in genere non va a finire bene
]]>La tassonomia fissa sei obiettivi: 1) mitigazione del cambiamento climatico; 2) adattamento al CC; 3) uso sostenibile delle risorse idriche e marine; 4) economia circolare; 5) prevenzione e controllo dell’inquinamento; 6) protezione e ristoro della biodiversità.
Il primo atto delegato, pubblicato il 9 dicembre 2021 e in vigore dal 1 gennaio 2022, copre le attività relative alla mitigazione e all’adattamento al cambiamento climatico (“climate delegated act”)
]]>Stamattina il Parlamento Europeo ha votato: 529 si 45 no 14 astenuti.
E' un momento simbolicamente e politicamente molto importante per il presente ed il futuro dell'Europa ma va inquadrato con attenzione Prima di tutto è frutto della volontà di quei Paesi che ora dovranno prendere un percorso molto rigido.
Al primo punto ci sono i principii europei, poi le riforme e il loro rispetto nel tempo la Commissione Europea dovrà vigilare sul rispetto di queste riforme ed è già stato detto che non ci saranno percorsi accelerati. Nella risoluzione si legge al p.8:
Invites the authorities of Ukraine, the Republic of Moldova and Georgia to UNAMBIGUOUSLY (il maiuscolo è mio) demonstrate their political determination to implement the European ambitions of their people by significantly enhancing progress with substantial reforms in order to effectively fulfil the criteria for EU membership as soon as possible;
]]>
Da tempo le istituzioni internazionali segnalano come l’Italia sia al di sotto della media dei paesi sviluppati per quanto riguarda la spesa pubblica in educazione, università e ricerca. Nel nostro paese questa è pari al 3,8% in relazione al Pil: questo è abbastanza? Il confronto con gli altri paesi avanzati ci dice che o loro spendono poco o noi troppo poco: la media europea infatti si attesta al 4,5%. Il problema però non è solo quanto poco investiamo in istruzione, il problema è soprattutto come investiamo, cioè quali politiche scolastiche decidiamo di attuare e come funziona il nostro sistema scolastico. Abbassiamo il numero di studenti per classe o aumentiamo gli stipendi a tutti i docenti? Accorciamo il calendario scolastico, per potenziare il settore turistico, o allunghiamo il tempo dedicato alla scuola? Manteniamo i percorsi scolastici come sono o li modifichiamo imparando dai paesi con migliori risultati? Manteniamo l’attuale logica didattica o ci chiediamo se l’evidente abbandono e, più generalmente, il ritardo italiano nei livelli d’istruzione dipenda anche dai metodi didattici adottati? I nostri metodi di selezione e promozione del personale sono appropriati o ne esistono di migliori?
I confronti internazionali suggeriscono che i sistemi scolastici si possono migliorare, non c’è nulla di inevitabile o immutabile. I dati PISA dicono che non sussiste un legame obbligatorio fra disagio sociale e rendimento mediocre degli studenti e che la riuscita scolastica può essere ampiamente migliorata anche per quegli studenti che crescono in situazioni particolarmente disagiate. Investire in istruzione significa investire nel benessere a lungo termine della società, ma significa anche dover aspettare anni prima che l’attuazione di una determinata politica scolastica mostri i propri frutti. Ci vuole tempo, purtroppo. E spesso la politica è impaziente, ha fretta di accontentare i propri elettori in una contrattazione in cui l’interesse degli studenti non è minimamente rappresentato.
Le ricerche di Rick Hanushek dimostrano che esiste una relazione positiva stabile fra aumento del livello di conoscenze acquisite a scuola e crescita futura del reddito nazionale. Eppure noi per l’apprendimento perso durante la chiusura delle scuole dovuta alla pandemia non abbiamo fatto nulla. Secondo quanto scrive nel suo ultimo libro “La scuola bloccata” Andrea Gavosto, economista e presidente della Fondazione Agnelli, il tasso di rendimento di un anno di istruzione si attesta intorno al 10%, ben superiore a quanto potrebbe fruttare un investimento finanziario o immobiliare. Fare in modo che i nostri ragazzi e ragazze ricevano un’educazione adeguata porta vantaggi all’intera collettività, non solo agli studenti stessi.
Mi duole dirlo ma, per quanto riguarda la scuola, che ci sia Draghi o Conte alla presidenza del consiglio poco cambia, il modus operandi resta sempre lo stesso: nulla si crea, nulla si distrugge.
L’Italia è il paese d’Europa con i più bassi livelli di istruzione, i più alti tassi di dispersione scolastica e il più alto numero di NEET. Il 13% degli adolescenti italiani non termina la scuola superiore. Il divario territoriale Nord-Sud è disarmante: nelle regioni Sicilia, Calabria e Campania circa 1 studente su 5 abbandona la scuola prima del diploma. Secondo gli ultimi dati INVALSI la percentuale dei maturandi che non raggiunge un livello accettabile di competenze (livello 3) in lettura è del 44%. In matematica questa percentuale si attesta al 51% e in alcune regioni del Sud si arriva fino al 70%. Eppure il 99% di chi sostiene la maturità la supera. Qualcosa non torna. Secondo gli ultimi dati PISA (2018) il 14,8% degli studenti italiani non raggiunge la soglia minima di competenza. Siamo tra i peggiori in Europa.
Anche dall’ISTAT arrivano indicatori problematici: in Italia la percentuale di laureati è tra le più basse in Europa ed il tasso di uscita dal paese dei laureati è maggiore di quello del resto. Solo la metà dei giovani che conseguono il diploma si immatricolano all’università nello stesso anno e solo il 34% di questi ottiene la laurea. Questo vuol dire che, anche fra i trentenni, abbiamo un laureato ogni cinque o, al meglio, ogni quattro! Negli ultimi anni i giovani che hanno trasferito all’estero la propria residenza sono costantemente aumentati e pochi hanno fatto ritorno. L’ISTAT calcola che dal 2008 al 2020 sono ufficialmente espatriati dall’Italia 355.000 giovani tra i 25-34 anni e, sempre facendo riferimento alla stessa fascia d’età, i rimpatri sono circa 96 mila nello stesso periodo. La differenza tra rimpatri e gli espatri è rimasta costantemente negativa e determina una perdita netta complessiva di circa 259.000 giovani tra i 25-34 anni. Di questi circa 93 mila giovani con al più la licenza media, 91 mila diplomati e 76 mila laureati.
La scuola italiana ha perso il suo effetto perequativo o, per dirla in altri termini, l’ascensore sociale è completamente bloccato. Il contesto socio economico e culturale della famiglia di provenienza determina il futuro dei giovani. Quello che maggiormente conta, quindi, è dove si nasce e in che contesto familiare si cresce. I dati disponibili dicono che uno studente ha il 75% di probabilità di laurearsi se proviene da una famiglia con genitori laureati, il 48% se figlio di diplomati ed il 12% se i genitori hanno solo la licenza media. Si scende al 6% se i genitori non hanno alcun titolo di studio. Nel 2020 in Italia i NEET, cioè i ragazzi tra i 15 e 29 anni che non studiano, non lavorano e non si formano, sono 2,1 milioni, su un aggregato complessivo di 9,8 milioni nei 27 stati membri dell’Ue. Anche in questo caso il background familiare è fondamentale: i figli di genitori con al massimo la licenza media presentano un’incidenza di NEET del 31,7%, che si riduce al 17,3% tra i figli di genitori con il diploma di scuola superiore e all’11,9 % tra quelli con genitori laureati.
Anche volendo prescindere dal disagio sociale e dalle diseguaglianze che questi numeri suggeriscono rimane l’enorme danno economico collettivo. Milioni di giovani italiani non contribuiscono al benessere nazionale e conducono una vita di studio e professionale che non può non deluderli escludendoli dalle dinamiche economiche familiari alla maggioranza della popolazione e da ogni prospettiva di emancipazione personale.
Abbiamo una classe politica che continua a occuparsi di materie “urgenti”, ovvero di richieste corporative di breve periodo, ma non di ciò che veramente è importante per i nostri studenti. Senza un livello di istruzione adeguata, come dice Andreas Schleicher “le persone languiranno ai margini della società, i Paesi non potranno trarre beneficio dagli avanzamenti tecnologici e tali avanzamenti non potranno tradursi in un progresso sociale. Semplicemente, non possiamo sviluppare una politica pubblica inclusiva e coinvolgere l’intera cittadinanza se la carenza di istruzione impedisce agli individui una piena partecipazione alla vita sociale”.
Serve ridisegnare una scuola che torni ad essere un motore di crescita sociale e sviluppo economico per l’intero paese.
]]>Sta di fatto che meno di ventiquattro ore dopo, alle 21:15 del 22 marzo 2020 atterra presso la base militare di Pratica di Mare il primo di tredici quadrireattori Ilyushin Il-76md. In un’intervista rilasciata al Foglio, lo stesso Generale Vecciarelli – capo di stato maggiore della Difesa durante il secondo governo Conte – racconta che il contingente dispiegato da Mosca destò una certa preoccupazione in lui in quanto, più che di una spedizione di aiuti sanitari, si trattò di un dispiegamento di forze militari a tutti gli effetti. I dati ufficiali riportano che il contingente russo contava 104 individui in totale, di cui 32 unità di personale sanitario (28 medici e 4 infermieri), mentre i restanti 72 uomini erano soldati delle forze armate russe. A capo della missione russa vi era il Generale Sergej Kikot, il quale – stando a ciò che riporta il Foglio – sostenne che i suoi uomini fossero stati autorizzati a muoversi liberamente entro tutto il territorio nazionale italiano grazie ad un “accordo politico di altissimo livello”. E l’ex membro del CTS Agostino Miozzo ha dichiarato che tra le richieste dei russi vi fosse quella di sanificare alcuni uffici pubblici, la quale fu respinta. Non solo. Raggiunto dal Corriere della Sera, l’attuale segretario generale della Difesa, Generale Luciano Portolano, che al tempo era a capo del Comando Operativo Interforze, ha spiegato di aver discusso con il Generale Kikot. Il comandante russo sosteneva appunto di avere un nulla osta per spostarsi in tutta Italia e, dopo aver “bonificato” la Lombardia, cercò di far spostare il contingente russo in Puglia. Una richiesta alquanto strana considerando che, come fa notare Luca Roberto de Il Foglio, al tempo nella suddetta regione i contagi da COVID-19 erano quasi inesistenti. Curiosamente però, ad Amendola, in provincia di Foggia, si trova il più grande aeroporto militare d’Italia.
Riassumendo, due sono le domande per cui dobbiamo cercare una risposta. La prima, gli aiuti russi sono stati davvero un gesto mosso da un innocuo senso di generosità? E la seconda, l’assistenza offerta da Mosca è effettivamente servita a qualcosa? Il Corriere della Sera fa presente che il mantenimento dei 104 militari russi è stato a carico del governo italiano, il quale ha speso più di tre milioni di euro tra vitto e alloggio per il personale e il carburante per i tredici quadrireattori impiegati per il trasporto. Tredici quadrireattori che non sono serviti a trasportare 104 soldati, ai quali sarebbe probabilmente bastato un solo aereo, bensì a far sbarcare alcuni mezzi Kamaz riadattati per la sanificazione del suolo.
In altre parole, si trattava di mezzi che spruzzavano candeggina sulle strade, una pratica che non ha alcun effetto se non quello di inquinare. I russi portarono in Italia anche del materiale sanitario e il Corriere della Sera racconta che si trattò di “521.800 mascherine, 30 ventilatori polmonari, 1.000 tute protettive, 2 macchine per analisi di tamponi, 10.000 tamponi veloci e 100.000 tamponi normali”. A primo impatto questi sembrano dei numeri esorbitanti, ma lo stesso giornale fa notare che la quantità di materiali donatici da Mosca non bastasse a coprire il fabbisogno sanitario di mezza giornata.
Come anticipato nel primo paragrafo, le informazioni sul caso accessibili al pubblico sono poche e non sempre verificabili, e le indagini del COPASIR sono tuttora in corso. Pertanto, al fine di essere intellettualmente onesti, bisogna dire che non abbiamo le prove per affermare che dietro la missione di Mosca vi fosse un tentativo di spionaggio. Tuttavia, si può altresì escludere l’ipotesi che i russi siano stati particolarmente generosi e vi sono ragioni per credere che l’operazione avesse scopi propagandistici più che umanitari.
]]>Per sottoposrsi a questa Caporetto comunicativa il nostro ha pensato bene di andare direttamente a Mosca, per fortuna a spese non nostre ma di Cairo. E vengo al punto
Perché affrontare un viaggio verso un Paese in guerra generando inevitabili problemi di collegamento, di ritardo dell'audio e infine di conduzione? La risposta che mi do è quel tipo di scelta è funzionale a due obiettivi precisi e correlati fra di loro: la ricerca dell'empatia verso il giornalismo che finge di essere giornalismo di trincea e l'autopropaganda in un campo del giornalismo pieno di concorrenza. Come vedete voglio escludere un terzo motivo più prosaico, ovvero la gita a scrocco in una delle città più affascinanti del mondo.
Giletti era già stato in Ucraina all'inizio della guerra ma almeno aveva prodotto, accanto ai problemi tecnici inevitabili, un paio di brevi ed inutili reportage dal fronte. La replica moscovita serviva a ribadire l'essere vicino ai fatti e ai luoghi inventandosi (ed attribuendosi) un ruolo ben più nobile che è quello del corrispondente di guerra. Corrispondenti, spesso sconosciuti al grande pubblico, che per amore della notizia e di un mestiere meravigliosamente pericoloso, mettono letteralmente in gioco la loro vita. Dall'inizio di questa schifosa aggressione ai danni del popolo ucraino sono 32 i giornalisti rimasti uccisi mentre svolgevano la loro professione. Ne voglio ricordare alcuni in memoria di tutti: Brent Renaud, reporter statunitense ucciso da colpi di mortaio mentre documentava l'evacuazione di civili da Irpin; Oksana Baulina, giornalista russa del giornale indipendente The Insider; Frederick Leclerc Imhoff, francese della tv BFM, morto il 30 maggio durante l'attacco russo a Severodonetsk.
Ecco, la sceneggiata di Giletti offende una professione e offende chi quella professione, ripeto nobilissima, svolge.
Il secondo punto attiene all'escalation di propaganda russa cui si assiste su tutte le tv nazionali. Dopo aver visto l'anchorman russo Solovyev, il politologo Suslov, la giornalista di Zveda Fridikhson, persino il numero uno della diplomazia del Cremlino Lavrov, e posto che lo "scoop" del secolo sembra per ora inavvicinabile, Putin, cosa c'è di meglio per spostare in là i confini di questa corsa assurda a chi ospita il propagandista più feroce se non andarlo ad omaggiare direttamente a casa sua? Gli è andata male è vero, ché Zakharova era in collegamento skype (altro elemento surreale) ma questo è.
Occorre chiedersi seriamente se è tollerabile una tv che ricorre a questi mezzi. Lungi dal voler persare a qualsivoglia forma di censura, esiste un Testo Unico del Giornalismo che al punto 1 dichiara che è obbligo inderogabile del giornalista il rispetto della verità sostanziale dei fatti; non c'è dunque spazio per fake news e propaganda e qualora ci siano è suo dovere correggere l'intervistato.
Da troppo tempo questo non avviene, e non avviene che l'ordine professionale richiami i suoi iscritti a questo imperativo.
Ad un certo punto Giletti ha avuto un malore, forse il freddo, forse la stanchezza, forse gli schiaffi che ha preso da tutti. Il malore rappresenta plasticamente lo stato di salute del giornalismo televisivo.
]]>Parafrasando una celebre frase di Woody Allen la verità è morta, l'Ucraina sta morendo e anche la stampa non si sente troppo bene.
Una premessa
The New Deal order was founded on the conviction that capitalism left to its own devices spelled economic disaster. It had to be managed by a strong central state able to govern the economic system in the public interest. The neoliberal order, by contrast, was grounded in the belief that market forces had to be liberated from government regulatory controls that were stymieing growth, innovation, and freedom.
Establishing a political order demands far more than winning an election or two. It requires deep-pocketed donors (and political action committees) to invest in promising candidates over the long term; the establishment of think tanks and policy networks to turn political ideas into actionable programs; a rising political party able to consistently win over multiple electoral constituencies; a capacity to shape political opinion both at the highest levels (the Supreme Court) and across popular print and broadcast media; and a moral perspective able to inspire voters with visions of the good life.
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Il dibattito pubblico italiano sull’invasione russa dell’Ucraina è tristemente affetto dal morbo della propaganda del Cremlino. I salotti dei talk show italiani sono infatti soliti ospitare opinionisti e politici che rilanciano infondate narrative filorusse, secondo cui la NATO è un’organizzazione imperialista che intende aggredire la Federazione Russa. I sostenitori di questa tesi usano due principali argomentazioni a loro favore. La prima è che nel 1990 a Gorbaciov fu promesso che con la fine della guerra fredda e la dissoluzione dell’Unione Sovietica e del Patto di Varsavia, la NATO non si sarebbe espansa ad est. Una promessa che, agli occhi dei putiniani italiani, fu violata alla fine degli anni novanta con l’ammissione di Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia, seguite poi da molti altri stati esteuropei negli anni a venire. La seconda argomentazione degli utili idioti nostrani è che, con il suo allargamento ad est, la NATO stia accerchiando la Russia, che sarebbe dunque legittimata a sentirsi minacciata. Entrambe sono argomentazioni basate esclusivamente su falsità e, nei paragrafi successivi, spiegherò perché la NATO altro non è che un’alleanza militare atta solamente alla difesa dei suoi stati membri.
Nell’edizione settembre/ottobre 2014 di Foreign Affairs, Mary Elise Sarotte (2014) racconta che il 9 febbraio 1990 l’allora segretario di stato americano James Baker incontrò Gorbaciov per parlare di NATO. Secondo la ricostruzione di Ms. Sarotte (2014), il diplomatico statunitense appuntò sul suo taccuino che “la giurisdizione della NATO non si sarebbe mossa verso est”. Ebbene questa è l’unica istanza in cui si sia mai fatto riferimento, in modo più o meno ufficioso, ad una limitazione dell’espansione ad est dell’alleanza atlantica. Tuttavia, chiunque abbia una minima conoscenza del mondo della diplomazia – russi compresi – sa che promesse verbali e appunti personali sono ben lungi dall’avere la validità di un trattato internazionale. A riprova di questo, ad inizio 2022, Putin stesso ha ripetutamente promesso che non ci sarebbe stata un’invasione dell’Ucraina, eppure come aveva previsto l’intelligence americana, in diplomazia le promesse hanno ben poca valenza e alla fine l’invasione c’è stata. Dunque, dal momento che non c’è un trattato che lo proibisca, il cosiddetto allargamento ad est della NATO è legittimo ed è avvenuto in pieno rispetto del diritto internazionale. Volendo essere ancor più precisi però, non è propriamente corretto parlare di allargamento o di espansione quando ci si riferisce all’entrata di paesi esteuropei nell’alleanza atlantica. Per capire perché bisogna approfondire le basi di diritto internazionale su cui si fonda la NATO.
La NATO fu fondata nel 1949, con la firma del Trattato di Washington. Il decimo articolo di quest’ultimo delinea i criteri di entrata nell’alleanza e sancisce la open door policy della NATO (NATO, 2020). Traducendo alla lettera, la NATO adotta una “politica delle porte aperte”. In altre parole, l’accesso nell’alleanza atlantica è aperto a qualsiasi stato europeo che condivida i principi di democrazia, libertà individuale e di rispetto dello stato di diritto. Qualora un paese desideri diventare un alleato, questo deve esprimere la sua volontà all’alleanza, la quale avvia il processo di valutazione d’ingresso per appurare che lo stato candidato rispetti tutti i criteri NATO sopracitati (NATO, 2020). Superata questa prima fase, l’ingresso del nuovo membro viene sottoposto al giudizio dei singoli governi di tutti gli alleati, i quali dovranno unanimemente acconsentire all’effettiva entrata del paese candidato (NATO, 2020). Pertanto, la conclusione che si può trarre è che l’espansione della NATO non è il risultato di un processo attivo portato avanti dall’alleanza, bensì sono i singoli stati membri ad aver scelto di diventare alleati, in piena autonomi e consci del fatto che vi sono dei requisiti da rispettare.
Avendo a questo punto appurato la vera natura del cosiddetto allargamento ad est della NATO, è vero che quest’ultima ha nel tempo accerchiato la Russia? Ovviamente no, e i dati parlano chiaro.
Come riportato dalla stessa NATO (NATO, 2022c), i confini di terra della Russia si estendono per più di 20.000 chilometri, di cui solo 1.215, ovvero meno di un sedicesimo del totale, sono a contatto con paesi NATO. Le uniche basi NATO al di fuori del territorio degli alleati si trovano in Kosovo, tramite la missione KFOR, approvata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, di cui la Russia è membro permanente, e in Iraq, il cui governo ha richiesto l’intervento della NATO per combattere il terrorismo (NATO, 2022c). Al contrario, la presenza militare all’estero della Russia di Putin è frutto di numerose violazioni del diritto internazionale che hanno deturpato la sovranità e l’integrità territoriale di diversi paesi indipendenti. In ordine cronologico, all’inizio degli anni novanta, Mosca occupò la regione orientale della Moldavia conosciuta come Transnistria, la quale è tuttora sotto il controllo di militari russi. Nel 2008, le forze armate russe hanno poi invaso la Georgia e sei anni dopo, nel 2014, è stato il turno della Crimea e della regione del Donbass. Oggi, dopo otto anni di ulteriori vessazioni militari, l’Ucraina è di nuovo vittima della violenza imperialista russa, che questa volta ha aggredito l’intero paese. I fatti quindi parlano chiaro, c’è un solo aggressore che non riconosce il diritto alla libertà altrui: la Russia di Putin.
Lo scopo di questo breve articolo è di dimostrare che coloro che sostengono che la NATO abbia aggredito la Russia mentono. Se avesse voluto, la NATO avrebbe potuto attaccare la Russia da tempo. La Russia ha una popolazione di 142 milioni abitanti, quella dei paesi NATO sfiora il miliardo (CIA, 2021). Nel 2021, la Russia ha speso $66 miliardi in difesa, mentre le spese militari NATO superano il trilione di dollari (Statista, 2022; Statista, 2021). Per invadere l’Ucraina la Russia ha schierato più di 100.000 uomini, dunque considerando che l’estensione territoriale russa è notevolmente maggiore a quella ucraina, la NATO avrebbe bisogno di schierare un contingente militare di gran lunga superiore alle 100.000 unità per sferrare un attacco contro Mosca. Tenendo questo a mente, un’ulteriore conferma della natura difensiva della NATO è data dal fatto che, prima dell’invasione russa, la NATO aveva schierato poco più di 5.000 unità sul fianco orientale dell’alleanza (NATO, 2022b). Comprensibilmente, queste sono state portate a circa 30.000 dopo l’inizio della guerra (NATO, 2022a), ciò nonostante, lo scopo puramente deterrente degli schieramenti NATO rimane evidente.
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Tralasciando il sostanziale giudizio sul non supportare militarmente gli ucraini per una soluzione diplomatica a qualunque costo, infischiandosene totalmente delle dinamiche e di cosa ci sia in gioco, la legge parla chiaro: l’invio di armi all’Ucraina non è contrario alla Costituzione, men che meno all’art. 11.
Per quale motivo?
Cerchiamo di comprenderlo chiaramente, riprendendo il dibattito fatto qualche giorno fa nell’ultima puntata di “Basta che sia legale”
IL FAMIGERATO ART. 11: LE NORME VANNO LETTE PER INTERO
Quando si legge un articolo della Carta Costituzionale, due sono i principi di metodo che bisogna ben tenere a mente:
1) gli articoli non si considerano solo per la parte che ti fa comodo
2) ogni singolo articolo va interpretato alla luce di quanto dicono anche gli altri articoli della Carta
Su tali basi cosa ci dice allora questo famigerato art. 11? Davvero ripudiamo la guerra? NO.
Il primo comma infatti recita:
L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali
La nostra Costituzione è figlia del clima del 2° Dopoguerra, una realtà in cui sebbene nessuno volesse più vedere un conflitto, si era al contempo consapevoli della necessità di non cedere a visioni utopistiche.
Tralasciando infatti che in origine si volesse usare termini come “rinuncia” (che però avrebbe dunque lasciato un margine decisionale), piuttosto che “condanna” (parola dal valore più etico che giuridico), l’art. 11 non vieta la guerra in sé e per sé, bensì solamente:
Se la norma escludesse infatti la guerra in toto, allora anche quella per finalità difensive sarebbe vietata, un atto veramente masochistico (non trovate?) a cui vanno aggiunti due ulteriori dati.
Il primo sono le previsioni costituzionali sancite dall’art. 78 sulla deliberazione dello stato di guerra e dall’art. 52 sul sacro dovere della difesa della patria.
Il secondo è l’importante previsione del secondo comma (gli articoli vanno letti per intero, ricordatelo) dell’art. 11:
consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
Perché è così rilevante questa parte? Perché la dice lunga su come la guerra fosse intesa dai Padri Costituenti: un atto di impeto posto in essere ragioni differenti, a cui è però possibile trovare una soluzione (ammesso che via sia in tal senso una volontà).
Ed è in tal senso che dunque si rinvia alle organizzazioni internazionali tra cui figurano l’ONU, la NATO e l’UE, rivendicando però con chiarezza un principio: la pace e la giustizia non devono far venire meno il concetto di sicurezza internazionale, anzi quest’ultima è loro premessa.
Che vuol dire?
Che qui si ha il fondamento giuridico della nostra partecipazione ad organizzazioni come l’ONU e a meccanismi quali il meccanismo di sicurezza collettiva, permettendoci così di prendere parte – sempre per perseguire la pace – ad operazioni di carattere offensivo su mandato del Consiglio di sicurezza dell’ONU, il quale però in tal caso è rimasto bloccato dal veto della Russia, ergo la domanda ritorna: stiamo facendo un atto di guerra? Siamo fuori dal diritto? Assolutamente no.
LA QUESTIONE DELLE ARMI: LA COSTITUZIONA PARLA CHIARO
Se l’art. 11 punta dunque a tutelare la società, alla ragione come difesa contro la distruzione della guerra, vi è ora da considerare l’altro principio di metodo sopra evidenziato: ogni articolo della Costituzione va letto insieme agli altri coinvolti. Tradotto
L’art. 11 deve essere letto alla luce del diritto internazionale visto che quest’ultimo ai sensi dell’art. 10 (norme generali) e 117 (trattati internazionali) è posto dalla Costituzione stessa a un livello gerarchico superiore al suo. E cosa dice allora tale fonte del diritto?
Nella Carta delle Nazioni Unite è sancito chiaramente che l’ONU:
ove a quest’ultimo vi è un’eccezione: il diritto naturale di uno stato di difendersi a fronte di un attacco armato (art. 51 della Carta).
L’Ucraina – piaccia o no – è vittima di un’invasione militare totalmente illecita da parte della Russia, un attaco dal quale si sta legittimamente difendendosi, chiedendo altresì aiuto alla Comunità internazionale, della quale l’Italia è membro a pieno titolo, come lo sono la NATO e l’UE come organizzazioni di carattere regionale.
Ciò dunque comporta che l’invio delle armi all’Ucraina sia assolutamente legale, poiché è un atto di assistenza a una legittima difesa individuale (al più secondo alcuni vi sarebbe al massimo una violazione della convenzione dell’AIA sulle norme in materia di neutralità, il che è comunque giustificato dall’aggresione)[1], sollevando al massimo la necessità di vigilare sulla destinazione delle armi stesse a usi che non violino gravemente le norme del diritto internazionale, come sancito dal Trattato sul Commercio delle Armi (2014).
E in tal senso la nostra azione si pone in questo solco visto non solo la l. 185/90 sull’esportazione di armi,[2] ma anche le due risoluzioni del 1° marzo di Camera e Senato in cui si impegna il governo a:
cessione di apparati e strumenti militari che consentano all’Ucraina di esercitare il diritto alla legittima difesa e di proteggere la sua popolazione
il che guarda caso è quello che nella sostanza è quanto previsto dall’art. 11 della Costituzione.
Cosa possiamo dunque concludere?
Che seppure il diritto internazionale e costituzionale sono materie complesse, ciò non giustifica in alcun modo il vizio italico del cercare di essere tuttologi, il parlare senza cognizione di causa, lo sparar stronzate a ruota libera pur di dire la propria.
In tal senso se volete affermare l’idea (a mio avviso molto sciocca e irrealistica) che l’Ucraina possa essere aiutata senza supporto militare fatelo pure, ma evitate di dire che è la legge stessa ad imporlo, il che – qualora lo fosse stato – non vuol dir poi che la suddetta abbia comunque senso.
[1] Fonte: http://www.sidiblog.org/2022/03/08/la-compatibilita-con-la-costituzione-italiana-e-il-diritto-internazionale-dellinvio-di-armi-allucraina/
[2] Il paese destinatario – Ucraina – non sta violando l’art. 51 della Carta; tuttavia essendo questa una cessione fra stati, la stessa l. 185/90 escluderebbe tale atto dal suo alveo di competenza. Invero sembra che la deroga alla legge contenuta nella l. 16/22 sia in realtà figlia della mancanza di un trattato di assistenza militare tra i nostri due paesi.
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Rivendico però il diritto di commentare comunque un suo singolo post. Per due motivi:
a) visto che si tratta di un singolo testo autografo, la forza dell'argomentazione del post non dovrebbe dipendere da altri testi: giudicherò il testo esclusivamente per quello che leggo;
b) non ho intenzione di leggere i suoi libri perché, considerato l'elevato numero dei libri che escono ogni giorno, tendo a riservare lo scarso tempo a disposizione ad autori più promettenti (e i brevi estratti di testo che ho letto a firma Orsini non me lo fanno ritenere un autore promettente).
]]>Uno dei più grandi problemi del nostro sistema scolastico è quello che riguarda la formazione e il reclutamento degli insegnanti. Occuparsi dell’accesso alla professione docente è importante perché riguarda tutti noi, non solo i docenti interessati. Non farlo e assecondare un sistema che si basa su bassi requisiti di accesso ha delle conseguenze, sia sull’autostima dei docenti, portando quindi ad un abbandono della professione da parte dei più preparati, sia sulla didattica, che rischia di diventare più prescrittiva e meno personalizzata.
Parlando di formazione docenti un non addetto ai lavori si aspetterebbe che la formazione di un insegnante sia un processo continuo e che, come minimo, inizi ben prima del suo ingresso in classe.
Spoiler: per i nostri insegnanti non è prevista alcuna formazione iniziale.
Non è sempre stato così. Fino a non troppo tempo fa i docenti venivano formati attraverso percorsi ad hoc nelle scuole di specializzazione per l’insegnamento secondario, le SSIS, o attraverso il Tirocinio formativo attivo, il TFA. Questi percorsi, certamente perfettibili, avevano lo scopo di formare i docenti fornendogli le competenze necessarie, didattiche e pedagogiche, sia per l’insegnamento della propria materia sia per la gestione del gruppo classe e l’inclusione. Negli ultimi anni è stato smantellato qualsiasi tipo di formazione iniziale per i docenti, dando per scontato che per insegnare basti conoscere la materia.
Attualmente per abilitarsi all’insegnamento o entrare in ruolo è necessario vincere un concorso pubblico. Successivamente il candidato dovrà passare il c.d “anno di prova” durante il quale verrà affiancato da un tutor con compiti di supervisione professionale. Il superamento dell’anno di prova è subordinato allo svolgimento di 180 giorni di servizio, al termine del quale sarà prevista la conferma o meno in ruolo. Conferma che arriva sempre, diciamocelo.
Ma attenzione, vincere un concorso o essere di ruolo non preclude all’aspirante docente l’attività di insegnamento.
Infatti, quasi sempre, gli aspiranti docenti, attraverso le supplenze, iniziano a lavorare ben prima di passare il concorso o l’anno di prova. Basta avere una laurea magistrale, aver conseguito i 24 CFU (crediti formativi) in discipline psicopedagogiche e metodologie didattiche ed essersi immessi nelle Graduatorie Provinciali per le Supplenze, le famose GPS. Ultimamente, data la carenza dei docenti soprattutto in alcune discipline e in alcune regioni, non occorre nemmeno aver conseguito i 24 CFU (obbligatori per iscriversi nelle GPS) perché si può essere assunti attraverso la c.d. MAD, la Messa a Disposizione. Un semplice modulo che il candidato compila online e che il Dirigente scolastico può consultare una volta esaurite le graduatorie “ufficiali” (GPS e graduatorie di istituto).
In altre parole, chiunque abbia conseguito una laurea magistrale può insegnare. Nessuna formazione iniziale, nessun tirocinio. Basta un pezzo di carta.
Andando a vedere come funziona il reclutamento e la formazione dei docenti negli altri paesi europei ci accorgiamo che ci sono parecchie differenze rispetto all’Italia.
Ad esempio, in Francia la formazione iniziale viene fornita dalle università. Gli aspiranti docenti frequentano corsi diversi a seconda del tipo di istruzione educativa in cui desiderano insegnare. Le università organizzano in autonomia i Master e la preparazione ai concorsi. Per accedere al primo anno di Master è richiesto il diploma di laurea, mentre per passare al secondo anno è necessario il superamento di un concorso. Già durante il primo anno è previsto un periodo di osservazione e pratica accompagnata, dove gli aspiranti docenti potranno osservare fin da subito l’esercizio della professione. Al secondo anno invece i candidati raggiungono lo status di tirocinanti e vengono pagati come insegnanti a tempo pieno.
In questa tabella si possono osservare le tematiche che gli studenti affronteranno durante i due anni del Master.
Courses | Number of hours | |
Master 1
Semester 1 | The Philosophy of the School, the Values of the School and of the Republic, secularisation, the fight against all forms of discriminations | 12 hours |
Learning process, child psychology | 12 hours | |
Civil service law | 6 hours | |
Master 1
Semester 2 | Leading educational movements, approaches to teaching, learning, assessment | 12 hours |
The sociology of audiences, managing diversity, guidance | 6 hours | |
Difficulty at school, early school-leaving | 6 hours | |
The inclusive school: special needs and education for disabled pupils | 6 hours | |
Master 2
Semester 3 | Organising the school system and institutional context | 6 hours |
Learning process, relationship with knowledge, memory and learning, cognitive styles, multiple forms of intelligence | 12 hours | |
The stance of teacher and pupil, professional communication (voice, body language, etc.) | 12 hours | |
Master 2
Semester 4 | Managing conflicts and violence | 12 hours |
Fighting against women / men stereotypes, and mixed-education schooling | 12 hours | |
Ethics, professional stance, joint working | 6 hours | |
Total | 12 ECTS credits | 120 hours |
Anche in Finlandia la formazione dei docenti viene gestita dalle università. Per poter accedere all’insegnamento i candidati devono acquisire almeno 60 CFU (quello che da noi corrisponde ad un anno di magistrale) in studi pedagogici. Durante questi corsi di formazione sono previsti periodi di pratica supervisionata e valutata presso le scuole affiliate. Gli istituti che si occupano della formazione docenti hanno piena autonomia nella progettazione dei curricula e questo permette di sviluppare percorsi flessibili in base alle mutevoli esigenze di competenze. La durata della formazione per gli insegnanti della scuola della prima infanzia (ECEC) è di 3 anni, 180 CFU, mentre per tutti gli altri aspiranti docenti il percorso è di 5-6 anni, per un totale di 300 CFU.Il percorso pone particolare attenzione alle probabili complessità che si potranno presentare ai futuri insegnanti una volta entrati in classe. Gestire il gruppo classe non è qualcosa che si insegna facilmente, ma mettere il docente nelle condizioni di conoscere e riconoscere situazioni e dinamiche di gruppo è fondamentale, sia per i docenti che per gli studenti stessi.
Per l’ammissione ai programmi di formazione le procedure variano a seconda del tipo di istruzione presso la quale si desidera insegnare. Nella maggior parte dei casi c’è un esame di ammissione, un test attitudinale e un colloquio. I corsi poi si differenziano in base al grado e al livello di scuola dove si desidera insegnare, ma quello che accomuna tutti i percorsi di formazione è il tirocinio. Momenti di studio e di pratica si integrano al fine di fornire ai futuri docenti le giuste competenze volte a favorire il processo educativo dei discenti, permettendogli di familiarizzare con l’insegnamento e guidandoli nella valutazione del proprio lavoro. Il continuo confronto tra istruttore e aspirante docente ha lo scopo di rafforzare l’identità del tirocinante come insegnante.
La formazione dei docenti in Germania si divide sostanzialmente in due fasi: il corso di laurea dedicato all’insegnamento, con tanto di tirocinio, e il Servizio Preparatorio, che va dai 12 ai 24 mesi, durante i quali gli studenti assistono a seminari, lezioni e svolgono attività di insegnamento accompagnato. Negli ultimi anni in Germania la componente pratica nella formazione dei docenti è aumentata considerevolmente.
Pur mantenendo struttura e linee guida uniformi a livello nazionale la formazione iniziale dei docenti si differenzia parzialmente in base al Lander di appartenenza. La qualifica di ingresso all'istruzione superiore (Hochschulreife) si ottiene conseguendo la maturità (Abitur). Per i candidati docenti esistono sei differenti percorsi di carriera, e quindi di formazione, in base al grado scolastico e alle discipline che si desidera insegnare.
Dopo il conseguimento della laurea, l'aspirante deve superare un esame: l'Erste Staatsprüfung. Requisito fondamentale per l'ammissione al Servizio Preparatorio (Vorbereitungsdienst). L'Erste Staatsprüfung viene sostenuto davanti alle autorità statali per garantire il rispetto di determinati standard qualitativi nella formazione dei docenti.
Il Servizio Preparatorio alla professione si tiene negli istituti di formazione per insegnanti (Studienseminare) e si conclude con un secondo esame di Stato. Superato quest'ultimo si ottiene l’ abilitazione all'insegnamento.
Nelle "Norme per la formazione degli insegnanti” sono stati definiti gli obiettivi di istruzione e formazione generali. Le competenze riguardano quattro aree principali: insegnamento, educazione, valutazione e innovazione. A queste si sono poi aggiunte le competenze dell’inclusione e del digitale. All'interno di questo quadro, i Länder e gli istituti di istruzione superiore per la formazione degli insegnanti possono determinare autonomamente priorità e differenziazioni, ma anche requisiti aggiuntivi.
Per insegnare in Inghilterra bisogna essere in possesso del Qualified Teacher Status (QTS), un accreditamento professionale obbligatorio per qualsiasi nomina presso la pubblica istruzione. Il QTS non è un'abilitazione specifica per una determinata materia o per tipologia di scuola, consiste piuttosto in una serie di standard stabiliti dal Dipartimento per l’Educazione (DfE), che l’aspirante docente deve raggiungere per poter insegnare.
Le istituzioni che si occupano della formazione iniziale dei docenti (ITT) devono essere accreditate dal DfE, sulla base di criteri specificati dal Segretario di Stato.
Non tutte le scuole o i college possono erogare questo tipo di formazione, per poterlo fare devono essere considerate 'buone' o 'eccezionali' dall'Ofsted, l'ispettorato.
Il percorso di formazione dura un anno, con un'esperienza in classe di almeno 24 settimane. I tirocinanti durante questo periodo ricevono uno stipendio come insegnanti non qualificati e insegnano ad orario ridotto.
In Italia, al posto di “professionalizzare” questa carriera rendendola più attraente e invitante per le nuove generazioni, si è deciso di semplificarne le procedure di accesso. Tutto questo a scapito dei nostri studenti, della qualità dell’insegnamento e della professionalità dei docenti stessi.
Dove l’accesso è più selettivo si dissuadono i candidati scarsamente qualificati e svogliati. Dove invece l’accesso è assicurato (come accade nel nostro paese), questa scelta diventa spesso l’ultima spiaggia di molti e la prima alternativa da abbandonare se si dovesse trovare qualcosa di meglio.
La formazione iniziale dei nostri insegnanti continua a non essere volutamente presa in considerazione dalla politica, interessata più a stabilizzare docenti (indistintamente) a fini elettorali. Come selezioniamo e formiamo la classe docente è un problema che riguarda tutti e dovrebbe essere parte integrante di qualsiasi strategia volta a migliorare concretamente il settore dell’istruzione.
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L’impianto normativo
Nel 1994 entrò in vigore la Legge 626 che servì sostanzialmente ad allineare la normativa italiana a quella dei Paesi più avanzati introducendo le figure del Servizio di Prevenzione e Protezione e quelle del responsabile del servizio RPP e rappresentante dei lavoratori. Quattordici anni dopo la norma fu sostituita dal testo unico Dlgs 81/2008 che rafforzò l’impianto, ampliò l’ambito di applicazione e introdusse sanzioni per il mancato rispetto della normativa.
In un articolo apparso il 26 gennaio scorso su Repubblica Marco Bentivogli ricorda che secondo le rilevazioni INAIL tra il 1971 e il 1980 la media dei decessi sul luogo di lavoro era 8,1 al giorno, fra il 1981 e 1990 era 5,7 al giorno, fra il 1991 e il 2000 era 4,1; fra il 2001 e il 2020 intorno 3,5. Dunque, al netto di altri fattori, la normativa sembra aver ridotto la strage. Numeri purtroppo ancora troppo alti in base al principio esposto sopra.
L’analisi comparata
Uno dei problemi di un’analisi comparata sta nella non omogeneità delle rilevazioni. In ordine agli infortuni ad esempio alcuni Paesi europei non fanno ricadere nella casistica quelli in intinere (tragitto casa luogo di lavoro con ogni mezzo di locomozione), oppure rilevano in modo differente dall’infortunio le malattie professionali, oppure ancora utilizzano sistemi di raccolta e catalogazione dei dati diversi da quelli previsti dall’assicurazione pubblica (nel caso Italia l’INAIL). Ho cercato quindi di normalizzare i dati al fine di poter realizzare una comparazione il più possibile coerente. Allo scopo ho escluso sempre nelle tabelle e nei grafici che seguono quelli in itinere.
Nel 2018, anno in cui si ferma la raccolta dati da parte dell’INAIL, nell’Europa a 27 ci sono stati 3,1 milioni di incidenti sul lavoro su 188 milioni di occupati, con un tasso di incidenti dell’1,66%.
L’incidenza di infortuni sul totale degli occupati per i 4 principali Paesi è riassunta nella tabella seguente
Paese | Occupati | Incidenti | Tasso |
---|---|---|---|
Germany | 39.025.000 | 877.501 | 2,25% |
Spain | 19.002.000 | 465.227 | 2,45% |
France | 26.441.000 | 771.837 | 2,92% |
Italy | 22.227.000 | 291.503 | 1,31% |
Prima sorpresa, l’Italia fa sensibilmente meglio degli altri grandi Paesi.
Per quanto riguarda gli infortuni con esito mortale la sorpresa è quella di trovare al primo posto per incidenza su numero di occupati il Lussemburgo, mentre, se vogliamo, stupisce il dato positivo della Grecia. E’ possibile che questi numeri siano condizionati da differenti criteri di classificazione.
]]>Le misure dei Governi Conte sono state sviscerate dalle prime bozze, con particolare riguardo per quelle che avrebbero dovuto rilanciare il sistema Paese: il SuperBonus 110%.
Una misura che rimborsa il 110% del costo è inflattiva ictu oculi, senza scomodare reminiscenze sulla scala mobile e il pandemonium di pseudo soluzioni per difendere il salario dall’inflazione. Confidiamo siano stati utilizzati tutti gli strumenti metodologici, per analizzare consapevolmente gli effetti di tali misure di politica economica. Sono apparse tuttavia oltremodo insoddisfacenti le motivazioni addotte dal governo per la rimodulazione l’incentivo, basandosi su «un aumento straordinario dei prezzi delle componenti che servono a fare le ristrutturazioni» e l’aver incentivato moltissime frodi. Senza evidenze numeriche a supporto si tratta di mere affermazioni politiche e quindi del tutto opinabili.
Seguendo il filo di una comunicazione distorta si potrebbe pensare che sia l’ennesimo caso in cui tutti vengono penalizzati per colpa di qualcuno, uno schema ormai consolidato nel nostro sistema impositivo. Vi sono peraltro precedenti illustri, la cui stigmatizzazione causò stigmate agli stigmatizzanti.
Il 110 mette in pratica uno dei peggiori trasferimenti dai cittadini meno abienti a quelli più facoltosi mascherato da green economy.
L’inefficienza della misura è da manuale sotto vari profili.
Approfondiamo schematicamente, seguendo l’incipit delle motivazioni dei sostenitori del 110%: “la misura ha un impatto positivo e non è propriamente vero che ci sono così tante frodi, che ci sia stato un aumento dei prezzi ecc”.
IMPATTO POSITIVO DELLA MISURA (meglio negativo come il tampone)
]]>Questo per dire che ci sono elementi che si offrono volentieri all’indagine quantitativa e altri per cui è auspicabile un po’ dell’“immaginazione sociologica” del Wright Mills di White Collar (1951), dove venne scattata una (ingiallita?) istantanea degli insegnanti, sbiaditi esemplari della middle class americana, “proletariato economico dei professionisti” (le “vestali” di cui scrivevano da noi Barbagli e Dei nel 1969), dai tratti popolani e rurali, “plebeian cultural interests outside the field of specialization, and a generally philistine style of life”.
La situazione negli anni si è talmente complicata che siamo arrivati all’applicazione dell’adverseselection - quella illustrata da George Akerlof nel classico Market for “Lemons” (1970) - grazie a cui una scaltra burocrazia ha sfruttato a suovantaggio le opportunità della “selezione avversa”. Non sapendo, o meglio nonvolendo, distinguere tra persone di valore e incapaci, differenziando retribuzioni e carriere, la burocrazia ha deciso di comportarsi come le ditte americane descritte da Akerlof, allorché gli agenti economici approfittavano dell’asimmetria informativa sui fattori di rischio per massimizzare i profitti. Acquistando un tanto al chilo, come un concessionario di auto usate che non sappia valutarle, il sistema dell’istruzione pubblica è stato organizzato con prezzi sotto mercato, funzionali ad attirare i rigattieri e allontanare quelli che hanno un’auto buona.
Che si trovi qui, in occhiute politichedel personale, la causa della decimazione dei lavoratori con buoni skill e dell’esubero di scartine, all’interno di un “quasi-mercato” (Somaini 1997) incapace di valutare i prodotti sul bancone? Cipollone e Sestito (2010) hanno constatato sbalorditi come, nonostante i bassi livelli di competenze degli allievi, gli italiani apprezzino le scuole molto più degli altri paesi OCSE, guarda caso quelle scarse nei test Invalsi ma di manica larga con i 100 e lode. Insomma, studenti e famiglie non si rendono conto di quanto i loro istituti siano buoni o scadenti, interessati alla promozione e al valore legale del pezzo di carta, sebbene privo di utilità segnaletica per il mercato del lavoro odierno.
Sembrerà bizzarro, ma, riemerso per caso “da un’infinità di tempo”, come la filippina di Montale in Satura, è capitato a fagiolo un saggio su Petrarca del filologo M. Pastore Stocchi, che può darci un’idea dei cambiamenti. Ivi ci accolgono frasi quali “farmacopea sentimentale”, “mansuetioresMusae della filosofia”, “blanda rusticatio” e così via, che si sciroppavano come niente per l’esame. La restante bibliografia era più o meno sulla stessa lunghezza d’onda: greco e latino nudi e crudi, prosa iperculta, lessico esoterico: gli studentelli, pedalare. Facciamo uno stacco brutale, e in un recente manuale universitario sui principali autori italiani siamo assediati da note per tutti i termini che esorbitano dalla ciàcola in pizzeria (Berardinelli 2022). “Don’t teach your grandmother to suck eggs”, sbottava invece Donald J. Gordon, il maestro di Meneghello a Reading, quando volevano spiegargli l’ovvio. Che tempi: ora sembra che quasi tutto nella scuola sia regredito al Kindergarten. Ma è proprio così?
La letteratura sull’argomento è smisurata e monotona, larga com’è di diagnosi e carente di prognosi e terapie attuabili, che spetterebbero ai politicieai gradi apicali della P.A., oppure a eventuali minoranze organizzatee sanculotte, di cui non si hanno notizie. “A ogni compito corretto si rafforza in me la consapevolezza che non è solo la storia a uscirne umiliata, ma anche la geografia […] e la stessa lingua italiana”, lamenta M. De Nicolò (2020), docente all’Università di Cassino, il quale allega un florilegio di sfondoni ai suoi esami, dai p. remoti “infliggerono” e “nacquerono”, al “new dilan” di Roosevelt e alla bomba atomica “sganciata su Kawasaki”. Il cattedratico, che gestirà un terzo degli studenti di una prof delle scuole medie, si chiede cosa diavolo abbiano fatto prima dell’università, mentre la fantaccina dell’esercito di riserva ricardiano viene impiegata in rigido stilefordista dall’amministrazione. Tutto sommato, la “scuola dei poveri” (Scotto di Luzio 2013), per quanto emiparesica, tira ancora avanti come può, servendo faute de mieux quale sfogatoio e disciplinatore giovanile, tipo il servizio militare dei tempi dei boomer. Consiglierei di tenerlo presente, visto che gli escargot da spedire all’università sono stati almeno “spurgati” dalle vestali per essere serviti alla Bourguignonne ai cattedratici: non potrebbe essere anche lui - il De Nicolò - parte del problema, essendo spesa pubblica (improduttiva, rebus sic stantibus)?
La ragione viene rintracciata forse nei posti sbagliati; non credo che Millennials e Z-Gen siano immattoniti, ma un po’ suonate sembrano le facoltà di Humanities - al postutto costi da non sprecare e semenzaio di futuri docenti - messe in un angolo a grattare il fondo del barile dei diplomati per mantenere le cattedre, i finanziamenti, i PRIN (Giunta 2017). Le stupidaggini riferite da De Nicolò non sono tanto figlie di una “controcultura” basata sull’indifferenza o su “un’aperta ostilità nei confronti della cultura” (Brevini 2021), quanto della débâcle dei saperi non tecnico-scientifici, rimasti, tipo la bruttina in discoteca, l’extrema ratio per non andare in bianco, senza un “titolo di studio”. Se gli STEM si riveriscono e sono in crescita, ragionamento, immaginazione, linguaggio sono do it yourself: niente greco e latino, storia non pervenuta, leggere propria sponte neanche a parlarne, disturbi dell’area di Wernicke per sovraesposizione digitale, comunicazione basic e graforroica.
Certo, segni dei tempi: però sono le “basi” di paper in cui, come ha osservato Cipollone (2010), si coglie una tendenza comune a molti scolari; “quando si spiegano, non sanno dove vogliono andare a parare”, cioè l’immancabile “Prof, ma cosa devo scrivere?” delle bimbe nei licei-discount alla lettura delle “tracce di maturità”. Anni di tutorial anche su come soffiarsi il naso, e poi procedure, sequenze, istruzioni step by step e ti credo che sono nel marasma per arrangiarsi a buttare giù due righe con un minimo di autonomia.
La disobbedienza e la conseguente libertà di esplorazione sono andate a farsi benedire, e a remengo è andato il parricidio edipico, grazie a cui si evitava il doublebind identitario (“diventare se stessi” scopiazzando), favorendo l’emancipazione e l’azzardo innovatore. Sul nostro conservatorismo, tutt’altro che esclusiva delle scienze umane (Fuggetta 2020), troppe cose da dire: i lavori non mancano, e una googlata potrebbe essere utile per raccogliere le idee (Robinson 2006).
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Questo ha portato ad un’altra grande rivoluzione, dopo quella degli etf, in un settore molto conservativo ed esclusivo come quello finanziario. I broker a zero commissioni hanno permesso a milioni di piccoli risparmiatori di iniziare ad investire soprattutto in azioni, etf e opzioni. Il pioniere di questa rivoluzione è un broker americano chiamato RobinHood, con 22 milioni di utenti (1) è arrivato ad essere uno dei piu’ utilizzati negli stati uniti. Altri broker che hanno alimentato il trend sono stati Etoro, Revolut , Trading212, questi ultimi si sono concentrati principalmente sul mercato europeo.
Dall’avvento di RobinHood sono nati decine di altri broker a zero commissioni, prima in Usa poi in Europa arrivando perfino alla patria delle banche popolari e delle poste: l’Italia. Vista in questi termini sembra essere davvero una rivoluzione che rovescia gli equilibri di un settore che sembrava elitario. La realtà è un po’ diversa.
Questa democratizzazione forzata dei mercati presenta anche numerosi rischi, primo fra tutti la mancanza di educazione finanziaria.
Le piattaforme di questi broker sono costruite apposta per una clientela giovane e dunque sono app molto smart che, attraverso la gamification, rendono la user experience estremamente semplice e piacevole. Come se fosse un gioco.
Investire non è nè semplice nè un gioco.
Nel Giugno 2020 abbiamo visto i primi danni collaterali di questo pericoloso sistema, un giovane americano di 20 anni si è tolto la vita dopo aver visto sul suo conto investimenti un saldo negativo di 700mila dollari (2)
Probabilmente i 730mila dollari di negativo erano dovuti al margine richiesto dalle posizioni in opzioni e dunque non rappresentavano un vero e proprio debito o saldo negativo; dunque, ha compiuto il gesto estremo a causa della mancanza di educazione finanziaria.
Grazie al facile accesso ai mercati finanziari sono nati, contemporaneamente ai broker, anche vari forum di investitori o meglio speculatori. Il più famoso è il canale di reddit “wallstreetbets”, già dal nome si può comprendere il trend di fondo.
Il sopracitato canale ha visto il suo periodo di massimo splendore grazie alla pandemia, milioni di disoccupati si sono riversati su reddit alla ricerca di un guadagno facile. Con in mano i sussidi statali, un sacco di gente ha iniziato a prendere di mira alcune azioni poco costose, per lo piu’ aziende vicine al fallimento. Ecco che nasce il termine “meme stocks”, azioni i cui prezzi salgono velocemente (a scapito dei fondamentali) a causa della speculazione di massa proveniente proprio dal canale wallstreetbets. La leva dei social applicata ai mercati finanziari, risultato migliaia di persone che comprano la stessa cosa nello stesso momento. In gergo tecnico questa attività viene definita “pump and dump”, l’obiettivo è quello di acquistare azioni per poi gonfiarle artificialmente spacciandole per ottimi affari. In realtà in questo caso le cose sono andate un po’ diversamente, non c’è stata una sola persona che ha dato via agli acquisti con l’intento di gonfiare i prezzi e dunque la SEC non è direttamente intervenuta nella vicenda.
Le azioni coinvolte furono principalmente due: Game stop e Amc. Guardando ai fondamentali si vedono due aziende in grande crisi con bilanci particolarmente negativi, tanto che alcuni fondi detenevano posizioni short sui titoli. Con l’improvviso rialzo dettato da un’irrazionalità di massa si è verificato quello che viene definito “short squeeze”, ovvero la situazione nella quale chi ha posizioni al ribasso su un titolo si trova costretto a dover chiudere la posizione (ricomprando) a causa di un improvviso rialzo.
Alcuni hanno iniziato a parlare addirittura di “rivoluzione dal basso”, il popolo di reddit composto da piccoli risparmiatori che metteva in crisi gli intoccabili hedge fund.
In pochi mesi le azioni di GameStop sono salite del 8000% rendendo i 3 principali azionisti miliardari, mentre quelle di AMC sono salite del 1700%. Cifre mostruose e completamente scollegate dalla realtà.
Questo affronto ha lanciato un chiaro messaggio: esistono anche i piccoli investitori e se si uniscono possono fare massa critica, tanto da muovere il mercato.
Ovviamente non va considerata una Rivoluzione francese, bensì un tentativo molto pericoloso di democratizzare un ambiente elitario.” I mercati finanziari sono un formidabile strumento per trasferire ricchezza dagli impazienti ai pazienti” disse Warren Buffet. Questi improvvisati che giocano a pompare qualche titolo decaduto avranno vita breve sui mercati, ecco perché non deve passare il messaggio che chiunque può investire e guadagnare o che sia normale vedere un rialzo dell’8000% in pochi mesi.
Certo le logiche del mercato cambieranno a seguito di questi eventi, andranno considerate sempre di più le asimmetrie. Ci saranno titoli che verranno prezzati a multipli elevatissimi a causa di persone che puntano esclusivamente alla speculazione e che comprano solo per rivendere ad un prezzo più alto, dimenticatosi che le azioni non sono altro che pezzi di aziende. A causa di questo approccio da “gamers”, la teoria dei mercati efficienti ha smesso di funzionare, questo potrebbe causare importanti bolle. E quando scoppieranno faranno un bel botto.
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COSA È SUCCESSO
Lo scorso 5 novembre l’Occupational Safety and Health Administration (OSHA), un’authority federale dipendente dal Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti, ha emanato un Emergency Temporary Standards (ETS), ossia un corposo atto amministrativo regolamentare, che a partire dal 5 dicembre imponeva ai datori di lavoro privati con almeno 100 dipendenti di richiedere ai propri lavoratori di presentare alternativamente una certificazione attestante l’avvenuta vaccinazione contro il COVID-19 o l’esito negativo di un test molecolare da ripetersi settimanalmente, con l’obbligo per i dipendenti non vaccinati di indossare la mascherina. Da questi obblighi venivano esentati, di fatto, solo i lavoratori in smart working che comunque andavano contati a fini del raggiungmento della quota. Di fatto, una norma simile al green pass italiano. Della sfortunata sorte degli ETS emanati dall’OSHA nel corso degli ultimi decenni avevamo già parlato, in un altro articolo pubblicato su questo sito qualche mese fa, in cui anticipavamo le possibili reazioni al provvedimento ai tempi solo annunciato da Joe Biden. Reazioni che non sono tardate ad arrivare: già il 15 novembre, la Corte Federale d’Appello del Quinto Circuito aveva accolto un ricorso con cui alcune aziende chiedevano d’urgenza la sospensione dell’ETS. Questo e i vari altri ricorsi contro l’ETS, successivamente riuniti in una causa davanti alla Corte Federale d’Appello del Sesto Circuito, erano conclusi con una revoca della sospensione (la stiamo facendo semplice, i lettori più esperti ci perdoneranno). A questa revoca è seguito un ricorso d’urgenza davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti per la sospensione cautelare (anche qui, la traduzione è imprecisa, ma un po’ di semplificazione è d’obbligo) dell’efficacia dell’ETS, promosso dalla più grande associazione di piccole imprese americana, la NFIB, che è all’origine della decisione di ieri, nel caso che prende il nome di National Federation of Independent Business v. Department of Labor, Occupational Safety and Health Administration.
CHE COSA HA DETTO LA CORTE SUPREMA.
In una brevissima opinione pronunciata per curiam (ossia, nella forma tipica assunta dai provvedimenti cautelari) la Corte Suprema americana ha accolto il ricorso, dichiarando la temporanea sospensione dell’efficacia dell’ETS dell’OSHA. È appena il caso di ricordare che, secondo la consolidata giurisprudenza USA, i ricorsi in via cautelare possono essere accolti solo allorquando i ricorrenti dimostrino contestualmente (1) che le loro argomentazioni giuridiche sono suscettibili di prevalere nel successivo giudizio di merito (fumus boni iuris) (2) che, se il ricorso non fosse accolto, sarebbero esposti a lesioni irreparabili (periculum in mora) e (3) che l’accoglimento del ricorso non nuocerebbe all'interesse pubblico. Peraltro, la maggioranza nel caso specifico manca di discutere appronditamente i punti (2) e (3), cosa su cui la dissenting opinion fa giustamente notare.
I giudici della Corte suprema iniziano ricordando che i poteri dell’OSHA sono regolati dall’Occupational Safety and Health Act, approvato dal Congresso nel 1970. Come suggerisce il nome stesso dell’agenzia e della legge che la regola, i poteri dell’OSHA riguardano la «occupational safety», ossia la sicurezza sul lavoro. La Corte suprema mette poi in luce che, in base all’Occupational and Safety Act, l’OSHA in via eccezionale può emanare, con un un procedimento amministrativo semplificato ai minimi termini, delle regole emergenziali temporanee (ossia, gli ETS) allorquando ricorrano contestualmente due circostanze, da interpretarsi in modo restrittivo: (1) i lavoratori sono «esposti ad un grave pericolo dall’esposizione a sostanze o ad agenti determinati come tossici o fisicamente dannosi o a nuovi pericoli» e (2) «tale ETS è necessario per proteggere i lavoratori da tale pericolo».
Secondo la Corte Suprema, tuttavia, nel caso specifico l’OSHA non era autorizzata ad emanare l’ETS. Infatti, i poteri delle agenzie federali devono essere regolati in modo chiaro e specifico dalla legge: tuttavia, l’Occupational Safety and Health Act conferisce all’OSHA solo il potere di «fissare standard di sicurezza sul luogo di lavoro», mentre nessuna sua disposizione riguarda più in generale la sanità pubblica, che perciò non rientra in alcun modo nella sfera di competenza dell’OSHA. In particolare, la Corte Suprema mette in luce come l’OSHA sia autorizzata a regolare i rischi specifici al luogo di lavoro («“occupational” hazard») a tutela della salute dei lavoratori. Ora, secondo la Corte Suprema, la SARS-CoV-2 «si diffonde a casa, nelle scuole, durante gli eventi sportivi, e ovunque la gente si riunisca»: il che rende il rischio derivante dal COVID-19 un rischio «universale» (direbbero i giuristi italiani, un rischio generico) e non invece un rischio specifico a qualsiasi luogo di lavoro. Secondo la Corte Suprema, permettere all’OSHA di regolare i rischi universali, «semplicemente perché la maggior parte degli americani ha un lavoro», significherebbe delegargli un potere che, semplicemente, il Congresso non gli ha conferito attraverso la legge. Ciò ovviamente non significa che l’OSHA non abbia alcun potere di regolare il rischio derivante dal COVID-19: infatti, qualora a causa delle circostanze di fatto, il COVID-19 dovesse diventare un «rischio specifico» al luogo di lavoro, l’OSHA potrebbe benissimo emanare regole specifiche a tutela dei lavoratori: ad esempio, secondo la Corte suprema, è indubitabile che l’OSHA abbia il potere di imporre misure di protezione specifiche per «i ricercatori che lavorano con il virus COVID-19» o per i lavoratori che si trovino ad operare in ambienti particolarmente affollati o ristretti. Quello che però l’OSHA non può fare legittimamente è dettare regole che si applichino indiscriminatamente ad ogni tipo di azienda, a prescindere dai rischi specifici legati al luogo di lavoro: che è esattamente ciò che l’ETS del 5 novembre ha fatto. Questa, in sintesi, è stata la decisione della Corte Suprema.
Peraltro, è doveroso notare che i giudici della maggioranza non affrontano affatto quella che avrei scommesso sarebbe stata una questione centrale e primaria già da ora: il fatto che la Costituzione americana riservi qualsiasi potere di «public health» alle autorità statali e non a quelle federali. Un argomento simile, che in realtà finisce a toccare una questione dottrinale più complessa (che non è il caso di trattare) è sollevato dai giudici Gorsuch, Thomas e Alito che hanno firmato una «concurring opinion» (ossia, un’opinione che pur condividendo l’esito della decisione, vi arriva attraverso un ragionamento giuridico differente rispetto a quello della maggioranza). Non condividono l’esito del giudizio, invece, i giudici Breyer, Sotomayor e Kagan, autori di una lunga dissenting opinion che––sinteticamente––basa il ragionamento su un argomento giuridico piuttosto comune nelle dissenting opinion: un'agenzia federale con esperienza in materia di salute e sicurezza sul lavoro è più titolata a decidere sulla salute dei lavoratori rispetto alla decisione di una corte che manca di qualsiasi conoscenza specifica e che, con le sue decisioni, rischia di mettere a repentaglio la salute pubblica. Molto debole, dal punto di vista giuridico.
La palla ora torna al Sesto Circuito per la decisione di merito, in un processo che sicuramente seguiremo e commenteremo.
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E’ apparso subito chiaro che la missione di Draghi sarebbe stata evitare nuovi lockown, raggiungere nel più breve tempo possibile la sufficienza vaccinale e presentare alla Commissione Europea un PNRR coerente con gli obiettivi e chiaro nella sua applicazione. Questi 3 obiettivi sono stati raggiunti. Non abbiamo più dovuto subire chiusure, il tasso di somministrazione delle dosi vaccinali è rapidamente passato da valori del 65% a percentuali superiori al 90%, il PNRR è stato promosso dalla Commissione prima della scadenza del 30 aprile.
Sullo sfondo ci si chiedeva se Draghi sarebbe stato capace (o determinato) ad approfittare delle condizioni straordinarie in cui si trova il Paese per mettere in pratica le buone norme che, prima come governatore della Banca d’Italia e poi come presidente della Banca Centrale, aveva invocato.
Cosa è stato fatto
In particolare ci si chiedeva se Draghi con la sua autorevolezza sarebbe riuscito (o solo avesse tentato) ad “educare” la politica italiana alla razionalità e al debito “buono”. Nel discorso pronunciato al Senato prima del voto molti erano stati i passaggi che avevano generato fiducia: una inusuale attenzione alla scuola e ai giovani, la necessità di procedere con riforme organiche in materia di fisco e ammortizzatori sociali, finalmente una legge sulla concorrenza che mancava dal 2017. Ma fuori dall’aula del Senato questi propositi sono rimasti inattuati. La scuola è rimasta quella che era pre-covid e non è stato fatto niente neanche sotto il profilo logistico, tanto è vero che l’ombra della DAD resta uno scenario possibile nel caso di recrudescenza della pandemia.
L’annunciata riforma del fisco è per ora rappresentata da una risicata ridefinizione delle aliquote permessa più dallo spazio in bilancio che si è aperto grazie ad una ripresa più sostenuta rispetto alle previsioni di primavera che da un quadro di proposte organico uscito dall’indagine conoscitiva della Commissione Finanze. Non è intenzione di chi scrive entrare nella polemica sterile di questi giorni, alimentata da il Fatto Quotidiano, sui benefici della riduzione delle imposte: i vantaggi si misurano sempre in valori relativi e non assoluti; ovvero chi ha reddito incapiente e quindi non paga imposte (o le paga in misura ridotta) è normale che abbia minori benefici rispetto a chi subisce un’imposta sul reddito.
La legge sulla concorrenza è arrivata ad ottobre invece che a luglio e non avrà effetti, semmai li avrà visto l’ostracismo di partiti e sindacati, prima della fine del 2022.
Ma ci sono tre documenti, rilasciati quasi contemporaneamente, che danno la misura dell’enorme occasione sprecata da questo governo.
La legge di bilancio
Ai partiti è stata lasciata mano libera di falcidiare i conti pubblici con la Legge di Bilancio. Il testo approvato dal Senato (e giunto alla Camera senza più il tempo neanche di una lettura) è pieno del solito sciocchezzaio cui siamo abituati. Ne cito solo alcuni per dare la misura della schizofrenia spendacciona della politica italiana: bonus rubinetti, bonus tv, fondo per enogastronomie e pasticcerie (mentre viene cassato il bonus per le cure psicologiche a favore di chi ha subito traumi a seguito della pandemia); per non dire di quell’obbrobrio disperatamente difeso dal Movimento 5 Stelle che va sotto il nome di bonus 110% cui è stato rimosso anche il tetto ISEE per villette unifamiliari: il più assurdo e gigantesco dei trasferimenti di risorse dai “poveri” ai “benestanti”.
Il risultato è una finanziaria non diversa da quelle dei governi precedenti in cui prevalgono logiche corporative, clientelismi e finanza allegra.
Il Patto di Stabilità
Il secondo documento è un paper sulla riforma del Patto di Stabilità e Crescita frutto del patto del Quirinale fra Italia e Francia a firma Giavazzi-Guerrieri-Lorenzoni-Weymuller
Il PSC è stato sospeso nel marzo 2020 grazie ad una clausola contenuta nel patto stesso denominata General Escape Clause. Che le regole di bilancio europeo sarebbero state riviste dopo la fine dell’emergenza è evidente per molti motivi. Prima di tutto perché sono regole vecchie che fotografavano una situazione pre Unione.
In secondo luogo perché non sono quasi mai state applicate; si pensi all’Italia e alla regola di riduzione di un ventesimo l’anno del rapporto debito/pil. Quando entrarono in vigore i due pacchetti di norme contenenti la regola del debito (six pack e two pack) il rapporto debito Pil italiano era al 119,7%; 8 anni dopo, nel 2019 prima della pandemia, il rapporto debito Pil era al 134,6%. All’interno di quest’arco temporale, in piena applicazione teorica della regola del debito, una traiettoria quasi sempre di crescita.
Tralascio per questioni di spazio i tecnicismi legati ad output gap e indebitamento strutturale. Il dato di fatto è che il PSC non è mai stato applicato per volontà politica tanto dei singoli membri della UE quanto della Commissione.
In terzo luogo perché lo stato dei conti pubblici post pandemia è profondamente diverso da quello pre 2020. Il rapporto debito Pil medio in area euro è aumentato di 15 punti. In Francia è cresciuto di 17 punti, in Spagna di 25, in Italia di 21. Lasciare un target al 60% è utopico.
Il lavoro di Giavazzi et al. propone due soluzioni:
Che ne è del debito buono evocato da Draghi al congresso di Comunione e Liberazione? Che ne è della responsabilità di utilizzare bene i prestiti e i trasferimenti (altre parole di Draghi) che i cittadini europei stanno dando all’Italia e agli altri Paesi sovraindebitati?
Il PNRR
Il terzo documento è la relazione inviata a Commissione e Parlamento sullo stato di attuazione del PNRR.
In questo documento, fondamentale per l’ottenimento della prima rata di finanziamenti da 21,4 miliardi, vengono confusi milestones con target, riforme con atti normativi che delegano il governo a proporle, obiettivi con aspettative (si veda ad es. la tabella 2 della relazione).
Siamo di fronte in altre parole ad un documento pieno di omissioni e confusioni ben diverso da quello che ci si sarebbe aspettato da un governo serio ed autorevole quale vuole essere.
Se questo è il viatico della fase attuativa che ci aspetta, meglio sperare che il fardello di debito aggiuntivo che stiamo per accollarci prenda altre strade. Negli anni a venire i progetti finanziati dal PNRR, alcuni dei quali proposti dagli enti locali imbarazzanti, dovranno essere a) cantierizzati, e manca ancora un nuovo codice appalti più efficiente di quello attualmente in vigore b) collaudati e messi in produzione c) monitorati per il valore aggiunto che generano.
Si ricorda spesso che L'Italia ha un pessimo track record nell'utilizzo dei fondi europei. Correttamente si attribuisce questa incapacità al mix di burocrazia cervellotica e invasiva e alla consolidata inefficienza delle amministrazioni pubbliche. Se non si cambia questo stato di cose (e nulla è stato fatto in quella direzione) non si comprende come si possano concludere 236 miliardi (191,5 da NGEU + fondi aggiuntivi) di investimenti in 5 anni.
Conclusioni
Con il Governo Conte II l’Italia era ad un passo dal baratro. Un esecutivo non credibile che stava per far saltare lo sforzo di solidarietà che la UE aveva affrontato con NGEU. La gestione dell’emergenza economica era quasi interamente affidata ad uno storico (oggi sindaco di Roma) e quella dell’emergenza sanitaria ad un commissario straordinario senza competenze di logistica e di teoria dei prezzi.
Il Governo Draghi era necessario per correggere una china pericolosa che avevamo intrapreso.
Ma neanche il Governo Draghi si è dimostrato sufficiente a rendere l’Italia un Paese finalmente serio. Ancora una volta ha vinto la politica.
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Tuttavia sappiamo che questa nuova frontiera dei viaggi è duramente contestata da una moltitudine di soggetti che vanno dalle organizzazioni ambientaliste (con i loro falsi dati sulle emissioni di tali missioni), a chi più o meno famoso giudica l’apertura dello spazio ai privati come una minaccia, ovvero uno spreco di risorse a fronte di problemi di gran lunga più rilevanti.
Ma è davvero così?
La space economy è uno spreco di fondi o è un nuovo volano per il nostro progresso? Questa è la domanda al centro della puntata del 26 novembre scorso di Cronache dal Villaggio Globale con Famularo, Canestrani e Giuricin e alla quale qui voglio contribuire.
]]>Se ciò è vero – come un robusto filone di ricerca ha ormai dimostrato – se ne deduce che investire in “alfabetizzazione finanziaria” sarebbe (per parafrasare Mario Draghi) “spesa buona” in grado di dare un buon rendimento sia ai singoli, sia alla società nel suo insieme (so che il termine “alfabetizzazione” fa storcere il naso a molti – a nessuno piace sentirsi dare dell’analfabeta; per questo oggi si tende a usare l’espressione più neutrale “conoscenza finanziaria di base”). Un investimento che, in ogni caso, dovremmo compiere soprattutto noi italiani, giacché il nostro Paese si segnala per occupare una posizione tra le ultime nelle graduatorie internazionali dell’educazione finanziaria. E che sarebbe particolarmente importante proprio per i giovani, le cui decisioni in materia di studio, lavoro e risparmio hanno conseguenze importanti lungo tutto l’arco della vita; e per le donne, posto che i dati ne mostrano una minore dimestichezza anche solo con i concetti basilari della finanza rispetto agli uomini. E’ verosimile, infatti, che la scarsa famigliarità con il mondo della finanza le porti a compiere scelte svantaggiose o a non opporsi a tali scelte quando qualcuno (di solito un uomo) sceglie paternalisticamente per loro, com’è stato in gran parte della storia dell’umanità.
La famigliarità con le nozioni basilari dell’economia e della finanza si acquista in vari modi, dall’istruzione al linguaggio. La prima fornisce i concetti fondamentali che guidano le scelte, ancorandole a corretti principi di prudenza, di lungimiranza, di collegamento tra obiettivi e vincoli; la seconda crea o elimina barriere culturali e psicologiche. Per esempio, una ricerca alla quale ho partecipato con colleghe linguiste dell’Università di Torino e di Amsterdam, dimostra come il linguaggio della finanza, persino per pubblicizzare semplici prodotti di risparmio, adotti metafore tipicamente riconducibili al mondo maschile, come quello militare o mutuato da sport tradizionalmente praticati da uomini, come il calcio. La mancanza di famigliarità indotta dal linguaggio interagisce così negativamente con la scarsa conoscenza di base, moltiplicandone gli effetti negativi. Tutto ciò mentre la vita lavorativa si è fatta più precaria e le trasformazioni nell’ambito della famiglia - con la maggiore probabilità di divorzio, il diffondersi delle coppie di fatto o di vita da single - portano a una diretta responsabilità delle donne rispetto all’obiettivo di sicurezza economica, sia da giovani, sia – e ancor più - da anziane. E senza dimenticare che la loro più elevata longevità le espone a un maggiore rischio di insufficienza di risorse nell’età anziana.
Per quanto riguarda I giovani, la conoscenza finanziaria di base deve essere considerata parte essenziale del bagaglio minimo di competenze utili ad affrontare, con maggiore consapevolezza, le scelte aventi rilevanti ripercussioni sul benessere economico lungo l’intero ciclo di vita, come la scelta tra continuare gli studi ed entrare nel mondo del lavoro; tra consumare e risparmiare oppure, al contrario, indebitarsi; tra acquistare la casa di abitazione oppure affittarla; tra continuare a lavorare oppure scegliere il pensionamento, avendo raggiunto i requisiti minimi (con il rischio di trovarsi, a un’età più elevata, con risorse inadeguate). Tutte scelte complesse per le quali un bagaglio minimo di nozioni economiche e finanziarie - come per esempio la nozione di “capitalizzazione composta” - sono necessarie.
Così come saper leggere, scrivere e fare di conto è apparso, agli inizi del Novecento, elemento essenziale di miglioramento del benessere e di progresso della società nel suo insieme, prescindere oggi dall’alfabetizzazione finanziaria significherebbe rinunciare a uno strumento essenziale (anche se certo non sufficiente) di contrasto alla povertà e di maggiore inclusione sociale, in particolare per i gruppi più vulnerabili. E i giovani rappresentano oggi il segmento più vulnerabile della nostra società.
Ci sono però altre ragioni, che travalicano la finanza personale, per proporre l’alfabetizzazione finanziaria come obiettivo socialmente rilevante. E queste hanno a che fare con decisioni non più individuali bensì collettive, cioè con scelte politiche e, più specificamente ancora, con le riforme economiche, che assumono sempre maggiore importanza nell’azione dei governi. Perché una riforma abbia successo, occorre che la società ne comprenda e ne condivida i fondamenti. In caso contrario, si andrebbe incontro a inevitabili retromarce o bocciature e ad altrettanto inevitabili “costi politici”, ben rappresentati dall’aforisma dell’ex presidente della Commissione europea, Jean Claude Junker: “Sappiamo bene ciò che è necessario fare; non sappiamo però come farci rieleggere una volta che le decisioni siano state prese”.
Che ruolo gioca, quindi, l’educazione finanziaria nel processo riformatore? Se le riforme, pur non perfette, vanno nella giusta direzione anche gli elettori ne capiranno la necessità e saranno quindi meno propensi a “punire” (elettoralmente) i governi riformisti. E’ questo il risultato di una nostra ricerca che mostra come l’educazione finanziaria sia associata a una minora probabilità di perdita di consenso elettorale. Ne consegue che un minimo di educazione finanziaria è indispensabile anche per essere migliori cittadini e per “costringere” i politici a essere migliori decisori (magari anche scegliendoli meglio); un presupposto per una partecipazione politica più consapevole e per una democrazia più solida di quella basata sulle illusioni dei populisti.
Non si tratta però, ovviamente, di una panacea, capace di risolvere tutti i problemi della società ma di un presupposto necessario, insieme a molti altri (tra i quali spicca una informazione corretta e completa ma al tempo stesso alla portata di un pubblico vasto) per una società più inclusiva e dinamica e per con minori diseguaglianze. Una causa adatta ai piccoli passi, e quindi per il tempo lungo, diametralmente opposta all’attuale “presentismo” del “tutto subito”. “L’istruzione è lo strumento più potente per cambiare il mondo” ha detto Nelson Mandela; in essa anche la conoscenza finanziaria di base deve oggi necessariamente avere la sua parte.
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La questione mi sembra la seguente: identità psicologiche di gender, trattamenti ormonali e financo operazioni chirurgiche possono trasformare la struttura ossea, muscolare e polmonare di una persona sino a garantire equità sul piano sportivo tra atleti transgender e donne?
Sebbene la questione abbia rilevanza internazionale è indubbio che in Italia sarebbe stato legittimo riferirsi al DDL Zan per pretendere di gareggiare in competizioni femminili invocando il proprio diritto all’autodeterminazione prevista dall’art.4. Accettare nei termini previsti quanto era disposto dal decreto avrebbe comportato tout-court l'accesso dei transgender alle competizioni sportive nelle categorie femminili che comunque rimane una strada che pare ormai decisamente intrapresa pure dal CIO.
Al di là comunque di qualsiasi aspetto legislativo è ovvio che un uomo, soggetto a livelli di testosterone almeno 10 volte più alti di una donna, sviluppi nel corso della propria vita una fisiologia di base molto più indirizzata a determinati tipi di prestazione ed è impossibile che una terapia ormonale estrogenica annulli totalmente i guadagni neuromuscolari e prestativi acquisiti.
Inoltre le differenze ormonali non sarebbero neppure la sola problematica; vi sono differenze legate alla struttura ossea, allo spessore dei legamenti vi sono differenze biologiche incontrovertibili che incidono in maniera significativa nella prestazione sportiva.
In relazione ad un principio di equità rimarrebbe più corretto e sportivo che un soggetto MtF pretendesse di gareggiare nella categoria maschile, vedi per esempio i casi di Nong Rose, che nella Muhai Thai (sport da combattimento) schianta ancora allegramente i suoi avversari uomini, oppure quello di Nong Thoom sulla di cui vita presto verrà fatto un film.
Forzare la situazione per ottenere diritti alla competizione nelle categorie femminili mi sembra un classico caso di “botte piena e moglie ubriaca”. La situazione che si sta creando può diventare, non solo ingiusta sul piano strettamente sportivo ma generare anche gravi rischi per altre atlete. Ricordo, per esempio, il caso di Fallon Fox, atleta MtF attiva nella categoria femminile di MMA, che ruppe con un pugno il cranio di una sua avversaria donna.
E’ essenziale ricordare che l’arrivo al vertice di questo o quello sport di atleti MtF implica, fra le altre conseguenze, la vanificazione istantanea di anni, spesso decenni, di sacrifici fatti dalle atlete nate femmine.
Non ho una soluzione confezionata in tasca e sono consapevole che i fatti da me illustrati ci pongano di fronte alla necessità di riconoscere il conflitto evidente fra due insiemi di principi: quello di ognuno di scegliersi il sesso a cui si sente psicologicamente ed emozionalmente di appartenere e quello della equità nelle competizioni sportive. Auspico che, proprio nell’interesse delle atlete nate femmine si cerchino soluzioni ragionevoli ed eque a tale conflitto lungo le linee, io suggerirei, di definire i criteri di appartenenza sportiva (e solo sportiva) più che sul sesso riferito alla categoria di genere al patrimonio cromosomico dell’atleta.
D’altra parte, sebbene io abbia espresso un’opinione strettamente personale, mi sono convinto viste anche le recenti posizioni del CIO sul tema (vedi link), che questa battaglia (se così si può chiamare) possa essere di diritto combattuta solo dalle atlete femminili.
Come funzionano i NFT ? Per quali finalità possono essere utilizzati? Perchè c'è tanto interesse su questi strumenti? Quali sono le princpali applicazioni sia presenti che future?
Non perdete il prossimo episodio di Edufin la rubrica curata da Annalisa Lospinuso e Massimo Famularo che promuove l'educazione finanziaria e cerca di affrontare in modo divulgativo i temi legati alla finanza personale.
Ospite della prossima puntata Marco Pagani avvocato fondatore della società Fintech Wizkey
👉 I canali di Liberi Oltre:
YT - Agorà, il canale delle scienze sociali
YT - STEM, il canale delle scienze
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Sarebbe servito, nelle intenzioni del governo, anche a rivitalizzare un mercato, quello delle costruzioni, ormai in declino, a sistemare “le carte del fabbricato” e a rimpinguare le casse comunali attraverso le pratiche amministrative.
Il provvedimento venne decantato e fatto passare, fin da subito, come a “costo zero” per i cittadini; il bonus fiscale del 100% dell'intero costo avrebbe dovuto coprire interamente la spesa e il restante 10% il guadagno degli intermediari finanziari che avrebbero scontato il bonus fiscale.
All'apparenza una succulenta opportunità sia per le imprese, che per i proprietari sulla quale buttarsi ma, fin da subito, si sono evidenziati dei problemi che ne hanno fortemente ritardato la partenza.
Ad oggi, infatti, sono molto pochi i cantieri attivi; ci sono state difficoltà interpretative di una normativa originariamente scarna che andava a regolare un impianto molto complesso tanto che, tutti gli enti pubblici coinvolti, dall'agenzia delle Entrate, il Ministero dello Sviluppo Economico e l'ENEA, si sono prodigati in una lunga e quotidiana attività interpretativa (o riempitiva) attraverso provvedimenti, circolari e risposte ad interpelli dei cittadini.
La misura, poi, prevedeva inizialmente quale condizione di ammissibilità la “conformità urbanistica” dell'immobile.
In pratica i tecnici, attraverso lo studio dei progetti autorizzati dai Comuni, avrebbero dovuto verificarne la corrispondenza allo stato di fatto e, in caso di difformità rilevanti, presentare delle domande di sanatoria e poi di adeguamento catastale.
Una procedura preliminare molto complessa e lunga soprattutto nelle grandi città dove accedere alla pratica progettuale dell'edificio, richiede mesi e mesi.
Ma anche in quelle più piccole, per la scarsità del personale e l'assenza di una adeguata informatizzazione.
E così dalla metà del 2020, si passa a quella del 2021 dove i cantieri realmente aperti si possono contare sulle dita di una mano.
Il Governo Draghi, decide pertanto di intervenire per tentare di accelerare la procedura e far partire la tanto decantata misura “nazionalpopolare”.
Rimuove dunque la condizione di procedibilità della conformità urbanistica: rendendola inutile per accedere alla misura del superbonus 110. Le difformità vanno comunque sanate perché, ovviamente, al momento della presentazione della domanda il Comune potrebbe riscontrarle, intervenire e applicare le sanzioni conseguenti.
Partono così le prime riunioni condominiali, i primi studi di fattibilità e computi metrici.
Fin da subito si capisce che intervenire su edifici “vecchi”, comporta per la gran parte la rinuncia ad alcuni interventi agevolati al 110 quali l'impianto fotovoltaico, le colonnine di ricarica delle auto ed altro; per non dire dell'adeguamento antisismico che avrebbe comportato lo “smembramento” dell'appartamento.
Non si può fare.
Il lavoro standard del “110” si riduce, quindi, alla realizzazione del cappotto termico, alla sostituzione delle caldaie, degli infissi, delle tapparelle, lavori che garantirebbero in linea di massima, l'innalzamento delle due classi energetiche richieste dalla legge.
Alcuni di questi lavori, agevolati al 110%, si innestano inevitabilmente ad altri coperti da bonus statali più bassi quali quello del 90% per le facciate e quello del 50% ad esempio, per il rifacimento dell'impianto fognario non a norma.
Subito si inizia a capire che il decantato “costo zero” non esiste perché bisogna cominciare a mettere le mani nel portafogli e non tutti in un condominio possono permetterselo.
Dai primi computi metrici ci si rende conto che le cifre sono alte, molto alte.
Per quel lavoro “standard” si inizia a parlare di circa 100.000 euro ad appartamento che sarebbero coperti del 110 (ma garantiti dal possessore all'Agenzia delle Entrate), oltre a quelli (non pochi) che ciascun proprietario deve pagare di tasca propria e che non saranno in alcun modo rimborsati.
Ci si chiede allora perché i costi siano cosi alti; perché “devo” assumermi una responsabilità così alta con l'AdE che, in caso di contestazione, applicherebbe al beneficiario una sanzione pari al 100% di quel costo?
Qui si scopre l'assurdo.
Il Governo ha fissato dei prezzi massimi di riferimento (il prezziario regionale) per le opere e un “cap” complessivo di bonus.
Il prezziario regionale però non è comunemente usato negli appalti tra privati perché i costi generalmente sono troppo elevati per il mercato concorrenziale: così, quell'opera “standard” che normalmente può costare 30/40.000 euro ad appartamento, potrebbe finire a 100.000 con il superbonus 110.
Ovvia l'idea e perverso lo sviluppo: padroni del gioco, gli appaltatori applicano sistematicamente il prezzo massimo e, conseguentemente, cresce l'importo che ciascuno dovrà pagare in proprio.
Si perché a ciò si deve aggiungere l'aumento costante del prezzo dei prodotti per la congiuntura economica dovuta al coronavirus, quello per le speculazioni fatte da molti che “hanno fatto magazzino” e rivendono oggi a prezzi molto più alti, quello per l'aumento mostruoso di alcune materie prime e quello per speculazioni varie a partire dall'applicazione dei prezzi massimi in stile monopolista.
Si, quel bonus 110 a “costo zero” (a quei prezzi massimi fissati dallo Stato) non copre più neppure le opere che, originariamente, avrebbe dovuto ricomprendere.
Così si finisce, a volte, che il costo dell'adeguamento energetico superi il valore di mercato dell'immobile stesso!
Inoltre la perversione del mercato così generato, ha comportato uno sbilanciamento di forza a vantaggio totale degli appaltatori e del sinallagma contrattuale che deve stare a base anche di una trattativa commerciale.
Quel nesso cioè di reciprocità che rende corrispettiva una prestazione alla controprestazione e che rappresenta un elemento costitutivo e imprescindibile dell’accordo contrattuale laddove le parti convergano nella “comune e congiunta volontà di stabilire diritti e obblighi reciproci”, da realizzarsi proprio nel compimento di una prestazione da parte di un contraente e della correlata controprestazione da parte dell’altro.
Invece non è così.
“Volete il superbonus 110 che vi regala lo stato? Le condizioni sono queste, le dettiamo noi. Ne più ne meno di quello stabilito dalla legge”.
E così, non esistono garanzie aggiuntive rispetto a quelle previste dalla legge, non c'è la minima possibilità di contrattare i prezzi, si devono accettare clausole contrattuali che prevedono la revisione in malus dei prezzi, ecc... ecc...
Non solo.
Ovviamente la deformazione del mercato oggi colpisce anche lavori non coperti dal superbonus 110; oggi qualsiasi opera deve sottostare a quei prezzi “indotti” dallo stato, con evidenti effetti distorsivi e deflattivi della domanda.
Infine un'ultima considerazione: non è certo che, a fronte di un costo “gonfiato” dell'opera, ciò determini un eguale e corrispondente incremento di valore dell'immobile.
In ogni caso il “110”, seppur disancorato dal reddito (anche un Paperon de Paperoni può accedervi), consente finanche la detassazione della conseguente plusvalenza in caso di vendita dell'immobile.
Ottimo, non c'è che dire!
Generalmente è compito delpolicy making nella politica economica, non solo per garantire un libero mercato, adoperarsi per avvicinare le condizioni fattuali a quelle paradigmatiche del benchmark; qui si è fatto di tutto per allontanarle.
Oppure non c'è stato neppure un preventivo benchmark?
Ovvia l'idea e perverso lo sviluppo.
Questa posizione distorsiva e conservativa reggerà fino alla durata del superbonus 110 oggi fissata al 31.12.2022... tempi strettissimi.
]]>Accettando però tale visione dell’evento, si deve allora aprire una riflessione sul come si è arrivati ad esso e quali cambiamenti abbia scatenato, un tema tutt’altro che facile e che è stato oggetto della live
dello scorso 11 settembre di Michele Boldrin, Costantino de Blasi, i fratelli Gilli e Dino Parrano, una complessità che decorre dalla stessa comprensione del fenomeno terroristico.
Riflessioni sul terrorismo (1): di che stiamo parlando?
Ragionare sul prima e il dopo di un evento è la via maestra con cui si cerca di capire la portata di un evento e il suo impatto sulla realtà.
Il dibattito prima dell’11 settembre era interamente focalizzato sulla globalizzazione, specialmente a seguito delle vicende del G8 di Genova.
La questione della sicurezza dopo la fine della Guerra Fredda era divenuta ormai marginale nel dibattito occidentale, nonostante situazioni come quelle di Timor Est, del Ruanda piuttosto che della guerra in Jugoslavia; il focus di allora era la nuova fase della globalizzazione e il come mantenersi competitivi nel c.d. nuovo villaggio globale.
L’attacco ha stravolto il dibattito, riallocando la rilevanza degli argomenti e senza però escludere quanto si discuteva prima, anzi: molti erano (e sono tutt’ora) convinti che la globalizzazione sia stata causa del terrorismo tramite la povertà che essa stessa avrebbe generato.
Un tale collegamento è stato oggetto di molteplici studi e lo si può trovare in libri come “The End of Poverty: Economic Possibilities for Our Time” (Sachs, 2005 – prima pagina dell’introduzione), spingendo alcuni a concludere che il terrorismo sia l’arma dei poveri e degli sbandati, se non fosse che tale tesi è tutt’altro che corretta.
L’11 settembre ha dimostrato quanto ben poco comprendessimo il fenomeno del terrorismo, una realtà estremamente complessa (sia a livello di individuo che di organizzazione), multifase, con molteplici radici, forti dinamiche interne ed evoluzioni di cui la stessa Al-Qaeda è stata originatrice.
Il terrorismo è il perseguimento di obiettivi politici da parte di chi non ha mezzi militari per combattere in modo diretto; l’11 settembre rispecchia a pieno tale definizione in quanto evento:
L’inadeguatezza della povertà come causa originatrice del terrorismo è già stata dimostrata anni fa da persone come Krueger o Gambietta.
Partendo dall’economista, nel suo libro “Terroristi, perché. Le cause economiche e politiche” (2009) ci segnala che le persone che si uniscono ai gruppi terroristici hanno caratteristiche sociali ed economiche ben precise: sono alienati sociali con un livello di istruzione più alto della media e una famiglia sopra alla media che trovano nella lotta di gruppo la via per ottenere quella riconoscenza sociale negatagli dal contesto in cui vivono/lavorano.
Una tale mancanza di base sociale è emersa nella biografia dei membri di organizzazioni come le Brigate Rosse, piuttosto che degli attentatori del Bataclan, una realtà che viene confermata dagli studi del sociologo Gambietta, da cui emergono come:
A ciò si aggiunge poi un altro passaggio fondamentale: il terrorismo non è una cosa improvvisata.
Per avere un’organizzazione sono 3 gli elementi necessari:
ergo è necessaria un’iniziale condizione oggettiva fonte di infelicità per qualcuno, a cui segue la fase più complessa del reclutamento (serve qualcuno disposto al sacrificio) che diventa più facile solamente a seguito dell’azione terroristica (dagli attentati al controllo del territorio) grazie a fattori quali l’emulazione o il senso di opportunità.
Tuttavia, questo apre una seconda riflessione sul terrorismo: la sua natura.
Riflessioni sul terrorismo (1): natura
Il terrorismo una volta era un fenomeno di natura interna, ma sono ormai diversi decenni che ha assunto più una dinamica di guerra, di fenomeno d’origine esterna al proprio paese e ha fondamento essenziale nell’uso del sistema di informazione ed educazione, al di là delle strategie di tipo asimmetrico.
Quest’ultimo punto è tanto importante, quanto di per sé quasi scontato.
Se il terrorismo è infatti l’arma di chi non ha i mezzi per una c.d. guerra convenzionale, questa non è altro che la definizione di guerra asimmetrica (conflitto non dichiarato con notevole disparità di status e risorse tra le parti), un concetto che sostanzialmente esiste da secoli (si pensi per esempio ai conflitti coloniali), ma che formalmente è entrato nella dottrina militare statunitense solamente nel 1997, durante il dibattito degli anni ’90 sulle politiche militari americane e fatto proprio dai cinesi visti sia gli insegnamenti di Sun Tsu che il libro Guerra senza limiti dei colonnelli Qiao Liang e Wang Xiangsui.
E attenzione a non commettere l’errore concettuale di contrappore la guerra convenzionale a quella non convenzionale, come ci segnala Stephen Biddle nel suo Nostate warfare: queste sono due facce della stessa medaglia.
È la natura stessa della guerra il cercare di colpire il nemico nelle sue debolezze: l’asimmetria è una costante di tutti i conflitti. Ma allora qual è la differenza tra i due? E in che cosa si è distinta Al-Qaeda e Bin Laden, definito dai sopracitati cinesi come l’interprete più efficace di questo tipo di guerra?
Partendo dal primo punto, il principio di fondo di una qualsiasi azione militare è che essa è un problema di azione collettiva: un gruppo di soldati combatte perché ogni suo membro sa di poter contare sui propri commilitoni. Se viene meno ciò, viene meno tutto.
Nel caso dei gruppi non statuali come i terroristi, si cerca di aggirare tale problema – puntando quindi a combattere come un esercito – tramite una comune ideologia socio-politica; di ciò gli Hezbollah libanesi sono un esempio lampante. Gli attacchi individuali – invece – li si hanno quando queste organizzazioni sono prive di tale elemento.
Passando al secondo punto, ancora una volta entra in campo il contributo dell’innovazione tecnologica: il nuovo mondo dell’informazione consente una maggiore possibilità di emulazione.
Negli ultimi anni abbiamo visto il fenomeno dei foreign fighters, del reclutamento degli emarginati in rete; nell’attacco alle Torri Gemelle lo schianto degli aerei non è stato in contemporanea, bensì in successione, in modo da poter attirare le televisioni e ottenere così il massimo effetto.
Infine, un’altra caratteristica fondamentale delle organizzazioni terroristiche è la forte gerarchizzazione, aspetto che si collega a quanto detto supra su chi si unisce a tali organizzazioni: una realtà in cui le persone tornano a sentirsi parte di qualcosa, specialmente i capi che dal loro ruolo hanno potere, rispetto, prestigio ecc, a fronte di una causa comune.
Perdere quest’ultima, li farebbe tornare al punto di partenza ed è per questo che si è soliti osservare un cambio di obiettivo delle stesse organizzazioni, seppur in molti casi (come l’ETA dopo la morte di Franco o i partigiani) siano rimasti in pochi; la stessa Al Qaeda di per sé conferma ciò: dopo la fine della lotta contro l’URSS, il grosso dei mujaheddin ha smesso di combattere e in pochi cambiarono l’obiettivo verso l’ex “alleato” statunitense.
E ciò, ci porta a un’altra domanda: l’11 settembre è figlio della politica estera degli USA?
Quanta responsabilità americana ci sta dietro l’attacco dell’11 settembre?
Organizzazioni fortemente gerarchizzate, individui legali da repulsione sociale e autoalimentazione interna, nate spesso con finalità di lotta (ad un’occupazione, una dittatura, etnica ecc), ma una volta che questa è stata raggiunta, la lotta armata passa da mezzo a fine perché si cerca un’altra motivazione per combattere, anche contro chi avevi al fianco fin prima come proprio è il caso di Al-Qaeda.
Al-Qaeda nasce da una scissione del Maktab al-Khidamat alla fine della guerra con i sovietici (1988), sulla base di una diversa visione di Bin Laden della lotta e i principi di base dell’organizzazione.
Il cambio di direzione verso gli Stati Uniti si ebbe durante la Prima Guerra del Golfo, quando la monarchia saudita respinse l’offerta di Bin Laden di difendere il Regno con la sua legione araba, respingendo così l’aiuto non musulmano degli States.
Ed è proprio per questo che allora ci possiamo chiedere: gli attacchi subiti dagli Stati Uniti sono una conseguenza della loro politica estera?
I complottisti danno molto addito all’idea che l’attacco sia stato in realtà autoinflitto in modo da aver così una giustificazione per un attacco militare (internazionalmente approvato) in Iraq e Afghanistan, su falsariga delle teorie complottistiche dietro l’attacco di Pearl Harbour.
Ma tralasciando tali insensatezze, l’idea della responsabilità statunitense non è meramente dei complottisti, anzi: tra i suoi principali sostenitori troviamo accademici del calibro di Chmosky, secondo cui l’attacco sarebbe il risultato delle politiche imperialistiche degli Stati Uniti in America Latina e Medio Oriente.
La stessa gestione della c.d. lotta al terrorismo sarebbe stata a suo avviso completamente sbagliata: al posto di agire come in un’operazione di polizia (cercando gli individui come si farebbe con la mafia), si è scelto di agire come una vera e propria guerra etica-religiosa.
Di per sé non possiamo non riconoscere come l’intervento statale abbia sempre degli effetti indesiderati; la stessa politica estera occidentale post II GM ha generato dei spillover effects di lunghissimo termine con il risultato di alimentare il malessere tra i gruppi.
Tuttavia non possiamo però al contempo commettere l’errore di pensare alle politiche estere USA come unica causa dietro agli attacchi.
Questi sono fenomeni estremamente complessi: i fattori da considerare sono tanti. Dal malessere sociale di quei territori, ai gruppi di interesse, all’ideologia islamica a cui appunto si sono aggiunti soldi e armi, finendo con l’avere la creazione di gruppi terroristici disposti al sacrificio estremo pur di colpire il grande nemico.
Nella sopracitata analisi di Kruger si è di fatto ragionato molto a livello di motivazione individuale, ma a ciò va poi aggiunta la complessità delle interazioni di gruppo, al che si aggiunge la loro evoluzione post 11 settembre: l’attacco è stato un enorme risultato per i terroristi, con il conseguente generarsi di un effetto immolazione: perché se questi ce l’hanno fatta, allora noi non possiamo riuscirci?
E attenzione a quest’ulteriore nota: ragionare sulle cause degli attacchi, non significa cercare di darne una giustificazione morale.
In Italia soffriamo di una pesantissima corruzione metodologica: non siamo capaci di ragionare senza distinguere tra ricerca e giudizio, tra constatazione fattuale e morale, una degenerazione dell’agire che ha avuto piena manifestazione con le Torri, dimostrando quanto siano limitati i nostri “intellettuali” e “giornalisti”, evidenziando la natura di first moover del nostro paesenelle teorie cospirazioniste, una realtà in cui l’informazione è stata sacrificata sul piano dell’avanspettacolo.
Come dimenticarsi il caso di Santoro che chiese a Luvack come era possibile che un aereo potesse volare sopra il Pentagono, quando è risaputo che li vicino ci sta l’aeroporto Reagan? È come chiedere come sia stato possibile che un treno sia caduto nella laguna di Venezia senza essersi prima informati del fatto che Venezia ha un collegamento ferroviario con la terraferma.
O che dire del complottismo di Giulietto Chiesa?
Un pressapochismo tutt’altro che concedibile su un tema come quello del terrorismo.
Conclusioni: l’11 settembre, Al-Qaeda sono spartiacque nella nostra storia
L’attacco alle Torri (e agli altri tre simboli degli Stati Uniti) ha dato vita alla c.d. società della paura, riportando il tema della sicurezza al centro del dibattito, con tutte le sue conseguenze sul piano militare, sociale ed economico.
Se guardiamo al primo, al di là dei nuovi protocolli di sicurezza nei viaggi, si pensi per esempio ai soli attacchi mirati piuttosto che ai droni.
La guerra del Kosovo – giusto per darne un’idea – ha dimostrato l’enorme ritardo tecnologico dei paesi europei rispetto agli Stati Uniti, i quali si erano evoluti non poco rispetto all’antecedente guerra del Golfo, ove la maggioranza delle bombe erano “stupide” (si cercava di centrare il bersaglio meglio che si poteva). I droni, invece, sono un’evoluzione nella lotta al terrorismo, specie dopo gli attacchi missilistici con cui si è cercato di eliminare Bin Laden: la loro lentezza a fronte della necessità di decisioni rapide e bersagli mobili ha spinto a un cambiamento di strategia.
La scelta di armare i droni negli anni ’90 è una reazione ad Al Qaeda, il quale è stato responsabile altresì di un mutamento delle politiche USA non noto ai più: non vi siete mai chiesti perché non si sia cercato di uccidere Bin Laden prima dell’11 settembre?
Nel febbraio del 1976 il presidente Ford – a seguito delle indiscrezioni sui tentativi della CIA di uccidere Castro durante gli anni ’60 – promulgò un Ordine Esecutivo (11905) col quale veniva vietato a qualunque membro del governo degli Stati Uniti di impegnarsi (o cospirare in tal senso) in qualsiasi attività di assassinio politico in qualsiasi parte del mondo, ordine a cui seguirono uno di Carter (1978) e di Reagan (1981).
Seppur privi di precisa definizione di assassinio (anche se il messaggio al Congresso di Ford allegato all’ordine facesse ritenere che il divieto fosse relativo al solo tempo di pace) e non ostacoli tali da impedire il bombardamento della residenza di Gheddafi (1986) o l’attacco missilistico contro i campi di addestramento in Afghanistan (1998), fu solo dopo le Torri che il Congresso autorizzò Bush a usare
“tutta la forza necessaria e appropriata contro quelle nazioni, organizzazioni o persone che determina hanno pianificato, autorizzato, commesso o aiutato gli attacchi terroristici" (fermo restando che Clinton aveva già autorizzato l’uso nascosto della forza letale contro diversi membri di alto livello di Al-Qaeda).
Cambiamenti importanti, secondi soli ai tanti effetti sociali ed economici, impossibili da vagliare in un solo articolo (o diretta che sia), a meno che non si voglia fare un mero elenco.
Solo per darvene un’idea, pensate all’impatto del terrorismo sul mondo assicurativo, piuttosto che alla crisi economica del 2008: evento esemplare dell’impatto delle politiche scellerate di uno stato quando esso pretende di corrompere la politica di gestione dei prestiti e il sistema finanziario con le politiche monetarie espansive, quanti si ricordano che proprio quest’ultime iniziarono dopo l’11 settembre quanto Greenspan – anche su scia della recente crisi delle Dot com – si inventò la necessità di inondare il mercato di moneta, con tutte le conseguenze che abbiamo vissuto?
Ma questo è un’altra storia che merita una sua spiegazione a parte.
]]>Alcuni dati. A Mosca l'affluenza alle elezioni ha superato il 50%, mentre nelle precedenti elezioni del 2016 era solo del 35,2%. L'affluenza al voto online nella capitale ha raggiunto il 96,5%, battendo il record dello scorso anno stabilito durante il referendum sugli emendamenti alla Costituzione (93,02%). Quasi 2 milioni di persone hanno votato a distanza con il voto elettronico.
Tuttavia, il voto è stato segnato subito da accuse di brogli elettorali diffusi, soprattutto a Mosca. In molti sostengono, infatti, che talune "anomalie" avrebbero compromesso i risultati elettronici ed alcuni politici chiedono ora l'annullamento dei voti. I comunisti, ad esempio, si sono rifiutati di riconoscere i risultati delle urne ed hanno organizzato subito una piccola protesta non autorizzata. Inoltre, come hanno riferito alcuni media locali, martedì scorso le autorità di Mosca hanno tentato di fare irruzione nella sede della città del Partito Comunista, pochi minuti prima che un gruppo di avvocati del partito si preparasse ad intentare una causa per contestare i controversi risultati del voto online. La polizia ha anche impedito ad uno dei principali parlamentari del partito comunista di accedere al suo ufficio nella Duma di Stato, dove si trovavano i documenti a sostegno della causa. Infine, diversi candidati sconfitti si sono già impegnati a contestare i risultati ed alcuni hanno già intentato azioni legali contro i risultati nei loro distretti. Il Cremlino, dal canto suo, ha annunciato le elezioni come trasparenti ed ha respinto le accuse di frode o brogli.
Ma le elezioni del 17-19 settembre hanno fatto seguito ad un giro di vite senza precedenti, a partire dall'avvelenamento dell'agosto 2020 ed alla successiva detenzione del critico del Cremlino Alexei Navalny, nonché all'incarcerazione dei suoi alleati e di molti altri candidati dell'opposizione; con l'inserimento nella lista nera degli osservatori elettorali e con le modifiche, pro Putin, alle leggi elettorali nel periodo antecedente il voto.
In una recente raccomandazione, il Parlamento Europeo è giunto a definire pubblicamente il regime di Putin una cleptocrazia autoritaria stagnante guidata da un Presidente a vita contornato da oligarchi.E Putin, oltre a reprimere con azioni criminali e politiche antidemocratiche il suo stesso popolo, costituisce anche una minaccia esterna per la sicurezza europea.
Le repressioni interne
Il "regime putiniano" ha posto in essere condotte criminali sempre più repressive nei confronti dei dissidenti. La situazione interna sta drammaticamente deteriorandosi a causa della crescente "soppressione" forzosa delle forze democratiche. Violenza e leggi antidemocratiche vengono sempre più utilizzate da Putin per mettere a tacere le critiche interne, l'opposizione politica e gli attivisti impegnati nella lotta contro la corruzione, per limitarne la libertà di riunione ed impedire lo svolgimento della loro attività e quella della società civile russa. Ciò è dimostrato dalla detenzione di più di 11.000 manifestanti pacifici da parte delle autorità russe solo dopo due settimane dall'arresto di Alexei Navalny; il che porta il numero totale di russi detenuti dal gennaio 2021 ad oltre 15 000. Il regine Russo ha continuato a detenere illegalmente i suoi cittadini e a prendere di mira i leader dell'opposizione, i giornalisti indipendenti, i manifestanti e gli attivisti per i diritti umani. Le condizioni di prigionia in Russia sono tuttora terribili e le persone incarcerate subiscono torture, vessazioni e attacchi fisici di ogni sorta.
Con l'approvazione delle leggi sugli "agenti stranieri" e sulle "organizzazioni non gradite", il regime del Cremlino consente la repressione "legalizzata" dei cittadini, delle associazioni e dei mezzi di comunicazione, violandone i diritti umani e la libertà di espressione e di associazione e mettendo a rischio la loro incolumità personale.
Il regime, inoltre, ha inasprito ulteriormente tali leggi, estendendo le restrizioni alle persone o entità che sostengono gli "agenti stranieri" e le "organizzazioni straniere indesiderate", vietando in tal modo ai membri attivi della società civile, alle ONG per i diritti umani e all'opposizione di partecipare alle scorse elezioni parlamentari. Putin, infatti, ha sottoscritto, a giungo scorso la legge che vieta a soggetti etichettati come “estremisti” di votare e di candidarsi alle elezioni del Paese. Ed il divieto è molto esteso perché si applica a partecipanti, membri, dipendenti e a tutte le persone che sono coinvolte nelle attività considerate “estremiste” o “terroristiche” da parte del Governo russo. In pratica i leader delle organizzazioni ritenute estremiste non potranno presentarsi ai seggi per 5 anni, mentre l’attività elettorale dei “cittadini ordinari” sarà bloccata per 3 anni. La nuova legge voluta da Putin, inoltre, conferisce alle autorità interne il diritto di impedire ai fondatori e ai dirigenti di tali organizzazioni l’accesso alle elezioni senza previa conferma del Tribunale.
In definitiva, questo nuovo impianto normativo ha di fatto imposto un concreto divieto di partecipazione all’attività elettorale del Paese. E si tratta di una misura che si estende anche a coloro che “fanno donazioni” a tali organizzazioni, “prestano assistenza” o supportano il loro operato “partecipando ad eventi” (ovvero proteste antigovernative) o esprimono il sostegno “sul web”. La legge arriva anche a prevedere non solo l'incandidabilità ma anche lo scioglimento delle organizzazioni “estremiste”, la confisca dei beni e sanzioni anche penali per i partecipanti. Lo stesso vale per le ONG straniere alle quali partecipano cittadini russi. Da segnalare c'è stata la protesta delle autorità internazionali e dell'UE secondo cui la decisione delle autorità russe di dichiarare "organizzazione estremista" la Fondazione anticorruzione diretta da Alexei Navalny sarebbe infondata, discriminatoria e presa con un unico obiettivo, ossia distruggere le possibilità per l'opposizione di partecipare efficacemente alle campagne elettorali.
Inoltre, nell'ultimo ventennio ci sono stati vari omicidi o tentati omicidi di oppositori al regime e di giornalisti indipendenti, sia in Russia che all'estero, inclusi quelli di Anna Politkovskaya, Boris Nemtsov, Alexander Litvinenko, Sergei e Yulia Skripal, Sergei Protazanov, Pyotr Verzilov, Vladimir Kara-Murza, Alexei Navalny, Zelimkhan Khangoshvili ed altri.
E, purtroppo, c'è anche da segnalare che gli organizzatori di tali crimini non sono stati ancora identificati e incriminati, perché l'attuale repressione del dissenso sociale è rafforzata dall'impunità della polizia e delle forze di sicurezza, nonché dalla riluttanza della magistratura a perseguire i reali responsabili di tali crimini. Le recenti, ed illegali, modifiche costituzionali, oltre a fornire una deroga al Presidente Putin rispetto al limite di mandato presidenziale nel 2024, hanno ulteriormente danneggiato il diritto a un equo processo, conferendo al Presidente il potere di nominare i giudici della Corte costituzionale e della Corte suprema e di procedere alle nomine di tutti i giudici federali e al licenziamento dei giudici federali più anziani.
Anche a scopo di censura, il Governo ha approvato recentemente una legge che obbligherà le aziende informatiche straniere (la cui audience giornaliera raggiungerà oltre 500mila utenti russi), ad aprire dal primo gennaio 2022 una sede in Russia per essere sottoposti alla legge e al controllo del regolatore locale. Le società potenzialmente soggette a tale disegno di legge include circa 20 colossi IT, tra cui Facebook, Instagram, TikTok, Twitter, WhatsApp, Telegram, Aliexpress, Gmail, Ikea, Wikipedia.org e anche aziende come Google o Apple.
La repressione digitale 2.0
Con gli accadimenti “reazionari” degli ultimi dieci anni, Putin ha capito che per avere la certezza di ottenere risultati elettorali a proprio favore non bastava avere il solo controllo delle schede elettorali (e quindi manipolare i risultati delle votazioni) ma era essenziale anche possedere il potere di gestire i flussi informativi su internet.
Dieci anni fa i cittadini russi hanno scoperto il potere di internet per denunciare gli illeciti compiuti dalla “oligarchia Putiniana”. Hanno iniziato a condividere notizie e mobilitare i manifestanti. Per la prima volta, il malcontento popolare si è trasferito dagli account dei social media alle strade. Sono quindi iniziate le proteste in numerose città russe e tutto ciò è continuato fino al 2013. A quel punto Putin si è mosso: ha disperso le manifestazioni, ha perseguito e incarcerato leader e attivisti dell'opposizione ed ha vietato alle stazioni televisive di seguire le proteste. Ma per lui non era sufficiente. Ha preso anche due importanti decisioni:
intervenire su internet in modo repressivo
ed introdurre il voto elettronico a distanza con il chiaro intento di manipolare i voti
Ed infatti, dal novembre 2019 Putin ha introdotto dei regolamenti che creano un quadro giuridico per una gestione statale centralizzata di internet all'interno dei confini della Russia. Il fine: consentire un isolamento della rete russa dall'internet globale.
Quindi a livello normativo si è deciso:
l'installazione obbligatoria per i fornitori internet di attrezzature tecniche per contrastare le minacce esterne
la gestione centralizzata delle reti di telecomunicazioni in caso di minaccia e un meccanismo di controllo per le linee di collegamento che attraversano il confine con la Russia
l'implementazione di un Domain Name System (DNS) nazionale russo
Gli obiettivi perseguiti da questi regolamenti sono principalmente due:
creare un meccanismo per un'efficace sorveglianza di Internet all'interno dei confini nazionali. Quindi, come detto, tutti i fornitori di servizi Internet sono stati obbligati ad installare "attrezzature tecniche per contrastare le minacce alla stabilità, alla sicurezza e all'integrità funzionale di Internet sul territorio della Federazione Russa" (TSPU) sulle loro reti.
lo Stato doveva diventare il principale regolatore di internet. Ed infatti è stato creato il Servizio federale per la supervisione nella sfera della connessione e comunicazione di massa che si chiama Roskomnadzor.
La tecnologia TSPU, dunque, è ufficialmente un mezzo per proteggere RuNet (l'internet russo) da minacce esterne ma in realtà è una potente tecnologia che consente una restrizione mirata della libertà di parola.
Il cane da guardia statale Roskomnadzor può inoltre utilizzare la cosiddetta Deep Packet Inspection (DPI) cioè una tecnologia che consente di monitorare, filtrare e rallentare il traffico Internet e le richieste degli utenti, nonché di bloccare dei contenuti specifici.
Installando la tecnologia DPI sulle reti dei fornitori di servizi Internet russi, Roskomnadzor può limitare, ad esempio, in modo indipendente la velocità di accesso a determinati siti Web e bloccare le informazioni senza mandare in crash l'intero RuNet. In questo modo lo Stato, quindi Putin, è in grado di centralizzare tutta la gestione dei flussi di informazioni in Russia.
Roskomnadzor, poi, ha colpito il cosiddetto "Smart Voting", il progetto lanciato nel novembre 2018 da Alexei Navalny che mirava a catalizzare i voti per gli attivisti attraverso l'uso di internet al fine di tentare di indebolire il partito Russia Unita di Putin. L'organo statale ha bloccato praticamente ogni piattaforma in cui il team di Navalny inseriva le proprie liste. Ha bloccato sia il sito Web Smart Voting in Russia che il sito Web di Navalny (navalny.com), insieme a quasi 50 siti a lui collegati. Con lo strumento TSPU ha bloccato anche il sito mirror di Navalny senza interrompere i servizi di Google in Russia. E per prepararsi alle scorse elezioni della Duma il censore russo ha testato questa tecnologia nel marzo 2021 rallentando l'uso di Twitter in tutta la Russia.
Attraverso Roskomnadzor, quindi, Putin ha il controllo totale sulle informazioni.
E' in grado di accedere ad "informazioni vietate" utilizzando i protocolli di reti private virtuali (VPN) o DNS su HTTPS (DoH). Inoltre, il principale fornitore di telecomunicazioni russo, sostenuto dallo Stato, Rostelecom ha proposto di vietare l'accesso ai server DNS pubblici di Google e Cloudflare.
Nell'imminenza delle elezioni alla Duma le autorità russe hanno finanche deciso di esercitare pressioni e minacciare le aziende del web con multe e azioni penali. Google e Apple hanno dovuto rimuovere l'app Navalny dai loro negozi in Russia. Google ha anche bloccato l'accesso ai Google Docs e ai video di YouTube pubblicati dal team di Alexei Navalny con la sua lista di candidati "Smart Voting". L'app di messaggistica di Telegram ha bloccato il bot "Smart Voting"
Putin, inoltre, ha controllato le elezioni anche con l'utilizzo del voto on line.
Il voto è avvenuto attraverso dei server statali registrando un account sul portale Gosuslugi (o mos.ru per Mosca) e la rete è tutta controllata dalle autorità o da società statali.
Il software elettorale si basa su una tecnologia blockchain ma i recenti test del 12-14 maggio scorso ne avevano evidenziato l'opacità per tutta una serie di problemi.
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Un video divulgativo interessante e dedicato al tema si può trovare qui. Per chi non avesse voglia di ascoltarlo tutto, parla del “cognitive ease”, ossia quel processo mentale per cui siamo maggiormente propensi a giudicare positivamente e veritiera qualsiasi cosa (un evento, un’affermazione, addirittura il significato di una parola) se questa viene ripetuta spesso. In un notissimo esperimento condotto da due Università del Michigan, a due gruppi distinti di partecipanti vennero sottoposte alcune parole prive di senso inserite nel contesto di un giornale. Queste parole erano inserite con frequenze random: alcune venivano ripetute una volta sola, altre molte volte. A fine esperimento è stato chiesto ad i partecipanti di esprimere un parere positivo o negativo su ogni singola parola; si chiedeva cioè, ai soggetti, di far sapere all’esaminatore se la parola in questione evocasse delle sensazioni piacevoli o spiacevoli, o se la parola sembrasse avere un qualche tipo di significato. Non inaspettatamente, se la parola in esame era una di quelle ripetuta più volte, il soggetto era più incline a pensare che significasse realmente qualcosa o che evocasse un qualche tipo di concetto positivo. Qua potete trovare una riflessione accurata in merito.
Questo aspetto è quello su cui si basano numerosissime campagne di mercato. Più un concetto ci è familiare, più il nostro cervello sarà incline a considerarlo positivo. Succede con le parole, ma anche con i testi, con la musica, e infine con le idee.
Cosa c’entra questo col complottismo? Molto. Il nostro cervello è evolutivamente programmato per essere diffidente nei confronti di ciò che non sa, ed accogliere positivamente ciò che sa. Questo si applica a numerosissimi fenomeni percettivi. Una canzone viene apprezzata maggiormente dopo ripetuti ascolti, e la stessa cosa vale per i suoni – negli animali questo è un principio fondamentale nella crescita dei cuccioli: i versi ripetuti dei genitori sono segnali familiari. Una fotografia con un contrasto più pronunciato permette al nostro cervello di cogliere maggiormente i dettagli, pertanto sarà istintivamente più apprezzata di una fotografia con poco contrasto – è questo il principio dei filtri delle applicazioni per smartphone e dei display retina.
Qua veniamo alle teorie complottiste. La spiegazione della maggior parte dei fenomeni naturali è difficilmente comprensibile per le persone comuni. Questa categoria riguarda, in realtà, tutti noi. Chi scrive ne sa qualcosina (sempre troppo poco) di sistema nervoso centrale, ma non ha idea di come funzioni dettagliatamente la tettonica a placche, sa pochissimo di fisica quantistica ed astrofisica, matematica o altre materie. Neanche avere un grado di istruzione superiore mette al riparo da clamorose cantonate da bar della strada, quando l’oggetto della discussione non sia un campo sul quale non siamo esperti nel vero senso della parola.
Quando si verifica un evento di grossa portata (una pandemia, un terremoto, un attentato terroristico, per citare tre esempi vicini nel tempo), ma del quale ignoriamo profondamente sia le dinamiche sia, più importante ancora, le tecniche di studio, arriva dirompente il “cognitive ease”. Il nostro cervello ha un bisogno disperato di capire cosa succede, le risposte ufficiali suonano fumose e incomplete, per giunta soggette ad aggiustamenti continui, soprattutto all’inizio. Ergo molto meglio rifugiarsi in una clamorosa e facile bugia che accettare di non sapere o peggio ancora di non capire. Dal momento che una facile bugia è più confortevole di una complessa verità, dal cognitive ease scaturisce automaticamente un altro fenomeno psicologico, l'”argument for ignorance”, ossia (volendo forzatamente tradurre) l'”ipotesi (nulla) fornita per contenere la propria ignoranza”: non so cosa sia, per cui meglio cercare la spiegazione più semplice e difficilmente confutabile. Ragionamento fallace sia dal punto di vista contenutistico che, soprattutto, logico, ma nel quale tutti, una volta o l’altra, siamo caduti.
In un esilarante quanto illuminante conferenza di Neil De Grasse Tyson (qui il link, dal minuto 54:38 in avanti), l’intervistato parla a lungo di questo fenomeno in riferimento alle teorie sugli UFO.
Esiste un’approfondita (e non conclusiva) letteratura su quale sia il processo mentale che guidi il “cognitive ease”. Non si tratta di un argomento semplice e i suoi fenomeni neurofisiologici sono ben lungi dall’essere chiariti.
Il primo e più semplice processo neurofisiologico implicato è quello del “mentalizing”. Questo termine, intraducibile in italiano, indica la capacità che abbiamo di intuire immediatamente l’evoluzione o il contenuto semantico di una situazione a partire dalle percezioni sensoriali. Un esempio scolastico è quello del tizio a noi sconosciuto che cerca di aprire la portiera di un’automobile con un piede di porco: chiunque di noi si imbatta in questa scena, intuirà immediatamente (dagli elementi visivi forniti) che si tratta probabilmente di un ladro che tenta di rubare una macchina non sua, e reagirà di conseguenza (scappando o assaltandoci) se veniamo scoperti a fissarlo. Questo processo mentale, attivo più o meno dalla tarda adolescenza, non manca di essere potenzialmente fallace: nell’esempio di prima, esiste una pur remota possibilità che chi sta cercando di aprire la portiera della macchina sia in realtà il legittimo proprietario, che ha perso le chiavi. Perché, in prima battuta, a quasi nessuno di noi verrebbe in mente la seconda ipotesi come la più attendibile? Perché è la più complessa, richiede un più approfondito livello di ragionamento, e il nostro cervello è evolutivamente programmato per non considerarla come prima spiegazione.
Il processo di mentalizing, come spiegano molto dettagliatamente qua e qua, è operato da una serie di aree integrative e di strutture, che coinvolgono la corteccia pre-frontale mediale, la corteccia del giro del cingolo anteriore, l’ippocampo, l’amigdala e il giro temporale superiore.
Come funziona questo circuito del “mentalizing”? Il lobo temporale laterale è responsabile della continua elaborazione delle memorie a lungo termine, laddove il giro del cingolo e l’ippocampo analizzano memorie più a breve termine, focalizzano l’attenzione su un oggetto o un evento su cui siamo concentrati. L’amigdala, infine, in concerto con cingolo ed ippocampo, sembra implicata nel giudizio critico e nell’analisi delle emozioni suscitate dall’oggetto della nostra attenzione. Come gli studi di risonanza magnetica sovra-citati hanno ampiamente dimostrato, detta analisi è fortemente influenzata dalle memorie autobiografiche, dalle suggestioni personali, e dalle esperienze negative. Questo e questo paper spiegano che lo scetticismo basato su fallimenti o cattive esperienze personali provoca quasi automaticamente il soggetto a produrre bias ( = errori metodologici) di valutazione, aspetto che si ritrova particolarmente accentuato nei pazienti con disturbo delirante della personalità (non a caso in inglese chiamato “delusional disorder”) e/o tratti paranoidi.
Facendo un breve esempio: se il governo ci fa pagare più tasse, ci ha tolto l’accesso gratuito a un dato servizio sociale, ha aumentato i licenziamenti, o ci ha deluso in qualsiasi altra maniera, saremo inerentemente più propensi a credere alle teorie del complotto su torri gemelle, omicidio Kennedy e affini, in quanto il nostro scetticismo e la nostra delusione inducono dei bias di valutazione nel nostro processo di elaborazione critica degli eventi. I fatti vengono ignorati a favore di quello che è più semplice e ci fa più comodo pensare. Con Internet che offre pochi o zero filtri alla diffusione di informazioni mendaci, il gioco è fatto.
Non dovremmo criticare a prescindere né disprezziamo la nostra tendenza a cercare risposte facili: il meccanismo evolutivo del mentalizing è utile in un contesto più primitivo, semplice ed immediato, ed è (probabilmente) per questo che è apparso milioni di anni fa nel sistema nervoso dei nostri antenati. Tuttavia, in una società tecnologicamente avanzata ed incredibilmente complessa questo problema sta diventando estremamente più serio di quanto non possa sembrare ad un’analisi superficiale. L’ultimo lustro di politica Europea e Americana dimostra come, a causa di processi di cognitive ease che abbiamo appena descritto, la società occidentale stia costruendo una democrazia su basi di argilla. Questo articolo dell’Economist esamina attentamente la problematica. Sia ben chiaro che qua non ci proponiamo di additare questo fenomeno ad una specifica parte politica: il cognitive ease è un problema che affligge la politica in maniera bipartisan. Suggeriamo invece, fortemente, che le posizioni politiche, da qualsiasi parte vengano, siano corroborate e supportate da fatti reali, non da illazioni, dicerie o affermazioni clamorosamente false. Chi sfrutta questi processi psicologici a scopo propagandistico sa molto bene il fatto suo, e il risultato è alla base di alcune delle più clamorose frodi propagandistiche di massa che si siano viste dai tempi delle dittature europee fra le due guerre. Il dramma è che molte delle vittime sono anche convinte di essere nella situazione diametralmente opposta, ossia di averci capito tutto.
Questo è un ottimo esempio di come il cervello, pur essendo una delle strutture più straordinarie che conosciamo, presenta delle falle da tenere sotto controllo e correggere. Riprendendo Neil De Grasse Tyson, le illusioni ottiche non dovrebbero chiamarsi così, ma piuttosto “fallimento cerebrale”. Possiamo dire esattamente la stessa cosa sul processo di cognitive ease: è un fallimento del nostro cervello ad operare un’analisi razionale della realtà a favore di suggestioni e impressioni personali. Un fallimento che a volte ha conseguenze drammatiche, che dovremmo tutti cercare di combattere.
]]>Le autorità sanitarie di Boston cominciano a prendere in mano la situazione solo a ridosso dell’autunno del 1901. Tra le misure messe in campo dal Boston Board of Health guidato da Samuel Holmes Durgin, professore di medicina all’università di Harvard spicca l’attuazione di un programma generale di vaccinazione volontaria, che ha inizio in inverno e che già nel dicembre 1901 raggiunge l’obiettivo delle 400'000 vaccinazioni[2]. Ma non passa molto tempo prima di scoprire che ciò non basta: il virus continua a circolare, i focolai aumentano e sempre più persone muoiono. L’opinione pubblica si convince che i senza-tetto siano responsabili delle nuove ondate.
È in questo contesto che il Board of Health della città di Cambridge, che si trova a pochi chilometri da Boston, decide di fare ricorso ad uno strumento che la legge del Massachusetts gli forniva: imporre la vaccinazione obbligatoria a tutti i suoi cittadini, applicando una sanzione di cinque dollari a chiunque, avendo più di ventuno anni, non ottemperi avesse ottemperato all’obbligo[3]. Il 27 febbraio 1902 il Board of Health emana un regolamento che permette ai medici di procedere alla vaccinazione forzata “casa per casa” dei soggetti che non si vaccinassero fossero vaccinati spontaneamente. In un susseguirsi di mobilitazioni di gruppi organizzati tra i quali l’Anti–Compulsory Vaccination League, il medico Immanuel Pfeiffer, strenuo oppositore dell’obbligo vaccinale, annuncia di voler visitare un ospedale con cento ammalati di vaiolo per provare che il vaccino non è necessario; pochi giorni dopo la visita trionfale, autorizzata da Durgin, Pfeiffer si ammala gravemente e solo per caso riesce a sfuggire alla morte, data per certa da tutti i colleghi che lo avevano visitato[4].
Il 27 luglio dello stesso anno Henning Jacobson, un parroco di Cambridge di origini svedesi venne raggiunto dall’ordine di presentarsi davanti alla corte penale di primo grado del Massachusetts per essersi rifiutato di pagare la sanzione dei 5 dollari per non aver adempiuto all’obbligo di vaccinarsi. Da subito il caso si mostrava pregno di conseguenze politiche: se la Corte avesse dichiarato incostituzionale la legge del Massachusetts, la stessa sorte sarebbe spettata anche agli altri undici Stati che, ai tempi, come il Massachusetts, avevano previsto degli obblighi vaccinale. Al cospetto della Corte, presente in sala una schiera di attivisti anti-vaccinisti, Jacobson si dichiarava non colpevole. Quali che fossero le motivazioni che lo avevano portato ad un tale gesto (egli stesso affermava nei propri atti difensivi di aver sofferto reazioni avverse ad un vaccino che gli era stato somministrato da bambino[5]), Jacobson veniva condannato in primo e in secondo grado. Il caso arrivava così alla Corte Suprema degli Stati Uniti, che il 6 dicembre 1904 decide di ascoltarlo.
Come sempre accompagnata da una delegazione dell’Anti-Compulsory Vaccination League, la difesa di Jacobson fece leva sui seguenti argomenti: la legge del Massachusetts, in base alla quale Jacobson era stato condannato, sarebbe stata illegittima poiché in contrasto da un lato con il Preambolo e con lo «spirito» della Costituzione degli Stati Uniti d’America e dall’altro con il Quattordicesimo Emendamento, che––in breve––garantisce l’eguale trattamento dei cittadini statunitensi davanti alla legge e più in generale la protezione contro gli atti arbitrari dello Stato. Quanto a quest’ultimo argomento, la difesa di Jacobson affermava che da un lato fosse stato violato il suo diritto ad un «giusto processo», poiché le corti inferiori avevano rifiutato la sua richiesta di provare, attraverso testimoni, la veridicità di numerose affermazioni (pseudo-)scientifiche sulla pericolosità e l’inefficacia dei vaccini. Dall’altro, in via più generale, sosteneva che la vaccinazione obbligatoria di per sé rappresentasse una violazione del Quattordicesimo emendamento poiché lesiva del diritto (diremmo con una terminologia moderna, parafrasando Jacobson) all’autodeterminazione dell’individuo.
Il 20 febbraio 1905 la Corte Suprema degli Stati Uniti rese una decisione a maggioranza di 7 contro 2, redatta dal giudice John Marshall Harlan di orientamento repubblicano.
La Corte, senza troppi giri di parole, rigettava gli argomenti basati sul Preambolo e sullo spirito della Costituzione americana che, in base ad una giurisprudenza costante già allora, non costituivano propriamente fonti del diritto. La stessa sorte spettava all’allegazione della violazione del «giusto processo»: le corti inferiori, infatti, non avrebbero potuto sindacare la valutazione discrezionale del Board of Health di Cambridge se non manifestamente in contrasto con la Costituzione americana. Ipotesi che qui non ricorreva poiché, come riconosce la Corte Suprema, «da quasi un secolo la maggior parte dei medici considera la vaccinazione, ripetuta a intervalli, come uno strumento di prevenzione dal virus del vaiolo» e ritiene che i rischi derivanti dagli eventi avversi dovuti ai vaccini siano «troppo esigui per essere seriamente soppesati ai benefici» derivanti dalla vaccinazione stessa. È però con riferimento all’ultimo argomento, quello della violazione della libertà personale, che la Corte pronunciava le parole più interessanti: rigettando l’argomento della difesa, il giudice Harlan scriveva che: «la libertà garantita dalla Costituzione degli Stati Uniti d’America a ciascun individuo nella sua giurisdizione non implica l’esistenza di un diritto assoluto di ogni persona di essere, in ogni tempo e in ogni circostanza, completamente libero da ogni restrizione. Molteplici sono i vincoli a cui ciascuno è soggetto per il bene comune. Su nessun’altra base potrebbe esistere una società che sia sicura per i propri membri: una società basata sulla regola che ciascuno è legge a sé stesso si troverebbe presto di fronte al disordine e all’anarchia. La vera libertà per tutti non potrebbe esistere sotto l’azione di un principio che riconoscesse il diritto di esercitare la propria, con riguardo alla sua persona o ai suoi beni, indipendentemente dal danno che potrebbe essere arrecato agli altri». Se, infatti, è pur vero che esiste «una sfera all’interno della quale ciascun individuo può asserire la supremazia della propria volontà e, a ragione, contestare l’autorità di qualsiasi governo (…) di interferire con l’esercizio di quel diritto; è ugualmente vero che in ogni società ordinata, che ha il compito di preservare la sicurezza dei propri membri, i diritti di libertà dell’individuo sotto la pressione di grandi disastri possano, talora, essere soggetti a quelle restrizioni, imposte da norme ragionevoli, che la tutela della collettività richiede». Queste norme, che il Decimo Emendamento riserva alla competenza dei singoli Stati, devono appunto essere proporzionali né possono «spingersi al di là di ciò che è ragionevolmente richiesto per la tutela della collettività». Nel caso di specie, «essendo che il vaiolo è diffuso e in aumento nella città di Cambridge, questa Corte usurperebbe le funzioni di un’altra branca del governo se dovesse decidere, in punto di diritto, che il metodo adottato [dal Board of Health] con l’autorizzazione dello Stato del Massachusetts per proteggere la popolazione in generale, sia arbitrario e non giustificato dalle necessità del caso».
Con questa pronuncia. per la prima volta la Corte Suprema aveva posto un principio che––come in ogni ordinamento di common law––tutte le corti inferiori sarebbero state destinate ad osservare: l’obbligo vaccinale, quando ragionevole, proporzionato e necessario a proteggere la comunità dei cittadini, non può dirsi incostituzionale. Sulla scia del medesimo ragionamento, la Corte Suprema nel 1922 ha rigettato i rilievi di incostituzionalità sollevati dalla studentessa della città di Sant’Antonio Rosalyn Zucht, non vaccinata, relativamente ad una legge del Texas che escludeva dall’accesso alle scuole pubbliche coloro che non avessero presentato un certificato di avvenuta vaccinazione contro il vaiolo. Il giudice Brandeis scriveva che «prima ancora che questa causa fosse istituita, [la Corte in] Jacobson v. Massachusetts ha stabilito che imporre l’obbligo vaccinale rientra tra i poteri di policing consentiti ad uno Stato», fintanto che questo potere non venga esercitato in modo arbitrario.
Questa, dunque, è la situazione in diritto––fino ad ora indiscussa––degli Stati Uniti d’America. L’onestà intellettuale impone, tuttavia, di ricordare che il caso Jacobson v. Massachusetts risale ad un’epoca in cui il controllo dello Stato sui cittadini era considerato, tanto dall’opinione pubblica quanto dalla dottrina legale prevalente, più accettabile di quanto lo sia oggi. Concetti come l’autodeterminazione del singolo, il diritto alla riservatezza, il diritto ad ottenere un consenso informato, il diritto all’aborto non erano che idee in fase di sviluppo embrionale. E, del resto, non si può tacere che il precedente di Jacobson sia stato citato in epoche successive dalla Corte Suprema per giustificare le più turpi decisioni a livello statale. In questo senso è emblematico è il caso Buck v. Bell (1927) in cui la Corte ha trovato un motivo di giustificazione di una legge dello Stato della Virginia che permetteva la sterilizzazione obbligatoria dei soggetti considerati inidonei a generare figli, perché disabili mentalmente: il giudice Holmes, riportando l’opinione della maggioranza della Corte, scriveva che: «è un bene per tutto il mondo che la società possa impedire di generare prole a coloro che ne sono manifestamente inidonei, anziché aspettare poi di giustiziare i loro figli degenerati per i crimini commessi o lasciarli morire di fame per la loro imbecillità. Il principio che permette la vaccinazione obbligatoria è abbastanza esteso da poter comprendere anche l’asportazione delle tubi di Falloppio. Jacobson v. Massachusetts». È tuttavia altamente improbabile che la Corte Suprema di oggi possa rovesciare il principio stabilito da Jacobsonv. Massachusetts solo sulla base della lunga età o degli usi distorti che ne sono derivati: l’anno scorso è stato proprio riferendosi a questo precedente che la Corte federale d’appello del 5º Circuito nel caso In Re: Abbot ha affermato la legittimità della decisione del governatore del Texas di includere le cliniche abortive tra le attività non essenziali da chiudere a causa della pandemia di SARS-CoV-2: «[Il precedente] Jacobson stabilisce che tutti i diritti costituzionali possono essere ragionevolmente limitati per combattere un'emergenza di salute pubblica», incluso dunque il diritto all’aborto che––come è noto––la Corte Suprema ha affermato per la prima volta in Roe v. Wade (1973). Un esito identico in relazione alla legge che imponeva uno stop alle cliniche abortive dell’Arkansas per il Covid è stato raggiunto nel caso In re: Rutledge (2020) deciso dalla Corte federale d’appello dell’8º Circuito, sempre attraverso l’applicazione del precedente di Jacobson. E non cambia le carte in tavola la decisione della Corte federale d’appello dell’11º Circuito che in Robinson v. Attorney Gen. (2020), la quale pur riconoscendo la validità del precedente di Jacobson ha tuttavia dichiarato illegittimo il divieto di aborto imposto dall’Alabama come misura anti-covid, affermato che: «[c]ome i diritti costituzionali incontrano dei limiti, così li incontra ha anche il potere di uno Stato di emanare [leggi] limitative di tali diritti in tempi d’emergenza. In Jacobson la Corte Suprema ha rigettato l’argomento dell’imputato, secondo cui le vaccinazioni obbligatorie avrebbero violato il Quattordicesimo Emendamento, decidendo invece che “una comunità ha il diritto di proteggere sé stessa contro l’epidemia di una malattia che mette a repentaglio l’incolumità dei suoi membri” (…). Ma quella decisione non fornisce certo carta bianca agli Stati nell’esercizio del potere governativo».
E arriviamo ad oggi. Il 9 settembre Biden ha emanato due executive orders, annunciandone un terzo, che imporranno obblighi vaccinali a categorie specifiche di lavoratori. Gli executiveorders non hanno equivalenti nel diritto italiano: in quanto atti emanati dal Presidente degli Stati Uniti––talora (ma non sempre) su delegazione del Congresso––che non possono contrastare con le leggi e somigliano alla lontana ai nostri d.p.c.m.
Col primo executive order Biden ha imposto l’obbligo di vaccinazione contro il COVID-19 a tutti i dipendenti federali, «fatte salve le eccezioni previste dalla legge» in tema di disabilità e di religione. Non si tratta certo di un numero esiguo di persone, considerando la moltitudine di agenzie amministrative comprese dal governo federale statunitense. In realtà, il testo dell’executive order è piuttosto chiaro nel delegare a «[c]iascuna agenzia (…), conformemente alle disposizioni di legge, l’elaborazione di un programma per richiedere la vaccinazione COVID-19 per tutti i suoi dipendenti federali»; l’emanazione di specifiche linee guida sono state pubblicate dalla Safer Federal Workforce Task Force. Sul punto ci sono davvero poche obiezioni giuridiche sollevabili: al Presidente degli Stati Uniti è riconosciuta amplissima discrezionalità nella gestione dei dipendenti governativi federali.
Il secondo executive order potrebbe imporre indirettamente un obbligo di vaccinazione contro il COVID-19 ai federal contractors (ossia, persone fisiche o imprese, che pur non essendo dipendenti federali, ricevono incarichi dal governo federale) e ai subcontractors. In particolare, questo è realizzato attraverso una disposizione che impone alle agenzie e ai dipartimenti federali di «assicurare che i contratti [con i federal contractors e subcontractors siglati dopo il 15 ottobre] includano una clausola che il contraente e gli eventuali subcontraenti (a qualsiasi livello) sono tenuti incorporare nei subcontratti di livello inferiore. Tale clausola specifica che il contractor o subcontractor deve, per la durata del contratto, rispettare tutte le linee guida per la sicurezza sui luoghi di lavoro» pubblicate dalla Safer Federal Workforce Task Force. Queste linee guida dovranno essere pubblicate nei prossimi giorni: ci si aspetta, per coerenza, che tra i requisiti richiesti ci sia anche quello di provare di essere stati vaccinati. Anche in questo caso ci pare di concludere che, se così dovesse avvenire––e ormai pare di doverlo dare per scontato––difficilmente potrebbero porsi questioni giuridiche rilevanti: il Procurement Act (1984) attribuisce ampia discrezionalità al Presidente di regolare i rapporti contrattuali con contractors e subcontractors governativi.
Più complessa appare invece la questione relativa al (per ora solo annunciato) nuovo regolamento dell’Occupational Safety and Health Administration (OSHA), un’agenzia del Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti. Secondo quanto annunciato il 9 settembre dal Presidente Biden, quest’ultima starebbe lavorando su un Emergency Temporary Standard (ETS), che obbligherebbe i datori di lavoro con più di 100 dipendenti[6] a richiedere agli stessi la prova dell’avvenuta vaccinazione o, in alternativa, un test negativo settimanale. A ben vedere, si tratterebbe di un provvedimento non dissimile a quello adottato dal governo italiano. È ancora troppo presto per esprimersi sulla legalità di una tale disposizione, specie se consideriamo che al momento questa regola è ancora in fase di sviluppo ed è attesa per le prossime settimane. Del resto, gli ETS emanati dall’OSHA non hanno mai avuto particolare fortuna negli Stati Uniti. In base all’Occupational and Safety Act essi possono essere emanati dall’OSHA, secondo un procedimento amministrativo semplificato ai minimi termini, solo se ricorrono contestualmente due circostanze: (1) i lavoratori sono «esposti ad un grave pericolo dall’esposizione a sostanze o ad agenti determinati come tossici o fisicamente dannosi o a nuovi pericoli» e (2) «tale ETS è necessario per proteggere i lavoratori da tale pericolo». Devono inoltre avere una durata non superiore a 60 giorni. Ebbene, l’OSHA in tutta la sua storia ha emanato solo 9 ETS: le Corti statunitensi hanno dichiarato l’illegittimità di 5 di essi. Questo accadrà anche con l’ETS annunciato da Biden? Staremo a vedere.
Nel frattempo, potremmo trovare una consolazione o un hobby per tutti coloro che nei mesi a venire urleranno al gombloddo geopolitico internazionale di Biden, l’Unione europea, Draghi e Soros all’urlo isterico di «non cielo dicono». Effettivamente «non cielo dicono» da più di un secolo.
[1]The Last Smallpox Epidemic in Boston and the Vaccination Controversy, 1901–1903
[2] Id.
[3] In realtà, la legge prevedeva anche un’esenzione per i bambini per i quali una certificazione medica attestasse l’inidoneità alla vaccinazione. Una simile eccezione non era invece prevista per gli adulti. V. Jacobson v. Massachussets
[4] V. nota 1.
[5]The Surprisingly Strong Supreme Court Precedent Supporting Vaccine Mandates
[6] Il numero probabilmente ha a che fare con la presunzione che si tratti di dipendenti che gestiscono rapporti interstatali, unico ambito tangibile dalle regolazioni federali
]]>Queste e tante altre sono le domande che riempiono la mente degli studenti, ma nonostante non sia una novità, ancora nessuno si mobilita per cambiare le cose. Dopo i 5 anni di scuola superiore in Italia viene richiesto di scegliere un ateneo ed una facoltà. Tutto semplice no? A quanto pare per i ragazzi no.
Secondo un’indagine del MIUR 22 ragazzi su 100 si pentono del corso scelto, facendo emergere chiaramente che qualcosa non funziona nel sistema. Il punto fondamentale è la mancanza di una adeguata transizione tra scuola superiore e università. Il ciclo di studi che inizia nella scuola materna e finisce in quella superiore, si sviluppa in modo uniforme nei passaggi dalla scuola primaria a quella secondaria di primo e secondo grado.
Nella fase terminale di quest'ultima tutavia l'orientamento e la preparazione per l'università sono demandate a scelte estemporanee delle singole scuole. E' come se l’università fosse ancora considerata appannaggio delle elite. Vuoi proseguire i tuoi studi? Bene, scegli da te e provvedi da te. Manca un ponte che potrebbe aiutare molti ragazzi a comprendere come meglio affrontare una scelta fondamentale per la loro vita e non si tiene minimamente in considerazione la possibilità di esplorare o dare la possibilità di esplorare argomenti che poi verranno approfonditi negli anni universitari.
L’università viene ancora considerata una cosa per pochi e di sicuro in Italia non si fa nulla per cambiare questo stato di cose visto che si spende per l'istruzione terziaria lo 0,3% del Pil, meno che in tutti gli altri 27 Stati membri dell'Ue.
Diverso e probabilmente più efficace è il meccanismo che caratterizza il modello anglosassone. Un anno in meno di scuola e più libertà di esplorare i propri interessi. Fin dall’inizio della ‘’high school’’ gli studenti sono tenuti a scegliere i propri corsi e le proprie materie, contando però su un gruppo di materia chiavi comuni a tutti che garantiscono una corretta formazione di base. In questo modo gli studenti sono incoraggiati a specializzarsi in ciò che più gli piace e a poter decidere se concentrarsi a fondo in una materia oppure contare su di una versatilità che garantisce l’esplorazione di nuovi interessi. Inoltre vengono anche proposti dei corsi speciali chiamati ‘’AP’’ (Advancement Placement), corsi nei quali si può avere un assaggio di un ‘’livello universitario’’ di studio, e che di solito vengono intrapresi dagli alunni più promettenti e volenterosi di ottenere crediti scolastici che poi possono essere spesi per evitare esami extra all’università.
Già da qui si nota una netta differenza, un anno in meno di studio, più libertà di esplorazione degli interessi, e un collegamento con dei corsi universitari.
Si nota un approccio che cerca di responsabilizzare i ragazzi e creare un lento ponte verso l’esperienza del ‘’college’’. Se in Italia una laurea tipicamente dura 3 anni, in America i tempi si allungano a 4. Un anno in meno di scuola superiore ma un anno in più di università, cosa ci hanno guadagnato? A differenza dei nostri studenti, gli studenti americani non devono scegliere una facoltà al momento dell’iscrizione. L’anno extra viene utilizzato principalmente per permettere l’esplorazione di diversi ambiti, che poi verranno approfonditi negli anni a seguire.
Prendendo ad esempio l’MIT, una delle università più rinomate del pianeta, uno studente ammesso non è forzato a dichiare che facoltà intende proseguire fino al secondo anno quando ci sarà la cerimonia di ‘’declare your major’’ (dichiarare la propria facoltà). E anche dopo aver scelto una facoltà, gran parte degli atenei permette di proseguire in corsi ed esami definiti ‘’minor’’, che ti permetteranno di conseguire una ‘’mini laurea’’ in un determinato settore. Per esempio uno studente americano al secondo anno di università dopo aver esplorato economia, ingegneria, e lettere antiche, decide di specializzarsi in ingegneria (che diventerà la sua ‘’major’’). Fatto ciò, al quarto anno vorrebbe anche ottenere delle competenze specifiche in marketing, saltando i vari corsi in ambiti economici che non gli interessano, scegliendo quindi di fare 4 corsi in marketing (che diventerà la sua mini laurea, anche detta ‘’minor’’). Inoltre lo studente potrebbe anche scegliere di fare più mini lauree, magari imparando anche il cinese, e l’università lo incoraggerà a farlo.
Per oggi ci fermiamo alle differenze nella scelta e l’esplorazione della propria facoltà, ma si potrebbero fare ancora molti altri parallelismi.
Ricapitolando, secondo il sistema anglosassone si preferisce fare un anno in meno di scuola superiore ma un anno in più di università. Durante la scuola superiore si dà la possibilità di esplorare i propri interessi, fino a portarli ad un livello ‘’semi-universitario’’ attraverso corsi specifici. Arrivati nel college non bisogna dichiarare la propria facoltà fin da subito, potendo esplorare diverse branche e confrontarsi con i professori. Dopo aver dichiarato la propria facoltà (major) si può sempre decidere di intraprendere delle mini lauree (minor) in competenze specifiche.
Forse in Italia dovremmo iniziare a capire che l’università non deve essere più per pochi autodidatti esperti, ma un qualcosa che deve essere normalità, in un mondo che si muove sempre più veloce.
]]>Dopo poche pagine è ben udibile la musica che suonerà l’organetto: negli anni ‘80 assieme alla Thatcher e a Reagan è arrivato un bastimento carico di “neoliberismo” e tutto è cambiato, con le aliquote scandalosamente basse per i ricchi (ma anche per il ceto medio), la riduzione del welfare, l’aumento delle diseguaglianze, «il culto mistico del “mercato autoregolato”». Di seguito avviene un tuffo spericolato, stans pede in uno, nei flutti delle politiche anglo-americane, paragonate a quelle italiane, che il “neoliberismo” non l’hanno mai visto neanche in fotografia.
Chez nous c’è stata al contrario una vera passione per il controllo e la regolamentazione, la cui radice - come hanno illustrato A. Alesina e E. L. Glaeser - è la teoria per la quale «i mercati, lasciati liberi di agire, produrrebbero una cattiva ridistribuzione dei costi e dei benefici». In pratica, però, la buro-economia è tale che sono i gruppi ipergarantiti a beneficiare della regolamentazione, anche quando non sono la parte più debole della popolazione[ii]. Per citare l’attualità, il presidente dell’Inps Tridico ha dichiarato che quota 100 è stata appannaggio soprattutto di «lavoratori maschi, nel settore pubblico e con redditi medio alti. E non sembra che abbia prodotto l’auspicato ricambio generazionale»[iii].
Avvalendosi della Breve storia del neoliberismo di David Harvey («figlioccio post-moderno di generazioni di marxisti», lo ha definito Alberto Bisin[iv]), Banti parla della «netta riduzione della pressione fiscale», responsabile di «un più magro bilancio a disposizione dei governi», da cui sarebbe derivato «un taglio progressivo e in qualche caso molto pesante della spesa pubblica»[v]. Come si evince dai molti dati accessibilissimi ovunque, quasi tutti i paesi europei hanno aumentato la spesa pubblica, e in Italia quella sanitaria, per dire, ha continuato a salire ben prima del Covid.
Più avanti troviamo i topoi gossipari delle buonuscite dei top manager italiani e degli effetti sull’ordine pubblico dell’attuale assetto economico: patologie psichiche, devianza, criminalità ecc., dimenticando, per esempio, che negli ultimi vent’anni gli omicidi in Italia sono diminuiti del 50%. Ragionevolmente, John Cochrane si è domandato quale problema rappresenti “davvero” per un bracciante californiano di Fresno o per un adolescente disoccupato di Chicago, che certo hanno vite difficili e molte grane, la disuguaglianza dell’1 per cento superiore[vi].
Come ha osservato tra gli altri Andrea Capussela[vii], il reddito degli italiani è fermo a metà anni ’90 e le cause c’entrano pochino con i modellini dei turboliberisti. La ragione si trova dentro la TFP, dipendendo soprattutto dalla produttività, la quale a sua volta è subordinata agli investimenti e all’innovazione. L’Italia, compiuta la propria convergenza tra anni ‘50 e ‘60, si è fermata quando la prospettiva della distruzione creatrice schumpeteriana ha allarmato le minoranze organizzate che nello status quo stavano ingrassando. All’origine della frenata, la debole rule of law e una classe politica slombata, disponibile più a colludere che a competere, manovrabile dalle suddette cricche. Ha contato del resto anche l’ignavia di un’opinione pubblica ritornata fulmineamente alla beata ignoranza dopo essere stata svezzata da una scuola scadente, lasciata alla mercé di tecnocrati e bidelli di procedure, nonostante sia passato quasi mezzo secolo da quando Karl Weick mostrò in un lavoro ormai classico le differenze insormontabili tra l’organizzazione aziendale e quella dell’istruzione[viii]: correlation is not causation, ma qualche sospetto resta.
Il pamphlet dello storico prosegue con riferimenti a Robert Stiglitz e Thomas Piketty, la cui terza legge del capitale prevede che il suo tasso di rendimento superi quello di crescita complessivo del reddito: r > g[ix]. Secondo Debraj Ray, indubbiamente c’è da ancora dibattere sulla diseguaglianza, visto che per es. le riallocazioni sollecitate dalla crescita irregolare possono essere gestite meglio dai ricchi, che hanno tasche abbastanza grandi per finanziare il capitale umano dei figli; tuttavia aggiunge una quarta legge non trascurabile, secondo cui, crescita irregolare o meno, c’è una tendenza a lungo termine del progresso tecnologico al labor displacement, un punto cruciale che c’entra molto con gli skill acquisibili in un sistema di istruzione funzionante come si deve: passare al popolo informazioni un po’ orecchiate è un bel sintomo di scuola efficiente?
Bisin, dopo aver sopportato a lungo le dicerie sulla globalizzazione come causa della povertà nei paesi in via di sviluppo, ha perso la pazienza: «in realtà questo è falso. Gli indici di diseguaglianza del reddito a livello mondiale sono scesi drammaticamente negli ultimi decenni, in coincidenza con la globalizzazione». Semmai andrebbe precisato che «chi lamenta gli effetti della globalizzazione non ha a cuore le sorti del mondo e dei poveri, ma solo quelle di una piccola parte della classe media dei paesi ricchi»[x].
A pensar male si fa peccato eccetera, ma il polemico e confuso documento del Laboratorio degli studenti dell’Università di Pisa contro il mondo cinico, baro e competitivo (pubblicato nella rivista “Gli Asini”, diretta da Goffredo Fofi[xi]) non sarà anche un risultato - shakerato con neoitaliano e schwa - di seminari di questo genere? Gli universitari la mettono giù dura, deplorando «la cristallizzazione delle disuguaglianze», «il mantenimento di un ordine basato su autorità e comando», «l’incentivazione di forme di competitività estrema», and so on. E avranno forse qualche motivo, in apnea come sono nell’iperconnettività, booster di risentimento e di polarizzazione - come ha rammentato Tom Nichols - perché, incoraggiando un’intimità farlocca e alimentando il pettegolezzo universale, sembra ingigantire l’aggressività da cortile[xii].
Secondo Banti l’idea che ogni esperienza, attività professionale, forma del sapere possa essere tradotta in una competizione venalissima risalirebbe «ai primordi della televisione» (anche nella Rai democristiana e monacale di Bernabei?) e troverebbe negli sport il modello par excellence, avvalorando implicitamente la certezza «che la competizione archetipica, quella combattuta dagli imprenditori sul libero mercato, sia il migliore dei modelli ai quali ci si può ispirare»[xiii]. C’è da chiedersi come abbiano fatto i nostri tenured ad arrivare alla cattedra senza concorrere e lasciare al palo qualcun altro: che so, distribuendo bastoncini di incenso e tenendo workshop di campane tibetane?
E ancora: serpeggiando nel pamphlet la vecchia nozione elitista che la massa sia ottusa, stordita e pronta a seguire i pifferai invece di fiondarsi nelle aule universitarie per inalare aerosol socialisteggianti, si esclude possa essere tutt’altro, una folla costituita di individui che hanno lo spazio per valutare e decidere, soprattutto sui loro consumi e sul loro stile di vita; humanitiesfree (vedi sopra), coatti e consumisti, può darsi, ma era meglio prima del “neoliberismo”, al tempo dei trenini “accelerati”? Infine, le pagine sull’Italia subito dopo l’esecrazione dell’economia americana non potrebbero alludere surrettiziamente a un’analogia tra due sistemi diversi? Veramente nel Belpaese il grosso del PIL è direttamente o indirettamente intermediato dalla politica, una buona percentuale della Borsa di Milano è occupata da aziende statali e partecipate, il welfare è notoriamente spendaccione, troppo sbilanciato sulle pensioni, e tra le prime 50 società mondiali per qualità dell’innovazione non c’è nessuna azienda italiana. Bisin ha rilevato con irritazione come il convincimento, tracimato in tutti i media, secondo cui l’economia del nostro paese sarebbe il risultato di un certo numero di anni di liberismo rappresenti «un bell’esempio del disprezzo profondo per i dati, i numeri, la statistica, la realtà empirica». Chiunque abbia studiato i grafici della spesa nazionale, o del carico fiscale, o dei sussidi alle grandi imprese negli ultimi vent’anni, «non può che vedere linee tendenzialmente crescenti», cioè non proprio il verbo liberista[xiv].
Viva gli anni ‘50, dunque, quando ancora si riverivano i cattedratici e le aliquote marginali più alte erano confiscatorie? È forse la nostalgia di un modello statico e “superfisso”[xv] che, se avesse prevalso, «oggi ci vedrebbe pendolari a bordo di carrozze a cavalli e molti di noi impegnati a spegnere i lampioni alle prime luci dell’alba»?[xvi]. Non è che rispunta l’update della vecchia battuta inglese sulla vera ragione dell’atteggiamento reazionario degli intellettuali di Oxbridge dopo le riforme di Attlee e Beveridge, perché trovatisi costretti a finanziare il nuovo welfare, a dire addio alla governante e all’autista, e a farsi la spesa da soli?
Il meccanismo del capitale che riproduce capitale accumulando tassi di rendimento sempre più alti in direzione asintotica non è più molto attendibile, perché altrimenti oggi i miliardari di Forbes sarebbero ancora i Rockfeller e i Krupp, mentre lo sono i Zuckerberg, i Gates e i Bezos, gli inventori di nuovi beni e servizi all’interno di un prepotente cambio tecnologico, alla larga dalle rendite statali e parassitarie: è significativo che nella biografia di Steve Jobs firmata da Walter Isaacson non compaia un nome che sia uno di un politico. Lo switch digitale sembra rappresentare per Banti quasi un cataclisma o comunque una fatalità, non sfiorandolo il sospetto che qualcuno molto vispo lo abbia ideato e sviluppato, incamerando profitti e redistribuendo molte risorse fiscali. Mentre agli italiani bastava che ce stava ‘o sole e che c’era rimasto ‘o mare (l’homofestivus satireggiato da Alexandre Kojève c’est nous), qualcun altro sulle coste del Pacifico ci dava dentro come un dannato nei garage con gli algoritmi e i kernel: perché noi no?
I problemi ci sono, eccome, ma vanno trattati iuxta propria principia: per es. chiedersi se i Pareto improvements funzionino o i side payments nella concorrenza siano realizzabili, ecc. È ragionevole puntare in termini sociologici all’eguaglianza, postulando un’economia piallata, senza incentivi, ferma ai tempi che Berta filava? E anche il “merito”, ahinoi, è categoria intricata, allotria, para-religiosa o etica; come ha argomentato Robert Nozick[xvii], meglio evitare questo bias professorale, esclusiva dei «wordsmith intellectuals», alloggiati «within the formal, official social system of the schools, wherein the relevant rewards are distributed by the central authority of the teacher». E comunque, già a scuola, nei cortili, si era formato «another informal social system», dove «the greatest rewards did not go to the verbally brightest». Come a dire: egregio dottore, il successo se ne frega del cocco delle prof democratiche, posandosi dove e quando vuole.
Purtroppo è cambiata, e in fretta, la composizione del capitale, che è un altro paio di maniche; guai a chi ha continuato a confidare nel vecchio capitalismo a scarso tasso di innovazione, a conduzione familiare, fondato su ambigue relazioni con i decisori politici[xviii], su vari tipi di regulatory capture e sul “terziario arretrato” a zero valore aggiunto, con costi americani e servizi levantini.
Le “soluzioni”, i segreti per la prosperità e la crescita - ha concluso Cochrane - sono elementari, ben noti, e old-fashioned: diritti di proprietà, rule of law, burocrazia efficiente, libertà politica ed economica. Anche un governo dignitoso, come no, che provveda a buone strade, scuole decorose e leggi necessarie al bene comune. «Confiscatory taxation and extensive government direction of economic activity are simply not on the list»[xix].
[i] Roma-Bari, Laterza 2020.
[ii] A. Alesina e E. L. Glaeser, Un mondo di differenze, Roma-Bari, Laterza 2005, p. 43.
[iii] L. Cifoni, Pensioni, il presidente dell’Inps Tridico: «Ora flessibilità senza far saltare i conti», in “Il Messaggero”, 2 agosto 2021.
[iv] A. Bisin, Modificare le preferenze del popolo? No grazie, in noisefromamerika.org, 15 luglio 2010. Il libro di Harvey è tradotto presso il Saggiatore, 2007.
[v] A. M. Banti, La democrazia dei followers, cit., p. 4.
[vi]Why and How We Care about Inequality, in Conference on Inequality in Memory of Gary Becker, 25-25 settembre 2014, Hoover Institution, Stanford University; tr. it. in noisefromamerika.org.
[vii] A. Capussela, Declino. Una storia italiana, Milano, LUISS 2019.
[viii] K. Weick, Educational Organizations as Loosely Coupled Systems, in “Administrative Science Quarterly”, 1976, n. 21, pp. 1-19.
[ix] “But saying that r > g implies that capital income will grow faster than labor income is a bit like comparing apples and oranges” (D. Ray, Nit-Piketty. A comment on Thomas Piketty’s Capital in the Twenty First Century, May 23, 2014, in https://pages.nyu.edu/).
[x] A. Bisin, Favole e numeri. L’economia nel paese di santi, poeti e navigatori, Milano, EGEA 2013. Ha osservato Serena Sileoni che, avendo smesso da tempo di intimare allo Stato di mettere giù le mani, come si fa con i lumaconi della mano morta in autobus, «abbiamo scambiato il diritto di essere liberi con la richiesta di essere protetti. Anzi, più esso mostra i suoi limiti, […] più nascono falsi demoni da cui pretendiamo che ci ripari: l’innovazione, la globalizzazione, l’immigrazione» (S. Sileoni, Introduzione, in AA.VV., Noi e lo Stato. Siamo ancora sudditi?, a cura di S. Sileoni, Torino, IBL Libri 2019, pp. 14-5).
[xi]La violenza formativa all’università e non solo, in “Gli Asini”, nn. 90-91, agosto-settembre 2021.
[xii] T. Nichols, Our Own Worst Enemy. The Assault from within on Modern Democracy, New York, Oxford University Press 2021.
[xiii] A. M. Banti, La democrazia dei followers, cit., p. 48.
[xiv] A. Bisin, Favole e numeri, cit.
[xv] Sarcastico neologismo di Sandro Brusco, «un’interpretazione particolarmente rozza dei modelli di Sraffa e Leontief» (cfr. S. Brusco, Perché si dicono tante sciocchezze nel dibattito economico in Italia, noisefromamerika.org, 25 novembre 2011).
[xvi] M. Seminerio, in appendice a L. Oliveri, Addio a uno smart working mai nato, phastidio.net, 2 settembre 2021.
[xvii] R. Nozick, Why do Intellectuals oppose Capitalism?, in Socratic puzzles, Cambridge (Ma), Harvard University Press 1997.
[xviii] «Per l’impresa diventa più importante saper leggere nei mille cavilli dei bandi pubblici di erogazione dei contributi che conoscere le caratteristiche di prodotto o servizio più coerenti con i bisogni del consumatore; avere una mappa dei corridoi del potere più che dei nuovi mercati» (C. Amenta, L. Lavecchia, Mezzogiorno: sudditi o mantenuti?, in AA.VV., Noi e lo Stato, cit., p. 229).
[xix]Why and How We Care about Inequality, cit.
]]>Non si può tuttavia fare a meno di notare che l’appello, in sé e per sé considerato, presenti numerose criticità: una su tutte, quella relativa alla finalità. Se, infatti, l’appello è volto ad aprire un «serio e approfondito dibattito» sul merito, non si capisce perché i sottoscrittori non abbiano esitato a fare largo uso di pseudo-argomenti e di false analogie per illustrare la loro posizione. Giova, a questo punto, proporre un’analisi puntuale del testo dell’appello per capire meglio di cosa stiamo parlando.
L’appello inizia con queste parole:
«Dal primo settembre per frequentare le università italiane, sostenere gli esami e seguire le lezioni si deve essere in possesso del cosiddetto “green pass”. Tale requisito deve essere valido per docenti, personale tecnico, amministrativo e bibliotecario e studenti e ciò estende, di fatto, l’obbligo di vaccinazione in forma surrettizia per accedere anche ai diritti fondamentali allo studio e al lavoro, senza che vi sia la piena assunzione di responsabilità da parte del decisore politico».
Ora, se pure è vero che la scelta del governo Draghi di procedere con il “green pass”, anziché imporre tout-court un obbligo vaccinale è censurabile (ed effettivamente da chi scrive spesso è stata criticata), non si può condividere l’affermazione, presentata come consequenziale, che ciò sia attribuibile alla volontà del decisore politico di sottrarsi alla «piena assunzione di responsabilità». Anzitutto, sarebbe stata auspicabile maggiore chiarezza da parte dei sottoscrittori: a quale “assunzione di responsabilità” il decisore politico avrebbe voluto sottrarsi in questo modo? Verrebbe da pensare che pensino alle responsabilità derivanti dai danni subiti dai soggetti obbligati, a causa degli eventuali effetti collaterali derivanti dalla vaccinazione. Del resto, che un trattamento sanitario, qual è l’obbligo vaccinale, possa essere imposto per legge inter alia solo allorquando «nell'ipotesi di danno ulteriore alla salute del soggetto sottoposto al trattamento obbligatorio - ivi compresa la malattia contratta per contagio causato da vaccinazione profilattica - sia prevista comunque la corresponsione di una "equa indennità" in favore del danneggiato» (v. Corte cost. 5/2018) è principio praticamente incontestato nella giurisprudenza costituzionale, a partire dall’inizio degli anni Novanta e successivamente trasposto in legge dello Stato, la Legge n. 210 del 1992.
Nondimeno, ciò non vale a dire l’opposto, ossia che laddove mancasse un trattamento sanitario disposto per legge, allora lo Stato sarebbe anche esente dall’obbligo di indennizzo. È, del resto, la Corte costituzionale nella sentenza citata poco sopra ad aver ribadito che l’indennizzo ai soggetti danneggiati in modo irreversibile da vaccinazioni sarebbe «comunque dovut[o], in applicazione di quello che è un principio generale dell’ordinamento (…) con riguardo alle vaccinazioni sia obbligatorie, sia raccomandate».
Stando così le cose, non si capisce bene a quale «piena assunzione di responsabilità» facciano riferimento i sottoscrittori dell’appello.
L’appello poi continua in questi termini:
«Molti tra noi hanno liberamente scelto di sottoporsi alla vaccinazione anti-Covid-19, convinti della sua sicurezza ed efficacia. Tutti noi, però, reputiamo ingiusta e illegittima la discriminazione introdotta ai danni di una minoranza, in quanto in contrasto con i dettami della Costituzione (art. 32: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”) e con quanto stabilito dal Regolamento UE 953/2021, che chiarisce che “è necessario evitare la discriminazione diretta o indiretta di persone che non sono state vaccinate” per diversi motivi o “che hanno scelto di non essere vaccinate”.»
Sul ritenere una misura come il green pass ingiusta, nulla quaestio: ciascuno ha infatti diritto di manifestare la propria contrarietà alle disposizioni legislative dello Stato, e di questo non si discute. Meno legittimo, quantomeno da un punto di vista di onestà intellettuale, è inventarsi che detta misura sia in contrasto con la Costituzione italiana o con il diritto europeo.
Da un lato, infatti, i sottoscrittori citano il secondo periodo art. 32 della Costituzione, omettendone artatamente il primo che, come è noto, dispone: «[l]a Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti» (corsivo mio). Ad ogni modo, l’interpretazione del secondo periodo non è mai valsa a significare che qualsiasi tipo di trattamento sanitario obbligatorio, specie l’obbligo vaccinale, sia vietato[1], ammesso e non concesso che in relazione all’obbligo di green pass si possa poi parlare di trattamento sanitario.
Dall’altro, poi, i sottoscrittori richiamano––in modo, se possibile, ancora più subdolo––il Regolamento UE n. 953/2021. Del resto, non si tratta certo di una novità dal momento che la rivista giuridica Questione giustizia, espressione della corrente Magistratura Democratica aveva sollevato il medesimo argomento (spingendosi addirittura ad affermare che il giudice italiano avesse il dovere di disapplicare la normativa sul green pass). Argomento, peraltro, magistralmente smontato dal costituzionalista Roberto Bin il quale ha ricordato che, in primo luogo, il riferimento alla necessità di evitare la discriminazione «diretta o indiretta» di persone che, per scelta, non si sono vaccinate è contenuto non già nella parte dispositiva del Regolamento, ma nei c.d. «Considerando» (precisamente al n. 36) che, com’è noto, hanno una funzione tuttalpiù di ausilio interpretativo ma «non contengono enunciati di carattere normativo»[2]. In secondo luogo, come fa notare sempre Bin il Regolamento UE n. 953/2021 in realtà non regola il green pass “nazionale”, introdotto dai singoli Stati membri, bensì del c.d. green pass “europeo”, avente la diversa finalità di facilitare la libertà di circolazione dei singoli cittadini tra Stati membri, cosicché il suo richiamo in relazione alla materia di cui tratta l’appello risulta non pertinente e, soprattutto, inconcludente.
L’appello continua poi con una specificazione:
«Nello specifico della realtà universitaria, i docenti sottoscrittori di questo pubblico appello ritengono che si debba preservare la libertà di scelta di tutti e favorire l’inclusione paritaria, in ogni sua forma. Nella situazione attuale, o si subisce il green pass, oppure si viene esclusi dalla possibilità di frequentare le aule universitarie e, nel caso dei docenti, si è sospesi dall’insegnamento: tutto questo viola quei diritti di studio e formazione che sono garantiti dalla Costituzione e rappresenta un pericoloso precedente».
Ora, al di là dell’ilarità che suscita il riferimento all’«inclusione paritaria» in un appello firmato da rappresentanti della categoria dei docenti universitari, risulta stucchevole il continuo riferimento ad una presunta violazione dei diritti costituzionali. Senza nemmeno richiamare il concetto, noto a tutti, del bilanciamento dei diritti (nel caso di specie, si potrebbe argomentare che il diritto allo studio e formazione è stato bilanciato con il diritto alla salute, di cui all’art. 32 primo periodo), forse che nell’ultimo anno accademico non si siano privati gli studenti universitari meno abbienti (i quali, a ragion veduta, non sempre potevano contare di una connessione veloce e di un dispositivo individuale con cui seguire le lezioni) del suddetto diritto?
E, se appunto, la didattica a distanza dovesse tornare ad essere la normalità, non si perpetrerebbe––seguendo il ragionamento dei sottoscrittori––una violazione ancora più grave degli stessi diritti qui citati? Ai lettori la non ardua sentenza.
«In sostanza, la “tessera verde” suddivide infatti la società italiana in cittadini di serie A, che continuano a godere dei propri diritti, e cittadini di serie B, che vedono invece compressi quei diritti fondamentali garantiti loro dalla Costituzione (eguaglianza, libertà personale, lavoro, studio, libertà di associazione, libertà di circolazione, libertà di opinione). Quella del “green pass” è una misura straordinaria, peraltro dai contorni applicativi tutt’altro che chiari, che, come tale, comporta rischi evidenti, soprattutto se dovesse essere prorogata oltre il 31 dicembre, facendo affiorare alla mente altri precedenti storici che mai avremmo voluto ripercorrere.»
Non si vuol nemmeno commentare il riferimento a «precedenti storici che mai avremmo voluto ripercorrere», perché è fin troppo chiaro a cosa alludano i sottoscrittori e ci verrebbe da rispondere con un sonoro invito a vergognarsi.
Nondimeno, i sottoscrittori avrebbero quantomeno l’onere di spiegarci in che modo il green pass rappresenterebbe una compressione della «libertà di opinione» (SIC!). Chi scrive si sta interrogando da qualche ora sul significato da attribuire a questa affermazione, senza addivenire ad una soluzione: l’obbligo di green pass forse ha impedito a 300 universitari di giungere insieme ad un accordo, pubblico e ampliamente pubblicizzato, su un appello in cui ad esso manifestano opposizione? Forse impedisce a numerose schiere di scettici, e nei confronti del vaccino e nei confronti del green pass (tra questi ultimi, permette di annoverare me stesso) di esprimersi tutti i giorni sui social, nei media e nelle televisioni?
L’appello si conclude con l’auspicio che
«si avvii un serio dibattito politico, nella società e nel mondo accademico tutto (incluse le sue fondamentali componenti amministrativa e studentesca), per evitare ogni penalizzazione di specifiche categorie di persone in base alle loro scelte personali e ai loro convincimenti, per garantire il diritto allo studio e alla ricerca e l'accesso universale, non discriminatorio e privo di oneri aggiuntivi (che sono, di fatto, discriminatori) a servizi universitari. Chiediamo pertanto che venga abolita e rifiutata ogni forma di discriminazione».
Sulla finalità dell’appello, specie laddove vuole ingenerare un dibattito serio, abbiamo già detto in apertura. Ci si permetta una considerazione polemica sulla chiusa dell’appello. Riteniamo, in particolare, di poter chiedere conto ai sottoscrittori, oggi così attivi contro «ogni forma di discriminazione», del loro silenzio relativamente alle vergognose vicende occorse nel febbraio del 2021 quando, in via prioritaria rispetto a persone che più ne avrebbero avuto bisogno, il personale universitario di alcune regioni riceveva la prima dose del vaccino anti-covid, pur continuando con la didattica a distanza. Forse che anche quella non era una forma di discriminazione, peraltro totalmente irragionevole viste le circostanze?
Ci si permetta di concludere ricordando una cosa. È condivisibile l’intento dei sottoscrittori di superare un dibattito fortemente ideologizzato. Del resto, la polarizzazione del dibattito pubblico sul tema del green pass e sull’eventualità dell’introduzione di un obbligo vaccinale sta raggiungendo livelli insopportabili. Le conseguenze, a breve e a lungo termine, di questo modo di procedere sono state esposte in una riflessione grandemente interessante pubblicata sull’edizione domenicale del Foglio da Alberto Mingardi e Gilberto Corbellini.
Nondimeno, riteniamo che il modo attraverso cui questo intento è stato portato a termine nell’appello qui preso in considerazione sia completamente deleterio. È inaccettabile che, per sostenere una posizione politica, del tutto legittima, si debba ricorrere all’uso di falsità e di errori metodologici da parte di persone quali i docenti universitari che, si ritiene, dovrebbero essere più d’ogni altro attente al sano svolgimento del dibattito pubblico, scevro da qualsiasi tipo di strumentalizzazione.
Concludo ribadendo che non ho mai messo in dubbio il rispetto umano, prima ancora che accademico, per coloro che in buona fede hanno sottoscritto questo appello. Con alcuni di loro in passato ho condiviso altre battaglie, e spero di farlo anche in futuro.
Ma questo appello è davvero grottesco.
[1] Basti qui citare ancora una volta la sentenza n. 5 del 2018, nella quale la Consulta ha individuato sulla base di una costante giurisprudenza costituzionale i tre requisiti che una legge deve avere per poter imporre un trattamento sanitario obbligatorio. Si rimanda, per approfondire, alla lettura del testo della sentenza disponibile qui
[2] Vedasi la spiegazione del professore di Diritto dell’Unione europea, Antonino Alì: http://www.dirittoue.info/2007/10/15/considerando/
]]>Prima di tutto una semplice constatazione empirica: se fosse così semplice e privo di conseguenze non ci sarebbe Paese al mondo che non seguirebbe l'esperienza del Giappone. Basterebbe espandere base monetaria sempre, non solo quando le condizioni macro lo esigono, e i problemi di scarsità di risorse scomparirebbero per magia. Sarebbe persino inutile pagare le tasse, ci penserebbe la banca centrale (o il dipartimento del tesoro) a finanziare ogni spesa pubblica. Così non è. I samurai del debito dovrebbero porsi delle domande e provare a rispondere del perché non avviene.
Secondo la World Bank il debito pubblico giapponese raggiungerà alla fine del 2021 il 256,5%, restando poi costante sopra il 250% per il quinquennio successivo. Il "misero" 159,8% italiano impallidisce.
Molte volte abbiamo spiegato perché un certo rapporto fra debito pubblico e prodotto interno lordo è accettabile o no, a prescindere dal suo montante assoluto. In sintesi si può rispondere considerando la sua sostenibilità nel breve, medio e lungo periodo. La sostenibilità dipende essenzialmente dalla stabilità dei prezzi, dalla composizione del debito, dagli asseti finanziari e dagli spazi di manovra fiscale in mano al governo. Infine, ma non è un dettaglio, dai criteri contabili utilizzati per il calcolo del debito.
Parto da quest'ultimo punto: se applicassimo al Giappone i criteri contabili EU SEC 2010, contabilizzando le passività delle prefetture come sono contabilizzati i debiti delle nostre amministrazioni locali, il debito pubblico giapponese si ridurrebbe di una ventina di punti percentuale. Ai fini statistici questo conta poco ma, ai fini della valutazione della solvibilità del debitore da parte del creditore professionale, il dato è significativo.
La stabilità dei prezzi giapponese è leggendaria non meno del rapporto debito pil. Anzi per 30 anni ormai le autorità giapponesi hanno tentato, quasi sempre inutilmente, di uscire dalla trappola della deflazione tentando di importare l'inflazione che neanche con la monetizzazione arrivava. Avere alta inflazione significa svalutare il debito. In assenza, strutturale, di inflazione, gli operatori sono sicuri che il debito acquistato non si svaluterà.
Un elemento rilevante, un po' da nerd ma che i samurai del debito dovrebbero avere la decenza di valutare, è la composizione del debito inteso come liquidabilità degli asset detenuti dagli stakeholder pubblici. Una parte consistente, misurata nel 2017 in olte 800 miliardi di dollari, è composta da attività finanziarie e non finanziarie liquidabili a pronti. Se, in caso di crisi dei debiti sovrani simile a quella che ha colpito l'eurozona nel 2011-2012, le autorità monetarie giapponesi volessero liquidare questi asset, il rapporto debito pil scenderebbe intorno al 150%.
Il debito pubblico italiano, e ora non solo italiano, è considerato a rischio soprattutto perché gli spazi di manovra fiscale sono ridotti al minimo. Al netto di un fisco iniquo e inefficiente (considerazioni che svilupperemo quando parleremo di riforma dell'Irpef) la pressione fiscale in Italia e nei Paesi UE è abbondantemente sopra il 40% e in alcuni casi sfiora il 50% del prodotto interno lordo. Applicando queste percentuali ai tax payers effettivi (nei nostri criteri contabili è compresa l'economia sommersa che vale 13 punti di PIL) il prelievo fiscale è molto al di là della metà della ricchezza prodotta. Il Giappone per contro ha una pressione fiscale appena sopra il 30% e applica aliquote per le imposte indirette che solo da poco hanno raggiunto l'8%.
Un altro elemento di differenza sostanziale è il sistema pensionistico. Ovvero la spesa pubblica differita che si dovrà finanziare con il prelievo fiscale e contributivo. Il sistema pensionistico giapponese è sostanzialmente basato sul secondo pilastro, ovvero i fondi pensione. Non è un caso che il principale asset dei fondi pensione siano i titoli di debito pubblico. Si innesta un circolo virtuoso di sostegno della spesa futura perché nessuno ha interesse a tagliare il ramo su cui 130 milioni di giuapponesi sono seduti. Contemporaneamente i criteri di accesso alle prestazioni pensionistiche sono disincentivanti per chi aspira ad un assegno in età precoce. In Giappone si può andare in pensione a partire da 67 anni ma ci sono forti incentivi per posticipare questo momento sino al compimento dell'80° anno di età.
Il mix di queste condizioni fa sì che un Paese con una popolazione la cui età media è (appena) più alta della nostra abbia una spesa pensionistica pari al 9,6% contro una spesa pensionistica italiana del 16,8% e una spesa pensionistica media in Europa del 13%.
In conclusione, anche tralasciando le valutazioni sulla struttura sociale, la produttività del lavoro e dei fattori della produzione e tutte le peculiarità di un Paese che è lontano da noi non solo geograficamente, attenendosi a strettissimi criteri contabili il debito pubblico giapponese è non più rischioso di quello italiano e/o europeo pur avendo un numeratore che appare abnorme.
Anni di politiche monetarie accomodanti hanno eccitato gli animi dei nostri samurai del debito, dimenticando che la credibilità di una banca centrale, sia essa BCE o FED, si ottiene anche attraverso un dosaggio attento dell'espansione monetaria; e nel mondo reale la credibilità della banca centrale è indispensabile alla credibilità del Paese.
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In questo scorcio di legislatura caratterizzato dalla centralità dei fondi del NGEU, il PD ha elaborato altre due proposte: la riforma dell'IRPEF e la Dote ai diciottenni. Ma se la prima, frutto anche del lavoro dell'indagine conoscitiva presso la Commissione Finanze della Camera, presenta alcuni elementi interessanti (i.e. Testo Unico del fisco, riordino e sostanziale cancellazione delle micro tasse) la Dote ai diciottenni, elevata a misura bandiera da Enrico Letta, imbarca acqua sotto tutti i profili; si veda qui.
L'ultima che ho avuto modo di leggere, non una proposta ma una misteriosa dichiarazione d'intenti venuta fuori nell'ambito dei gruppi di discussione denominati Agorà Democratiche recita così:
“Ora stanno arrivando i fondi del PNRR. Quelle risorse ci permetteranno di dire che Paese vogliamo: un Paese inclusivo, digitalizzato, ecosostenibile. In questo abbiamo l’occasione per rimettere al centro la montagna.”
Probabilmente i relatori del PD dovevano captare la benevolenza delle comunità montane o di qualche guida alpina, altrimenti non si spiega come al centro del pluriennale piano di ripresa possa esserci non la competitività, non il lavoro, non il miglioramento dei servizi e della burocrazia, bensì la montagna con i suoi (splendidi) sentieri. In assenza per ora di dettagli specifici, provo a capire cosa intenda il PD.
Fino ad ora la montagna, latu sensu, aveva beneficiato dei contributi previsti dal Decreto Ristori e dal Decreto Sostegni bis per complessivi 730 milioni di euro. Erano fondi destinati a ristorare per la mancata apertura degli impianti durante il lockdown i comuni, i gestori degli impianti di risalita e i maestri di sci. Ma la storia dei contributi pubblici alla montagna non inizia certo con la pandemia.
Per decenni fra gli enti pubblici direttamente finanziati con la fiscalità generale ci sono state le Comunità Montane. Gli ultimi due decenni sono stati abbastanza travagliati per questa forma di enti pubblici. Travolti dall'onda di sdegno anticasta per via di clamorosi abusi (abbiamo avuto comunità montane nei pressi delle spiagge, soprattutto calabresi), furono sostanzialmente tagliate dalla legge di bilancio 192/2009 uscendo dal finanziamento centrale per entrare in quello regionale. Un episodio divertente, ma non nuovo per chi "frequenta" l'amministrazione pubblica, è recentissimo: le cessate Comunità Montane il primo gennaio 2021 sono state ridenominate Comunità di Montagna.
Per quanto riguarda il PNRR i territori montani beneficeranno di 798 milioni erogati dalla BEI per favorire il turismo. Nell'ambito della misura MC2C1 è prevista la creazione di "green communities" per la gestione del patrimonio forestale e delle risorse idriche, la produzione di energia da biomasse e biogas e la gestione di edilizia moderna. Nell'ambito delle risorse complessive destinate dal Piano Nazionale stiamo parlando grosso modo dello 0,3%. Un'inezia.
Dunque cosa intendono Letta e il suo PD?
Forse uno sviluppo sostenibile fondato sullo spopolamento delle città e il ripopolamento dei piccoli comuni di montagna? Se è così, non siamo tanto lontani dai tentativi di trasferimento forzato di epoca fascista. E perché la montagna e non le coste o la campagna? Perché ogni desiderio di una comunità, anche legittimo, deve essere finanziato con denaro pubblico? Perché gli agenti economici, produttori o cittadini consumatori, dovrebbero fare scelte decise dalla comand economy di via XX Settembre?
Come scrivevo sopra, quel che resta delle vecchie comunità montane ricade sotto la sfera legislativa regionale. Ogni regione può utilizzare i propri fondi per valorizzare le aree che ritiene di maggior interesse e con maggiori possibilità di generare valore aggiunto. Detto altrimenti sono i territori che si devono preoccupare dei territori. Questa smania da bulimia di fondi pubblici finirà come sempre col far male a quegli stessi territori. Inoltre, lo ricordava qualche settimana fa lo stesso Draghi in parlamento, abbiamo una responsabilità enorme nell'utilizzo di fondi prestati dai nostri partner europei.
Per quanto riguarda la comunicazione dei partiti, si tratta della solita tentazione fortissima di dire qualcosa che piaccia all'interlocutore di turno, nella fattispecie i sindaci e i rappresentanti di quelle aree. Non c'è, ripeto non c'è, nel PNRR alcuna centralità della montagna, bensì ci può essere niente altro che un progetto coerente di sviluppo dell'economia e di riduzione delle disuguaglianze territoriali. Questa retorica serve solo ad ingannare i cittadini.
Quello che vien da chiedersi, non senza un montante sconforto, è quando vedremo un partito politico, o anche solo un parlamentare, fare una proposta di politica economica che abbia almeno un senso; a sinistra come a destra.
]]>I dati, provenienti soprattutto da Israele, riportano che, a partire dalla fine di giugno, i vaccinati e i non vaccinati avrebbero grosso modo le stesse chance di infettarsi, diventando positivi ai test che rivelano l’infezione da COVID-19.
I dati di Israele sono interessanti per due motivi:
Da noi, in Italia, nonostante lo si chieda dall’aprile del 2020, i dati vengono proposti sempre in modalità eccessivamente accorpata: sembra che le istituzioni temano di fornire i dati grezzi agli studi degli analisti indipendenti. Ma di questo parleremo in chiusura.
Nota tecnica: nel seguito useremo il concetto di “Efficacia vacinale”, una misura (tra le tante, ma a nostro avviso la più ragionevole e sintetica) di quanto il vaccino “protegga” da un evento come il contagio [la misura è la stessa che viene rilevata nei trial dei vaccini, con la differenza che, in quel caso, i due gruppi di test (quelli a cui viene somministrato il vaccino o il placebo) sono selezionati su base statistica]. L’evento può, appunto, essere il contagio (come nel caso di questo articolo), l’ospedalizzazione, la terapia intensiva o la morte. A questi eventi più tragici faremo un breve riferimento alla fine. La nostra attenzione si focalizza sul contagio, anzitutto, perché questo ha implicazioni abbastanza drammatiche, a nostro avviso, per il controverso “GreenPass”.
Ma è davvero così? Si può parlare di svendita per Monte dei Paschi? Assolutamente no.
La terminologia è importante: si ha una svendita solo se si vende per un valore inferiore a quello reale e il caso in esame – come è emerso nella chiacchierata di qualche giorno fa tra Mario Seminerio e Costantino de Blasi – è di una tale criticità che si potrebbe rinominare la banca in Monte Popolare delle Sofferenze, ovvero Populista delle Sofferenze.
Guardiamo in faccia la realtà.
La banca arriva da un 2020 in perdita, con ricavi in discesa che si sommano al peso dell’attività di derisking del proprio portafoglio crediti: negli ultimi anni sono stati diversi i miliardi di sofferenze e inadempienze probabili ceduti (con l’intervento ultimo di AMCO, società statale nata come bad bank del Banco di Napoli nel 1997), ma le prospettive – vista la situazione Covid – rimangono tutt’altro che rosee in termini di qualità creditizia.
A ciò si aggiungono poi gli esisti degli ultimi stress test: in caso di scenario avverso – quest’anno concretizzato in un prolungamento dell’impatto del Covid con un periodo di tassi d’interesse bassi per più tempo – la banca rischierebbe di finire con il c.d. CET1 addirittura negativo da qui al 2023, un rischio non nuovo ai vertici dell’Istituto tanto da aver già previsto nel c.d. “capital plan” un aumento di capitale da 2,5 mld.
Quanto sopra in realtà, non sorprende più di tanto, vista che la stessa partecipazione detenuta oggi dal MEF (al 31/12/2020 pari al 64,23%) è figlia di quella ricapitalizzazione precauzionale da 5,4 mld operata nel 2017 in conseguenza all’incapacità di MPS di rafforzare il patrimonio tramite il privato, a seguito degli esiti degli stress test del 2016. Un passaggio questo fondamentale dell’intera vicenda MPS visto che tale intervento venne autorizzato dalla Commissione Europea con dei paletti ben precisi, tra cui la cessione di tale partecipazione entro un termine preciso (termine ultimo aprile 2022 con l’approvazione dei conti 2021).
Per inciso, la cessione non è mai stata una novità dell’ultima ora, visto che nel corso degli anni si sono sentite le proposte più disparate per risolvere la situazione, uscite che per certi versi fanno sorridere visto che è la stessa politica ad essere stata fonte di crisi per MPS.
Sta di fatto che ad oggi solo Unicredit – dopo una resistenza non irrilevante – si è fatta avanti per acquisire MPS, con una proposta che però sarà tutt’altro che a costo zero per i contribuenti e che assomiglia sempre più al caso delle popolari venete acquisite da Intesa, fermo restando che qui non è mai stato dichiarato lo stato d’insolvenza vista la mancanza di presupposti.
Mustier – ex CEO di Unicredit – si era opposto più volte all’acquisto dell’istituto, il che è del tutto comprensibile: tali operazioni di salvataggio non sono una novità per il nostro sistema bancario, ma presentano sempre il rischio che la malattia del “comprato” sia tale che il compratore non sia così forte da non rimanerne infetto, facendo degenerare ulteriormente la situazione.
In tal senso, col nuovo piano industriale lui puntava non tanto sulle acquisizioni (di cui Unicredit in passato è stata protagonista), quanto su crescita organica, distribuzione di dividendi e riacquisto di azioni proprie, rinunciandovi poi ufficialmente perché il C.d.A. non avrebbe dato la sua fiducia a tale proposta.
Con la nuova guida Padoan-Orcel si punta invece ad acquisire MPS, ma le condizioni poste puntano ad avere un’operazione a costo zero per Unicredit che si tradurrebbe in:
con il resto a carico ai precedenti azionisti (ergo ai contribuenti). Un peso – stimato dal Sole 24 ore – che, includendo l’intervento del 2017, salirebbe fino a 10 mld tra crediti d’imposta, aumenti di capitale a carico del MEF già previsti ancor prima (1,5 mld), cause legali e sofferenze ed esuberi (con probabile intervento per quest’ultimi del fondo di solidarietà bancario).
Dunque un’uscita tutt’altro che gratuita ma unica sul tavolo e questo, ci porta a una domanda già sopra emersa tra le righe: se la situazione di MPS è così critica anche dopo tutti gli interventi dell’ultimo decennio – dai Tremonti e Monti bond, alle ricapitalizzazioni private fino all’intervento d’emergenza del 2017 – perché si continua a parlare di svendita?
La verità è a dir poco semplice quanto palese, come emerso dalla chiacchierata: banca significa denaro e denaro, per un politico, significa la possibilità di fare quelle azioni con cui preservare il consenso.
MPS – invero – è l’ennesima dimostrazione di come la politica sia pestilenziale quando contamina la logica della sana e prudente gestione con i suoi interessi, una verità che tutti noi abbiamo di fatto conosciuto a livello globale con la crisi del 2008, viste le sue origini nella politica dei prestiti politicamente corretti e di una FED espansiva quando non doveva esserlo.
È la storia stessa della banca ad evidenziarlo, una serie di vicende al limite del ridicolo se non fosse per la loro gravità: la fondazione – nata durante la privatizzazione del sistema bancario negli anni ’90, praticamente di nomina politica (metà dell’organo direttivo è nominata da comune, provincia e regione) e azionista di maggioranza dell’istituto fino a qualche anno fa – tollerò le operazioni più rischiose come l’acquisto di Antonveneta e i derivati, le quali hanno preponderanteménte contribuito all’attuale crisi dell’istituto senese.
Invero si pensi poi all’ultima vicenda legale tra fondazione e MPS: la richiesta di risarcimento della prima di 3,8 mld avanzata verso la seconda per i danni patrimoniali derivanti dall’acquisizione di Antonveneta e per aumenti di capitale 2011, 2014 e 2015, si risolve in un accordo di 150 mln e impegni sulla valorizzazione del patrimonio artistico della banca. In sostanza? Meno del 4% preteso e qualche opera d’arte per eventi.
Cosa possiamo quindi concludere?
Che a prescindere da tutto ciò – un tassello imprescindibile della nostra storia economica che dovrà essere insegnato e conosciuto da tutti coloro che studiato economia in particolar modo – è ora di porre una fine alle perdite (il c.d. stop loss): troppo alto il costo che l’intera collettività ha dovuto sopportare per negligenza e ritardi dovuti all’avidità e all’incompetenza di pochi.
Nessuno nega che tale operazione avrà un impatto non irrilevante sulla città di Siena e relativa provincia – viste comunque le necessarie trattative in materia di esuberi (una costante in realtà di qualunque operazione di fusione societaria) – ma deve terminare l’idea che gli istituti bancari siano realtà da salvare a tutti i costi: sono imprese e come tutte le imprese possono avere una fine.
E questo vale anche per la c.d. banca più antica del mondo: l’eternità non è di nessuno.
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Più delle albe, più del sole, una donna in rinascita è la più grande meraviglia. Per chi la incontra e per sé stessa. È la primavera a novembre. Quando meno te l'aspetti...
Allora oltre all'indignazione che mi pervade il più delle volte a voi donne in rinascita, a noi donne in rinascita vorrei dedicare qualche parola.
Per comprendere quanto speciali siamo, perché molte volte lo dimentichiamo, lo banalizziamo, lo rendiamo scontato. Perché dovremmo ripetercelo più spesso, ogni mattina guardandoci allo specchio ripetere:
“Ma come ha osato il mondo spaventarti così tanto, mentre tu eri seduta a pensare ad un modo per trasformare le montagne in gelato per bambini?”
Questa è la mia più grande paura… Rimanere sgomenta difronte all’inevitabile perdita di speranza, di fronte a questa grettezza che trasforma luce in penombra, che trasforma orizzonti in confini.
Di fronte a questo sterminato mare di colori che sanno di obbedienza e che La Boetie chiamerebbe “servitù volontaria” io scelgo il movimento e scelgo di divenire portando con me tutto il bagaglio dei miei ricordi. Perché non c’è un colore che spicca più dell’altro, perché non c’è una qualità superiore ad un’altra ma, come direbbe Hegel, è nel tutto che appare la verità. Mischio questi colori e ciò che ne risulta non è altro che un semplice “essere”
Questa sono io, questa donna sono io!
Perché spaventarsi della propria fragilità? Perché temere le proprie lacrime?
Perché forse è proprio vero, solo a noi è stata data la capacità di percepire la sensibile vita di una lacrima:
Avete mai contato le lacrime uscite dai vostri occhi? Non credo sia possibile. E quando finiscono? Ma possono davvero terminare le lacrime? Può essere che ad un certo punto tu abbia pianto talmente tanto da non averne più? Abbiamo un rubinetto infinito che puoi aprire e chiudere a tuo piacimento o è solo un serbatoio e una volta svuotato non può più essere riempito? Quando qualcuno vi dice "ho pianto troppo" davvero si sa quanto questo troppo sia? Si può calcolare? Numericamente o in altro modo? Come si fa a contare le lacrime? Ci avete mai provato? Ne esistono di infinite qualità, ci sono lacrime di dispiacere, quelle sono le più frequenti, per non parlare di quelle d'amore…le più strazianti…quelle di gioia, di soddisfazione, quelle liberatorie, quelle ormonali (sì signori, ci sono pure quelle, datemi retta), quelle di rabbia, di dolore, di fatica, di commozione…insomma ci sono lacrime di tutti i tipi! Ma che sapore hanno le lacrime? Le avete mai assaggiate? Le mie sanno di sale! Salate come l'oceano, forse per questo si dice che il mare è stato creato dalle tante lacrime versate da dio. Sgorgano dagli occhi, rigano tutto il viso e arrivano fino alla bocca, qualche lacrima cade a terra, qualcuna sul cuscino!
Una lacrima dopo l’altra ad un certo punto ti accorgi che tu li non c’entri proprio, che è come se fossi una chiave per un’altra serratura, che è come se cercassi di infilare un quadrato in un cerchio, che è come se cercassi di vedere le stelle in una giornata di sole, che è come se continuassi a dire di non guardare il dito ma la luna mentre guardi un muro! E arrivano quelle solite giornate amare…lascia stare, cantava Vasco! Perché alla fine non c’è nulla di così complicato e tutto di terribilmente faticoso! Alla fine della giornata vorresti solo sapere se qualcuno in mezzo alle fiamme con te ci starebbe senza fuggire, quando intorno tutto crolla. Cosa c’è di male in questo? È debolezza? E allora viva la debolezza!
Se sei bella non va bene
Se sei brutta non va bene
Che poi chi l’ha deciso sto canone di bellezza scusate?
Se sei vecchia ormai è tardi
Se sei giovane ne hai ancora di strada da fare
Se sei dolce ti schiacciano
Se sei dura sei rigida acida frigida e isterica
Se sei alta devi mettere le scarpe basse
Se sei bassa i tacchi
Che poi perché mai dovremmo camminare così scomodamente in punta quando i piedi sono fatti per stare piatti a terra?
Se sei grassa magari sei simpatica
Se sei magra sei più leggera, in ogni senso
Se sei bionda sei stupida
Se sei mora sei seria
Le rosse tutta un’altra storia
Se sei intelligente stufi
Se sei stupida sei imbarazzante
Che poi è facile stare al fianco di una donna quando è bella, forte e sta bene! Ma l’amore si pesa in altri momenti, l’amore è un po’ come un tanga
Un filo sottile, invisibile, impercettibile, fastidioso.
L’amore, spesso, è proprio come quel tanga
Può alleggerirti la testa e farti sentire sospeso come un palloncino gonfiato ad elio attaccato ad una nuvola con un filo di nailon sottile.
È invisibile quando non è corrisposto
Impercettibile se è giunto al capolinea
Fastidioso, quando è troppo intenso o quando è troppo ingombrante.
L’amore dovrebbe essere come dei boxer
Comodo, accogliente, e colorato
Ecco come dovremmo sentirci noi donne.
Quindi donna in rinascita ecco il mio consiglio: tieni gli occhi sull’obbiettivo, puntati al centro del bersaglio e scocca la tua freccia qualunque sia il liquido che la bagni, sia esso una pozione d’amore, sia esso un veleno mortale, senza indugi con la sicurezza che ti caratterizza e se non centri il bersaglio, pazienza la prossima volta sarai più fortunata.
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Questi i fatti che definiscono i termini della questione. In tali circostanze cosa credo necessario pragmaticamente fare?
Se ne discuta pubblicamente ed apertamente. La dicotomia {obbligo vaccinale, liberi tutti} serve solo a politici in malafede.
Questa posizione – a mio avviso del tutto pragmatica – è oggetto di svariate critiche che vanno dal comico alla plateale malafede.
Tipologia comica nr.1:
"Nel giorno da me richiesto l'unico posto in provincia era troppo lontano. Poi vado in vacanza. Quindi non mi vaccino".
Prova di nuovo, sarai più fortunato. Hai presente i club "fighi" dove fai la coda per ore per entrare? Ecco, fai conto abbia lo stesso valore per te.
Tipologia comica nr. 2:
"Ho colleghi non vaccinati ma io sono vaccinato quindi non mi preoccupa".
Ottimo, neanche a me PERSONALMENTE. Ma socialmente sì: mi preoccupo (mio difetto, lo capisco) anche per altri più fragili di me che non sono vaccinabili. Quindi non voglio contagiare gli altri ANCHE per evitare che i talebani dello zero-covid ci rinchiudano tutti in casa di nuovo.
Ottusità nr.1:
"Se sei vaccinato che paura hai? Vuol dire che vaccino non funziona!"
Voglio l'Italia aperta, non in lockdown; se c’è un’alta percentuale di non vaccinati maggiore sarà la probabilità di contagio e di sicuro il “partito” del LD rinchiuderà tutti a casa. Questo è il primo dei danni gravi che i non vaccinati causano ai vaccinati: gli impediscono di vivere!
Malafede nr.1:
Confronti con polio ed altre infezioni per cui la vaccinazione è obbligatoria: “Non hai paura di prendere la polio, perché' temi il Covid19?”
Appunto, la vaccinazione antipolio è OBBLIGATORIA! Vogliamo introdurre l’obbligo vaccinale anche in questo caso?
Malafede nr.2:
"Lei rischia di infettare anche da vaccinato. Si informi bene prima, cazzaro".
Appunto: proprio per questo voglio minimizzare il rischio che un non vaccinato (enormemente + contagioso di un vaccinato) contagi altri, siano essi vaccinati o immunodepressi!
Malafede nr.3:
"Nessuno la obbliga ad avere rapporti con persone non vaccinate".
Esatto: siccome non sono obbligato cercherò di fare il possibile per non averli. Se questo richiede intervento di legge, lo approverò con il voto. Demo-crazia.
Malafede nr.4:
"Ok, però lei quando ha firmato la GBD non voleva, esattamente, "infettarmi rischiando di uccidermi"?"
No. Sia GBD che altri studi distinguono livelli di rischio e richiedono protezione dei più vulnerabili. Quando il vaccino era assente la protezione dei vulnerabili è comportamentale (RSA, test, aree riservate, immunità guariti, ecc..). Ora la protezione si ottiene anzitutto attraverso vaccino per tutti.
]]>E' tuttavia evidente che con il governo Draghi i 5 stelle sono in difficoltà. Per una volta tanto va data ragione a Travaglio che parla di movimento che non tocca palla. Se il compito principale dell'esecutivo in carica è quello di razionalizzare la politica, economica e non solo, italiana, è conseguenziale che le idee (sigh) grilline non abbiano cittadinanza. Una ad una le conquiste pentastellate sono state demolite attraverso un lavoro di logoramento che prende le mosse dall'osservazione empirica dei risultati. Abbiamo già detto su questi pixel del cashback e della lotteria degli scontrini; Ilva e Autostrade sono storia vecchia, la banca pubblica degli investimenti è entrata nel dimenticatoio, la riforma della giustizia esclude, o quantomeno sterilizza, quella Bonafede, Arcuri con i suoi superpoteri chiuso in una cantina, Parisi rispedito da qualche parte nel bayou del delta del Mississipi. Restano, per ora, Quota 100 e il reddito di cittadinanza.
Contrariamente a quanto si dice in giro Quota 100 era una bandiera del Movimento non meno di quanto lo fosse per la Lega. Nel 2018 entrambe le forze politiche si presentarono all'elettorato con la promessa di cancellare la Legge Fornero. Anzi sul cancellamento di quella norma fu soprattutto il Movimento ad esporsi una volta approvata la sperimentazione di Quota 100. Ora che la sperimentazione cesserà converrà a Conte confidare nella consueta memoria del pesciolino rosso dell'elettorato.
Sul Reddito di cittadinanza una revisione critica dei risultati era già iniziata con gli ultimi vagiti del precedente esecutivo. Per compensare l'enorme e palese sciocchezza del reddito ai nullafacenti, Di Maio aveva promesso che il suo sarebbe stato il ministero delle politiche attive del lavoro. A due anni e mezzo da quei giorni, a due anni dal bando per il concorso per navigator di politiche attive non si è vista neanche l'ombra e persinoTridico (appassionato testimonial del RdC) si è dovuto arrendere all'evidenza dei numeri.
Ora su questo tema e sulla prescrizione cosa farà il Partito di Bibbona?
Se c'è una qualità che va riconosciuta a Conte è l'inesauribile capacità di parlare molto senza dire nulla: il nulla che ammicca, come l'ho definito qualche giorno fa quando a domanda di un giornalista sulla posizione che terrà il suo gruppo al Senato sul DDL Zan ha strizzato gli occhi e sfoderato il suo sorriso più fotogenico.
Non essendo disponibili (per ora) nuove battaglie antiscientifiche tipo quella contro i vaccini, Conte dovrà tenere a freno il bisogno di stronzate della base barcamenandosi fra prese di posizione nette come quella contro la prescrizione annunciata al convegno dei giovani industriali, e il sostanziale immobilismo cui è tendenzialmente abituato. Grillo potrà continuare a vaneggiare sul suo blog forte dell'ultima parola sui temi che veramente contano: nomine, candidature, presenze televisive e indicazione del presidente della Repubblica.
Ne uscirà, secondo chi scrive, un Movimento ancor più incoerente almeno fino a che non tornerà all'opposizione; dopo potrà succedere di tutto, anche che si consumi lo spin off dell'ala guevarista.
Nel frattempo il divertimento è assicurato.
]]>Stucchevole mi dispiace dirlo e alla fine è un atteggiamento che rischia di farci perdere di vista l’intima gioia che riguarda principalmente noi e che dovremmo essere in grado di vivere appieno infischiandocene degli altri. Pretendere che una Nazione ci riservi una sorta di deferenza ergendo noi stessi a modello di virtù lo trovo oggi un po’ ipocrita considerato poi il modello della tifoseria calcistica italiana che, per esempio, durante la semi-finale con l’Argentina del 1990 fischiò il loro inno per tutto il tempo.
Non abbiamo perso occasione per additare lo sconfitto ad esempio meschino facendo perfino circolare bufale su presunte aggressioni a italiani nel post partita rivelatesi poi infondate.
Non abbiamo perso occasione per criticare duramente il gesto di levarsi la medaglia del secondo posto che invece è un comportamento più usuale di quello che si crede al quale anche nostri giocatori in passato non sono rimasti esenti.
Quei precisi momenti non vanno giudicati perché le emozioni prevalgono sulla ragione e la frustrazione del secondo è talmente alta che si mischia pure a sentimenti personali di vergogna per non aver vinto… chiunque abbia vissuto da sportivo lo sa bene.
Togliersi la medaglia è solo un gesto palliativo per allontanare la sconfitta subita, che gli sportivi praticanti comprendono e sul quale i più spregiudicati perfino godono.
Lo fece Francesco Totti nel corso della premiazione della finale di Coppa Italia del 2013 persa con la Lazio, lo fece Antonio Conte dopo la sconfitta della sua Inter in finale di Europa League contro il Siviglia, lo fece Cristiano Ronaldo con la maglia della Juve dopo aver perso la finale di Supercoppa con la Lazio nel 2019 e se andiamo a cercare un po’ in rete di esempi ne troviamo anche altri.
Visti dall’esterno possiamo anche considerarli gesti non eclatanti per carità ma non scadiamo nell’ipocrisia spicciola, facciamo uno sforzo di comprensione chiedendoci se a parti invertite, con una finale persa a Roma, avremmo potuto davvero esaltare un nostro comportamento irreprensibile e facciamolo in tutta coscienza un pensiero sul come avremmo digerito noi un secondo posto.
Molto più degno di nota (negativa) semmai è la loro ipocrisia nel promuovere gesti di solidarietà contro il razzismo salvo poi vederli crollare in un pochi secondi per i rigori sbagliati dei loro giocatori di colore, Marcus Rashford, Jadon Sancho e Bukayo, sommersi da una tale valanga di insulti tanto che Boris Johnson si è visto in dovere di intervenire con una reprimenda.
Detto questo quindi… POOOO PO PO PO POOOO… Concentriamoci sulla nostra gioia esultando per la grande vittoria della nostra Nazionale e basta; evitiamo falsi moralismi, mettiamo stupide manifestazioni di odio nel cassetto e lasciamo gli sconfitti nel loro dolore.
]]>Poche riflessioni di buonsenso sono sufficienti a constatare quanto logicamente infondata fosse la misura.
Sotto il profilo della diffusione della cultura digitale. va notato che:
Sotto il profilo dell'evasione fiscale si può osservare che
Dietro la retorica e la propaganda politica si cela dunque un sussidio iniquo, perchè indirizzato a destintari mediamente più istruiti e con redditi più alti della media della popolazione e uno spreco di risorse poichè nessuno degli obiettivi prefissati è stato raggiunto.
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Ho fatto una veloce ricerca e ad occhi sgranati ho scoperto: PFAS “acidi perfluoroacrilici” categoria tensioattivi utilizzati fin dal 1950. Ora è bene fare un rapido ripasso sul tema: “chimica/influenza/organismo”
L’organismo umano non è in grado di metabolizzare ed eliminare questi tensioattivi, anzi tende ad accumularli, questi poi si legano alle proteine del sangue recuperate durante la filtrazione renale rimanendo così in circolo per lungo tempo. Altro dato, servono dalle 72 (se va bene) ore fino a 14,7 anni per dimezzare la presenza nel sangue di PFAS, chiaro? Dimezzare non eliminare!
Ma cosa causa questo livello chimico nel sangue? Se ti va bene ipercolesterolemia, tiroiditi e problemi al fegato o reni, se va male tumori ai testicoli o mammella fino alla morte, e non si tratta di un drammatico scenario descritto dal classico foglietto illustrativo di un banalissimo medicinale antinfiammatorio.
Da nord a sud Italia la situazione è allarmante:
I problemi evidenziati sono molti, da una politica che non tiene conto di corretti sgravi fiscali, ad un ritorno a soluzioni che tengano conto di una risorsa e una ricchezza indiscussa nel nostro paese quale il “turismo”, fino a problematiche più tecniche quali: collettori non funzionanti, pompe di scorta non esistenti, depuratori non funzionanti, scarichi di fanghi non correttamente depurati.
Ce ne parla chiaramente Gea Volpe
Gli scarichi reflui trattati devono sottostare a limiti normativi che si basano su determinati agenti, questi limiti non considerano la qualità dell’asta fluviale (per motivi naturali e di cambiamento climatico/ambientale i punti di scarico non trattati sono aumentati) non correttamente monitorata.
La legge non prende in considerazione nel decretare il grado di balneabilità di alcuni microorganismi nocivi, si controlla per lo più la carica batterica di E.coli, ma molti metalli pesanti (plutonio), che si sono perfettamente adattati, non vengono evidenziati e non influiscono sull’asticella “rischio idrogeologico” o meglio “acqua contaminata”
L’acqua è un bene comune e un capitale naturale collettivo quindi per noi “esseri umani” risulta una “battaglia non-violenta” necessaria quella di rendere quell’asticella il più visibile possibile.
La proposta è di sottolineare non solo le concentrazioni di ognuno di quegli elementi chimici, che prese singolarmente risultano sotto i limiti, ma calcolarne la sommatoria che crea un impatto altrimenti non considerato. Migliorare la raccolta naturale delle acque nei comuni con un corretto controllo dei filtri per le microplastiche.
Regolamentare tutto con maggiore attenzione e influire su un corretto utilizzo dell’acqua e su una miglior consapevolezza della sua importanza.
Ricordiamoci tutti che la magia di questa nostra terra è contenuta nell’acqua.
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Nulla di particolarmente grave, giacché lo scontro ideologico e il dibattico culturale non è cosa nuova e, a dirla tutta, neanche disdicevole. Senonché la lettera con la quale quel mondo accademico protesta per gli incarichi a Riccardo Puglisi e Carlo Stagnaro è piena di contraddizioni e sottintende un modo di ragionare che speravamo superato.
Innanzitutto le contraddizioni
Nella lettera si elencano 3 elementi che secondo estensori e firmatari sono esecrabili:
Sul punto 1 neanche mi soffermo. Sugli altri due punti serve però fare qualche puntualizzazione e una riflessione.
Su Twitter tanto Emanuele Felice quanto Stefano Feltri, direttore di Domani, giornale che ha rilanciato la lettera aperta, hanno tentato una puerile quanto contraddittoria difesa dell'iniziativa.
Emanuele Felice ha prima ammesso che i rilievi sono all'ideologia e non alle competenze; poi ha contestato le competenze e l'h-index.
Ora, perché cadere in contraddizione logica se non si sa, nel proprio subconscio, che si è pestata una cosa che non è esattamente una margherita?
Contestare l'ideologia vuol dire ammettere di accettare, anzi essere artefici, di liste di proscrizione; contestare la competenza stride col silenzio assordante con cui quegli accademici hanno tollerato (quando non anche difeso) nomine della cui competenza era certa l'insussistenza. Per non dire di quei firmatari che ancora pochi anni fa facevano lezioni su come uscire dall'euro emettendo certificati fiscali, violando così trattati, teoria economica monetaria e buon senso (G. Zezza).
La verità, evidente dal tenore della lettera e dal dibattito che ne è scaturito, è che i firmatari non trovano tollerabile che accademici e studiosi non della loro area possano ottenere incarichi dalla politica. Per loro il liberismo (la cui essenza non sono in grado di spiegare) è il nemico giurato; il liberismo è il nuovo fascismo; la libertà economica è pericolosa deriva del pensiero; la disciplina di bilancio è quella cosa terribile la cui reitroduzione dopo la sospensione del patto di stabilità va scongiurata.
Ultima considerazione sui poteri del DIPE, anche questi travisati dalla lettera e dai direttori di Domani e fattoquotidiano.it
Il controllo che sono chiamati a svolgere i tecnici voluti da Draghi non è sulla spesa dei fondi assegnati al PNRR. Quel controllo è prerogativa di altri organi dell'amministrazione pubblica (Corte dei Conti in primis). Il loro compito sarà quello di verificare che l'attuazione del piano sia coerente con gli obiettivi di spesa. Nessun Puglisi, nessun Stagnaro, nessun Filippucci potrà evitare la spesa prevista per le missioni approvate dalla Commissione UE, a cui in ultima istanza spetterà la verifica del raggiungimento dei milestone e degli obiettivi di impatto su crescita e occupazione. Senza il raggiungimento di quei traguardi i soldi di Next generation EU non arriveranno. Ma di questo i firmatari non sembrano preoccuparsi.
Nei discorsi di Mario Draghi non ce n'è uno in cui non abbia chiarito che la responsabilità di questo governo, nato in circostanze straordinarie e con un compito straordinario, è quella di evitare che l'occasione che si presenta sia sprecata come da consolidata tradizione politica. Quella politica di cui i 100 e oltre firmatari hanno nostalgia.
]]>Il vertice tra Joe Biden e Vladimir Putin a Ginevra
L’assalto alla stampa libera di Hong Kong
Il G7 a Cornovaglia: un successo o un fallimento?
Il nuovo governo in Israele
La guerra civile in Etiopia
Gli arresti di 5 leader dell’opposizione in Nicaragua
La legge anti-LGBTQ di Viktor Orbán approvata dal Parlamento ungherese.
La puntata è disponibile in differita in formato video per tutti gli abbonati al nostro canale Twitch a questo indirizzo
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E cosa c’è di più vinto di un cuore che sospira?
Non esistono malvagi o puri di cuore, esistono scelte che rendono gli stessi perseguitati o persecutori, per queste né possiamo condannare né assolvere ma su di noi e su di loro stendere la pietà del mondo…i grandi sono tali perché mai certi, perché testimoni della fragilità dell’animo umano, e disperati per la loro umanità. Siamo uomini sottili che camminiamo dritti su una terra che gira storta. Primi o ultimi poco conta, non c’è una testa né una coda…cosa cerchiamo? Cerchiamo riconoscimento, cerchiamo il riscatto
D’altra parte “Il signore guarisce i ciechi del corpo ma i ciechi di spirito dove finiranno?”
Allora si può amare il proprio respiro? Consapevoli di questa mancanza di spirito, di vista, di senso, si può ancora amare il proprio respiro? Il respiro è caos, il caos è vitale, in un mondo di altruismo siamo destinati a vivere come prigionieri chiusi in gabbie noiosamente dorate! Il respiro più interessante è quello affannoso, ma per cosa si affanna il respiro? Il vostro per cosa diventa corto? Il mio per tante cose, per tante persone. Sono quasi due anni che la paura del respiro ci invade le giornate, è una vita che ci fanno credere che l’amore lo si trova una sola volta nella vita! E allora perché mai dovrei sospirare? Perché dovrei eseguire un atto così apparentemente involontario se non per un breve e intenso momento di languido sospiro? Rinuncereste davvero ai sospiri? Si può rinunciare ad un minuto, forse due, di respiro ma mai neanche per un secondo si potrebbe sacrificare un dolce sospiro. I sospiri in realtà sono dei dolci! Dolci della sposa! Fatti di pan di Spagna farciti con crema pasticciera e ricoperti di glassa. Ricetta antichissima documentata addirittura ai primi del 500, quando un eremita di passaggio, il famoso Aleandro Baldi, li descrisse nei suoi appunti di viaggio: erano i sospiri d’amore intorno ai quali si raccontano leggende. Secondo una delle leggende furono le suore di clausura di Bisceglie ad inventarli per festeggiare degnamente il matrimonio tra Lucrezia Borgia e il Conte di Conversano. Il matrimonio andò a monte e gli invitati, sospirando per l’attesa, vennero consolati con i dolci preparati per l’occasione, che da quel giorno furono chiamati appunto “sospiri”.
Byung-Chul Han dice che siamo costantemente alla ricerca di un modo per bandire il dolore, ma noi siamo una molteplicità di azioni, di immaginazioni, ogni vita è un’enciclopedia, siamo una massa mobile umana, e come tale dobbiamo respirare assieme e come tale dobbiamo prenderci cura gli uni degli altri e senza dolore non c’è urgenza di cura! Ma fino a che punto si può accettare il dolore altrui per soddisfare la nostra sete di altruismo? A quale libero respiro dovremmo tendere? Al primo o all’ultimo?
]]>Allora direi che se trovo una scaletta il gioco è fatto, altrimenti prendo una bella rincorsa...o potrei usare un'asta come quella che usano per il salto in alto! Provo ad alzare la gamba destra e vedo se è abbastanza lunga per arrivare dall'altra parte, strap! Cazzo i pantaloni! Tiriamo giù la gamba e facciamo finta di niente…potrei anche pensare di buttarlo giù ma con cosa però? Non posso togliere un mattone alla volta ci metto una vita così; a testate? Non è una bella idea! Lo guardo ancora un pò ma nulla…tabula rasa! Non mi viene in mente nulla! Chissà che ci sarà là dietro poi! Magari un altro muretto, ma cosi sono fritta però! Ma non c'è un buco da cui guardare? No perché se vedo che c'è un altro muro mica mi faccio lo sbattimento di tirare giù questo! Lascio stare! Avessi del tritolo…bum! Saltato in aria e via!! Nulla, in tasca non ho nulla che possa essermi utile! Pensate se al di là di quel muro c’è un'altra o un altro come me che sta provando a capire come tirarlo giù! Potremmo darci una mano comunque, io tiro di qua lei o lui di là e magari unendo le forze, ma vuoi vedere che io lo voglio tirare giù e lei o lui lo sta costruendo sto maledetto muro!? Ma sarà mica infinito sto muro? Cioè da qualche parte ci sarà l’inizio e da qualche parte finirà! Certo che se sto qua e non faccio nulla non lo saprò mai; ma se poi mi muovo e improvvisamente crolla nel punto esatto in cui mi trovo ora? Che sfiga sarebbe! Magari sto ferma immobile e muovo solo la testa a destra e a sinistra, poi guardo indietro e in avanti e qualcosa trovo! Iniziamo, destra, oh ma guarda un po’, bastava solo girare la testa per vedere che a 2 metri da me c'era una fessura, sinistra, guarda la, un cancelletto aperto, dietro, toh una scaletta, avanti, assurdo ma è di cartone…bene e ora che faccio? Dilemma: passo la fessura, apro il cancelletto, lo scavalco con la scala o lo squarcio nel mezzo? Facciamo così sto qui ancora un pò e ci penso perché proprio non mi viene nessuna idea…tabula rasa!
Mi sa proprio che quel muretto si è insediato nella nostra testa, e sta lì tra i due emisferi, un proverbio cinese dice che purtroppo sono più numerosi gli uomini che costruiscono muri di quelli che costruiscono ponti.
Imparassimo a costruire dei passaggi sarebbe tutto più semplice, non dico dei ponti, quello sarebbe di sicuro più complicato ma dei varchi per passare da un punto ad un altro, passaggi anche piccolini, dove ti puoi chinare o mettere di traverso, piccole fessure da cui puoi osservare! Perché non si può vivere senza sapere cosa stai lasciando o perdendo laggiù se innalzi un muro!!
I muri ci sono ovunque non solo nella nostra testa! Ci sono tra paesi vicini, tra casa e casa, tra la gente, tra le coppie di innamorati nel letto, tra le acque, ci sono le dighe, quelle sono muri! Ci sono tra le montagne! Ci sono anche in paradiso, il muro c'è anche lì e come disse Gregoire Lacroix “una cosa m'inquieta: se il Paradiso ha una porta, significa che ci sono dei muri..”
Giro' la carta dei tarocchi e comparve il muretto…ma non una muraglia cinese intendiamoci, sempre il solito muretto.
Quel muretto erroneamente visto da me come un impedimento null'altro è che una solida e sicura protezione
I muri hanno anche questa funzione, sanno proteggere!
Fin dai tempi antichi venivano eretti per proteggere città, popoli! Dai muri potevano osservare se arrivava il nemico e potevano rimanere al riparo da agguati e invasioni! A Troia dovettero usare un cavallo di legno per superare le mura invalicabili della città! Da quando sono nate la proprietà privata e le prime forme di stato, l'uomo si è servito del muro come difesa: dal limes romano, alla grande muraglia cinese, alle mura medievali. Poi la scoperta di nuove forme di attacco e difesa come la polvere da sparo ha reso progressivamente sempre meno utile la protezione del muro.
Spesso anche i singoli individui erigono muri intorno a loro a protezione! Chi non lo ha mai fatto!
Ma sui muri vengono scritte anche frasi, frasi cariche di emozioni, frasi divertenti, frasi di addio, frasi d'amore che rimangono nel tempo, rimangono finché qualcuno non ci passa sopra una bella mano di vernice bianca cancellando quello che il cuore voleva solo esprimere con uno spray:
"e non ci resta che ridere"
"restiamo umani"
"vomito arcobaleni"
"chi controlla chi ci controlla?"
" il mio mondo vive di sogni e sta morendo di realtà"
I muri sono occhi che guardano i tuoi e ti raccontano delle storie fantastiche
Alla fine siamo tutti quell’uomo citato da Foucault, quello che
“…scoparirà come sull’orlo del mare un volto di sabbia”
Quindi continuiamo a raccontarci storie fantastiche, ad erigere muri e lottare per superarli, a costruire ponti e ad addobbarli come fossero casa nostra e se lungo il cammino per attraversarli incontriamo una lucciola possiamo anche fermarci ad ammirarla per un minuto, un’ora, un anno, una vita…non c’è fretta!
]]>
Io sono davvero felice di leggere le parole di Carlo Rovelli, divulgatore di cui ho grande stima, il quale racconta di come quella piccola dote della sua gioventù gli abbia permesso di viaggiare e formarsi; di come la sicurezza finanziaria abbia permesso ad amici suoi, musicisti o imprenditori, di costruirsi un futuro. Ma dietro questa aneddotica, mi spiace dirlo, c’è una visione antropologicamente povera dell’umanità: non è vero che serve una rete di sicurezza per trarsi d’impaccio e d’impiccio, e anzi, quelle certezze possono significare la morte della spinta creativa che spesso ci porta ad uscire dai vicoli ciechi e che nasce non dall’agio, ma dalla difficoltà.
La visione antropologica di Rovelli contraddice l’evidenza secondo cui è proprio dall’avversità e dal dissesto che si traggono le energie per ritagliarsi un avvenire migliore. Non è certo una regola universale, ma se da un lato abbiamo gli aneddoti di Rovelli e dei suoi amici, dall’altro abbiamo l’intera storia umana che continuamente dimostra come la nostra mente sappia costruire strumenti e tracciare sentieri laddove strumenti e sentieri non sono già disponibili. La creatività nasce dalla capacità di fare del proprio meglio con ciò che si ha, e alcune persone fanno del loro meglio con il poco, altre fanno del loro peggio con il molto. L’idea che per “produrre cose utili per la società” si debba avere un “tesoretto” è pura propaganda a sostegno di una misura (l’aumento della tassa di successione) che avrebbe anche una ragione d’essere se non fosse indirizzata a un mero scopo di campagna elettorale (scopo reso palese, mi spiace dirlo, addirittura da Elsa Fornero quando su “La Stampa” di martedì si chiede come mai la “dote” non sia stata pensata per i sedicenni, dal momento che il PD vuol abbassare l’età del voto).
La sinistra si svela dirigista quando le conviene (per esempio, sul Decreto Semplificazioni e la riforma degli appalti, su cui serve una iper-normativismo altrimenti la criminalità vince) e libertaria quando invece no (i diciottenni possono avere 10.000 euro svincolati da tutto, siamo certi che li useranno nel migliore dei modi). Ma prescinde, sempre quando conviene, dal comprendere che tutto ciò dipende dal contesto: una dote di quel tipo potrà anche essere utile per una famiglia non economicamente dissestata, il cui rampollo già pensa di scegliere l’università e magari intraprendere una carriera nella musica o nella produzione di software, ampliando così il proprio respiro e potendo contare su un contesto che lo spinge a utilizzare quei soldi in maniera virtuosa. Ma la stessa dote rischia di essere l’esatto opposto per un diciottenne proveniente da una situazione economica disastrata e depressa, la quale inghiottirà quel tesoretto senza alcun effetto positivo. Gli incentivi non sono indipendenti dal contesto sociale.
Il bivio non è quello mostrato da Rovelli (“qualcuno lo investirà, qualcuno lo butterà tutto in cioccolata e caramelle”, alternativa che riflette la classe sociale da cui l’autore proviene), il bivio è quello tra poter usare liberamente il tesoretto per viaggiare, investire su di sé e prendersi un anno sabbatico, o il veder inghiottire quei 10k da un contesto in cui il denaro diventa subito cibo per i problemi. L’infelice tweet di Francesco Venier (“chissà cosa farebbero i diciottenni di Scampia con quei 10.000 euro”) esprime in malo modo una dura verità: c’è una differenza rimarchevole tra ciò che quella dote può significare per un ragazzo della classe media milanese, economicamente non agiata ma stabile, e uno della periferia napoletana, che si trova in un contesto disastroso. In un caso, forse, una maggiore libertà, nell’altro il nulla cosmico nella migliore delle ipotesi, un ulteriore conflitto da affrontare nella peggiore.
Per questo, la proposta di aumentare la tassa di successione ha senso solo se quel denaro va a impattare sui contesti in cui i giovani possono trovare un vantaggio reale: l’abbassamento del costo del lavoro per il primo impiego, l’agevolazione per le imprese che formano i propri giovani lavoratori, il miglioramento di quei contesti che non hanno bisogno di “helicopter money” ma di fondi per infrastrutture, per l’istruzione, per lo sviluppo di competenze. Soltanto ristrutturando il contesto possiamo permettere tanto ai giovani milanesi quanto ai diciottenni di Scampia di usare le proprie doti naturali (l’intelligenza, il talento, la forza, il carattere) per migliorare le proprie condizioni: il denaro è una conseguenza, non la conditio sine qua non.
La visione di Letta e Rovelli, raccontando di diminuire le disuguaglianze, ne creerebbe di nuove: quella tra i diciannovenni e i diciottenni di oggi, per esempio (lo Stato è davvero una roulette anagrafica?), ma soprattutto quella tra chi già possiede le condizioni per usare bene quell’assegno e chi quelle condizioni non ce le ha. Da un lato il ragazzo che li usa per farsi un anno in Canada, dall’altro quello che è costretto a dare i soldi alla famiglia per pagare bollette e rate del mutuo (se non vederli inghiottiti in spese improduttive della peggior specie, nutrimento di vizi e difetti magari non suoi).
Ovviamente, per arrivare a comprendere ciò la sinistra ha bisogno di cambiare la sua visione antropologica: la dote dell’individuo è il suo talento, la sua intelligenza e la sua capacità di trarre il meglio con gli strumenti a disposizione. Il ruolo dello Stato è eventualmente quello di riformare e modificare le condizioni sociali, ristrutturare il contesto in cui ed i meccanismi attraverso cui quella dote naturale viene utilizzata. 10k non significano nulla ma prendono la forma di quel che già siamo: noi come individui e come comunità. Usiamo quei miliardi provenienti dalla tassa di successione per ciò che serve davvero: non la mancetta elettorale utile solo al PD, ma una nuova visione dei talenti e delle capacità dei giovani, e la costruzione di una società che permetta a tutti di metterli a frutto. Forse, in quel caso, avremo davvero fatto un po’ di giustizia.
]]>Quindici giorni dopo quel tragico 14 agosto 2018 sarebbe dovuto scadere il primo di una serie di ultimatum improvvidamente emessi da Conte e dalla sua corte di miracolati a 5 stelle. "I morti non possono aspettare i tempi della giustizia" disse l'avvocato del popolo in spregio a quel corpo di norme di diritto che lui, giurista e ordinario di diritto privato, dovrebbe conoscere e difendere. Spinto dalla furia bieca del populismo e sull'onda emotiva dei 43 morti iniziò la più inconcludente delle sue battaglie mediatiche contro il buon senso e la realtà.
Nelle settimane che seguirono quel giorno di agosto l'unico atto concreto del governo fu la pubblicazione dei contratti di concessione fino ad allora sbianchettati dei dati economici. Poi il nulla o quasi fino alle settimane che precedettero l'inaugurazione del nuovo ponte che, per ovvie ragioni di opportunità, non poteva essere affidato ad ASPI ancora controllata da Atlantia. E allora il rincorrersi di nuovi ultimatum, di gogna contro i Benetton (che probabilmente da colpe non sono esenti) ignorando che la famiglia trevigiana era solo un azionista del concessionario pubblico.
Nella settimana del 7 luglio 2020 (a 23 mesi dal crollo) il cdm che avrebbe dovuto portare ad una decisione definitiva sulla revoca più volte annunciata fu rinviato 2 volte. Alla fine, poiché la realtà vince sempre (come la gravità), invece della revoca sbandierata, dal consiglio dei ministri uscì un'ipotesi di vendita forzata a Cassa depositi e prestiti. Ciononostante, poiché era troppo poco per il popolo pentastellato, Conte e i suoi ministri tentarono di far passare quell'offerta d'acquisto come un esproprio risarcitorio contro i Benetton. Il 15 luglio l'ex ministro Toninelli, quello che quasi 2 anni prima immaginava allegre famigliole che organizzavano pic nic sul ponte, inscenò su instagram la più clownesca performance che si sia mai vista da parte di un politico: la cacciata dei Benetton raccontata a mo' di mimo, roba che i balletti di Antonio Razzi sembravano quelli di Don Lurio.
A chi invece vive fuori dalla bolla della propaganda apparve invece chiaro che
i) l'inchiesta penale sarebbe restata separata dalla volontà politica del proprietario della rete;
ii) se lo Stato voleva davvero riprendersi la concessione avrebbe dovuto pagare;
iii) il prezzo non sarebbe potuto essere diverso da quello derivante da una valutazione a prezzi di mercato;
iv) la trattativa fra Atlantia e l'acquirente CDP non sarebbe stata affatto breve né facile;
v) a determinare la trattativa non ci sarebbe stata solo la ventilata minaccia di revoca ma anche, e ancor di più, gli oneri per le casse pubbliche di un'eventuale revoca della concessione prima del suo naturale termine;
vi) l'offerta pubblica avrebbe dovuto ottenere l'accettazione dell'assemblea degli azionisti di Atlantia.
Per arrivare all'accettazione di oggi ci sono volute 5 offerte e ben 4 proroghe delle scadenze vincolanti.
La prima, quella indicata dall'atto transattivo stipulato col MIT il 2 settembre 2020 scadeva il 31 ottobre 2020; la prima offerta fu formulata il 18 ottobre e prevedeva una forchetta di prezzo fra 8,5 e 9,5 miliardi di euro. Il 28 ottobre il Consiglio di amministrazione di Atlantia concedeva all'acquirente il nuovo termine del 30 novembre per formulare una nuova offerta. Il 23 dicembre veniva inviata una nuova offerta di acquisto ad un valore di 8 miliardi, inferiore al range indicato precedentemente. Il 31 gennaio 2021 il Consorzio acquirente chiedeva ad Atlantia l'estensione fino al 28 febbraio per l'elaborazione di una nuova offerta. L'offerta arrivava il 24 febbraio e prevedeva un prezzo di 9,1 mililardi con previsione di un indennizzo fino a 1,5 miliardi.
Il 31 marzo arrivava un'altra offerta al cui prezzo si aggiungeva un ristoro delle perdite dovute al Covid 19 fino ad un ammontare di 400 milioni, nonché (fra le altre) la clausola liberatoria delle garanzie Atlantia sui debiti di ASPI.
Il 14 maggio il consiglio di amministrazione di ASPI chiedeva al consorzio ulteriori modifiche migliorative fra cui la certezza dell'indennizzo per Covid 19, il riconoscimento ad Atlantia degli indennizzi assicurativi, la divisione al 50% fra venditore ed acquirente degli oneri connessi alle special indemnities.
Alla fine, come era logico, il consorzio capeggiato da CDP pagherà ASPI ad un prezzo prossimo a quello di mercato intorno ai 9,3 miliardi (8,1 miliardi più interessi). Ad Atlantia sarà garantito il ristoro per le perdite dovute alla pandemia calcolato tramite un incorporamento tariffario che può arrivare al 2025. Movyon (telepass) continuerà a gestire i sistemi di pagamento fino al closing con patto di non concorrenza per i 18 mesi successivi. I contratti infragruppo con controllate di Atlantia saranno rispettati.
Le parole vuote di Conte resteranno nella memoria dei pochi che ancora credono che il primo dovere di un politico e capo di governo sia quello di rispettare la verità. Per tutti gli altri, e tristemente sono la maggioranza degli italiani, Conte è ancora un personaggio credibile nonostante la quantità enorme di giravolte e falsità che è riuscito a collezionare da quando è sceso in politica. Poco importa se alle parole in libertà non sono mai seguiti fatti perché i fatti, che quelle parole evocavano, erano impossibili.
Quanto pesano quelle parole? 21 grammi, il peso dell'anima.
]]>“e chiedendogli l’araldo che cosa sapesse fare, Diogene rispose: comandare agli uomini. Fu allora che egli additò un tale di Corinto che indossava una veste pregiata di porpora, il predetto Seniade, e disse: Vendimi a quest’uomo: ha bisogno di un padrone”
(Diogene Laerzio, Vite dei Filosofo VI, Vita di Diogene, 32)
Ma Diogene predicò l’autosufficienza e per questo andò ad abitare in una botte; dove sta allora la linea di confine tra la comodità nel seguire il padrone e il desiderio di procedere un passo avanti a lui?
Ci sono dei bisogni che producono disagio che chiameremo desideri non realizzabili, delle pulsioni che determinano una “vita in carriera” in cui il meglio deve sempre ancora avvenire, promesse disattese e mancate che portano a scioperi della fame, della sete, del silenzio, qualunque sia il motivo da cardine c’è sempre il “non poter fare a meno di…”
Gli scioperi non sono altro che l’antipasto della disobbedienza che lo conclude, se ben equilibrato, con un atto di liberazione come dessert.
Mi sono sempre chiesta, però, dove stia la sottile linea tra disobbedienza e performance della società.
Epicuro nella sua lettera alla felicità indirizzata a Meneceo parla di necessità di vita compiuta, di liberazione nell’uomo da tutto ciò che gli impedisce di vivere una vita serena.
Questo però me lo aspetterei in un bigliettino dei baci perugina perché la realtà è molto più cruda di cosi e non si può evitare di osservare il peggio o si rischia di perdere di vista un tratto del viaggio, come se per guardare
il cellulare tu ti perdessi il volo di un gabbiano o peggio non vedessi il palo contro cui andrai a sbattere se non alzerai velocemente lo sguardo.
C’è molto di più nella ricerca della serenità che non può prescindere dal continuo cadere nella dipendenza per ricercarne la liberazione, comprendi il bene se conosci il suo contrario.
La disobbedienza è una rivoluzione.
Si disobbedisce nella religione, nella società, a scuola, si impara fin da piccoli a disobbedire ai genitori, è una buona pratica quella della disobbedienza che ci porta a esprimere sempre di più noi stessi in questo enorme spazio chiamato terra.
Ma ce n’è una che risulta di difficile interpretazione perché rappresenta l’atto finale, quel togliersi dai giochi che non sempre è compatibile con il nostro “Capitalismo ancestrale”, attaccamento alle cose dell’essere umano, il “fine vita” o detto correttamente e medicalmente “Eutanasia”.
D’altra parte anche per Spinoza il processo di liberazione avveniva individualmente attraverso un atto di conoscenza vera e scientifica.
Il conoscere la vera natura delle cose senza inganni e senza finzioni portava per lui ad una libertà che aveva come fine ultimo l’utilità. Quando si chiede: “mi dica la verità” si cerca questa volontà, quella di sentirsi liberi nel prendere la giusta decisione.
E non è lo stesso atto di sincerità che si chiede al dottore quando gli si domanda: “mi dica la verità?”
Compresa la natura della malattia l’atto di volersene liberare non dovrebbe essere una disobbedienza, tutt’altro! Si ubbidisce al proprio volere e si rende atto a sé stessi e agli altri di una incapacità di utilità e di una impossibilità ad una vita serena e armonica.
Montaigne, nel suo saggio “del pentirsi”, non dice forse che ci si può pentire poco se si è vissuti concretamente e in armonia con le proprie volontà e libertà? Nella deliberazione che Hobbes descrive come una bilancia in cui è il piatto più pesante che vince, non dovrebbe forse essere una vita vissuta in qualità piuttosto che una in quantità ad avere la meglio?
Vito Mancuso ci racconta che attraverso i quattro maestri Socrate (educatore) Buddha (medico) Confucio (politico) e Gesù (profeta) possiamo, una volta accettata la vita come caos e tracciata ogni giorno una strada nuova verso un’autentica pace interiore, arrivare al quinto maestro ossia, la nostra coscienza, che ci rende consapevoli di essere noi i creatori della nostra felicità
La creazione è possibile solo attraverso la distruzione…questo lo si vede in ogni singolo evento naturale, quindi la vita è possibile grazie alla morte e viceversa. Le cellule del corpo muoiono per lasciare spazio alla rigenerazione di altre. Noi non siamo mai uguali a noi stessi, siamo in continuo mutamento e la morte rappresenta solo l’atto finale di questo processo e quello che permette allo spettacolo di ritornare sulla scena…l’energia non viene creata né distrutta e cosa altro può fare se non trasformarsi? Non siamo altro che enormi campi energetici.
Giungo al punto: le cellule ogni giorno attivano un meccanismo di suicidio attraverso delle proteine killer, questa apoptosi avviene milioni di volte al giorno e rappresenta la base della vita cellulare. Siamo in continuo mutamento, un divenire libero ed è questo che permette il respiro, questo eco di “io sono-io non sono”.
Cosi dice lo stesso Mancuso “la legge della vita è strettamente connessa a quella della morte e viceversa”.
Perché rendere impossibile questo naturale processo che già avviene ogni giorno nel nostro corpo solo in funzione di una paura che non ha nulla di coerente con l’accettazione che avviene al primo nostro vagito, ossia che siamo enti destinati al mutamento continuo? Forse si potrebbe obbiettare dicendo che siamo qua involontariamente, ma ne siamo cosi sicuri? Se non siamo neanche in grado di capirci “servi volontari” come possiamo essere certi di essere “viventi involontari”?
Locke fu molto preciso sul punto riguardante il diritto alla felicità, ogni uomo per lui era proprietario della propria vita e di tutto ciò che veniva lavorato con le proprie mani. Mi domando cosa avrebbe pensato riguardo alla proprietà del proprio corpo! Anche il corpo in quanto massimo fruitore di piaceri e dolori godeva della medesima tolleranza per lui?
Fino a dove si sarebbe potuto spingere il concetto di proprietà o meglio possibilità di fare e disfare? Se sono proprietario con marchio registrato della mia vita fin dal primo vagito, anche se in continuo equilibrio imitativo fino alla formazione di un’identità precisa (digressione: ma davvero possiamo pensare in un mondo che ci promette cosi tanti stimoli e nuove invenzioni di poterci accontentare di un’unica identità, quando il gioco di poterne avere molteplici ci stuzzica fino alla fine della strada?) quanto pesa il gesto dell’imitazione degli affetti nelle mie decisioni? Spiego meglio… sono portata ad una liberta x se capito in un dato luogo e in un dato momento, sono portata al contrario se le coordinate cambiano.
Quindi se dipendo dagli altri e dall’ambiente anche la mia disponibilità ad una eventuale liberazione dal dolore non è poi cosi libera come pensiamo. Alla fine è solo un gesto dovuto al caso? E se fosse un gesto non potrebbe essere semplicemente una bella uscita di scena? Potrebbe il suicidio per eutanasia mascherare un modello di uscita di scena da una quinta sconosciuta?
Come un eroe greco o romano che antepone alla propria vita, come fine ultimo, quello di rappresentare con il proprio nome una tra le lettere della parola salvezza, anche solo l’apostrofo della parola libertà; come un soldato delle SS che alla fine nudo nella neve preferiva una morte orgogliosa, perché la partita della fermezza si gioca principalmente nel sopportare con pazienza ogni inconveniente, quando non c’è rimedio, come dice il buon Montaigne, e che l’animo resti granitico; per far si che sia una degna uscita di scena però il grande personaggio ha bisogno di un pubblico, in assenza del quale gli eroi risultano semplicemente assurdi. Quindi se comprendo il motivo di quella “marcia della morte” condivisa tra soldati e sopravvissuti, rispetto a questo la morte per eutanasia non ha nulla a che vedere con quel gesto classicamente eroico che solo un tronfio mitomane con una esagerata opinione di sé potrebbe compiere.
Rimane quindi una sola via d’uscita che parla di un “grido” che se ascoltato e accolto offre la giusta cura, quella non anonima
Perché occorre una cura non anonima dice Lacan che sappia rispondere a quel grido e che lo sappia tradurre in appello, ed è la città e tutti noi che dobbiamo occuparcene.
La cura deve trovare uno spazio in cui ci sia un movimento vitale che produca soggetti capaci di elevare il proprio IO assieme ad un TU e che non siano solo soggetti performativi
Per fare questo serve spazio, serve un vuoto in cui si possa ossigenare la parte satura di noi e che possa successivamente venir riempito da compassione in cui ci si renda conto della propria vulnerabilità tanto quanto quella degli altri.
Quindi no panic and keep a deep breath!
Ricordiamoci bene che il cuore non è solo una protesi ed è più fragile di qualsiasi ingranaggio nella meccanica di un orologio perché spesso non filtra bene le emozioni che rimangono incastrate tra i tessuti, ma è pur sempre mobile e momentaneo.
Concludo con le ultime parole dette poco prima di morire da Piergiorgio Welby: “sono un po’ nervoso…è la prima volta che muoio”
E come ultimo augurio vi grido: Liberi di sorridere fino alla fine
]]>Ma qual è l’impatto di questo aumento dei prezzi sul piccolo risparmiatore e investitore? Quali sono gli indicatori che dobbiamo monitorare per salvaguardare il nostro patrimonio?
Ne parliamo stasera su Twitch, alle 21.30, nella rubrica #Edufin che avrà come ospite speciale Michele Boldrin.
Come sempre avrete la possibilità di fare domande in diretta, mentre la registrazione sarà disponibile venerdì sul canale Agorà Liberi Oltre.
Per chi si è perso il video #Edufin dedicato proprio alla spiegazione della relazione tra inflazione e tassi di interesse, può recuperarlo sul Canale YouTube di Liberi Oltre.
]]>La proposta Letta è molto più semplice e, dunque, grossolana. Prevede un aumento dell'imposta di successione su base progressiva per i patrimoni sopra i 5 milioni di euro allo scopo di trasferire alla metà dei diciottenni 10.000 euro per un costo complessivo di 2.8 miliardi annui.
Parte della retorica di questi giorni, quella più aggressiva, si basa sul fatto che le tasse di successione siano in Italia particolarmente basse, specie se rapportate a quelle dei Paesi a noi vicini, Germania, Francia, UK. Questo è un dato incontrovertibile sotto il profilo del gettito: l'erario italiano incassa mediamente il 6% di quanto incassano da quella voce gli stati citati.
Si tratta in ogni caso di valori molto bassi. La Germania, che dalle tasse di successione con aliquota pari al 30% incassa 7 miliardi, ha un total tax revuene di 1.338 miliardi (dati OECD 2019). Le tasse di successione rappresentano lo 0,05% del totale. Sempre la Germania ha una pressione fiscale di quasi 4 punti inferiore a quella italiana (38,8% contro 42,4%).
In Francia, in cui si applica un'aliquota pari al 45% e che incassa 14 miliardi, le revenues da imposta di successione rappresentano l'1,27% del totale delle imposte incassate. Sempre, in ogni caso, parva materia.
Con riferimento al caso Italia i 2.8 miliardi corrisponderebbero a poco meno del 100% di quanto erogato solo in quest'ultimo anno ad Alitalia, al 50% della spesa per il reddito di cittadinanza, al 50% della spesa per quota 100, quest'ultima si una misura esplicitamente e senza dubbio contro i giovani.
Alcuni (Emanuele Felice) arrivano a dire che l'Italia è un paradiso fiscale per le successioni.
Ora, accostare la locuzione "paradiso fiscale" all'Italia suona già cacofonico di suo data la macchina infernale che il legislatore è riuscito a mettere in piedi in oltre cinquant'anni di storia, ma è fuoriviante anche per un altro motivo: per essere paradiso fiscale serve che l'imponibile soggetto a tassazione sia facilmente trasferibile nel paradiso specifico e non risulta che rampolli del top 1% dei redditi nel mondo abbiano mai pensato di trasferire la residenza fiscale nel Belpaese. In realtà se ne guardano bene, non solo loro ma anche le aziende mediograndi, proprio per la complessità della burocrazia, della giurisprudenza e del fisco.
Detto ciò un aumento del prelievo sulle successioni potrebbe essere anche auspicabile a patto che non sia una misura di politica fiscale a sé.
Il patrimonio degli italiani, sia quello del top 1% che vuole essere colpito da Letta, sia il resto, è per i 2/3 rappresentato da immobili. Sono all'incirca 4.900 miliardi all'interno dei quali ci sono appartamenti e aziende. Introdurre una nuova tassa sui trasferimenti vorrebbe dire essenzialmente aumentare le tasse sugli immobili. E' bene tenerlo a mente quando si parla di fisco. I patrimoni liquidi invece sono per definizione mobili e quindi, specie per la ristretta fascia di super ricchi, sarebbe facilissimo impostare operazioni estero su estero sfuggendo all'imposizione.
La soglia dei 5 milioni, nelle intenzioni del PD spartiacque fra la ricchezza e il ceto medio, è fuorviante e non è indicazione di reddito. Dato che l'imposta di successione non grava sul de cuius ma sul patrimonio ereditato, a pagarla sarebbero gli eredi i quali potrebbero non avere redditi sufficienti a pagare l'imposta
Nella conferenza stampa di qualche giorno fa Draghi ha liquidato la proposta Letta con due semplici ma quanto mai efficaci risposte:
1) non è il momento di chiedere, bensì quello di dare
2) Dal 1969, anno di introduzione dell'IRPEF, si è sempre proceduto con misure di politica fiscale additive. Quello che serve al paese è una riforma complessiva e organica della materia fiscale e non una nuova tassa.
La riforma dell'IRPEF prevista per luglio ha, forse per la prima volta grazie al meritorio lavoro dell'onorevole Luigi Marattin, seguito un percorso di studi e di pareri coerenti al fine di arrivare ad un fisco più equilibrato, giusto, semplice e non predatorio. Il prelievo fiscale è talmente complicato che per la banale compilazione del modello unico servono 354 pagine di istruzioni. Se non si inquadra qualunque imposta o tassa all'interno di un quadro organico di riforma che passi attraverso un restyling non solo di aliquote ma anche di tax expenditures, esenzioni e franchigie, il fisco resterà materia inutilmente complicata. La proposta Letta segue il vecchio cliché del "prima tassiamo e poi vediamo se c'è spazio e tempo per una riforma".
L'altro cliché è ancor più perverso: "prima tassiamo e poi vediamo come spendere i soldi".
Dice il PD che la dote servirà a comprare casa, avviare un'attitità professionale, ma non dice come verrà erogata, se si cumulerà con altre misure agevolative già in vigore o previste dal governo, se è previsto un vincolo temporale e di merito di spesa, se la sua spesa sarà in qualche modo monitorata dall'agenzia delle entrate o altro organo di controllo. Letta resta sul vago rendendo la proposta ottima per far campagna elettorale ma poco coerente con le pratiche della buona politica.
Solletica inoltre quella mai nascosta pulsione, propria della sinistra italiana, contro il successo, il merito e la ricchezza.
Infine trascura l'effetto aspettativa. Esattamente come è avvenuto per la flat tax di Salvini che ha incentivato chi poteva a fermarsi sotto la soglia dei 65.000 euro di fatturato, incentiva comportamenti elusivi all'approssimarsi dei 5 milioni. Uno degli insegnamenti compevolmente più trascurati dai nostri legislatori è la finanza comportamentale; ovvero come gli agenti economici rispondono alle mutate condizioni di mercato e fiscali nei quali si muovono. Ancora una volta chi può, nella fattispecie i grandi e i grandissimi patrimoni che dovrebbero essere colpiti da questa misura di "giustizia sociale redistributiva", avrebbero gioco facile a sottrarre al fisco quanto accumulato trasferendo le attività laddove il fisco funziona meglio e dove non è sottoposto ogni anno ai nuovi appetiti della classe politica; a prescindere dalle aliquote.
In definitiva la proposta Letta va bocciata nel merito perché intrinsecamente demagogica e priva anche di un accenno di visione organica di un capitolo, quello delle imposte, che in Italia rappresenta una giungla infernale in cui con fatica le famiglie tentato di districarsi.
Invece di proporre nuove tasse a favore dei giovani non sarebbe meglio orientare meglio e a loro favore la spesa pubblica, cancellare o ridurre i bonus, investire in scuola formazione e lavoro, garantire l'accesso allo studio ed evitare la dispersione scolastica, ripristinare un sistema pensionistico equo?
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In estrema sintesi:
Per discutere nel merito, partiamo dalla prima critica: è inutile aggiungere liquidi in un recipiente bucato.
Prima di pensare di dar soldi giovani bisognerebbe intervenire sugli elementi che impediscono loro di espirmere pienamente il proprio potenziale all'interno della società. Se non si interviene su questo profilo, l'unico impiego razionale per la "dote" ipotizzata non può che essere di finanziare l'emigrazione.
Dunque, se pensi che i giovani siano vittime di una ingiustizia (lo sono) e che occorra fare qualcosa per provi rimedio, invece di promettere mancette tanto ideologiche nell'intento quanto improbabili nella realizzazione, occorrerebbe fare qualche tentativo di ridimensionare le istituzioni e le regole che concretizzano queste ingiustizia.
Per prendere tre elementi a caso:
Dunque riepilogando la prima perplessità sulla proposta: se vuoi fare qualcosa per i giovani che scontano i privilegi e le ingiustizie della società che tu hai costruito dovresti metterte mano a quei privilegi e a quella società, non promettere mance che suonano bene sui social, ma che, difficilmente potrai accordare in pratica.
La seconda critica ha carattere pratico. Togliere ai ricchi per dare ai poveri o ai bisognosi suona sempre bene, specie se lo propine un partito di sinitra in un momento in cui essere di sinistra è di moda. Il punto è che nella realtà la questione è più complicata:
Quindi, il secondo punto debole, tipico di tutte le proposte acchiappa-consenso è la difficoltà di realizzazione pratica a cui andrebbero aggiunte considerazioni afferenti il particolare momento storico qui si pensa ai diciottenni che devono uscire di casa) e i possibili impieghi alternativi: sicuri che con una parte del nostro sistema economico stroncata o debilitata dalla pandemia non esistano priorità o impieghi migliori rispetto alla dote per far uscire di casa i diciottenni?
La terza e ultima osservazione riguarda il fatto che queste nobili prese di posizione, di fatto distolgono l'attenzione dai problemi strutturali e dalle responsabilità politiche e storiche della generazione che causato quei problemi. L'Italia non è un paese per giovani, è un posto dal quale chi ha voglia e capacità di fare al momento trova più conveniente emigrare.
Lo sforzo sul quale concentrare le energie dovrebbe essere quello di ridurre per quanto possibile le distorsioni, che ostacolano la libera espressione gli individui, non solo giovani, e che gli impediscono di trovare adeguata soddisfazione sul piano personale e professionale in Italia. Se non si affrontano questi nodi strutturali, le scelte più logiche spazieranno sempre tra l'emigrazione e la ricerca di qualche sussidio o clientela locale.
*Testo editato su segnalazione da Twitter
]]>Il compito è stato assolto bene. Il numero dei vaccinati è finalmente arrivato a mezzo milione al giorno (i livelli inglesi di febbraio, giusto per ricordare) ed il piano è stato mandato a Bruxelles con promesse di riforme abbastanza dettagliate da apparire credibili (anche grazie al nome di Draghi). Il cambiamento è stato sottolineato licenziando Arcuri e Vecchione. Sarebbe stato meglio far fallire Alitalia, ma non si può avere tutto dalla vita. Manca ancora la governance del PNRR ma dovrebbe arrivare a breve.
Il successo però ha avvicinato il momento del redde rationem politico, preannunciato dalla doppia intervista a Salvini su Repubblica e di Brunetta al Foglio. In sostanza, la destra chiede a Draghi di candidarsi alla presidenza della repubblica e di indire subito dopo elezioni che, dato lo stato pietoso della sinistra, è sicura di vincere. La sinistra, o quello che rimane dopo le brillanti pensate di Goffredo Bettini, rilutta e chiede a Draghi di rimanere presidente del consiglio per fare le riforme. Spera in tal modo di mantenere il potere ancora per un paio di anni e, salvo cambiamento di idea di Mattarella su un mandato breve stile Napolitano, di eleggere al Quirinale uno dei tanti potenziali candidati di area. Draghi tenta di accelerare presentando alcune riforme come decreti legge per farle approvare prima dell’inizio del semestre bianco che gli toglierebbe l’opzione nucleare delle dimissioni/scioglimento del parlamento.
Lo spettacolo è ovviamente e prevedibilmente penoso. Se uno volesse per un momento, ignorare questi giochetti di infimo livello, dovrebbe chiedersi ‘quale delle due opzioni (Draghi presidente e Salvini primo ministro nel gennaio 2022/X presidente e Draghi primo ministro fino al gennaio 2023) conviene di più al paese?’ In prima battuta, la risposta è ovvia: l’opzione che garantisce l’approvazione delle riforme – o almeno di alcune di esse. Ma è una risposta vuota, perchè a sua volta solleva alcune domande
E infine, la domanda più difficile: dato per scontato che gli italiani non vogliono le riforme (o più precisamente, sono totalmente contrari alle riforme che mettono in dubbio il proprio reddito, status e stile di vita e quello dei propri amici e parenti ed approvano entusiasticamente quelle che mettono in dubbio reddito, status e stile di vita degli estranei), quale partito/coalizione è più disposto a rischiare e su quali riforme?
Le risposte (?) alla prossima puntata
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Da quando a Giuseppe Conte e al PD è fallita l'operazione Ciampolillo, non passa giorno che il suo giornale, i suoi social, i suoi sgherri più affezionati, non attacchino il governo Draghi reo di aver defenestrato "un esecutivo che aveva conquistato 209 miliardi e un commissario troppo efficiente" (cit.).
Per godere delle sue agiografie, oltre ad abbonarsi al giornale che non prende finanziamenti pubblici ma prestiti con garanzia pubblica si, basta sintonizzarsi una qualunque sera sul programma di Lilly Gruber e attendere l'apparizione del sorrisetto beffardo. Se per caso lui non c'è state tranquilli, ci saranno di sicuro i suoi epigoni Scanzi o Padellaro.
L'ultima performance del 6 maggio è stata epica. Lui, che con i numeri ha lo stesso rapporto che io ho con il dialetto swahili, ha affermato categoricamente che
i) "il fallimento di Figluolo è certificato dai numeri"
ii) "squadra che vince non si cambia"
iii) "Con Arcuri eravamo primi in Europa, ora siamo quarti su 4"
Ora al vedovo inconsolabile spieghiamo un po' di cose:
i) I numeri (ah saperli leggere!) dicono che l'obiettivo 500k somministrazioni al giorno si può dire raggiunto, fatte salve le normali oscillazioni giornaliere.
Ma il vero numero che conta è quello dato dalla percentuale di somministrazioni in rapporto alle dosi disponibili. Fino alla gestione Arcuri quella percentuale era intorno al 70% (con casi del 50% in alcune regioni), ora viaggia verso il 90%
ii) la squadra che vinceva, se fosse rimasta al suo posto, a questo punto sarebbe impegnata nell'allestimento dei padiglioni primula. Cosa cazzo vinceva quella squadra lo sa solo lui.
Forse vinceva il sequestro di 2,5 milioni di mascherine fuori legge pagate con denaro pubblico e per cui Arcuri non potrà essere messo sotto accusa per danno erariale solo perché il sodale Conte, nell'atto di nomina del marzo 2020 all'art. 122, gli aveva garantito l'immunità.
iii) A parte il fatto che l'Europa è composta da 27 Paesi (28 se usiamo come benchmark anche UK) e non 4, l'Italia è stata prima per pochissimi giorni quando la Francia era ferma a zero e si poteva vaccinare solo il personale sanitario.
Per una verifica delle vaccinazioni somministrate basta controllare la pagina web del governo https://www.governo.it/it/cscovid19/report-vaccini/, mentre per una comparazione fra Stati potete utilizzare questo link https://ourworldindata.org/covid-vaccinations.
Sono entrambi ben più documentati e affidabili dei sorrisetti.
Il citato studio sottolineava quanto gli investimenti sostenibili fossero cresciuti in dimensioni e quello che solo qualche anno fa era un vezzo delle aziende si è trasformato in una vera mission e un criterio di valutazione finanziario. Poi c’è stata la pandemia che ha mostrato al mondo la fragilità del mondo in cui viviamo e delle nostre stesse vite, ci ha fatto capire che non possiamo avere il controllo completo sulla natura e sulle sue mutazioni, ci ha dato molta più percezione dei rischi ambientali e sanitari, in poche parole ci ha fatto capire che non siamo invincibili. Di qui una maggiore sensibilità ai temi che riguardano la salvaguardia dell’ambiente, il rispetto umano, la lotta a ogni tipo di discriminazione, scelte d’acquisto più consapevoli. Siamo ormai bombardati da parole come “transizione ecologica”, “green deal”, “net zero emissions”, tutte le iniziative istituzionali, che a vario livello vanno verso un’unica direzione: quella di promuovere azioni economiche che hanno una visione a lungo termine e perseguono il raggiungimento del profitto ma anche la tutela del mondo in cui viviamo.
Cosa significa tutte questa attenzione in termini di investimento privato? Studi e ricerche hanno dimostrato che i fondi che investono in società con una politica ESG forte hanno sovraperformato gli indici di riferimento, perché hanno un maggiore controllo nella gestione del rischio. Questo ci porta a pensare che non è più soltanto un trend passeggero, ma una prassi che verrà sempre più consolidata nel mondo post-Covid.
Secondo un più recente studio condotto da ricerca McKinsey-Anasf, il 13 per cento delle masse dei consulenti finanziari è investito in prodotti ESG e oltre il 30 per cento di loro ha più del 15 per cento del portafoglio dei clienti investito in strumenti sostenibili. E secondo la società di ricerca tale peso potrebbe anche raddoppiare, grazie anche a nuove soluzioni di investimento, consulenza e formazione.
Ai criteri ESG e al tema degli investimenti sostenibili abbiamo deciso di dedicare la prossima puntata di #EduFin, condotta da Annalisa Lospinuso e Massimo Famularo. Nel corso della puntata sentiremo anche il parere di un analista finanziario esperto in materia e del presidente di Etica Sgr, Ugo Biggeri, autore del libro “I soldi danno la felicità”.
Appuntamento a mercoledì 5 maggio, alle ore 21.30, in diretta Twitch. Dopo la prima parte di approfondimento, i conduttori e l’ospite risponderanno alle vostre domande e avrete la possibilità di partecipare a una sessione di Q&A esclusiva per gli utenti di Twitch.
]]>Alla fine, vista la mia lunga esperienza di concerti del Primo Maggio (come inviato Rai per molti anni e per una sola volta, 2013, come co-conduttore), proverò a fornire qualche elemento per far comprendere la mia posizione ed aiutare tutti a farsi la propria, fermo restando che sono sempre disponibile a cambiare la mia.
Mi scuso a priori per la lunghezza dell'intervento, ma tant'è...
1) Sul Decreto Zan io sono d'accordo innanzitutto con lo stesso Alessandro Zan, che conosco da quando era assessore a Padova e che ho avuto modo di intervistare, per Liberi Oltre le Illusioni, con alcuni colleghi e con Luca Paladini.dei Sentinelli di Milano. Ritengo necessario il provvedimento e sono sconfortato dall'atteggiamento del presidente della commissione giustizia del Senato. Quindi su questo punto vedo con favore l'iniziativa di Fedez e mi fa piacere che lui metta a disposizione la sua enorme influenza mediatica in tal senso.
2) Il "Concerto del Primo Maggio" è "organizzato", dai tre sindacati confederali, che però non lo organizzano direttamente, ma tramite una società selezionata da loro. Quindi, correggendo un po' Wikipedia, potremmo meglio dire che è "promosso" da CGIL, CISL e UIL e organizzato da una società esterna da loro scelta: nel 2021 la iCompany. In passato sono state scelte dai tre sindacati società molto opinabili. Come ho ricordato in un recente post, nel 2013 lavorai come co-conduttore (con Geppi Cucciari prima conduttrice) ma molti dei contratti di quell'anno non vennero onorati [oggi ho scoperto che il mio nome figura sulla pagina Wikipedia del concertone, ma aspetto ancora il compenso]. La Rai, come giustamente ricordato proprio nel corso della ormai celebre telefonata con Fedez, fa semplicemente "un acquisto di diritti e ripresa". Quindi, dei tre soggetti in ballo (Sindacati, iCompany e Rai) è iCompany (incaricata dai Sindacati dell'organizzazione del concerto) che decide chi fa cosa sul palco del Concertone. Questo sembrano dimenticarselo, stamani, molti dei commentatori.
3) Certo, non siamo ingenui, è tutto interesse di iCompany, se vuole mantenere il suo posto per l'anno prossimo, di non fare salire sul palco soggetti o posizioni sgraditi al Sindacato. Ed è anche suo interesse, se vuole vendere i diritti del Concertone alla Rai ancora per l'anno prossimo, di evitare di trasformare il palco in una tribuna politica senza contraddittorio. Ma se avessero voluto correre qualche rischio, visto che sono i titolari del concerto, ritengo che i signori della iCompany avrebbero potuto farlo senza chiedere il permesso a nessuno.
4) Qui si apre un problema laterale, ma più generale rispetto alla vicenda specifica. In tutto il mondo occidentale gli "artisti" (dal cinema di Hollywood al rock di Pontassieve) sono tendenzialmente più "di sinistra" del resto della popolazione e dell'establishment. Quindi per dei sindacati "di sinistra" è estremamente facile raccogliere musicisti di ottimo livello e mettere in piedi un concerto degno di essere trasmesso dalle reti nazionali, in cui - ad esempio - Fedez, o Elio, o Daniele Silvestri possano dire la loro, in modo estremamente esplicito, tra una canzone e l'altra. In un paese diviso in due tra sinistra e destra, ma con gli artisti tendenzialmente orientati a sinistra, sarebbe quasi impossibile immaginare un concertone o una manifestazione artistica di orientamento opposto e di livello analogo. Questo è un dato di fondo di cui tenere conto.
5) Pertanto la situazione che si stava apparecchiando era questa: su un palco "di sinistra", un artista "di sinistra" (col Rolex finché si vuole, ma sempre di "sinistra") stava per dire delle cose “di sinistra”. O meglio: che non dovrebbero essere considerate "di sinistra" (perché sono sacrosanti diritti civili) ma che finiscono per esserlo perché in Italia il principale partito di destra si mette di traverso. A questo punto, un dirigente della tv pubblica (molto probabilmente "di sinistra" o "di centrosinistra" a sua volta) può benissimo, a mio avviso, avvisare l'artista che inchiodare i leghisti uno per uno, con nome e cognome, alle loro assurde dichiarazioni omofobe (però in un contesto che non prevede contraddittorio) potrebbe essere "non opportuno". Anche se io la penso come Fedez, sul punto specifico, capisco che farlo in quel modo, potrebbe configurare quasi un "abuso di posizione dominante" (dal punto di vista strettamente culturale) da parte della sinistra
6) Ma poi, ascoltando bene la telefonata, la dirigente Rai, a specifica domanda di Fedez se lui stesso può dire qualcosa ritenuto da lei "non opportuno", lei risponde “assolutamente" (intendendo "assolutamente sì") avendo già precisato in precedenza che la Rai si limita a trasmettere il concerto, non a organizzarlo e che quello che succede sul palco è materia della iCompany.
7) Fedez se la prende con la Rai per la "censura", mai avvenuta e pubblica parte della telefonata. Perché solo parte? Ma l'80% della telefonata, poi pubblicata dalla Rai, non avviene con personale Rai, ma con personale iCompany, che - più realisti del re - "sconsigliavano" Fedez di fare quel tipo di intervento. Se vogliamo, la sezione della telefonata con la dirigente Rai era quella meno "bloccante" sia nel merito, sia nel metodo (la Rai è solo il broadcaster e non il produttore dell'evento).
8 ) Spiace vedere oggi, ma all'origine dell'equivoco temo ci sia lo stesso Fedez, che ad essere sotto schiaffo sia la Rai e la sua lottizzazione (e chi la nega?) quando la telefonata dimostra chiaramente che l'intervento "censorio" era condotto principalmente dal personale della società indicata dai sindacati. Perché Fedez punta il dito soprattutto contro la Rai? Perché in questo lo seguono Massimo Giannini e altri commentatori? Perché Repubblica a pagina 2 titola "Omofobia, bufera Fedez "La Rai voleva censurare le mie frasi anti-Lega”" e poi nel suo pezzo Giovanna Vitale scrive che iCompany è la "società che produce chiavi in mano la kermesse per la Rai" quando iCompany produce per (ed è scelta da) la triplice sindacale? Perché persino il Post titola il suo pezzo "Com'è andata la telefonata tra Fedez e la Rai" quando 3/4 della telefonata sono tra iCompany e Fedez?
9) Alla fine, in fondo, gongola Salvini che battezza questa come una polemica tutta interna alla sinistra. Ed in fondo è vero: si tratta di una polemica tra a) una sinistra sindacale che organizza un concerto in cui ospitare una posizione per me sacrosanta, ma inevitabilmente di parte e giustamente molto aggressiva b) una sinistra di produzione concerti che se la fa sotto a mandare sul palco quella posizione c) una sinistra pubblica che vuole evitare l'abuso di posizione culturale dominante (almeno tra gli artisti)
10) Un vero punto dieci non c’è, ma lo lasciamo libero ad accogliere nuovi elementi. E poi così abbiamo un vero decalogo: non prescrittivo, ma riepilogativo
]]>Abbiamo fondato un'associazione che non è stata ancora presentata pubblicamente... per mancanza di tempo.Il volontarismo ha i suoi costi ed uno di essi e’ rimandare a quando diventano possibili le cose che si vorrebbero fare subito.
L’adesione all’associazione inizierà a metà maggio quando avremo presentato la nuova organizzazione dei canali di diffusione dei contenuti, quindi ... #staytuned
Perche’ altri canali su YT?
Perche’ quello originale e’ intasato da troppi contenuti troppo differenti tra loro. Tutti di buona qualita, spesso notevole e qualche volta eccezionale ma troppi e troppo eterogenei. Per mille ragioni questo ne rallenta o persino impedisce la diffusione. Quindi proviamo con tre canali video ed uno di podcast.
Riorganizziamo quindi l’offerta informativa di Liberi Oltre su YT con un canale che si occupa di attualita’, cronaca e debunking (quello “vecchio”) e due canali di approfondimento culturale. Questi ultimi si sono ripartiti, per cosi dire, i campi tematici seguendo linee piuttosto scontate: uno, STEM, per i temi percepiti come “duri” ed un secondo, Agora’, per quelli percepiti come “teneri”.
Intendiamo inoltre dare maggior costanza e sostanza, anche attraverso contenuti originali, alla presenza nel mondo dei podcast ed anche, seppur con modalita’ differenti, nel mondo dei social su cui Liberi Oltre e’ gia’ presente da tempo da Instagram a ClubHouse, passando per tutti gli altri.
La presentazione inizia stasera con il nuovo canale YT Liberi, Oltre le Illusioni – STEM, dove STEM sta per Science, Technology, Engineering, Mathematics. Un acronimo italiano? Ci dispiace ma non l’abbiamo trovato.
Ci vediamo stasera alle 21:30
La redazione di Liberi Oltre STEM
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Come si fa a capire se conviene?
La risposta dipende dal valore che a livello individuale attribuite alla possibilità di andare in pensione qualche anno prima. Se odiate il vostro lavoro e attribuite la massima importanza a smettere di lavorare prima possibile, può avere senso prendere in considerazione il riscatto agevolato, per quanto questa scelta possa essere finanziariamente penalizzante.
Quanto costa ?
Prendiamo un esempio dal sito dell'INPS:
Ipotizziamo un soggetto voglia riscattare quattro anni di laurea e che abbia presentato domanda di riscatto nel Fondo Pensioni Lavoratori Dipendenti il 31 gennaio 2021; considerando una retribuzione lorda degli ultimi 12 mesi meno remoti pari a 32.170 euro l’importo da pagare per riscattare quattro anni è pari a 42.464,4 euro (32.170×33% =10.616,1 x 4 anni = 42.464,4).
Esiste anche una misura nota come riscatto agevolato (cfr. articolo 20, comma 6, decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4,convertito con modificazioni dalla legge 26/2019) che consente di ridurre gli oneri da sostenere per procedere riscattare gli anni di studio. Per il 2021 il reddito minimo annuo da prendere in considerazione ai fini del calcolo del contributo IVS dovuto dagli artigiani e dai commercianti è pari a 15.953 euro. A questo importo va applicata l’aliquota del 33%. Quindi, per le domande presentate nel corso del 2021, il costo per riscattare un anno di corso è pari a 5.264,49 euro.
Quali elementi vanno tenuti a mente per valutare in modo consapevole questa scelta?
Per rispondere a questa domanda ci vediamo sul canale Twich di Liberi oltre le Illusioni mercoledì 28 aprile alle 21:30 come sempre con una prima parte informativa e divulgativa e una seconda dedicata alle domande e risposte.
NB la registrazione della seconda parte sarà disponibile solo per gli abbonati del canale Twich.
Riferimenti:
Due conti sulla pensione. A chi conviene il riscatto agevolato?, Econopoly24
Finanza in Pillole - 2021-04 - Conviene riscattare gli anni dell'università?
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Oratorio vs. globalizzazione
Chi in generale si è espresso contro la Supelega ha fatto spesso riferimenti nostalgici ad un calcio antico, fatto da piccole squadre di provincia che si confrontano con le grandi, fatto dalla passione in verità un po' primitiva nata all'ombra di un campanile, fatta di colori (quelli della maglia) e fatta da campi in terra battuta e pietrisco su cui quelli della mia generazione si sbucciavano le ginocchia. E' un mondo quello che ha un qualche fascino ma che oggi nel ventunesimo secolo può al più entrare nelle scene di un film neorealista. Quel calcio non esiste; o almeno non esiste ai livelli in cui i club di Liga, Premier e Serie A si muovono in cui gli ingaggi, il giro d'affari e il merchandising parlano una lingua completamente diversa.
Ragion per cui l'obiezione nostalgica è completamente fuori sincrono. Leghe nazionali, Uefa e Fifa ne sono consapevoli essendo loro stesse parte del business calcio.
I governatori del calcio
La Uefa è una società costituita nel 1954 dalle leghe francesi, italiane e belghe. Oggi conta 55 federazioni nazionali. Organizza e gestisce i tornei europei che vanno da quelli più noti a quelli giovanili. Sovrintende a tutti i regolamenti calcistici europei e talvolta si scontra con regole di rango superiore della UE e con le sentenze dei tribunali. Soprattutto negozia e distribuisce i proventi derivanti dai diritti tv che rappresentano ormai una parte preponderante dei ricavi dei club. Nella distribuzione dei proventi naturalmente applica criteri perequativi a vantaggio degli attori più deboli (e dei suoi non trascurabili costi di funzionamento)..
Lo scontro sull'applicazione di questi criteri non è nuovo. Risale ad almeno due decenni fa quando il calcio iniziò ad essere fenomeno globale grazie alle televisioni. Dal 1955, anno di nascita della Coppa dei Campioni, la formula del "campionato europeo per club vincitori dei trofei nazionali" è cambiato 11 volte, 8 delle quali negli ultimi 26 anni da quando si chiama Champion League. A testimoniare il fatto che la rincorsa verso la massimizzazione dei profitti derivanti da diritti televisivi è stata tormentata e, di fatto, incompiuta. Diritti televisi che, occorre dirlo, sono frutto dell'appeal dei top club (e quindi dei loro investimenti) e dei top player enormemente più di quanto siano alimentati dalla passione delle tifoserie per le piccole squadre.
I top club
Una stagione di CL vale circa 3 miliardi di ricavi da diritti televisivi. Agli "attori" vanno grosso modo i 2/3 di questa torta. Poco o molto che siano in valore assoluto, si tratta di cifre che dipendono a) dal numero di squadre partecipanti e quindi di partite previste b) dal percorso di ciascun club fino alla conclusione del torneo c) dalle decisioni che vengono prese a Nyon.
Per società private che hanno elevati o elevatissimi costi operativi l'anelasticità dei ricavi è un problema esiziale. Certo potrebbero ridurre i costi come si fa in qualunque altra iniziativa privata virtuosa condotta secondo criteri di economicità, ma il calcio è per sua natura un mondo a parte. Un mondo fatto di passione e tifo che spesso determinano scelte non razionali, di opinione pubblica e di sovracopertura mediatica, di imprevedibilità di eventi (il pallone è pur sempre rotondo, come si suole dire).
Un club sportivo per coprire i propri costi e magari competere ad alto livello agonistico può a) ricorrere a finanza esterna, è il caso ad esempio di Manchester City e Paris Saint-Germain; b) differenziare il proprio prodotto puntando sul merchandising e lo stadio di proprietà, è il caso ad esempio di Juventus; c) ricorrere alle sinergie infragruppo, è il caso ad esempio dell'Inter.
Si tratta sempre in tutti i 3 casi di proventi non derivanti dalla gestione caratteristica che si sostanzia comunque con la partecipazione a tornei competitivi.
Il tentativo di creare una Superlega è stato dunque determinato dalle necessità, legittime, dei club più ricchi (e indebitati) di trovare il modo migliore di vendere il loro prodotto che è un prodotto frutto dei loro investimenti e del loro rischio d'impresa. Il fastidio, l'irritazione quasi, per la pubblicizzazione dei ricavi e la privatizzazione dei costi, non è né una provocazione né frutto avvelenato di egoistiche logiche di mercato (neoliberista, ca va sans dire).
I tentativi Uefa di rispondere a queste istanze attraverso l'aumento del numero di partite giocate sono inefficaci perché inefficaci sono i criteri di redistribuzione dei proventi. Che quel genere di spettacolo possa produrre di più lo certifica il fatto che un grande operatore finanziario come JP Morgan è pronto a mettere sul piatto dei "ribelli" 3,5 miliardi di dollari l'anno per un torneo che a livello mediatico rivaleggerebbe con Superbowl e olimpiadi.
Risibili appaiono le obiezioni secondo le quali verrebbe a mancare la competizione o che alla lunga un Real Madrid-PSG giocato 4 volte l'anno stuferebbe. La competizione è insita in tutti gli sport professionistici e RM-PSG diventerebbe presto un nuovo clasico con rivincite continue.
E le piccole squadre?
Credo, e ne sono convinto fermamente, che il mix fra le aspirazioni dei top club di riappropriarsi del loro prodotto e di quelle dei piccoli club di confrontarsi e magari crescere, possa essere agilmente raggiunto se nella dialettica feroce di questi giorni si introducessero elementi di razionalità non inquinati da retorica politica. Basterebbe ridisegnare i calendari, ridefinire in modo serio e non predatorio la distribuzione dei proventi, evitare di minacciare il ban per le squadre o addirittura la squalifica dai tornei per i calciatori che di quelle squadre sono dipendenti.
Lo sport come tutte le attività umane si evolve. Pensare di contenere l'evoluzione nelle gabbie della nostalgia per un calcio che già non esiste più è illusorio e pericoloso. Certo non vedremmo forse mai un Crotone-Liverpool ma, francamente, anche con le regole attuali non mi sento di poetr dire che sia una eventualità possibile.
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Le finalità di questa scelta sono giuste:
concorrere ad accelerare e implementare a livello territoriale la capacità vaccinale;
rendere più sicura la prosecuzione delle attività commerciali e produttive sull'intero territorio nazionale;
accrescere il livello di sicurezza degli ambienti di lavoro.
Il Protocollo si fonda anche sulle Indicazioni tecniche ad interim - approvate dalla Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome e con validità sull’intero territorio nazionale - per la costituzione, l’allestimento e la gestione dei punti vaccinali straordinari e temporanei nei luoghi di lavoro. Il documento tecnico è stato redatto in coerenza con il Piano strategico nazionale dei vaccini per la prevenzione delle infezioni da SARS-CoV-2 e le Raccomandazioni ad interim sui gruppi target della vaccinazione anti-SARS-CoV-2/COVID-19” di cui al decreto del Ministero della Salute del 12 marzo 2021.
Sono state previste tre differenti opzioni vaccinali.
La vaccinazione diretta nei luoghi di lavoro
I datori di lavoro potranno predisporre punti straordinari di vaccinazione anti SARS-CoV-2 nei luoghi di lavoro per la somministrazione in favore delle lavoratrici e dei lavoratori che ne abbiano fatto volontariamente richiesta.
In particolare, il Protocollo (punti 2 -11) prevede che i datori di lavoro, singolarmente o in forma aggregata e indipendentemente dal numero di lavoratrici e lavoratori occupati, con il supporto o il coordinamento delle Associazioni di categoria di riferimento, potranno manifestare la disponibilità ad attuare piani aziendali per la predisposizione di punti straordinari di vaccinazione nei luoghi di lavoro.
I piani aziendali dovranno essere proposti direttamente dai datori di lavoro, anche per il tramite delle rispettive Organizzazioni di rappresentanza, all’Azienda Sanitaria di riferimento, nel rispetto delle Indicazioni ad interim e delle eventuali indicazioni specifiche emanate dalle Regioni e dalle Province Autonome per i territori di rispettiva competenza.
La somministrazione del vaccino è riservata ad operatori sanitari in grado di garantire il pieno rispetto delle prescrizioni sanitarie adottate per tale finalità e in possesso di adeguata formazione per la vaccinazione anti SARS-CoV-2/Covid-19 e dovrà essere eseguita in locali idonei che rispettino i requisiti minimi definiti con le Indicazioni ad interim (richiamate al paragrafo 2).
In questo caso, i costi per la realizzazione e la gestione dei piani aziendali, inclusi i costi per la somministrazione,sono interamente a carico del datore di lavoro, mentre la fornitura dei vaccini, dei dispositivi per la somministrazione (siringhe/aghi) e la messa a disposizione degli strumenti formativi previsti e degli strumenti per la registrazione delle vaccinazioni eseguite è a carico dei Servizi Sanitari Regionali territorialmente competenti.
La vaccinazione presso strutture esterne private
I datori di lavoro potranno anche stipulare una specifica convenzione con strutture esterne in possesso dei requisiti per la vaccinazione.
In particolare, il punto 12 del Protocollo prevede - in alternativa alla modalità della vaccinazione diretta in azienda - che i datori di lavoro potranno procedere alla vaccinazione attraverso il ricorso a strutture sanitarie private, concludendo, anche per il tramite delle Associazioni di categoria di riferimento o nell’ambito della bilateralità, una specifica convenzione con strutture in possesso dei requisiti per la vaccinazione.
In questo caso gli oneri saranno a carico del datore di lavoro, ad esclusione della fornitura dei vaccini che viene assicurata dai Servizi Sanitari Regionali territorialmente competenti.
La vaccinazione presso strutture sanitarie dell'INAIL
Il punto 13 del Protocollo dispone che i datori di lavoro che, ai sensi dell’articolo 18 comma 1, lettera a) del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, non sono tenuti alla nomina del medico competente ovvero non possano fare ricorso a strutture sanitarie private, potranno avvalersi delle strutture sanitarie dell’INAIL. In questo caso, trattandosi di iniziativa vaccinale pubblica, gli oneri restano a carico dell’INAIL.
Per quanto riguarda, infine, le ferie e i permessi, il Protocollo prevede che se la vaccinazione è eseguita in orario di lavoro, il tempo necessario alla medesima sarà equiparato a tutti gli effetti all'orario di lavoro.
Inoltre, sempre il 6 aprile scorso, è stato sottoscritto anche il "Protocollo condiviso di aggiornamento delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus SARS-CoV-2/COVID-19 negli ambienti di lavoro" che aggiorna e rinnova i precedenti accordi su invito del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali e del Ministro della Salute, che hanno promosso un nuovo confronto tra le Parti sociali, in attuazione della disposizione di cui all'articolo 1, comma 1, numero 9), del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 11 marzo 2020, che - in relazione alle attività professionali e alle attività produttive - raccomanda intese tra organizzazioni datoriali e sindacali.
In continuità con i precedenti accordi, il Protocollo condiviso fornisce indicazioni operative aggiornate, finalizzate a incrementare, negli ambienti di lavoro non sanitari, l’efficacia delle misure precauzionali di contenimento adottate per contrastare l’epidemia di COVID-19.
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In particolare, la punibilità viene esclusa quando l'uso del vaccino, somministrato nel corso della campagna vaccinale straordinaria in attuazione del Piano di cui all'articolo 1, comma 457 della Legge 178/2020, risulti conforme alle indicazioni contenute nel provvedimento di autorizzazione all’immissione in commercio (emesso dalle competenti autorità) e alle circolari pubblicate sul sito internet istituzionale del Ministero della salute relative alle attività di vaccinazione (ed ai singoli prodotti vaccinali).
Come osserva la relazione illustrativa e tecnica del disegno di legge di conversione, la norma ha efficacia retroattiva, in quanto disposizione più favorevole, o in bonam partem, attesa la finalità di equiparare il trattamento dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo dell'entrata in vigore degli stessi.
In base al regime delle successioni delle leggi penali nel tempo cui all'art. 2 c.p., quindi, la norma più favorevole trova applicazione anche ai casi già verificatisi.
La lex specialis
La limitazione della responsabilità penale introdotta dal DL in questione, poi, essendo norma speciale, finisce anche per derogare la disciplina contenuta nel comma 2 dell’articolo 590-sexies del c.p. In particolare, quest'ultima norma esclude la punibilità per i casi di omicidio colposo o lesioni personali colpose commessi nell'esercizio della professione sanitaria, qualora l'evento si sia verificato a causa di imperizia - e quindi non per negligenza o imprudenza - e siano state rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida (adeguate alle specificità del caso concreto), come definite e pubblicate ai sensi di legge, ovvero, in mancanza di esse, le buone pratiche clinico-assistenziali. La Corte di cassazione, nella sentenza n. 8770 del 22 febbraio 2018, ha interpretato questa disposizione nel senso che essa non esclude i casi di imperizia contraddistinta da colpa grave, oltre che i casi di imperizia verificatasi in assenza di linee guida o buone pratiche applicabili (all'atto sanitario in questione) ovvero con individuazione delle stesse in maniera inadeguata (da parte del reo) e in generale i casi di negligenza o imprudenza.
La ratio legis
In un'ottica di maggiore certezza giuridica (così si legge nella relazione di accompagnamento), lo scudo penale avrebbe come fine quello di rassicurare il personale sanitario ed in genere i soggetti coinvolti nelle attività di vaccinazione. In un contesto caratterizzato da margini di incertezza scientifica, e da un quadro in continua evoluzione, la prospettiva di incorrere in possibili responsabilità penali, in conseguenza di eventi avversi ascrivibili, anche solo in ipotesi, alla somministrazione del vaccino, può ingenerare allarme tra quanti sono chiamati a fornire il proprio contributo al buon esito della campagna di vaccinazione nazionale che rappresenta allo stato una priorità per la tutela della salute pubblica.
L'esigenza di offrire una tutela penale era stata sollecitata anche da vari esperti del mondo giuridico in un recente post pubblicato sula rivista giustiziainsieme.it, tra cui l'on. avv. Francesco Paolo Sisto, Sottosegretario alla Giustizia.
La campagna vaccinale
Come detto, l'articolo 1, comma 457, della L. 30 dicembre 2020 n. 178, ha previsto l’adozione, con decreto del Ministro della salute (di natura non regolamentare), del piano strategico nazionale dei vaccini per la prevenzione delle infezioni da virus SARS-CoV-2.
L'ultima versione del piano strategico nazionale è stata adottata con D.M. del 12 marzo 2021. In questo atto, il secondo allegato è costituito dall'ultimo documento di programmazione precedente (del 10 marzo 2021), il quale può essere considerato come il documento che attualmente reca le linee di pianificazione in oggetto. Inoltre, nel quadro di tale programmazione, il Commissario straordinario per l'attuazione e il coordinamento delle misure occorrenti per il contenimento e contrasto dell'emergenza epidemiologica COVID-19 ha presentato il 13 marzo 2021 un proprio documento di pianificazione in materia.
]]>E' questa la frase iniziale dellaproposta di regolamento, presentata dalla Commissione europea il 21 marzo scorso, sull'istituzione del cosiddetto certificato verde digitale.
La ratio è agevolare la libera circolazione, fornendo ai cittadini certificati interoperabili, reciprocamente accettati tra gli Stati membri che, nel momento in cui ci saranno maggiori dati scientifici sulla vaccinazione anticovid, consentiranno ai Paesi di revocare le restrizioni in maniera coordinata.
Secondo la Commissione, l'assenza di un'azione unitaria europea porterebbe i singoli Stati all'adozione di sistemi diversi, con la conseguenza di causare possibili problemi ai cittadini nel far accettare i propri documenti in altri Stati membri.
Ma la libera circolazione all'interno dello spazio Schengen è un diritto fondamentale che va assicurato. Lo affermano diverse disposizioni quali la Convenzione di applicazione dell'accordo di Schengen,l’articolo 22 del Regolamento (UE) 2016/399, l'artico 21 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, nonché l'articolo 45 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Per questo, la Commissione europea ha lavorato con gli Stati membri nell'ambito della Rete di assistenza sanitaria online - una rete volontaria che collega le autorità nazionali responsabili dell'assistenza sanitaria online - e con il Comitato per la sicurezza sanitaria, alla preparazione dell'interoperabilità dei certificati di vaccinazione. Ed il 27 gennaio scorso, la rete eHealth ha adottato gli orientamenti sulla prova della vaccinazione a fini medici, aggiornati il 12 marzo, che definiscono gli standard di codici preferiti e dovrebbero costituire la base delle previste specifiche tecniche.
Lo stesso 12 marzo è stata anche concordata la bozza del trust framework ("quadro di fiducia") sull'interoperabilità dei certificati sanitari ed il 17 febbraio il Comitato per la sicurezza sanitaria ha concordato un elenco comune di test antigenici rapidi per il Covid-19 riconosciuti dagli Stati membri, oltre a una serie comune standardizzata di dati da inserire nei certificati riguardanti i risultati dei test per la Covid-19.
Per facilitarne l’adozione della proposta sul certificato verde digitale entro l'estate, durante il dibattito in plenaria del 24 marzo scorso, i deputati del Parlamento europeo hanno deciso di applicare la procedura d’urgenza (in base all'articolo 163 del Regolamento interno), che consente un esame più celere delle proposte della Commissione europea. Inoltre, come preannunciato dal commissario al Mercato interno dell'Ue, a capo della task force per i vaccini, Thierry Breton, il certificato dovrebbe essere disponibile già a partire dal 15 giugno.
Tuttavia, il possesso di un "certificato verde digitale", come sostiene la Commissione europea, non deve diventare una conditio sine qua non per l'esercizio della libera circolazione. Va evitata, dunque, qualsiasi forma di discriminazione. Chi non è vaccinato - per motivi medici o perché non rientra nel gruppo di destinatari per i quali esso è raccomandato, come i bambini, o perché non ha ancora avuto la possibilità di essere vaccinato o non desidera essere vaccinato - dovrà poter continuare ad esercitare il diritto alla libera circolazione, assoggettandosi a restrizioni come un test obbligatorio e un periodo di quarantena/autoisolamento. In particolare, aggiunge la Commissione, il regolamento sul green pass non deve essere interpretato come un obbligo o un diritto ad essere vaccinati.
Saranno tre le condizioni valutate:
Tuttavia, il possesso di uno di questi certificati non costituisce, secondo la Commissione, una condizione preliminare per esercitare i diritti di libera circolazione e non può essere una condizione pregiudiziale per viaggiare.
Il Consiglio d'Europa ha evidenziato anche che "gli Stati devono informare i cittadini che la vaccinazione non è obbligatoria" e "i certificati di vaccinazione devono essere utilizzati solo per monitorare l'efficacia, i potenziali effetti collaterali e negativi dei vaccini", in quanto "utilizzarli come passaporti sarebbe contrario alla scienza, in assenza di dati sulla loro efficacia nel ridurre la contagiosità e sulla durata dell'immunità acquisita".
Quanto alla privacy, il "certificato verde" non richiederà la creazione di una banca dati a livello dell'Ue, ma dovrà consentire la verifica decentrata dei certificati interoperabili firmati digitalmente. Inoltre, poiché i dati personali comprendono dati medici sensibili, si dovrà garantire un livello di protezione dei dati molto elevato, preservando il principio della minimizzazione dei dati.
Il green pass, rilasciato a tutti i cittadini dell'Ue e valido in tutti gli Stati membri, potrà applicarsi anche all'Islanda, al Liechtenstein, alla Norvegia ed alla Svizzera.
La misura temporanea sarà sospesa quando l'Oms dichiarerà la fine dell'emergenza sanitaria internazionale, ma potrebbe essere ripresa in caso di un'altra pandemia.
Sul sito IPEX, la piattaforma per lo scambio interparlamentare dell'UE, è possibile seguire l'iter di approvazione della proposta da parte degli altri Parlamenti nazionali. Ad oggi solo l'Austria ha concluso l'esame senza rilevare elementi di criticità, mentre per la Lituania è ancora in corso la verifica.
]]>il Commissario attua e sovrintende a ogni intervento utile a fronteggiare l'emergenza sanitaria, organizzando, acquisendo e sostenendo la produzione di ogni genere di bene strumentale utile a contenere e contrastare l'emergenza stessa, o comunque necessario in relazione alle misure adottate per contrastarla, nonche' programmando e organizzando ogni attivita' connessa, individuando e indirizzando il reperimento delle
risorse umane e strumentali necessarie, individuando i fabbisogni, e procedendo all'acquisizione e alla distribuzione di farmaci, delle apparecchiature e dei dispositivi medici e di protezione individuale.
Il Commissario, raccordandosi con le regioni, le province autonome e le aziende sanitarie e fermo restando quanto previsto dagli articoli 3 e 4 del presente decreto, provvede, inoltre al potenziamento della capienza delle strutture ospedaliere, anche mediante l'allocazione delle dotazioni infrastrutturali, con particolare riferimento ai reparti di terapia intensiva e sub-intensiva.
Il Commissario pone in essere ogni intervento utile per preservare e potenziare le filiere produttive dei beni necessari per il contrasto e il contenimento dell'emergenza anche ai sensi dell'articolo 5. Per la medesima finalita', puo' provvedere alla costruzione di nuovi stabilimenti e alla riconversione di quelli esistenti per la produzione di detti beni tramite il commissariamento di rami d'azienda, anche organizzando la raccolta di fondi occorrenti e definendo le modalita' di acquisizione e di utilizzazione dei fondi privati destinati all'emergenza, organizzandone la raccolta e controllandone l'impiego secondo quanto previsto dall'art. 99.
Come si vede, deleghe estremamente estese che vanno dall'acquisizione dei dispositivi medicali al commissariamento di rami d'azienda. Nell'esercizio di queste funzioni al commissario venne concessa anche una sorta di immunità amministrativa. Leggiamo infatti
Al commissario non si applica l’art. 29 del DPR 22.11.2010 recante "Disciplina dell'autonomia finanziaria e contabile della Presidenza del Consiglio dei ministri", pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 286 del 7 dicembre 2010, e tutti tali atti sono altresi' sottratti al controllo della Corte dei Conti, fatti salvi gli obblighi di rendicontazione.
Con la formula "ogni intervento" gli incarichi avrebbero anche potuto esaurirsi. Invece c'è stato un momento in cui è sembrato che altri incarichi arrivassero motu proprio alla scrivania del commissario: commissario alla riorganizzazione dei call center, commissario all'emergenza scuola, commissario all'emergenza ILVA tramite Invitalia, commissario all'emergenza vaccini, commissario alla centrale acquisti, commissario al finanziamento di Reithera.
Ma non è tanto il numero di incarichi e competenze a lasciar perplessi, ché attraverso una buona distribuzione delle deleghe anche una struttura accentrata può funzionare, quanto i ritardi, le inerzie i passi indietro e in generale una continua percezione di vivere in un mondo altro dal drammatico esistente.
Quando il virus ancora non era arrivato in Europa pochi illusi che credono ancora che sia la razionalità a dover dettare le scelte politiche (fra cui noi e Ilaria Capua) dissero pubblicamente che un virus sconosciuto e che si trasmette attraverso droplets e respiro poteva essere non combattuto ma al più contenuto con Dispositivi di Protezione Individuale. Un po' di razionalità e un po' meno di propaganda avrebbero fatto scegliere ai rappresentanti di governo l'organizzazione di produzione e acquisto di mascherine invece di sciocchi e inutili blocchi del traffico aereo da e per la Cina. Eravamo in febbraio. Si iniziò a parlare seriamente di approvvigionamento di mascherine in quantitativi sufficienti il 3 maggio, giorno dell'annuncio del prezzo calmierato a 50 cents; 5 mesi dopo l'emergenza in Cina, 4 mesi dopo i primi casi italiani e 2 mesi dopo la nomina del commissario.
Qualche mese dopo il virus concesse una tregua estiva e si iniziò a parlare di apertura delle scuole in sicurezza. Invece di pensare alle aule da cercare per evitare classi troppo affollate, invece di potenziare il trasporto pubblico locale e quello degli studenti, invece di predisporre un piano di emergenza in caso di necessità di ricorrere alla didattica a distanza, Arcuri -commissario alla scuola affiantato da Conte alla ministra Lucia Azzolina- predispose il bando per i banchi innovativi a rotelle senza avere la più vaga idea della capacità produttiva della fliera italiana del mobile. Il bando, orgogliosamente nominato "bando europeo per acquisto di banchi e riapertura in sicurezza", fu pubblicato il 20 luglio, emendato il 3 agosto, riemendato il 10 agosto e, di fatto, mai rispettato per impossibilità di qualunque operatore aggiudicatario di garantire quantitativi e consegne nei termini previsti. Della riapertura delle scuole in sicurezza, ca va sans dire, neanche a parlarne. Le scuole aprirono per pochi giorni in alcune regioni per poi essere richiuse per il referendum e quasi mai più riaperte. I banchi restano in gran parte nei magazzini e nei corridoi.
Altra ondata pandemica, altra dimostrazione di predisposizione ai ritardi. Il bando per potenziare il corpo sanitario con 15.000 operatori fu pubblicato solo l'11 dicembre, quello per i test rapidi il 29 settembre, quello per aghi e siringhe il 9 dicembre.
Ho riassunto in una tabella tutti i bandi per fornitura che sono ricaduti sotto la gestione Arcuri
FORNITURA | DATA | QUANTITA’ | SPESA | AGGIUDICATARIO |
Kit reagenti test sierologici | 25.04.2020 | 150.000 |
| Abbott |
Test molecolari | 11.05.2020 | massima |
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Test rapidi | 09.07.2020 | 2.000.000 |
| Abbott |
Banchi scolastici | 28.07.2020 | 3.000.000 | 371.768.808 |
|
Terapie intensive indagine | 25.07.2020 |
|
|
|
Terapie intensive- indagine |
|
|
|
|
Servizi di trasporto- procedura negoziale | 29.04.2020 |
| 210.000 | Neos spa |
Servizi di trasporto- procedura negoziale | 29.04.2020 |
| Tariffa a MCB | SDA |
Test rapidi- procedura semplificata | 29.09.2020 | 5.000.000 5.000.000 3.000.000 | PU 3,05 PU 3,50 PU 4,50 | Rapigen inc Technogenetics srl Abbott |
Servizi di ingegneria ospedali regioni |
| 21 | 713.266.603 |
|
Ambulanze |
|
| 12.600.000 |
|
Avviso terapie intensive | 15.10.2020 |
|
|
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Siringhe | 09.12.2020 |
| 300.217.300 |
|
Aghi | 09.12.2020 |
| 1.597.009.926 |
|
Sodio cloruro | 04.12.2020 |
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Somministrazione lavoro | 22.12.2020 | 3.000 medici 12.000 infermieri |
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Padiglioni Primula | 25.01.2021 | 21 | PU 409.000 |
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L'ultimo è il capolavoro finale, naturalmente con sorpresa.
21 padiglioni primula, che sarebbero potuti diventare 1.500, da consegnare e collaudare in 21 località diverse contemporaneamente dall'imprea, o dall'ATI, aggiudicataria. Un'inutile e costoso sforzo propagandistico al modico prezzo di 456.000 euro cadauno, che avrebbe rallentato una campagna vaccinazioni già complicata di suo. Anche in questo caso, come per i banchi a rotelle, prima scadenza del bando prorogata per assenza di offerte.
In un editoriale del 1 marzo, giorno della nomina del Generale Figluolo, Marco Travaglio scriveva: "Arcuri rimosso perché troppo efficiente". Non oso pensare cosa sarebbe successo se fosse stato anche poco efficiente.
Anzi si
Stanotte ho fatto un sogno bellissimo.
Finalmente arrivava il mio turno e mi recavo in un padiglione primula a farmi somministrare il vaccino.
Entravo in questo padiglione e una gentile signorina verificava se fossi proprio io quello invitato dall'efficientissimo call center.
Nell'attesa mi offriva una tisana alla curcuma e mi faceva accomodare su una poltrona massaggiante.
Nel padiglione, elegantissimo e candido, la voce di Arcuri diffusa da altoparlanti annegati in piccole isole di verde arredate con piante tropicali rassicurava sul successo contro il covid cantando Rinascerò, Rinascerai dei Pooh.
Arrivava il mio turno e un'altra signorina mi veniva a chiamare per accompagnarmi nella sala iniezioni. Durante il tragitto sentivo il profumo di oli essenziali e, naturalmente, di primule.
Un medico sorridente e le sue due assistenti mi facevano accomodare su un lettino relax, mi davano due cuffie per ascoltare musica ambient e mi offrivano un voucher per cappuccino e brioche che avrei poi potuto prendere al bar adiacente.
L'iniezione durava pochi secondi ed era indolore.
Fatta l'iniezione e tamponato con morbido cotone profumato il buco nel braccio, un altro dottore, specializzato in dietologia, mi indicava il bar dandomi dei consigli per perdere quei due o tre chili di troppo.
Me ne andavo e tutto il personale mi salutava: indossavano una maschera con le fattezze di Domenico Arcuri.
Salito sulla mia auto a levitazione magnetica me ne tornavo a casa felice dell'esperienza.
Era il 2054
]]>
Ma qualunque professione di buon senso o di analisi lucida su queste tematiche rischia di apparire becera e disfattista.
Cosa potrà mai la logica elementare ed argomenti concreti contro la visione del nuovo Partito Democratico che condivide le iniziali con un inesistente e ormai improbabile Partito Draghi?
Nulla. Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.
Lasciamo allora cadere qualche modesta perplessità.
In primo luogo l’età per votare è una scelta meramente convenzionale. Non c’è un motivo scientifico per il quale 18 sia meglio di 19 o di 17. Ci sono una serie di cose tipo guidare un’automobile, bere alcolici, essere penalmente responsabili o, appunto, esercitare il diritto di voto, che a un certo punto devono cominciare. L’inizio si colloca più o meno tra i 16 e i 21 anni ed è un accidente culturale moderno, poiché in passato si entrava nell’età adulta ben prima.
Per quale motivo modificare una convenzione dovrebbe avere qualche effetto pratico sulla società? Certo, è del tutto evidente che gli interessi dei più giovani abbiano priorità inferiore in una società dove essi sono numericamente inferiori. Ma nulla ci dice che abbassando l’età per votare questi interessi dovrebbero ricevere una tutela maggiore. Affinché queto avvenga, sarebbe necessaria l’esistenza di una “coscienza di classe” dei nuovi votanti e una reale contendibilità delle cariche elettive. Nessuno di questi due presupposti è legato a quella convenzione che chiamiamo maggiore età.
Anzi osservando l’esistente vediamo che mentre i più anziani, specie i pensionati, votano in modo coordinato per difendere i propri interessi, questo non avviene tra i venti i trenta anni. Perché il biennio 16 e 17 dovrebbe fare la differenza?
Ma il nodo principale è l’altro presupposto: se l’accesso alle cariche elettive è controllato dai partiti politici esistenti a che serve scegliere su un menu dove non ci sono portate per noi?
E se il voto ai sedicenni fosse una visionaria e accattivante iniziativa simbolica dalle scarse o nulle conseguenze concrete?
Per intenderci il tema del futuro rubato e degli interessi delle coorti più giovani esiste ed è grave, ma non può essere non dico risolto, ma neanche affrontato senza mettere in discussione i privilegi e le rendite di posizioni delle generazioni precedenti.
Cominciamo a rendere più contendibili tutte le posizioni, a creare un sistema dove di può lavorare e fare impresa più facilmente e senza i gravami di oneri ingiusti legati a promesse tanto generose quanto insostenibili fatte dai politici passati.
Magari potremmo accorgerci che il voto ai sedicenni non è così rilevante.
]]>Era troppo ghiotta l’occasione per evitare di prendersi qualsiasi responsabilità in modo autonomo su AstraZeneca potendo sfruttare un ente sovranazionale come l’EMA (European Medicine Agency).
E’ il classico atteggiamento dello scaricabarile un po’ vigliacco ma molto politico che francamente, forse perché disilluso da un certo ordine delle cose, non mi sorprende neanche più di tanto.
Alla fine una decisione, quella di sospendere la somministrazione di AstraZeneca, che può essere anche un addendo ad un ragionamento strategico volto a limitare i danni di una bomba mediatica ormai già esplosa.
Magari si sarà anche ritenuto più vantaggioso, a fronte ormai delle migliaia di diserzioni di appuntamenti e rifiuti alla vaccinazione, fermare per 48 ore la somministrazione per poi far proclamare dall’ente più importante, l’EMA, che tutto è stato controllato, che tutto è sicuro e tranquillizzando così le persone resettando le incertezze veicolando quindi un messaggio positivo ma soprattutto deciso (spero).
Ovviamente non credo neppure per un secondo che l’AIFA non sia stata influenzata politicamente: pensare poi che in Italia questo ente sia davvero indipendente è pura chimera.
La decisione è politica quindi ed è avvenuta, a mio avviso, di concerto pure con altre Nazioni non tanto per assecondare la schiera no-vax ma rappresenta di più una scelta di comodo nei confronti di una fragile opinione pubblica in generale.
Di sicuro non scientifica, soprattutto se calcoliamo che solo in Italia ogni 24 ore abbiamo 190 casi di trombo-embolia il che cioè vuol dire 8 casi ogni ora a cui seguono 130 decessi accertati e diagnosticati alla settimana.
Con questi numeri abbiamo il coraggio di mettere in relazione alcuni casi “sospetti” (30) con l’inoculazione già avvenuta di più di 5 milioni di dosi AZ che in UK hanno rappresentato il principale strumento vaccinale.
A questo sommiamo pure il fatto che alcuni fra i casi documentati si sono manifestati a più di 10 giorni dalla somministrazione il che rende impossibile un nesso di causalità.
In ogni caso, al ritmo di 350 morti per Covid quotidiani, mi pare ovvio che sospendere la vaccinazione causa SICURAMENTE la morte di MOLTE più persone di quante, IPOTETICAMENTE, si salvano da un solo SUPPOSTO effetto collaterale di AstraZeneca… ad essere brutali questi soli tre giorni (spero) di ritardo costeranno quasi 1.000 morti in più per Covid.
]]>E a ben vedere questa resistenza non è casuale, ma deriva dall'ipergiuridificazione dei rapporti politici e dai rischi di "blocco" delle attività giudiziarie.
In altre parole i giudici fanno resistenza alla responsabilità perché sanno benissimo che se fosse introdotta, altri giudici sarebbero indotti a utilizzarla. In pratica la categoria si autofagociterebbe. Hanno paura di ciò che potrebbero fare a sé stessi.
Da operatore economico, avendo a che fare spesso e volentieri con Procure e Tribunali, e vivendo tutto i giorni l'incertezza dell'applicazione giudiziaria delle norme (in particolare penali), francamente non posso dargli torto.
Così è.
È bene prenderne atto.
Ma è anche dovuta la presa di coscienza che i giudici non possono continuare ad essere sostanzialmente legibus soluti come oggi è in Italia.
Come pure non ci si può nascondere dietro il fatto che esiste la possibilità di impugnazione per correggere l'errore giudiziario: essere privati della libertà fisica o economica per qualche anno può provocare conseguenze che non vengono cancellate da una sentenza d'appello favorevole, specie se arriva dopo anni.
Non è accettabile, non è compatibile con la dignità dell'essere umano, non è conciliabile con un'economia aperta e capitalista.
Le persone e le imprese hanno bisogno di certezza del diritto e certezza del diritto vuol dire obbligare i giudici a rendere conto in qualche modo del proprio operato, affinché stiano attenti prima di tutto a non sbagliare, non solo a correggere gli errori di altri giudici.
Questo dissidio si può risolvere in un solo modo: introducendo la RESPONSABILITÀ POLITICA sub-specie di responsabilità elettorale.
I giudici temono di essere impediti nelle proprie attività da una responsabilità professionale ordinaria? Temono di essere intimiditi da avvocati senza scrupoli pronti a impugnare lo strumento della responsabilità alla prima sconfitta?
Bene. Proteggiamoli e salvaguardiamoli.
Addirittura proteggiamoli ANCHE dalla responsabilità penale con una tutela rafforzata perché non temano le conseguenze giuridiche dei propri errori, non siano disincentivati all'applicazione corretta della legge, non temano pressioni e minacce improprie.
Ma che a scadenze fisse rispondano all'elettorato delle proprie scelte!
Che esista almeno una teorica possibilità di mandare a casa i giudici incompetenti, pigri, ignoranti e in mala fede, senza danneggiare tutti gli altri!
]]>Scriveva in un tweet Marta Fana:
Quanto schifo può fare un governo che esternalizza la scrittura delle linee programmatiche e di spesa del più grande intervento di spesa che abbiamo mai visto? Assai. Non è demandare la politica ai tecnici, è sputare in faccia alla società, alle sue istituzioni
Rilanciava Roventini:
VIA MCKINSEY DAL MEF! La società di consulenza privata McKinsey sta aiutando il Ministero dell'Economia a redigere il Recovery Plan da cui dipende la crescita italiana dei prossimi anni. È una scelta opaca, poco democratica e pericolosa che va fermata
Lo percepite il loro grado di furiosa indignazione per la democrazia violata? Lo sentite il rumore dei loro denti digrignanti in un violento attacco di bruxismo scatenato dal governo di eurocrati che osa affidare ad una multinazionale, ovviamente neoliberista, la gestione del pacco di soldi in arrivo dall'Europa?
Bene, ora che l'immagine è chiara proviamo a porre loro un paio di domande.
1) Dov'era la stessa indignazione quando il Governo Conte dispensava 273 incarichi di consulenza esterna nell'ultimo anno solare?
Fra il dicembre 2019 e il dicembre 2020 il Conte II ha ingaggiato consulenti per, letteralmente, ogni ambito dell'attività di governo. Si va dall'accesso ai documenti amministrativi alle collaborazioni internazionali, dall'incarico di esperto in relazioni pubbliche e comunicazione a quello di esperto di progettazione e gestione nell'ambito delle classificazioni sismiche. C'è persino un incarico, conferito al dott. Esposito Gaetano Fausto, ATTIVITA' DI CONSULENZA PER L'ASSISTENZA AGLI UFFICI DEL DIPARTIMENTO NELLE INCOMBENZE RELATIVE A PROCEDURE DI ANLISI E SELEZIONE DEI PROGETTI PER IL RECOVERY FUND. Il valore economico di quest'incarico è, udite udite, pari a 25.000 euro oltre IVA.
Ma naturalmente non finisce qui. Ci sono incarichi di valore ben più elevato come quelli per la riorganizzazione digitale con compensi fino ad 80.000 euro; quelli assegnati per il Nucleo di analisi e programmazione per complessivi 180.000 euro a due professionisti.
Il valore complessivo degli incarichi di consulenza esterna assegnati dal Conte II nel solo anno solare considerato, riclassificato per i giorni effettivi di incarico, è pari ad una spesa annua di 7.948.209,00.
2) Possibile che politici e commentatori tanto attenti alle vicende pubbliche non sappiano che quella di assegnare incarichi consulenziali esterni è prassi di ogni amministrazione e di ogni governo?
Tutti gli incarichi sono pubblicati sul sito del governo e liberamente consultabili. Nel file excel che si può scaricare dal sito ci sono la descrizione della nomina, il link al relativo decreto, i compensi, la durata dell'incarico e il curriculum del consulente. Basta aver voglia di cercare e un po' di onestà intellettuale.
L'incarico alla Mckinsey non è neanche nuovo. Della stessa società si avvalse il Governo Renzi per l'elaborazione degli scenari di impatto del decreto sugli 80 euro. Di prestigiose società di consulenza si avvalgono tutti i governi e se ne sono avvalsi tutti i governo italiani da almeno un trentennio.
Nella fattispecie questo incarico è anche coerente con le linee guida del Next Generation EU che prevedono una funzione di audit e supporto indipendente per i progetti da presentare alla Commissione e la necessità, dovuta ai tempi ristretti per il grave ritardo accumulato, di confrontare quello italiano con i piani nazionali degli altri Stati membri come specificato nella nota emessa dal MEF.
Il compenso di 25.000 euro oltre IVA è, considerando la delicatezza del compito, la posta in gioco di 209 miliardi e i costi orari standard della società vicini agli 800 euro per ora, meramente simbolico.
Inoltre in tutti i casi il consulente si attiene nello svolgimento dell'incarico alle indicazioni fornite dal suo mandante politico.
L'unica cosa che si deve chiedere al governo è la trasparenza dei contratti e il rispetto della normativa.
Polemica assolutamente sterile e inopportuna dunque, perché in Italia la polemica ideologica da schieramento in curva da stadio è una sorta di esistenza in vita di politici e giornali che altrimenti non avrebbero nulla da dire. Il loro apporto alla maturazione di un dibattito sui contenuti è, come sempre, negativo. Il declino è anche merito loro.
]]>
Gli aspetti decisionali, di valutazione e definizione dei diversi progetti di investimento e di riforma inseriti nel Recovery Plan italiano restano unicamente in mano alle pubbliche amministrazioni coinvolte e competenti per materia. (...)
Il contratto con McKinsey ha un valore di 25mila euro +IVA ed è stato affidato ai sensi dell’art. 36, comma 2, del Codice degli Appalti, ovvero dei cosiddetti contratti diretti “sotto soglia”.
Il pasticciaccio brutto della consulenza affidata dal MEF a McKinsey ci dice varie cose su questo disgraziato paese.Proviamo a fare 2 o 3 considerazioni sul tema a partire dal comunicato stampa del MEF
L’Amministrazione si avvale di supporto esterno nei casi in cui siano necessarie competenze tecniche specialistiche, o quando il carico di lavoro è anomalo e i tempi di chiusura sono ristretti, come nel caso del PNRR. In particolare, l’attività di supporto richiesta a McKinsey riguarda l’elaborazione di uno studio sui piani nazionali “Next Generation” già predisposti dagli altri paesi dell’Unione Europea e un supporto tecnico-operativo di project-management per il monitoraggio dei diversi filoni di lavoro per la finalizzazione del Piano.
Una persona ingenua che legge il comunicato pensa:
Insomma uno ingenuo da per scontato che le attività che il governo delega o appalta all'esterno siano di carattere operativo.
Immaginate però che ci sia una specie di vuoto di potere, ossia che la classe politica non abbia una visione o strategia altra dalla propria autoconservazione e dalla ricerca del consenso di breve termine. La conseguenza più logica è che lo spazio sia riempito dai dirigenti e dai vertici dell'apparato statale. Loro scrivono le leggi e le cricolari che le interpretano e le chiariscono.
Là dove il governo è indeciso o non decide, decidono al posto del governo.
Un individuo smaliziato, che avesse in mente questo andazzo, nel quale i burocrati restano e governano al posto dei politici, che sopravvivono e prima o poi passano, potrebbe allora leggere diversamente il comunicato:
Chiarita la prospettiva ingenua e quella smaliziata si possono fare alcune considerazioni aggiuntive:
Difficle dare risposte, mentre è sempre utile (a volte divertente) fare domande.
Un pò di sano buonsenso e il rasoio di Occam suggeriscono che:
Che la politica (anche se temporaneamente incarnata da un ex tecnico) abbia finalmente una strategia è una buona notizia di cui dovremmo tutti rallegrarci. Se e quanto detta strategia possa essere convincente, conveniente per il paese e finanche appropriata lo scopriremo solo vivendo. I segnali ad oggi rilevabili (fuori Arcuri e Casalino e Mazzuccato, dentro Giavazzi, Figluolo e giovani capaci come Ferdinando Giugliano e Serena Silleoni) lascia ben sperare.
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Durante la presentazione della proposta di Legge n.20, “Interventi a sostegno della famiglia, della genitorialità e della natalità”, nella Regione Marche, il consigliere Carlo Ciccioli (FdI), ha pronunciato la frase:
“I genitori di una famiglia naturale hanno compiti espliciti: il padre deve dare le regole, la madre accudire”.
Sulla frase ci torneremo tra poco perché, se da un lato le giuste polemiche sono arrivate sia dalla politica sia dalla società, queste hanno avuto l’effetto di distogliere l’attenzione dalla proposta di legge, firmata anche da altri esponenti della maggioranza.
Riportiamo qui solo alcuni aspetti della proposta di Legge n. 20:
“art.1: … riconosce, tutela e promuove i diritti della famiglia, società naturale fondata sul matrimonio, …”
Parole non meno gravi delle esternazione di Ciccioli. Una coppia con figli non spostata non è da considerarsi una famiglia? Una madre o un padre, rimasti soli con i figli per qualsiasi motivo, non è da considerarsi una famiglia?
“art.2, comma1: … effettiva parità tra uomo e donna e di solidarietà tra i componenti;”
Quest’articolo contraddice, di fatto, l’esternazione del consigliere Ciccioli.
La proposta di legge pur citando varie volte la parola ‘genitorialità’, non specifica mai cosa intende con essa, salvo una non chiara dicitura alla lettera k dell’art.2, che, se interpretata nella sua visione più ampia, contrasterebbe con il concetto di famiglia di cui all’art.1. Ma perché allora non chiarirlo?
La programmazione riportata all’art. 3 è del tutto generica, sia nei modi sia nei tempi; si passa da un lungo elenco dei buoni propositi, attraverso la valorizzazione e sostegno dell’associazionismo familiare (art 4), all’aggravio di burocrazia che sarà a carico dei richiedenti con un non ben definito e confuso parametro VIF (Valutazione di Impatto Familiare) di cui all’art. 7, alla festa della famiglia, celebrata annualmente il 15 di maggio (art. 8), agli interventi a sostegno della natalità, assistenza ai genitori dei nuovi nati, percorso nascite, senza mai citare né cifre economiche né modalità attuative.
La sostanza che vuole apportare questa legge è però indicata nell’art. 24, l’ultimo: Dall’applicazione di questa legge non derivano né possono derivare nuovi o maggiori oneri finanziari diretti a carico del bilancio della Regione. Alla sua attuazione si provvede con le risorse umane, strumentali e finanziarie previste dalla legislazione vigente.”
Questa proposta, come la precedente legge, è solo un elenco di copia/incolla rivisitate delle tante proposte che non prendono mai in seria e completa considerazione i veri temi che hanno portato in nostro paese a essere agli ultimi posti al mondo per la natalità, e in cui la maggior parte delle coppie desiderose di figli, sono costrette a ritardare sensibilmente il periodo genitoriale. Nulla è previsto per accompagnare i figli nella crescita (in Svezia ad esempio gli aiuti sono concessi fino al compimento dei 16 anni).
Una serie di proposte che, anche se attuate, rimarranno solo aiuti una tantum. Nulla che possa creare un ambiente favorevole al superamento del grave problema della denatalità in cui l’Italia è caduta dagli anni ’80.
Ogni anno si assiste al calo della popolazione italiana, e presto scenderemo sotto i 60milioni di abitanti nonostante l’immigrazione (rispetto all’epoca del baby boom degli anni ’60 registriamo oltre mezzo milione di nascite in meno), cui aggiungere i circa 120mila italiani che emigrano all’esterno in cerca di opportunità che una politica miope non è più in grado di offrire.
Come riportato in uno studio dell’osservatorio CPI, quantità, qualità e stabilità nel tempo della spesa pubblica a favore della natalità, sono tutti fattori decisivi nel determinare l’entità dell’impatto sulle scelte dei potenziali genitori, e questa proposta di legge è carente su ogni aspetto.
Nelle Marche e in generale in Italia, si continua con la politica dei bonus e altri benefici relativi alla nascita dei figli, che hanno già dimostrato la loro inefficacia. Siamo lontanissimi da serie e durature politiche per offrire asili nido a prezzi sovvenzionati, e misure di sostegno al reddito dei genitori che abbandonano temporaneamente il lavoro per prendersi cura dei figli, provvedimenti che hanno dimostrato di offrire risultati efficaci come accade in Svezia.
Sulla frase di Ciccioli, opposizione e giornali hanno già scritto a sufficienza; il soggetto non è nuovo nel pronunciare affermazioni vetuste e svilenti, tipiche del modello padronale e patriarcale che tuttora persiste. L’ex parlamentare si era già reso protagonista di un’altra uscita in Consiglio Regionale appena una settimana fa: “No all’aborto per fermare la sostituzione etnica”.
Ancora più preoccupante è però il silenzio di FdI che non ha preso le distanze da queste affermazioni; il silenzio del partito fa ben più rumore delle esternazioni del suo capogruppo al consiglio Regionale.
]]>Negli ultimi giorni di gennaio si teneva a Riad la quarta edizione dell'iniziativa denominata Future Investment Initiative Institute (FIII), legata al Public Investment Fund (PIF) dei regnanti sauditi.
Il FIII si presenta come strongly politically correct. E' un non profit che intende finanziare con operazioni in equity idee e progetti per uno sviluppo sostenibile. Le aree d'intervento sono la salute, l'intelligenza artificiale, la sostenibilià ambientale e la robotica. Il "rinascimento" cui si collegava Renzi nel video girato insieme al principe Bin Salman, era il titolo di questa quarta edizione. Il FIII si inquadra nell'ambito delle attività del fondo sovrano del regno saudita. Da decenni i sauditi cercano di accreditarsi presso le democrazie occidentali adottando politiche di intervento finanziario orientate allo sviluppo di un'economia che non potrà essere legata sine die alla vendita di prodotti petroliferi (Vision2030).
Il Fondo sovrano, utilizzando i proventi a riserva della vendita del petrolio, finanzia progetti, consolida portafogli diversificati, partecipa a progetti di ricerca. Tutte attività giuste e desiderabili.
Su questi presupposti Renzi ha impostato la sua risposta alle critiche ricevute. Come fa spesso anche in conferenza stampa, ha raccolto un po' di domande e ha risposto marzullianamente- "si faccia una domanda e si dia una risposta"- a quelle che ha scelto, omettendo le vere questioni di opportunità.
E' opportuno che un personaggio pubblico, già presidente del consiglio e senatore in carica, partecipi ad una iniziativa finanziaria di un Paese straniero?
Si e no.
Si se lo scopo dell'iniziativa è quella di avvicinare e/o di consolidare i rapporti fra i due Paesi. Lo hanno fatto tanti politici italiani sin dai tempi della prima repubblica con risultati al meglio trascurabili quando non negativi.
Si se lo fa a titolo gratuito o investito dal ruolo di osservatore.
No ove si consideri che il Regno saudita, pur partner dell'occidente, non rispetta gli standard che l'occidente si è dato su rispetto dello stato di diritto, rispetto dei diritti umani e funzionamento della democrazia.
Le attività diplomatiche, anche di pressione, vanno fatte dalle diplomazie e non dagli interventi estemporanei e personali di un singolo parlamentare. Ragion per cui la difesa che Renzi ha fatto del suo ruolo è inconsistente.
A rendere ancor più debole l'autodifesa c'è il fatto che MR non partecipa al FIII come osservatore esterno o come tecnico. Renzi è stato ingaggiato nel Board of Trusteee Members. Per quest'attività percepisce un gettone di 80.000 dollari annui. Insieme a lui fanno parte del board il produttore di eventi marocchino Richard Attias, la professoressa di farmaceutica Adah Almutairi, il matematico Tony Chan, l'imprenditore Peter Diamandis, l'uomo d'affari di Dubai Mohammad Ali Alabbar, l'ambasciatrice Principessa Reema Al Sa'ud e il governatore del Fondo Yasir Al-Rumayyan.
Si badi bene, non c'è nessuna norma che impedisce ad un parlamentare di avere altri incarichi e altre forme di reddito. Il punto è se queste altre forme di reddito provengono da Stati stranieri e quali condizionamenti, anche solo nei rapporti diplomatici, questi compensi possono produrre. Come voterebbe il senatore Renzi se il Parlamento fosse chiamato ad adottare una sanzione nei confronti del Regno saudita? Quali pressioni potrebbe subire da un governo straniero in caso di intervento NATO in un conflitto in quell'area (Yemen)? E' ipotizzabile che lo speciale rapporto che ha con il Fondo saudita possa condizionare gli investimenti verso interessi suoi e a scapito di interessi di altri?
Queste domande si è guardato bene dal farsele e ovviamente dal rispondervi. Il cherry picking delle domande è tanto confrotevole quanto autocelebrativo e nelle interviste rilasciate al Corriere e a repubblica non c'è traccia alcuna dei potenziali problemi che la nomina nel board comporta. Al Corriere Renzi risponde che è prassi fare conferenze in giro per il mondo, omettendo che non è prassi per un parlamentare in carica farsi pagare da un governo straniero.
Renzi, come sempre, ha anteposto gli interessi personali a quelli generali.
Michele Boldrin in un thread su Twitter ha ben evidenziato il vulnus di un politico che ha fatto dell'inaffidabilità la sua cifra politica. A dispetto di alcune idee accattivanti e di una senza alcun dubbio brillante eloquenza, Renzi è un politico che ha fallito tutto ciò che poteva fallire per limiti caratteriali e ambizioni ben più grandi delle proprie qualità.
E' un peccato, perché in Italia Viva ci sarebbero energie, e donne e uomini, che avrebbero le competenze per lasciare una traccia positiva nella politica italiana.
Chissà se un giorno lo capiranno.
]]>Ma non è questo il punto del mio post. Per distinguermi, vorrei sostenere una posizione in qualche misura critica.
Il discorso di Draghi è un programma di riforma di grande respiro e del tutto condivisibile, ma anche di lunga durata. Sarebbe stato perfetto se fossimo all’inizio della legislatura, ma in realtà abbiamo al massimo un anno e mezzo, con l’elezione del presidente della repubblica in mezzo. Draghi è ovviamente il candidato naturale e presumo che non disdegnerebbe una elezione. A quanto pare, non è privo di ambizioni personali e le voci su una sua riluttanza a diventare primo ministro potrebbero non essere state del tutto infondate. In questo caso, il suo governo durerebbe solo un anno e la potenziale spinta riformatrice si attenuerebbe notevolmente, sia per mancanza di tempo sia per la necessità di non suscitare troppi malcontenti fra i potenziali elettori. Avrebbe in pratica due soli compiti urgenti, gestire la campagna di vaccinazioni e scrivere il PNRR per il NextGenEU, più la possibilità di qualche provvedimento ‘semplice’ di forte impatto mediatico per mantenere la propria fama di efficiente decisionista riformatore (esempi a caso – ILVA, Alitalia, Autostrade, qualche settimana in più di scuola, un percorso di rientro dalla cassa integrazione per tutti e per sempre). Ed ovviamente Draghi potrebbe usare il proprio prestigio internazionale per dare qualche contentino ai sovranisti de noantri (finalmente l’Italia….). P.es. potrebbe stimolare l’inizio di processo di riforma dell’EU che tanto potrebbe concludersi solo fra qualche anno. La gestione della vaccinazione sarà sicuramente migliore del disastro di Arcuri, che ha sprecato molte preziose dosi vaccinando personale amministrativo delle ASL e amici degli amici. Se non altro, non ci saranno le primule e la eventuale sostituzione di Arcuri alla scadenza del suo mandato sarebbe un segnale forte di discontinuità. In ultima analisi però il successo dipende dalla disponibilità di vaccini e quindi dalle decisioni europee. Per ora l’Europa si è dimostrata troppo cauta ed inefficiente, speriamo migliori.
In contrasto, la stesura del PNRR può essere molto importante. I giornali interpretano il NextGenEU all’italiana (‘ci daranno tanti soldi e faremo quello che vogliamo’), ma sulla carta non è così. Il piano deve essere molto dettagliato e deve contenere non solo indicazioni di spese (e risultati) ma anche riforme per aumentare la competitività. La bozza di dicembre di Conte era una lista di buoni propositi senza una cifra e questo è sufficiente a mio avviso per definirlo un pessimo presidente del consiglio. La versione rivista attualmente disponibile è a quanto pare migliorata significativamente. Ci sono le cifre che concordano con le indicazioni EU ma mancano le indicazioni dei risultati ottenibili e delle riforme da fare e soprattutto manca la definizione della governance. Su questo, Draghi ha ampio spazio per lavorare. Ha poco tempo (un mese e mezzo) ma questo è positivo perché riduce gli spazi di contrattazione politica. Fra l’altro ho parecchi dubbi che i partiti abbiano esperti in grado di entrare nel merito (la Castelli!?!?) mentre Draghi conosce bene la materia. Tanto più il PNRR sarà preciso, tanto più indirizzerà il processo di riforma anche oltre la fine della legislatura. Faccio un esempio pratico, la riforma delle tasse. I difetti del sistema sono ben noti e molti esperti concordano sulle soluzioni. Bisogna semplificare e ridurre le aliquote disboscando le agevolazioni ed utilizzando i proventi della lotta all’evasione in modo tale da mantenere la pressione fiscale invariata. Draghi ha giustamente ricordato che la riforma deve riguardare tutto il sistema, non, come fatto finora, singole tasse e quindi ha ipotizzato di prepararla con la nomina di una commissione di esperti. Questo percorso non è compatibile con un governo di breve durata e comunque è politicamente difficilissimo. Anche se in teoria d’accordo, i partiti inizieranno ad opporsi appena si entrerà nel merito. Un governo Draghi di breve durata avrebbe il tempo di nominare la commissione e di promettere che l’Italia approverà una riforma fiscale entro il 2022 (sei-otto mesi per i lavori della commissione ed il resto per l’approvazione). Nel piano dovrebbe indicare con una certa precisione gli obiettivi (p.es. semplificazione, riduzione del carico fiscale per i redditi medi a gettito fiscale invariato, eliminazione delle esenzioni superflue etc.), lasciando al futuro governo Salvini (?) il compito di specificare i dettagli (quali agevolazioni abolire, come disegnare le aliquote etc.). La legge dovrebbe prima essere firmata dal futuro (?) presidente Draghi e giudicata conforme al piano dal commissario Gentiloni e poi dal consiglio dei ministri EU. Senza riforma o con riforme non conforme, la EU potrebbe non pagare la tranche di fondi del 2022. In sostanza si tratterebbe di un vincolo esterno a futura memoria, garantito dalla situazione finanziaria italiana che rende indispensabile l’appoggio esterno
Riassumendo, non penso che Draghi possa riformare l’Italia perché gli italiani non vogliono le riforme. Tutti sono favorevoli a parole, ma a patto di non toccare i propri privilegi. Sarebbe già un grande risultato se avviasse un processo di riforma creando un vincolo esterno. Ovviamente si spera che nel medio periodo la prevedibile ostilità della maggioranza della popolazione sia attenuata dalla combinazione fra sussidi EU, ripresa economica ed effetti positivi iniziali delle riforme. Come si dice, chi vive sperando muore cantando – ed io sono terribilmente stonato.
]]>Ecco una sintesi dei principali passaggi:
Un discorso che si proietta non solo oltre la legislatura ma anche oltre il 2026.
Quanto potrà essere realizzato del programma Draghi con questo parlamento multicolor e pieno zeppo di rappresentanti che non sono in grado di capire la portata della sfida (vedi reazione a caldo di Toninelli come esempio) non si sa. Si conferma comunque che Draghi indica la rotta da seguire per fermare il declino e puntare alla crescita economica. Quello che manca ancora, come già detto dopo la nomina, è un soggetto politico disposto a farsi carico di queste sfide.
Addendum. Riporto un passaggio del discorso che a mio avviso rappresenta lo spartiacque definitivo fra il modo di fare politica dei governi degli ultimi 40 anni e la stagione (temo breve) di Draghi:
"Spesso mi sono chiesto se noi, e mi riferisco prima di tutto alla mia generazione, abbiamo fatto e stiamo facendo per loro tutto quello che i nostri nonni e padri fecero per noi, sacrificandosi oltre misura. È una domanda che ci dobbiamo porre quando non facciamo tutto il necessario per promuovere al meglio il capitale umano, la formazione, la scuola, l'università e la cultura. Una domanda alla quale dobbiamo dare risposte concrete e urgenti quando deludiamo i nostri giovani costringendoli ad emigrare da un paese che troppo spesso non sa valutare il merito e non ha ancora realizzato una effettiva parità di genere. Una domanda che non possiamo eludere quando aumentiamo il nostro debito pubblico senza aver speso e investito al meglio risorse che sono sempre scarse. Ogni spreco oggi è un torto che facciamo alle prossime generazioni, una sottrazione dei loro diritti. Esprimo davanti a voi, che siete i rappresentanti eletti degli italiani, l'auspicio che il desiderio e la necessità di costruire un futuro migliore orientino saggiamente le nostre decisioni. Nella speranza che i giovani italiani che prenderanno il nostro posto, anche qui in questa aula, ci ringrazino per il nostro lavoro e non abbiano di che rimproverarci per il nostro egoismo"
]]>
Qui evidentemente casca l’asino: non esiste Re Mida tecnico, che possa dare vita a un governo d’oro, se il parlamento è ancora composto di metalli vili. Dunque, il senso di delusione e tradimento nel vedere un elenco di ministri, che non corrisponde ai nostri più alti desideri, dovrebbe in realtà tradursi nella amara constatazione che, nessuno può salvarci da noi stessi e che, senza una radicale trasformazione di tutta la classe politica, non è possibile cambiare il corso su cui è avviato questo paese.
C’è da dire che il bilanciamento scelto tra ministri tecnici e politici, potrebbe rispondere ad una strategia di ampio respiro. Un governo troppo tecnico, mal tollerato dai partiti, che dall’esterno elargiscono la fiducia come un’elemosina, si presta a fare il “lavoro sporco”, per i politici opportunisti, che non volendo pagare il costo immediato di consenso delle scelte impopolari, aspettano defilati per poi raccogliere i frutti del lavoro altrui.
Per farla breve, si può dire che, troppi tecnici al lavoro avrebbero incontrato rilevanti ostacoli politici, nel realizzare il difficile programma che l’ex banchiere centrale si trova davanti.
Per contro, una rilevante presenza di ministri politici, può essere utile nel rendere accettabile il lavoro svolto dai tecnici. Lo stesso compromesso, su un tema spinoso come quello del divieto di licenziamento, potrebbe incontrare una reazione ben diversa tra gli elettori se presentato da un “tecnico senza cuore” piuttosto che da un politico, che si faccia garante del fatto, che non esistevano alternative migliori.
Se in ottica di concretezza e opportunità politica, il governo Draghi appare meno deludente in ternimi assoluti, si può dire senza difficoltà che sia decisamente migliore del precedente, poiché anche i componenti che convincono di meno, sono decisamente migliori (o non peggiori in caso di conferma) rispetto a quelli che li hanno preceduti.
Dunque, la delusione non dovrebbe derivare dal governo in sé, ma dalla constatazione di quanto scarsa sia la materia a disposizione del presidente del consiglio. Se non è possibile trasformare il piombo in oro, è di sicuro auspicabile cercare di gestire nel miglior modo possibile gli asset a disposizione.
La sfida davanti a Draghi può essere rappresentata come una complicata ottimizzazione di portafoglio soggetta vincoli molto stringenti e con obiettivi decisamente ambiziosi, per il momento l’ex Banchiere Centrale si dimostra un manager di portafoglio decisamente promettente e sembra possa riservarci più di qualche sorpresa positiva.
]]>“Sei d’accordo che il MoVimento sostenga un governo tecnico-politico: che preveda un super-Ministero della Transizione Ecologica e che difenda i principali risultati raggiunti dal MoVimento, con le altre forze politiche indicate dal presidente incaricato Mario Draghi?”.
L’assurdo quesito a cui gli attivisti del M5S si sono trovati di fronte sulla piattaforma Rousseau svela - definitivamente - l’inganno populista della democrazia diretta in salsa stellata.
Un quesito manipolativo e suggestivo, che tradisce sfacciatamente la promessa di una genuina partecipazione attiva.
La domanda suggestiva è quella che, assieme al quesito, accorpa un giudizio o dà per assodato un certo fatto o che, per come posta, tende a indirizzare la risposta in un unico senso.
La suggestione del quesito sulla partecipazione al governo Draghi deriva anzitutto dalla qualifica del governo come “tecnico-politico”. Circostanza che non può avere conferma fino a che non verrà presentata la lista dei ministri. Ma inserire nel quesito l’aggettivo “politico”, stemperando l’ipotesi - tanto bistrattata in passato - di un nuovo governo tecnico, è apparso evidentemente fondamentale per la dirigenza dei 5 Stelle.
Anche il riferimento alla presenza di un ministero per la transizione ecologica, definito suggestivamente “super”, senza che sia dato capire cosa ciò possa voler significare, risulta fuorviante.
Ma è l’ultima parte del quesito, nella quale si dà per assodato che il nuovo governo Draghi “difenderebbe” i risultati raggiunti (quali?) dal Movimento, la più traviante e irrispettosa dell'intelligenza di chi è chiamato a votare.
Chi dice che Mario Draghi difenderà i risultati raggiunti dal Movimento? E quali sarebbero questi risultati, se per stessa ammissione del Movimento il reddito di cittadinanza - per dirne una - è stato concepito male?
Nella bella introduzione all'opera di Jan-Werner Müller "Cos'è il populismo?" (ed. Egea, Università Bocconi), Nadia Urbinati spiega che "Il destino del leader populista è il plebiscito, l'uso del voto come acclamazione di sé".
Per dirla con Der Waldgang di Ernst Junger, l’interrogazione del popolo (in questo caso di quello composto dai seguaci attivisti) è pura messa in scena. Chi dirige l’interrogazione non cerca risposte, ma conferme. Gli iscritti non vengono interpellati per cercare il loro contributo alla ricerca della verità o alla soluzione di problemi concreti, ma per la finzione della libera volontà popolare. Per ratificare decisioni già prese da altri.
Nella rappresentazione del demagogo che dirige l’interrogazione, il fine non è mai la soluzione. Il fine è la risposta. Che deve essere totale, plebiscitaria. Il quesito solo un questionario, a cui dire Sì, perché chi dicesse No sarebbe fuori, reietto incapace di comprendere la grandezza trascendentale della missione.
Esempi storici di interrogazioni di tal genere sono stati i plebisciti sulla costituzione giacobina del 1793, quello sulla costituzione direttoriale del 1795, sulla trasformazione della carica di “primo console” a “console a vita” di Napoleone nel 1802 e quello su Napoleone imperatore dei francesi nel 1804.
Mai, però, i quesiti furono così suggestivi e manipolativi come la tesi sul governo Draghi posta ai voti degli iscritti della piattaforma Rousseau.
L’inganno della democrazia diretta in salsa Cinque Stelle consiste proprio nel promettere una partecipazione attiva che in realtà si rivela totalmente passiva e asservita alla linea della dirigenza.
L’inganno che la linea si formi attraverso una partecipazione dal basso, mentre accade esattamente l’opposto.
Il M5S, insomma, è semplicemente un partito peggio degli altri, dove gli organi dirigenti (che nei 5 Stelle risultano autonominati, vaghi e nascosti) impongono la linea senza alcuna discussione pubblica organizzata e senza alcuna opportunita’ di modificare la linea proposta dall’autoproclamato vertice.
A differenza degli altri partiti la dirigenza del Movimento 5 Stelle non ha nemmeno la decenza di assumere apertamente la responsabilità della scelta. Il plebiscito è funzionale a rimettere ogni responsabilità al popolo e a neutralizzare ogni ipotesi di accountability.
“L’ipotesi che la futura computer-crazia, com’è stata chiamata, consenta l’esercizio della democrazia diretta, cioè dia a ogni cittadino la possibilità di trasmettere il proprio voto a un cervello elettronico, è puerile”, diceva Bobbio (N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, 1984, p. 13).
Oggi dobbiamo aggiungere che non è solo puerile, ma anche indegna.
]]>Anche Berlusconi ha vinto, riuscendo a trascinare Salvini sulle sue posizioni e facendo tornare Forza Italia al governo. Solo che ha 84 anni, non ha un erede politico e l’unico posto a cui potrebbe ambire è già prenotato da Draghi. Salvini ha fatto un’operazione spregiudicata di arrocco. Ha capito (o gli hanno fatto capire) che una linea anti-europeista non è più realistica e che gli italiani hanno altro a cui pensare che agli immigrati. Perderà un po’ di voti, ma è rientrato in gioco e può sperare di consolidare il voto del Nord e attrarre elettori da Forza Italia. I voti persi da Salvini andranno a Fratelli d’Italia, che potrà aumentare anche i consensi pescando fra gli elettori scontenti del governo, ma la Meloni ha un grosso problema politico. E’ molto probabile che la coalizione di centro-destra vinca le elezioni ma il governo continuerà sicuramente a dipendere dai soldi europei e dal sostegno della BCE. Quindi Fratelli d’Italia dovrà acconciarsi ad una politica moderata che gli farà perdere consensi a favore di movimenti ancora più a destra.
A questo punto, dovrei parlare degli sconfitti. Forse meglio stendere un velo pietoso. Solo da ricordare come il PD sia passato in un mese e mezzo da ‘mai con Renzi’ a ‘Renzi per favore torna e facciamo il Conte ter pur di non avere Salvini’ a ‘che bello il governo Draghi con Renzi e Salvini’.
Due notazioni brevi: i) Conte ha dimostrato tutte le qualità del barone universitario italiano: grande spregiudicatezza, ottima abilità tattica, buona comunicazione (anche grazie a Casalino ed ai giornalisti servili che ci ritroviamo), scarsa capacità di gestione e zero visione di lungo periodo. Non credo ritornerà a fare il professore. Più probabile rimanga a galleggiare in politica, almeno finché avrà un po’ di consenso personale (fra parentesi – non capisco come possa piacere, ma io sono prevenuto contro i baroni). ii) una parola per il povero Di Battista. Pensava di aver fatto il furbo non ricandidandosi nel 2018. Pensava di divenire leader indiscusso nel 2023, per la regola del doppio mandato ed ora è disoccupato e fuori dal movimento. Esiste sicuramente un bacino elettorale di sinistra contrario al futuro governo Draghi, ma è già affollato di partitini e di leaders. Anche riuscissero a coalizzarsi, contro la tradizione delle liti a sinistra, è poco probabile che, con l’attuale legge elettorale, ottengano più di pochissimi seggi.
Più seriamente, è un ottimo momento per l’Italia e l’Europa. Abbiamo finalmente un primo ministro di grandi capacità e di grande prestigio, sulla carta comparabile a de Gasperi. Può scegliere i ministri senza troppi condizionamenti e presumo formerà un governo di persone competenti. Ci vorrà poco ad essre molto meglio dei ministri degli ultimi due governi. Avrà il grande vantaggio di una maggioranza ampia e variegata e quindi potrà permettersi di ignorare le richieste dei singoli partiti, o dei vari gruppetti in cui si sono divisi. Basta che stia attento a bilanciare gli schiaffoni con qualche carezza ed apparire equidistante. Come già detto in altri post, non mi aspetto grandi riforme nel breve periodo – solo la stesura di un PNRR ben strutturato che impegni i governi futuri, sotto il controllo del presidente Draghi….
]]>Durante questo periodo sono ben 4 le volte in cui il Paese è stato sull'orlo del baratro:
Nel 1992, dopo un decennio di spesa incontrollata, quando gli attacchi alla lira e un bilancio pubblico fuori controllo costrinsero prima Amato e poi Ciampi ad un violento consolidamento fiscale e all'utilizzo delle riserve della Banca d'Italia; nel 1996 quando si comprese che solo agganciandoci all'Euro i conti potessero essere messi in sicurezza; nel 2009, quando all'indomani della crisi finanziaria con una sciagurata noncuranza gettammo le basi per essere travolti dalla crisi dei debiti sovrani che porto a Palazzo Chigi Mario Monti col compito di tranquillizzare i mercati e recuperare credibilità.
In tutte queste crisi protagonista fuori dalla luce dei riflettori fu Mario Draghi, prima come direttore generale del Ministero del Tesoro dove portò uno staff dalle competenze straordinarie, poi come governatore della Banca d'Italia dove vigilò su un sistema bancario messo a rischio dalla crisi mondiale, infine come presidente della BCE e la difesa con ogni mezzo, anche teorico e mai attivato (OMT), della valuta comunitaria e quindi dei conti dei Paesi eurodeboli.
Oggi Draghi è chiamato direttamente a risolvere il problema forse più difficile: confrontarsi con partiti che non hanno la percezione del pericolo e che ne sono stati la causa.
Lo deve fare tra le insidie degli appetiti partitici in cerca di ministeri, visibilità e consenso ma lo deve fare anche con la circostanza straordinaria di una mole di spesa pubblica possibile che non si è mai vista prima.
Su queste pagine avevamo tracciato 2 possibili sentieri: quello minimale fatto da 3 semplici cose urgenti (piano vaccinale, PNRR e Legge di Bilancio 2022) e quello desiderabile fatto da un cammino di riforme profonde dei mali strutturali della nostra società.
C'è però una coincidenza (chiamiamola pure fortuna) che potrebbe fondere lo scenario 1 con lo scenario 2. Ovvero che il Piano di Riforme e Resilienza da presentare alla Commissione Europea deve contenere buona parte di quelle riforme che vorremmo fossero avviate nello scenario più desiderabile.
Il Next Generatio EU prende forma a partire dalle Country Specific Recommendations 2019 e 2020 che la Commissione ha inviato all'Italia.
Al punto 1 di quelle 2020 leggiamo "quando le condizioni economiche lo consentano, perseguire politiche di bilancio volte a conseguire posizioni di bilancio a medio termine prudenti e ad assicurare la sostenibilità del debito, incrementando nel contempo gli investimenti".
Nelle Raccomandazioni finali del 2011 che in questi giorni abbiamo più volte ricordato, l'allora Governatore Draghi scriveva "Un semplice esercizio contabile mostra che, se le regole fissate dal Patto di stabilità e crescita fossero state sempre rispettate, alla vigilia della crisi l’incidenza del debito pubblico sul PIL sarebbe stata inferiore di oltre 10 punti nell’area dell’euro".
E ancora "Senza sacrificare la spesa in conto capitale oltre quanto già previsto nello scenario tendenziale e senza aumentare le entrate, la spesa primaria corrente dovrà però ancora contrarsi, di oltre il 5 per cento in termini reali nel triennio 2012-14, tornando, in rapporto al PIL, sul livello dell’inizio dello scorso decennio"
Rispetto quindi del Patto di stabilità e Crescita teso a contenere gli squilibri macroeconomici. Non una dichiarazione d'amore per l'Austerity, ma un richiamo al rispetto degli accordi sulla disciplina della spesa che si può declinare anche nella formula "debito buono vs. debito cattivo", oppure "più investimenti, meno spesa corrente".
Al punto 4 delle Raccomandazioni si legge "migliorare l'efficienza del sistema giudiziario e il funzionamento della pubblica amministrazione".
Draghi scriveva sempre nel 2011 "Va affrontato alla radice il problema di efficienza della giustizia civile: la durata stimata dei processi ordinari in primo grado supera i 1.000 giorni e
colloca l’Italia al 157esimo posto su 183 paesi nelle graduatorie stilate dalla Banca Mondiale; l’incertezza che ne deriva è un fattore potente di attrito nel funzionamento dell’economia, oltre che di ingiustizia. Nostre stime indicano che la perdita annua di prodotto attribuibile ai difetti della nostra giustizia civile potrebbe giungere a un punto percentuale."
Altre coincidenze fra linee guida del NGEU e Considerazioni finali le troviamo a proposito di inclusione delle donne nel mondo del lavoro: "La scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro è un fattore cruciale di debolezza del sistema". Sulle infrastrutture: "L’Italia è indietro nella dotazione di infrastrutture rispetto agli altri principali paesi europei, pur con una spesa pubblica che dagli anni Ottanta al 2008 è stata maggiore in rapporto al PIL".
Analoghe considerazioni si possono trovare sull'eficienza del sistema fiscale, sull'uso degli ammortizzatori sociali e sulla formazione scolastica.
In altre parole il programma del Governo Draghi c'è, è chiaro e coerente; inoltre è tutto orientato alla crescita dell'economia e non all'ultilizzo distorto delle risorse pubbliche.
Mario Draghi chiudeva quelle Considerazioni con queste frasi che ora sembarno profetiche e quanto mai attuali:
Quale paese lasceremo ai nostri figli? Tante volte abbiamo indicato obiettivi, linee di azione, aree di intervento. A distanza di cinque anni, quando si guarda a quanto poco di tutto ciò si sia tradotto in realtà, viene in mente l’inutilità delle prediche di un mio ben più illustre predecessore.
Perché la politica, che sola ha il potere di tradurre le analisi in leggi, non fa propria la frase di Cavour “…le riforme compiute a tempo, invece di indebolire
l’autorità, la rafforzano”?
Rileggendole si rafforza il timore che una volta passata la fase emergenziale la politica, che ora dichiara il proprio appoggio alla nascita del governo smentendo sé stessa, dimentichi quelle parole e sprechi questo lascito.
Ragion per cui, senza volermi in alcun modo accostare a Draghi, rilancio io una domanda: per quando il suo mandato sarà concluso esisterà una forza politica disposta a seguirne il programma e ad attuarlo senza sbandamenti?
Provo a ricollegarmi alle riflessioni fatte su questo sito da Michele e Costantino, cercando di adottare un approccio in stile “Ulisse e le sirene”, ossia di provare a vincolarmi alle catene della logica elementare a alla zavorra di argomenti solidi per non cedere alla fortissima tentazione del wishful thinking.
Prima ovvia constatazione: non esiste un governo politico, perché se esistesse non ci sarebbe la necessità di chiamare un terzo incomodo, che sarebbe forse riduttivo chiamare tecnico. Se non esiste governo politico, non esiste neanche la necessità di scendere a patti con i partiti tradizionali. Un governo politico, che non sia espressione di un unico partito, in genere deve mediare tra le diverse anime di una coalizione. Un governo di salvezza nazionale, come quello affidato a Mario Draghi, si dovrebbe reggere sulla semplice constatazione che la quasi totalità delle persone, che oggi siedono nel parlamento italiano, non trovano conveniente a titolo personale la prospettiva di andare al voto.
In primo luogo, non conviene perché è possibile che nuove elezioni non risolvano il problema di realizzare un parlamento in grado di esprimere una maggioranza di governo. In secondo luogo, chi è favorito nei sondaggi, dovrebbe gestire la patata bollente di un paese massacrato dalla crisi economica, oltre che dalla pandemia e il dilemma di piano di ripresa europeo che, pensate un po', per autorizzare dei fondi, richiede la presentazione di programmi credibili. In terzo luogo, ovviamente, chi dai sondaggi non è favorito, ha tutta la convenienza a temporeggiare.
Dunque il partito unico che appoggia il governo Draghi si chiama TINA, there is no alternative.
Stiamo dicendo che, una persona che possiede la ricetta per salvare questo paese da se stesso, si trova nella posizione di governarlo, senza dover ricercare il consenso di una popolazione che, in larga misura, quella ricetta non sa, non vuole e non può capire. Aggiungiamo che, questo signore ha davanti un parlamento che non può dirgli di no, senza danneggiare se stesso, possiede competenze e credibilità, che hanno pochi eguali al mondo e non deve preoccuparsi trovare un lavoro o una collocazione quando avrà terminato la sua missione impossibile.
Il canto delle sirene è quasi irresistibile, ma la logica e il buon senso ci vengono in soccorso.
L’ex presidente della BCE, non è un pirata né un dittatore e non potrà salvarci contro la nostra volontà. Una prospettiva plausibile, ben delineata nell’articolo di Michele, è che, la maggioranza della classe dirigente e politica italiana stia cercando di lasciare il “lavoro sporco” al tecnico di turno, con la speranza di manipolarlo, per poi subentrare appena possibile e godere dei frutti del suo lavoro, nella fattispecie dei fondi europei per la ripresa.
Il governo tecnico in arrivo non può compiere da solo la missione impossibile, può creare i presupposti e impostarla, ma solo un vero e proprio “partito di Mario Draghi” può realizzarlo. Parliamo di una forza politica che raccolga l’eredità morale e intellettuale di questo nuovo “padre della patria”, che nel frattempo sarà asceso al quirinale.
Ecco che il sogno si interrompe bruscamente.
Questo partito al momento non solo non c’è, ma la materia prima attualmente disponibile nella classe politica oggi esistente è in larga misura inadeguata.
Se il partito di Draghi non esiste, perché un personaggio della sua caratura si dovrebbe prestare a togliere le castagne dal fuoco a una classe politica che, ricambiata, non lo ama e vorrebbe usarlo come strumento per mantenere il proprio status privilegiato? Forse per spirito civico, per interrompere ancora una volta “la cronaca di una morte annunciata” del paese che in fondo ama ancora. Non si può dire, lo scopriremo solo vivendo.
Ma forse quel partito può esistere e, ora che ci sono le condizioni, qualcuno dovrebbe pensare di realizzarlo. Ma dove li troviamo campioni capaci di scendere in campo? Dove si nascondono questi super eroi, super tecnici, super manager e super politici? La risposta più semplice e razionale è che forse dovremmo smetterla di chiederci, chi mai riuscirà a salvarci e iniziare a rimboccarci le maniche, per farlo da soli.
Non servono eroi, ma è sufficiente gente normale.
Gente che sappia leggere e scrivere e far di conto. Gente che abbia dovuto lavorare per guadagnarsi da vivere e che abbia una cognizione di massima di come si sta al mondo. Decenni di selezione avversa hanno seppellito le persone oneste e capaci sotto un cumulo di spazzatura, la prima rivoluzione del partito di Draghi dovrebbe essere semplicemente riportarli alla luce.
Non è questa l’ora di convincere un popolo martoriato a darsi la zappa sui piedi con programmi di lacrime e sangue. E’ un momento storico nel quale l’Europa ci offre un’apertura di credito per mitigare il costo sociale delle riforme strutturali, i tassi d’interesse sono sotto zero e il fronte unitario di una classe dirigente inadeguata appare diviso, fragile e pronto a spaccarsi.
Tra i componenti della mia bolla sociale c’è un entusiasmo che mi riporta indietro di 35 anni e mi fa risentire l’entusiasmo Napoletano, che canta squarciagola “Draghi è meglio e Pelè”.
Suggerisco di stare calmi e di ascoltare musica più tranquilla, un motivetto dolce, composto da un architetto, anche lui napoletano, che amava le favole e fa più o meno così:
]]>Seconda stella a destra, questo è il cammino
E poi dritto fino al mattino
Poi la strada la trovi da te
Porta all'isola che non c'è
Edoardo Bennato
Condivido l'analisi che Costantino de Blasi ha qui proposto: anche io, quando l'incarico venne conferito avevo auspicato non accettasse e per le medesime ragioni. Da questo infatti vorrei partire: perché avrei preferito non accettasse o, in subordine, tornasse al Quirinale dicendo "Guardi, Mattarella, ho verificato se fosse possibile governare per fare il minimo indispensabile e quelle condizioni non ci sono. Ciò che richiedono è dannoso per il paese ed impedisce di fare quel che considero virtuoso. Quindi rinuncio e la ringrazio". Però ha accettato e, al momento, non sembra aver intenzione di tirare rapidamente la spugna. Ragioniamo quindi sotto l'ipotesi che una qualche maggioranza ampia abbastanza si formerà per sostenere il governo Draghi.
Che TIPO di maggioranza si formi non è irrilevante, ma al momento non sono in grado di fare predizioni. Però mi arrischio a dire che la relazione causale fra tipo/composizione della maggioranza che si formerà e natura del governo sarà la seguente: più ampio il supporto dei partiti, più tecnico sarà il governo e più vago e "path dependent" sarà il programma di governo. Ne segue che, se il suo obiettivo è fare il governo Draghi sarà vago e mansueto nei colloqui per portare a casa una fiducia ampia.
E poi? Il poi è ovviamente quel che mi interessa. Prima di arrivarci una seconda osservazione, credo non irrilevante. I mercati finanziari e l'opinione pubblica dei paesi occidentali hanno reagito entusiasticamente alla notizia dell'incarico a Draghi. Fin troppo, infatti: spread che crollano, titoli azionari che volano, titoloni del NYT a spiegare che Mario Draghi non salverà solo l'Italia ma, per la seconda volta, l'UE. Giustificato? Non so, ma alla fine non importa perché ciò che conta è che l'entusiasmo di questi giorni implica drammaticamente l'opposto nel caso di un fallimento. Una rinuncia di Draghi o le sue dimissioni prima di completare il mandato provocherebbe, se dovesse avvenire, un crollo drammatico. Questa è un'arma potente, ed in parte inattesa, che i fatti hanno messo in tasca al Presidente incaricato.
Veniamo quindi ai sentieri possibili sotto l'ipotesi che Draghi riceva la fiducia e diventi Primo Ministro. Mi sembra ve ne siano due: uno tristemente minimalista ed uno altamente ottimista. Vie di mezzo non ne vedo, non solo per la natura del conflitto politico sottostante ma anche per la personalità, i valori ed i performance standards che sembrano aver ispirato - per almeno 40 anni - la vita pubblica della persona di cui stiamo parlando.
Il sentiero minimalista è sia semplice che deludente. Infatti, e qui sta la mia apprensione, dannoso per il paese perché sprecherebbe un uomo di grande valore al solo fine di ripulire il palazzo che i proci hanno semidistrutto e dove ritornerebbero immediatamente dopo per ricominciare a distruggere. Lungo il sentiero minimalista il governo Draghi fa tre cose: un piano vaccinale che funzioni, dei progetti di spesa del RF minimamente decenti ed una finanziaria per l'anno entrante che non sfasci ulteriormente la finanza pubblica. Fatto questo o ben viene ringraziato e mandato a casa (in un qualche momento del 2022) o (ammesso e non concesso che sia interessato) a gennaio del 2022 viene premiato con l'elezione al Quirinale. Poi la banda Bassotti ritorna a controllare il tutto e la lenta distruzione del paese ricomincia come prima e più di prima. Spiegare perché questo sia dannoso oltre che deludente non mi pare necessario e, nella misura in cui i segnali che vengono dal mondo politico rendono questo scenario non improbabile cresce l'apprensione ed il timore. Un governo Draghi che si riducesse a questo sarebbe in realtà una jattura per il paese in quanto scambierebbe un piatto di lenticchie immediato per un'ulteriore accelerazione del processo del declino nel medio periodo.
Il sentiero altamente ottimista si colloca all'estremo opposto e richiede un po' di extra-fiducia nella dirittura morale e nel coraggio del Presidente incaricato per essere descritto. Consiste in un Draghi che, quatto quatto e passo a passo, trasforma in realtà quel programma di governo che ha chiaramente in testa e che trovate illustrato in modo abbastanza esplicito nel testo della sua ultima relazione (maggio 2011) quale Governatore della Banca d'Italia. Siccome so che siete pigri eccola e ne trovate copia anche allegata all'articolo. Dateci un'occhiata attenta: questo è il programma di governo di Mario Draghi versione Mario Django. Per realizzarla occorrono due anni di continue sfide a chi fa blink per primo (altrimenti noto come Chicken Game) fra il Primo Ministro ed un Parlamento che lo rifiuta e non vuole fare quel che lui gli impone di fare ma è costretto a farlo dal terrore del crollo che potrebbe avvenire se il Primo Ministro si dimettesse a causa della loro opposizione alle riforme che va introducendo. No, non è impossibile: era l'altra opzione che Mario Monti aveva disponibile nel 2011-2012 e che decise di non prendere. Ce l'ha anche Mario Draghi e lui lo sa.
L'opzione che ho chiamato altamente ottimista richiede anche un sentiero che vada ben oltre il termine di questa legislatura, nel febbraio 2023, per poter essere anche solo concepita. Richiede almeno tutta la legislatura seguente e qui sta, ovviamente, l'hic rodus hic salta ... ammesso o sognato che Mario Draghi abbia l'intenzione d'imbarcarsi in un tale viaggio del deserto in compagni, durante i primi due anni, d'un Parlamento che lo vive come corpo estraneo ed ostile. Se deve andare oltre il 2023, il secondo sentiero richiede sia la costruzione del "partito" che appoggia il Programma del Primo Ministro Draghi (PPMD fa schifo come sigla, ma quella viene) che, alle elezioni del febbraio di quell'anno, la raccolta di un 20-25% dei voti utili. Impossibile? No. Tremendamente difficile e rischioso? Certamente. Anche perché quel partito dovrebbe raccogliere attorno a quella fetta di voti per diventare l'ago effettivo della bilancia nella politica nazionale e non un puro fattore di guerriglia tattica, attraverso imboscate più o meno bene assortite, com'è oggi, per ragioni anche obiettive, Italia Viva di Renzi.
Un progetto molto ambizioso che richiede una strategia molto ben calcolata ed eseguita e svariati pizzichi di fortuna. Richiede soprattutto una leadership consapevole del fatto che se un paese ha perso il suo onore lo può recuperare con un atto di eroismo collettivo. E dotata di un coraggio che può possedere solo chi è cosciente da sempre che quando lo perdi hai perso tutto.
Quale dei due sentieri prenderà Mario Draghi, se riesce ad ottenere la fiducia? Non lo so, ma se dovesse segnalare che ha scelto il secondo allora forse varrà la pena innamorarsi di nuovo d'una vecchia causa oramai persa. Quella che fermare ed invertire lo storico declino italiano sia possibile.
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Le motivazioni del presidente della Repubblica sono quasi tutte ineccepibili. Sciogliere le camere, indire le elezioni, insediare i nuovi parlamentari, assistere alle discussioni per la elezione dei presidenti dei due rami del parlamento, attendere la formazione di un esecutivo con la definizione di ruoli e staff avrebbe portato il Paese all'immobilismo fino alle soglie dell'estate; troppo tardi per un Paese allo sfascio economico e alle prese con una complicata (e per certi versi confusionaria) gestione dell'emergenza sanitaria. L'Europa non ci avrebbe atteso ancora.
In questi mesi ci sono importanti scadenze. Un documento di Economia e Finanza che con un governo dimissionario conterrebbe solo i tendenziali e non le riforme (sarebbe il secondo in tre anni), un PNRR da sottoporre al vaglio della Commissione entro e non oltre il 30 aprile, molto probabilmente altre misure per far fronte alle conseguenze del lockdown senza possibilità di accedere ad altra cassa in caso di necessità per ristori, blocco dei licenziamenti, cartelle esattoriali prossime allo sblocco, crisi bancaria alla scadenza delle garanzie pubbliche. Mattarella si è dunque mostrato molto più responsabile della irresponsabile politica a caccia vana di responsabili.
Dovendo scegliere un uomo delle istituzioni che porti l'Italia fuori dalle secche in cui pervicacemente per decenni si è buttata, ha scelto il migliore, quello con il miglior curriculum e la più alta credibilità internazionale.
Ma neanche un supereroe della Marvel può salvare un Paese che non percepisce il pericolo e vuole suicidarsi.
Perché il Paese si salvi Draghi dovrebbe cancellare 30 anni di follie e fare riforme che nessun partito politico ha intenzione di accettare. Dovrebbe farlo con un Parlamento ostile e schizofrenico che vede nei 300 miliardi europei l'occasione della vita per sperperare il denaro e cancellare il futuro delle generazioni a venire; dovrebbe riformare il lavoro e la contrattazione; dovrebbe scardinare rendite di posizione consolidate contro ordini professionali e categorie sindacalizzate; dovrebbe aprire il mercato alla concorrenza dopo che i governi gialloverde e giallorosso hanno invaso l'economia con la favola della strategicità di aziende zombie; dovrebbe mettere in sicurezza le pensioni; dovrebbe avviare la messa in sicurezza del debito che inchioda l'economia alla crescita zero; dovrebbe fare ordine nei conflitti fra governo e Regioni. Ogni provvedimento utile troverebbe in Parlamento lo sbarramento di primati primitivi che griderebbero alla democrazia violata e alla volontà del popolo tradita. In altre parole avremmo il miglior premier possibile con il peggior parlamento possibile.
In questa situazione gli scenari possibili sono 3.
Il caos intorno ad un governo tecnico di fine legislatura che darebbe nuovo fiato ai populismi come abbiamo già visto dopo l'esperienza Monti. Dopo quell'esecutivo nacque, o si rinforzò, il mito dell'austerity e quello dei tecnici insensibili e senza cuore che spianò la strada del successo al Movimento 5 Stelle del reddito di cittadinanza e della Lega di Quota 100.
Un governo di emergenza della durata di pochi mesi che conduca l'Italia ad elezioni post emergenza e riconsegni le chiavi del Paese alla politica una volta sistemati Recovery Plan e piano vaccinale. Questa però sarebbe una enorme occasione sprecata, l'ennesima, di un Paese che non fa mai i conti col destino che si è scelto.
Un governo di compromesso tecnico/politico che alla ricerca di un voto parlamentare non facile snaturi la sua essenza e comprometta la sua missione assegnando ministeri ai partiti di tutto l'arco costituzionale senza la certezza del goal ché, ad esempio, quando si dovrà dire che si abolisce quota 100 e ogni goffo tentativo di riproporla, un Salvini di turno alzerà le barricate.
Comunque la si giri le prospettive di un governo Draghi non sono facili. Il Paese, e il parlamento che tragicamente lo rappresenta, non è capace di sopportarne la razionalità.
Per queste ragioni spero che Mario Draghi dica a Mattarella "onorato ma non posso". Troppo capace e troppo lucido per una situazione tragicomica come quella che è chiamato a risolvere: uno spreco insopportabile.
Preferirei un governo di transizione affidato ad una personalità di alto profilo (Cartabia?) ma che si limiti al minimo indispensabile (Recovery Plan e vaccini) per poi riconsegnare agli italiani il voto.
Ultima considerazione sulle elite del Paese.
Non sono mai state capaci di selezionare una classe dirigente minimamente presentabile. Hanno giocato in panchina sperando di raccogliere il tozzo di torta che il governo di turno era disponibile a mollare. Hanno intrecciato rapporti perversi e speculativi con gli innumerevoli centri di potere piccoli e grandi senza mai neanche dare un'idea di una prospettiva migliore.
Senza voler apparire giacobino, occorre dire con chiarezza che queste elite non hanno mai pagato la loro inazione.
L'Italia, questa disgraziata Italia, è il risultato anche delle loro ipocrisie.
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Prima di tutto il suo intervento ad inizio lavori. Una sostanziale replica di quanto detto ieri alla Camera in cui ha rimarcato l'importanza del momento, le sfide epocali da affrontare, il buon (?) lavoro fatto dal suo esecutivo anche con l'aiuto di Italia Viva. Ma anche il richiamo alle forze liberali, popolari e socialiste (la richiesta di aiuto) perché diano al suo governo una seconda chance.
Più interessante la replica serale alle dichiarazioni di voto. Nella replica ha sciorinato numeri che meritano alcune puntualizzazioni.
Politiche demografiche e assegno unico familiare
L'assegno unico è una misura prevista in Legge di Bilancio. Prevede l'erogazione a partire dal primo luglio di un assegno mensile per ogni figlio fino al compimento di 21 anni di un importo fra i 50 e i 250 euro. Conte ha parlato di 12 milioni di assegni. I numeri non tornano. In bilancio la spesa prevista è di 3 miliardi per il 2021 e di 5,5 miliardi per gli anni a venire quando la misura sarà a regime. Se fossero davvero 12 milioni i beneficiari, e se l'importo erogato fosse quello minimo, la spesa annua sarebbe di 7,2 miliardi. Perché Conte tenda ad esagerare ogni parola nelle sue dichiarazioni pubbliche è materia più per psicologi che per analisti economici.
Che quello demografico sia un grave problema lo andiamo dicendo da tempo; che vada affrontato con misure di welfare strutturali anche; che il governo decida la via più breve, quella abusata del bonus, purtroppo non una novità. Pensare che regalare qualche miliardo risolva il problema un'utopia.
2) Dati macroeconomici
Conte ha contestato quei parlamentari che hanno ricordato come l'Italia sia il Paese europeo con il peggior calo del PIL; peggio di noi, ha detto, hanno fatto Spagna e Regno Unito. Noi invece, ha detto, siamo quelli che hanno recuperato di più nel terzo trimestre. "I numeri parlano" ha sottolineato.
E allora facciamo parlare i numeri.
Il calo del PIL nel secondo trimestre è stato -13% per l'Italia, -17,9% per la Spagna, - 13,8% per la Francia; l'area Euro ha fatto -11,7%. Insomma non siamo stati i peggiori ma siamo sopra media euro ed Europa a 28. Il recupero nel terzo trimestre è stato 15,9% per l'Italia, 16,4% per la Spagna, 18,7% per la Francia; l'area euro ha fatto 12,5%.
Come si vede lo scostamento di qualche frazione di punto in un arco di tempo così breve, l'essere primi o ultimi in un trimestre non è significativo. Quello che è significativo è il trend di lungo periodo che vede l'Italia ultima, per distacco, nella crescita. Le ragioni di questa stagnazione strutturale non sono state affrontate dal suo governo.
Ha parlato poi di un calo del PIL del 9% migliore delle attese e migliore rispetto agli altri partner europei. Ribadito che c'è poco da vantarsi, le proiezioni attualmente disponibili sono quelle dell'autumn forecast della Commissione che danno il nostro Paese al -9,9% contro una media area euro del -7,8%; con la differenza che mentre il debt ratio europeo è atteso al 102% quello italiano è intorno al 160%
Fra qualche giorno dovrebbero essere rilasciati i primi dati grezzi sul debito pil. Possibile che si riesca a chiudere l'anno con un dato inferiore a quella soglia. Se così sarà (156,1% secondo il MEF) sarà dovuto alla combinazione di 2 fattori: il posticipo dello scostamento di bilancio previsto in dicembre calendarizzato proprio per questa settimana (32 miliardi come indebitamento netto aggiuntivo, 40 miliardi come saldo netto da finanziare) e l'utilizzo del conto di tesoreria le cui disponibilità già a novembre sono passate da 78 a 61 miliardi. In altre parole alla voce rapporto debito/pil comparirà 156 ma si dovrà leggere 160.
Intervento pubblico di sostegno all'economia
Per onestà intellettuale non si deve negare che lo sforzo compiuto dal governo per contenere gli effetti della crisi sia stato importante. Considerarlo più che importante e pari a quello della Germania però è fare un altro torto alla verità. Gli interventi del governo sono stati confusi, e poco efficaci. Non a caso sono serviti ben 4 decreti ristori per un totale di 19 miliardi (e un quinto arriva ora a gennaio) e una parte delle dotazioni è arrivata da risorse dei precedenti decreti che non è stato possibile spendere. Tutti ricordiamo i click day di maggio e i ripetuti crash del sito INPS. Altri Paesi, sfruttando una pubblica amministrazione efficiente e l'incrocio dei dati già in possesso della PA, cosa che noi ci ostiniamo a non fare, hanno proceduto con l'accredito automatico ai beneficiari.
MES no perché è divisivo e aumenta il debito
La polemica sul MES sta diventando stucchevole, posto che non è quasi mai stata condotta con onestà intellettuale. Renzi ne ha fatto, sbagliando, uno dei cavalli di battaglia di questa crisi. Le risposte che Conte dà sono insulti al buon senso.
Il MES non si prende perché spaccherebbe il Movimento 5 Stelle e la già fragile coalizione di governo. Punto.
L'aumento del debito non è diverso dall'aumento del debito determinato dallo scostamento di bilancio (che corrisponde grosso modo alla stessa cifra); il debito col MES sarebbe comunque meno costoso, anzi, con gli attuali tassi sul decennale (-0,317%) estremamente conveniente. L'aver destinato alla sanità 19,8 miliardi del Next Generation EU non risolve il problema emergenziale perché, come abbiamo detto e scritto molte volte, le finalità sono diverse: il MES serve ad affrontare le spese per una risposta sanitaria, NGEU serve per le riforme. Qualche sera fa ospite di Lilly Gruber il ministro Boccia ha detto che il MES sostituirebbe le risorse stanziate nel Recovery Plan. Falso.
Chiarito ciò, occorre anche dire che richiedere l'accesso alla linea pandemica avrebbe avuto un senso a giugno più di quanto ne abbia ora.
Il Recovery Plan italiano è nel complesso pessimo. Non a caso dalla Commissione trapelano voci di una bocciatura. Mancano le riforme, mancano i progetti, manca il coordinamento fra spese e investimenti. I tempi per migliorarlo sono stretti e la particolare natura di facility lascia presagire che difficilmente riusciremo a sfruttare i 222 miliardi complessivi. Soprattutto, anche qualora (come penso) la Commissione chiudesse un occhio sulle prime erogazioni, quelle che servono ad avviare il Paese su un percorso di riforme, il monitoraggio dell'efficacia dei progetti e del loro impatto su crescita del prodotto interno lordo e occupazione sarà rigorosissimo. Perdere quei fondi, che sono comunque debito e anche se non sfruttati comporteranno un aumento delle risorse con cui finanziare il prossimo settennato di bilancio europeo, sarebbe criminale nei confronti delle future generazioni.
Probabilmente il Conte 2bis nascerà.
Nascerà però su una maggioranza ancor più fragile di quella precedente con la certezza di andare in minoranza nelle commissioni. Partiranno di continuo polemiche sulla sua tenuta, con le opposizioni che ne chiederanno la verifica e le dimissioni in un clima di polemica senza fine che in un periodo difficile come quello che dobbiamo affrontare non lascia presagire nulla di buono.
Terminata l'emergenza sanitaria, con la ripresa economica che arriverà inevitabile, sarà ristabilito il Patto di Stabilità ora sospeso. A quella data ci troveremo ulteriormente indeboliti da un debito fuori controllo e senza la protezione della BCE. La prospettiva greca non è tanto lontana.
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CHE COSA È SUCCESSO
Come è noto, Twitter ha sospeso in modo permanente l’account personale del Presidente degli Stati Uniti uscente Donald Trump[1]. Si tratta di una decisione che non ha precedenti storici quanto alla rilevanza pubblica del soggetto «bannato», ma non è certo la prima volta che la piattaforma di Jack Dorsey prende provvedimenti nei confronti di soggetti politici che violano le sue Regole e le sue Policies[2]. In un comunicato pubblicato a mezzo del proprio blog, Twitter ha fatto sapere che la motivazione alla base della sospensione dell’account di Trump sarebbero i due tweets che seguono, il cui linguaggio risulterebbe in violazione della policy di Twitter contro la glorificazione della violenza.
“The 75,000,000 great American Patriots who voted for me, AMERICA FIRST, and MAKE AMERICA GREAT AGAIN, will have a GIANT VOICE long into the future. They will not be disrespected or treated unfairly in any way, shape or form!!!”
e
“To all of those who have asked, I will not be going to the Inauguration on January 20th.”
Entrambi i tweets sono stati pubblicati nella giornata dell’8 gennaio 2021, due giorni dopo i violenti attacchi al Campidoglio posti in essere da fanatici sostenitori dello stesso Trump. Nel comunicato Twitter ha precisato che i due tweet «devono essere letti nel contesto degli eventi di più ampio respiroo occorsi negli Stati Uniti e dei modi in cui le dichiarazioni del Presidente possono interpretate dal diverso pubblico anche come un’incitazione alla violenza, e nel contesto del pattern di comportamenti posti in essere nelle recenti settimane dall’account di Donald Trump».
UNA PREMESSA FONDAMENTALE.
A scanso di equivoci, è bene specificare immediatamente che la diatriba, assai interessante e pregna di conseguenze, tra chi concepisce i social network come «club privati» e chi al contrario come «piazze pubbliche» non è al centro di questo articolo. È infatti evidente che essi non sono né l’una né l’altra cosa, come ha spesso spiegato la nostra amica Vitalba Azzollini nei numerosi video sul nostro canale YouTube.
Lo scopo di questo contributo è fare chiarezza sull’importanza della norma giuridica che consente a Twitter di sospendere l’account personale del Presidente degli Stati Uniti d’America, senza poter essere accusata di aver commesso un atto illegittimo o un’«ingiusta censura». Stiamo parlando della § 230(c) del Communications Decency Act.
Sul punto ha già scritto tutto quello che c’era da scrivere l’avvocato Carlo Blengino, in un contributo pubblicato un anno fa su Il Post dal titolo: «Le 26 parole che hanno cambiato internet» (che vi invito a leggere, prima di continuare con questo articolo). Senza la pretesa di sostituirmi a colui che ritengo un’autorità nel campo, mi permetto di aggiungere qualche riflessione aggiuntiva, scaturita dalle vicende di queste ultime settimane.
LA NORMA GIURIDICA (O LE NORME GIURIDICHE).
Vediamo in traduzione che cosa dice la §230(c) del Communications Decency Act.
«(c) Protezione del “Buon Samaritano” che blocchi e rimuova contenuti offensivi
Nessun fornitore o utente di un servizio internet può essere trattato come l’editore o l’autore di alcuna informazione fornita da un terzo.
Nessun fornitore o utente di un servizio internet può essere chiamato a rispondere di
A voler essere precisi, dunque, siamo di fronte a due norme giuridiche distinte (per quanto da leggersi in combinato disposto), ciascuna delle quali disciplina una diversa «immunità» civilistica[4].
Storicamente le controversie più rilevanti hanno avuto ad oggetto la sezione §230(c)(1), mentre la §230(c)(2) è rimasta sullo sfondo[5]. Anche nelle controversie più recenti, in cui la (c)(2) avrebbe potuto giocare un ruolo tutt’altro che irrilevante, le corti hanno preferito applicare la §230(c)(1) anche a costo di espanderne il significato[6].
IL MISUNDERSTANDING FONDAMENTALE: LA NEUTRALITÀ.
Il Communications Decency Act (“CDA”) è stato emanato dal Congresso americano nel 1996[7]. I casi giurisprudenziali precedenti all’emanazione della §230 CDA sono stati descritti e riassunti magistralmente da Blengino, a cui rimando.
La storia legislativa mostra chiaramente che la §230, lungi dall’essere approvata per obbligare le piattaforme ad essere «neutrali», costituisce la reazione del Congresso all’orientamento giurisprudenziale inaugurato dal caso Stratton Oakmont, Inc. v. Prodigy Services Co.,il quale rischiava di mettere le piattaforme davanti ad un non agevole dilemma[8]:
È noto che negli stessi anni il Congresso intendeva disincentivare l’ignavia delle piattaforme, in particolare al fine di limitare la diffusione della pornografia, sempre più facilmente disponibile al pubblico di bambini e adolescenti che ai tempi cominciava ad approcciarsi al Web[10]. La §230, dunque, è stata approvata per permettere alle piattaforme di moderare e selezionare i propri contenuti senza essere chiamate per ciò stesso a rispondere legalmente nella qualità di editori degli stessi[11]. In un certo senso, dunque, la §230 è stata approvata proprio perché le piattaforme smettessero di essere neutrali[12]. O, per dirla con le parole della giudice Carol Corrigan, estensore dell’opinione maggioritaria della sentenza Barret v. Rosenthalpronunciata nel 2006 dalla Corte suprema californiana, la §230 del CDA «impedisce l’imposizione del regime giuridico di responsabilità dell’editore [publisher] in capo ad un fornitore di servizi internet, per l’esercizio del suo potere editoriale e delle sue funzioni di auto-regolamentazione»[13].
Che il testo della norma rispecchi l’intenzione dei drafters è discutibile: nel corso degli anni non sono mancati i tentativi, in realtà quasi sempre falliti, da parte degli avvocati di affermare che una lettura troppo estensiva della §230(c)(1) avrebbe reso la §230(c)(2) inutile[14]. Hanno contribuito a generare confusione sul tema anche le dichiarazioni del senatore repubblicano Ted Cruz che, durante la testimonianza di Mark Zuckerberg davanti al Congresso tenutasi nell’aprile 2018 ha ripetutamente richiamato quest’ultimo al rispetto del dovere di neutralità imposto dalla §230. Le affermazioni di Cruz hanno però incontrato la disapprovazione di molti giuristi statunitensi, i quali hanno provveduto a ricordare che la §230 non impone alcun dovere di neutralità alle piattaforme[15].
Chi ritiene che esista un dovere di neutralità in capo alle piattaforme non è necessariamente in errore. Si deve, infatti, considerare in nessun altro paese al mondo esiste un regime così favorevole alle piattaforme[16]. In particolare, nel contesto giuridico dell’Unione europea, dove vige il regime della Direttiva e-commerce (Dir. n. 2000/31/CE), attuata in Italia con il d.lgs. 70/2003 la prospettiva è completamente rovesciata, giacché è proprio sul presupposto della neutralità e passività delle piattaforme online, rispetto ai contenuti user generated, che si fonda l’esclusione della loro responsabilità giuridica per i contenuti pubblicati dai loro utenti[17]. Noi però dobbiamo analizzare questa vicenda considerando esclusivamente il diritto statunitense.
COME E PERCHÉ LA § 230 PROTEGGE LA SCELTA DI TWITTER.
In una eventuale controversia giuridica avviata da Donald Trump nei confronti della piattaforma Twitter, quest’ultima si troverebbe ad essere protetta dalle immunità di cui alla §230 CDA. Possiamo immaginare che i legali di Donald Trump convengano in giudizio Twitter lamentando che la sospensione dell’account personale di Donald Trump sia avvenuta in violazione dei Terms of service (definiti un «binding contract»), perché ad esempio i tweet incriminati non potevano essere considerati come glorificazione della violenza; in alternativa potrebbero lamentare di aver subito un danno dalla scelta di Twitter[18].
Esistono dei precedenti. Infatti, se è vero che storicamente la §230 ha avuto le maggiori applicazioni in cause per diffamazione[19], nel corso degli ultimi anni, influencers e personaggi di spicco (spesso provenienti dal mondo conservatore americano), sospesi dai social network per il loro linguaggio aggressivo, hanno intentato una serie di cause contro i gestori delle piattaforme online, per ottenere di esservi riammessi o, in alternativa, il risarcimento dei danni. E proprio questo ha dato vita ad un corpus giurisprudenziale piuttosto consolidato in favore delle piattaforme.
Ad esempio, nel novembre del 2018 l’influencer Megan Murphy aveva pubblicato due tweet in cui affermava: «le donne trans non sono donne; come può una donna trans non essere un maschio?». Di lì a qualche settimana, Twitter avrebbe modificato le proprie policy, inserendo nella definizione di hate speech non tollerato anche le espressioni «misgendering». Sulla base di questa nuova definizione di hate speech Twitter aveva sospeso Megan Murphy, la quale aveva agito in giudizio lamentando una violazione del contratto, dal momento che la nuova policy era stata applicata da Twitter retroattivamente. Nel caso Murphy v. Twitter che ne seguì, la Corte superiore della California ha invece respinto la richiesta di Murphy, sostenendo che Twitter fosse protetta dalla §230(c). È interessante notare che i giudici californiani, accogliendo le eccezioni di Twitter, hanno considerato che si applicasse l’immunità di cui alla §230(c)(1) e non invece quella di cui alla §230(c)(2)[20]. La differenza non è di poco punto: se avesse trovato applicazione la §230(c)(2) Twitter avrebbe dovuto dimostrare che la rimozione dei contenuti considerati inappropriati fosse avvenuta «in buona fede»; così facendo, invece, i giudici hanno evitato di inerpicarsi in una scivolosa analisi di un concetto, la good faith, che è prettamente fattuale (quindi extra-giuridico). Invece, una piattaforma può avvalersi della protezione di cui alla § 230(c)(1) se dimostra di soddisfare tre condizioni[21]:
Nel caso Murphy i giudici non hanno avuto dubbi che tutti e tre i requisiti fossero presenti (pag. 11 della sentenza) e hanno ulteriormente affermato che «le corti della California e quelle federali sono concordi nell’affermare che azioni come questa, che facciano valere una pretesa contro la decisione di un internet service provider quanto al pubblicare, modificare o rimuovere determinati contenuti sono impedite dalla Sezione 230»[22].
Alla medesima conclusione è pervenuta la Corte federale del Distretto del Nord della California nel giugno del 2019, dismettendo la causa del repubblicano Craig Brittain, canidato al Senato nell’Arizona, il quale lamentava l’ingiusta sospensione dei suoi quattro account Twitter, sui quali esprimeva opinioni vicine all’estrema destra americana, con un linguaggio particolarmente violento[23]. Negli stessi giorni la medesima Corte dismetteva per le stesse ragioni l’azione intentata dall’utente Jason Fyk contro Facebook[24], con la quale il primo lamentava l’ingiusta rimozione dal suo account di alcune immagini ritraenti persone nell’atto di urinare, da questi ritenute perfettamente compatibili con le regole di Facebook.
Difficilmente una causa intentata da Trump, davanti alle stesse corti che hanno deciso i casi sopra menzionati, potrebbe avere un destino migliore.
CONCLUSIONI FINALI
In questo breve articolo ho voluto dare conto del perché la scelta di Twitter può dirsi con tutta probabilità legittima dal punto di vista giuridico. Sarebbe del resto disonesto tralasciare che negli ultimi anni la §230 CDA ha subito una serie di critiche bipartisan: i repubblicani sono convinti che la norma permetta alle piattaforme di perseguire policies di moderazione anticonservatrici[25]; i democratici la incolpano di aver permesso la propagazione quasi illimitata delle fake-news sui social network. È bene però sgomberare il campo da un equivoco che ogni tanto ritorna ad inquinare il dibattito: il regime di irresponsabilità giuridica previsto dalla §230 non è assoluto: certamente non protegge la piattaforma che dovesse esprimere in prima persona dei contenuti diffamatori o illegali; inoltre, nel corso degli anni il Congresso ha approvato una serie di leggi complementari che hanno escluso lo scudo dell’immunità in particolari casi (si pensi alla controversa eccezione prevista dalla legge FOSTA-SESTA)
Eric Goldman, professore di Diritto dell’Internet Santa Clara University School of Law ha fatto un riassunto dei principali tentativi di riforma che hanno avuto ad oggetto la Sezione 230 solo nell’anno appena trascorso. Possiamo dire, tirando un sospiro di sollievo, di esserci liberati dagli spasmi avventati di Donald Trump, che ha gestito il dibattito sulla §230 come un bambino a cui le piattaforme hanno rubato le caramelle. Ma sarebbe fin troppo ingenuo pensare che molte delle proposte fatte in questi anni non ritornino (magari trovando un terreno più fertile nell’opinione pubblica) anche sotto la presidenza Biden, il quale in passato ha espresso opinioni negative sulla norma in questione. Nelle ultime righe di questo articolo cercherò di spiegare come mai è necessario stare attenti a quello che si vuole, prospettando una serie di possibili conseguenze alle riforme principali che dovessero passare.
Insomma, le proposte in gioco sono tante: ciascuna ha i propri vizi e le proprie virtù. Al lettore, propongo invece una riflessione “eretica”. Potrebbe essere il caso che la §230 vada bene così come è e non abbia bisogno di essere riformata. Essendo frutto di un equilibrio politico-giuridico piuttosto complesso, permette da un lato alle piattaforme una certa libertà su cosa vedere pubblicato sui loro siti e dall’altro agli utenti di poter essere più liberi nel pubblicare contenuti senza temere l’abbattersi della scure di un ban ingiustificato per espressioni “border-line”.
Chi paventa indicibili poteri delle piattaforme di silenziare il dissenso politico si dimentica che, oltre alla legge, esiste anche il mercato. E una piattaforma che dovesse targetizzare una certa parte politica, censurandola ed eliminandone sistematicamente i contenuti, probabilmente, non sopravvivrebbe una settimana nel mare magnum delle piattaforme social sul web.
ESPERTI DA SEGUIRE SUL TEMA.
Segue un elenco (ovviamente non completo) dei siti e delle persone che hanno scritto cose interessanti sul tema.
[1]https://www.bbc.com/news/world-us-canada-55597840
[2]https://www.theverge.com/2021/1/12/22226503/twitter-qanon-account-suspension-70000-capitol-riots
[3] La traduzione è mia, ma sono debitore alla versione tradotta da Carlo Blengino. Il testo originale può essere consultato a questo link: https://www.law.cornell.edu/uscode/text/47/230#fn002009
[4]https://crsreports.congress.gov/product/pdf/LSB/LSB10484 (pagina 2: «(…)Section 230 contains two different provisions that courts have generally viewed as two distinct liability shields»)
[5] Eric Goldman, Online User Account Termination and 47 U.S.C. § 230(c)(2), 2 U.C. Irvine L. Rev. 659 (2012).
Available at: scholarship.law.uci.edu/ucilr/vol2/iss2/8 (pagina 660).
[6] V. infra.
[7]https://www.congress.gov/bill/104th-congress/senate-bill/314/cosponsors?q={%22search%22:[%22Communications+Decency+Act%22]}&searchResultViewType=expanded
[8] Vedi Eric Goldman, Sex Trafficking Exceptions to Section 230, Sept. 20, 2017, https://ssrn.com/abstract=3038632 che utilizza la locuzione «Moderator’s Dilemma».
[9] Eric Goldman, An Overview of the United States’ Section 230 Internet Immunity, Dec. 1, 2018 The Oxford Handbook of Online Intermediary Liability (Giancarlo Frosio, ed.) (Forthcoming), Santa Clara Univ. Legal Studies Research Paper, Available at SSRN: https://ssrn.com/abstract=3306737 or http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.3306737 (pagina 2).
[10]https://www.congress.gov/congressional-record/1995/6/26/senate-section/article/s9017-2
[11] È ciò che viene detto esplicitamente nella §230(b)(4), che elenca tra i motivi di policy alla base dell’emanazione della norma quello di rimuovere i disincentivi per le piattaforme allo «sviluppo e utilizzo di tecnologie di blocco e di filtro che rendano i genitori in grado di restringere l’accesso dei propri figli ai contenuti sgradevoli o inappropriati online».
[12]https://techfreedom.org/wp-content/uploads/2019/04/TechhFreedom-Letter-4.10.19-Senate-Platform-Bias-230-Hearing.pdf (pagina 2).
[13]Barrett v. Rosenthal, 40 Cal. 4th 33, 146 P.3d 510 (Cal. 2006) («§ 230 forbids the imposition of publisher liability on a service provider for the exercise of its editorial and self-regulatory functions»)
[14] Vedi la nota 6 della majority opinion in Murphy v. Twitter No. CGC-19-573712 (Cal. Super. June 12, 2019), disponibile a https://digitalcommons.law.scu.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=2968&context=historical.
[15] A titolo d’esempio: https://www.vox.com/recode/2019/5/16/18626779/ron-wyden-section-230-facebook-regulations-neutrality e https://abovethelaw.com/2020/10/ted-cruz-once-insisted-that-net-neutrality-was-the-govt-takeover-of-the-internet-now-demands-that-twitter-host-all-nonsense/
[16] V. Goldman in nota 9, pagina 10.
[17] M. R. Allegri. Alcune considerazioni sulla responsabilità degli intermediari digitali, e particolarmente dei "social network provider", per i contenuti prodotti dagli utenti, in Informatica e diritto, 2017, 1-2, pp. 69-112. Vedi anche
[18] Per una precisa scelta contrattuale di foro esclusivo contenuta nei TOS di Twitter, nonché in base al più banale principio actor sequitur forum rei, la controversia sarebbe decisa davanti ad una corte statale californiana. Per la verità sono numerosi gli altri claimsche Trump potrebbe muovere contro Twitter ma, come vedremo proseguendo nella trattazione, nessuno di questi si salverebbe dall’immunità di cui alla §230.
[19] Vedi Goldman in nota 5.
[20] Vedi https://blog.ericgoldman.org/archives/2019/06/twitter-gets-another-significant-section-230-win-in-lawsuit-by-suspended-user-murphy-v-twitter.htm
[21]https://newmedialaw.proskauer.com/2019/07/01/new-california-court-decisions-showcase-robust-cda-immunity/
[22] «California and federal courts are in accord that actions that, like the instant case, seek relief based on an internet service provider’s decisions whether to publish, edit, or withdraw particular postings are barred by Section 230» (p.13).
[23] Brittain v. Twitter, Inc., No. 19-00114 (N.D. Cal. June 10, 2019)
[24] Fyk v. Facebook, Inc., No. 18-05159 (N.D. Cal. June 18, 2019)
[25]https://www.technologyreview.com/2019/08/13/610/section-230-law-moderation-social-media-content-bias/
[26]https://itif.org/publications/2020/06/03/president-trumps-attacks-section-230-could-backfire
[27] Danielle Keats Citron and Benjamin Wittes, The Internet Will Not Break: Denying Bad Samaritans § 230
Immunity, 86 Fordham L. Rev. 401 (2017). Available at: ir.lawnet.fordham.edu/flr/vol86/iss2/3
]]>Si può dire che Liberi Oltre Le Illusioni nacque per merito di Report grazie alle storture informative della Gabanelli e del loro team che, in definitiva ancora oggi, si approfitta della faciloneria del grande pubblico Italiano per promuovere in realtà un’informazione distorta che fa credere allo scoop quando non è.
Report non solo non impara ma imperterrita produce (nel vero senso della parola) una notizia molto elaborata che porta l’ascoltatore o il lettore all’errore, al tranello, ad un convincimento che scaturisce da una mezza verità promulgata con saccenza attraverso una parziale presentazione di materiale probatorio.
]]>Complice forse l’inesistenza di una pagina di Wikipedia italiana dedicata all’argomento, sui quotidiani italiani si sono lette le opinioni più bizzarre sul tema[1].
È il caso di fare chiarezza, non prima di aver premesso che lo scopo di questo articolo è meramente divulgativo e non invece scientifico-giuridico.
CHE COS’È IL 25º EMENDAMENTO?
Si tratta di una disposizione normativa approvata nel 1967, sulla scia dell’omicidio Kennedy, con l’obiettivo di colmare le lacune dell’Articolo II, Sezione Prima, Sesta clausola il quale prevede, in breve, che: «In caso di rimozione del Presidente dall'ufficio o di sua morte, dimissioni o incapacità ad esercitare i poteri e i doveri del detto Ufficio, questo passerà al Vice presidente […]»[2]
Stante la generalità di questa disposizione, nel corso della storia si è reso necessario intervenire con un emendamento alla Costituzione che chiarisse il procedimento da seguire nel caso si fosse verificata una delle eventualità sopra previste.
Il 25º Emendamento si compone di 4 Sezioni, delle quali solo le ultime due rivestono un interesse specifico nel caso di Donald Trump. Parlare di 25º Emendamento come di un unicum normativo omogeneo è dunque sbagliato e non distinguere tra le singole sezioni non fa altro che aumentare la confusione sull’argomento.
È anche il caso di chiarire da subito che a differenza dell’impeachment, il 25º Emendamento non è un rimedio contro gli illeciti commessi dal Presidente in carica.
LA SEZIONE TERZA (E DEL PERCHÈ È INUTILE PARLARNE).
La Sezione Terza disciplina il trasferimento volontario dell’autorità presidenziale da parte del Presidente degli Stati Uniti al Vicepresidente in caso di inabilità temporanea ad esercitare i poteri e i doveri dell’ufficio. La procedura prevede che il Presidente degli Stati Uniti invii «una dichiarazione scritta» al Presidente pro tempore del Senato e allo Speaker della Camera dei Rappresentanti con la quale afferma «che egli è incapace ad esercitare i poteri e i doveri del suo ufficio». Il Vicepresidente eserciterà le funzioni spettanti al Presidente degli Stati Uniti fino a che quest’ultimo non trasmetta agli stessi organi di prima «una dichiarazione scritta» con la quale afferma di essere tornato in possesso delle sue capacità.
Si tratta dell’unica Sezione del 25º Emendamento ad aver avuto applicazioni in passato: in particolare, la norma fu invocata in due occasioni in cui il Presidente degli Stati Uniti (George W. Bush nel 2002 e poi nel 2007) dovette sopportare complessi interventi chirurgici, che avrebbero richiesto l’anestesia totale. Con buona pace di Repubblica, Ronald Reagan non ha mai invocato formalmente la Terza Sezione del 25º Emendamento quando nel 1985 dovette sottoporsi ad un complicato intervento chirurgico per la rimozione di una formazione cancerogena[3]: questo benché parte della dottrina costituzionale americana ritenga che sostanzialmente sia stata seguita la procedura della Terza Sezione.
Dal momento che Donald Trump non ha alcuna intenzione di lasciare il suo ufficio volontariamente non si vede il senso di continuare a fare paragoni con le situazioni sopra descritte.
CHI PUÒ DECIDERE SE IL PRESIDENTE È INCAPACE DI ESERCITARE LE FUNZIONI.
La Sezione Quarta disciplina il trasferimento forzoso dell’autorità presidenziale del Presidente degli Stati Uniti, nel caso in cui il Vice Presidente e «una maggioranza
trasmettano al Presidente pro tempore del Senato ed allo Speaker della Camera dei Rappresentanti una loro dichiarazione scritta che il Presidente è incapace ad esercitare i poteri e i doveri del suo ufficio». In questo modo «il Vice Presidente assumerà immediatamente l'incarico quale Presidente facente funzioni».
A complicare le cose è anche la mancanza di una definizione legislativa di «incapacità» all’esercizio della funzione presidenziale. Sarebbe del resto troppo limitante pensare che il termine abbia una connotazione puramente medica e che dunque l’incapacità potrebbe essere invocata legittimamente solo in caso di comprovata patologia mentale: che il Presidente degli Stati Uniti sia capace di intendere e di volere pare una condizione necessaria ma non sufficiente per concludere che sia idoneo ad esercitare le funzioni del suo ufficio.
Dal momento che, ad oggi, il Congresso non ha approvato una legge istitutiva di un «altro corpo», solo il Vicepresidente (ad oggi, Mike Pence) e la maggioranza dei funzionari principali in ciascuno dei Dipartimenti dell’esecutivo (che sono quindici) possono procedere ai sensi della Sezione Quarta.
La Sezione Quarta non è mai stata applicata in passato. Nemmeno quando nel 1981 il Presidente Ronald Reagan subì un tentato omicidio, che richiese un intervento chirurgico di breve durata.
IL PROBLEMA DELLA MAGGIORANZA.
Se la situazione non fosse già abbastanza complessa, si aggiunge un ulteriore problema. Quattro dei quindici Dipartimenti dell’Esecutivo al momento sono retti da Segretari «facenti funzione» (acting Secretaries), perché non ancora approvati dal Senato[4]. Il loro voto conterebbe? La questione è controversa: mentre alcuni giuristi propendono per una risposta affermativa[5], altri ritengono che ciò non sia possibile[6].
COSA POTREBBE FARE TRUMP (IN TEORIA) SE DOVESSE ESSERE DICHIARATO INCAPACE?
La Sezione Quarta del 25º Emendamento si preoccupa altresì di disciplinare il caso in cui il Presidente ritenga di essere stato ingiustamente rimosso dal suo ufficio. È solo il caso di ricordare che non esiste una definizione legislativa di incapacità all’esercizio delle funzioni presidenziali.
Il Presedente dichiarato incapace, infatti, può trasmettere «al Presidente pro tempore del Senato ed allo Speaker della Camera dei Rappresentanti una sua dichiarazione scritta che non vi è alcuna inabilitazione».
In questo caso, il Vicepresidente e la maggioranza dei funzionari di cui sopra avrebbero quattro giorni per trasmettere al Presidente del Senato e alla Speaker della Camera un’altra dichiarazione con la quale confermano la loro valutazione circa l’incapacità del Presidente. A quel punto, la palla passerebbe al Congresso che, anche se non in sessione, dovrebbe riunirsi entro quarantotto ore e decidere entro 21 giorni «coi due terzi dei voti di entrambe le Camere che il Presidente non è in grado di esercitare i poteri e i doveri del suo ufficio. Se ciò avvenisse, «il Vice Presidente continuerà ad esercitare gli stessi come Presidente facente funzioni» fino al termine del mandato presidenziale.
Al contrario, il Presidente riprenderebbe ad esercitare le sue funzioni se:
Dato che mancano circa due settimane al termine dell’attuale mandato presidenziale, è assai improbabile che quanto descritto nell’ultimo paragrafo possa accadere.
Donald Trump, eventualmente dichiarato incapace, potrebbe anche tentare la via legale e arrivare a contestare la sua incapacità davanti alla Corte suprema. Tralasciando gli eventuali problemi relativi alla legittimazione ad agire in giudizio, è assai improbabile che la Corte suprema non dismetta il caso, richiamando la sua bicentenaria giurisprudenza sull’irricevibilità delle «political questions»[7].
UNA CONSIDERAZIONE FINALE.
Con questo breve contributo ho voluto dimostrare come il procedimento ai sensi del 25º emendamento sia tutt’altro che semplice e scontato, richiedendo non solo convergenze politiche inusitate ma anche la risoluzione di questioni giuridiche ancora del tutto aperte. Solo la storia ci potrà dire come tutto questo finirà.
[1] A solo titolo esemplificativo, qui l’articolo di Repubblica che confonde la Terza Sezione con la Quarta Sezione del 25º Emendamento.
[2] La traduzione della Costituzione e degli emendamenti è tratta dal sito: http://www.dircost.unito.it/cs/docs/stati%20uniti%201787.htm.
[3] A tal proposito basti qui richiamare il passaggio della Lettera del 13 luglio 1985 di Reagan ai Presidenti di Camera e Senato in cui afferma: «I do not believe that the drafters of this amendment intended its application to situations such as the instant one»
[4] Quella di procedere attraverso la nomina di acting secretaries è stata una delle scelte di politica governativa più discusse dell’amministrazione Trump. Vedi ad es: https://www.npr.org/2020/03/09/813577462/how-trump-has-filled-high-level-jobs-without-senate-confirmation
[5]https://law.yale.edu/sites/default/files/area/clinic/document/mn082208_ls_readerguide_interior_final.pdf Pagina 13
[6] Intervista al costituzionalista Brian C. Kalt slate.com/news-and-politics/2021/01/25th-amendment-trump-impeachment-pence.html
]]>Il post era questo
La Sicilia non è bella, è bellissima.
A chi non l'ha mai fatto o si è accontentato di fare il bagno a Mondello o di prendere il sole tra i vip di Taormina suggerisco di dormire in un'antica tonnara come quella di Bonagia in cui soggiornai io; oppure di attraversare, preferibilmente in moto, le Madonie come feci nel 2007. I colori e i profumi non hanno eguali.
Ma la Sicilia è anche terra di contraddizioni profonde e di infiniti sprechi pubbliciin cui una classe politica tribale e corrotta ha sguazzato per decenni.
Chi sono i forestali
Con Legge n. 124 del 7 agosto 2015 il Corpo Forestale dello Stato è stato assorbito dall'arma dei Carabinieri ed è quindi diventato un corpo militare con funzioni anche di pubblica sicurezza. Contrariamente a quanto mi è stato contestato nel post, il Corpo Forestale della Regione Sicilia non è stato toccato dalla riforma del 2015 perché è rimasto nelle prerogative della regione autonoma che lo costituì con Legge Regionale nel 1972.
Nel 2020 il CFR conta 416 dipendenti, di cui solo 14 agenti essendo tutti gli altri ufficiali e sottuficiali. (la fonte è wikipedia. N.B. tutti i link esterni che rimandano al sito della Regione e a quello del CFR sono irraggiunginìbili e danno risposta "error"; quando si dice amministrazione trasparente). Il Piano Forestale Regionale che determina i compiti e le mansioni del CFR è ancora quello scaduto nel 2012.
Gli Operai Forestali invece dipendono dal Dipartimento Regionale per lo Sviluppo Rurate e Territoriale. La Regione conta 22.226 dipendenti inquaadrati come operai forestali, di cui 20.895 a tempo determinato (Fonte Mipaaf). Del costo per la Regione del comparto forestale si è occupata anche la Corte dei Conti siciliana che con rapporto 2018 ha stigmatizzato gli eccessivi oneri per il personale a tempo indeterminato misurati in 61,5 milioni per il CFR e 163,4 milioni per gli Operai Forestali.
La Sicilia è una foresta amazzonica?
Ovviamente no, come sa chiunque l'abbia visitata. La superficie a foreste e boschi è di appena 381.647 ettari, pari al 30% di forsete e boschi della sardegna, il 32% della Toscana, il 40% del Piemonte.Queste 3 regioni occupano complessivamente 6.561 addetti forestali, meno di 1/3 del numero dei colleghi siciliani. Anche il rapporto fra dipendenti a tempo indeterminato e stagionali è significativo:
è a tempo determinato il 94% dei dipendenti siciliani, il 42% dei piemontesi, il 31% dei sardi e lo 0% dei toscani.
Posto dunque che la Sicilia non è un'enorme foresta pluviale, si potrebbe obiettare (e qualcuno ha obiettato) che il territorio è comunque molto vasto (la regione più vasta d'Italia) e bisogna prendersi cura di macchia mediterranea e sterpaglie.
La superficie della Sicilia è di 25.832 chilometri quadrati, appena 445 più di quella del Piemonte, 1.732 più di quella della Sardegna, 2.845 più di quella della Toscana.. Il rapporto fra superficie e addetti forestali è dunque il seguente:
Regione | Superficie | Km quadrato per addetto |
Sicilia | 25.832 | 1,16 |
Piemonte | 25.387 | 56,66 |
Sardegna | 24.100 | 4,25 |
Toscana | 22.987 | 51,19 |
Al netto di tutte le considerazioni e i distinguo che si possono inventare, l'anomalia è avidentemente macroscopica.
Ma non è l'unica anomalia purtroppo. Nonostante l'abnorme numero di forestali, la Sicilia è anche la regione italiana con il maggior numero di incendi.
Un rapporto del Corpo Forestale dello Stato su dati osservati fra il 2009 e il 2016 rileva la Sicilia al primo posto sia per numero di incendi (il 16,6% del totale Italia) che per numero di ettari colpiti dal fuoco (il 30,51% del totale Italia). Inoltre nel 76,4% la natura accertata degli incendi è dolosa.
Tanti forestali ma non particolarmente efficienti.
La realtà, oscura solo a chi non la vuol vedere o ammettere, è che come per altre poste del bilancio siciliano ( e nazionale) la voce stipendi per il personale è un potente ammortizzatore sociale e uno straordinario catalizzatore di voti. E' sempre stato così almeno dal dopoguerra in poi.
Invece di lamentarsi dei politici corrotti, salvo poi votarli festanti quando promettono stipendifici, i siciliani (e gli italiani) dovrebbero pretendere sviluppo, istruzione, occasioni di lavoro e non salari miseri per scaldare poltrone e indossare divise.
Ultima nota.
Nonostante l'autonomia rafforzata e le prerogative che unica fra le regioni a statuto speciale rivendica ed ottiene, il bilancio siciliano dipende per oltre 5 miliardi l'anno da trasferimenti da quello statale.
]]>Non elenceherò la pioggia di bonus più o meno surreali (se ne contano circa 40) approvati in commissione bilancio; mi concentrerò piuttosto sulla congruenza delle scelte italiane rispetto al framework e agli obiettivi delineati dal Next Generation EU.
Tre premesse sono necessarie:
1) Le linee guida, concordate in sede di Commissione europea il 17 settembre, indicano agli Stati membri che i piani da presentare per l'accesso ai fondi devono essere composti da riforme e investimenti;
2) gli ambiti all'interno dei quali devono operare i progetti di riforma e investimenti sono quelli stabiliti come prioritari dalla Commissione e dalle Country Specific Recommendations 2019/2020
3) I piani devono indicare quali sono i ritorni attesi in termini di ripresa del PIL e dell'occupazione.
Riforme e investimenti
Per quanto riguarda il punto 1) un equivoco può essere generato dal fatto che nelle premesse del documento del 17 settembre si fa riferimento anche alle azioni di mitigazione della crisi dovuta al Covid 19. Su questo equivoco si sta giocando gran parte della sfida fra MEF, presidenza del Consiglio e parlamento. Le tentazioni di utilizzare parte delle risorse in prestiti europei per riassorbire l'enorme indebitamento aggiuntivo fatto durante l'anno vengono da lì. Il deficit, pari al 10,9% del PIL (180 miliardi), verrebbe sostituito con i loans previsti dal Recovery and Resilience Facility che è il grosso di NGEU. Dei 127,6 miliardi assegnati all'Italia dal 2021 al 2026 88 andrebbero (stando alle indiscrezioni) a coprire spese già sostenute o spese in Legge di Bilancio. Poiché nelle spese sin qui sostenute non ce ne sono di destinate agli investimenti, i 2/3 della dotazione andrebbero "persi".
Il vantaggio consisterebbe nel rendere una parte del debito più leggero in termini di spesa per interessi e più sostenibile in termini di rimborsi (inizieranno col prossimo bilancio europeo nel 2028 e termineranno entro il 2036). Dal punto di vista della disciplina di bilancio pubblico questi 88 miliardi costituirebbero voce separata del debito pubblico lordo ("altri debiti verso istituzioni internazionali ed europee) facendo apparire lo stock accumulato meno pesante.
Nel frattempo si preannuncia un nuovo ulteriore scostamento di bilancio per una ventina di miliardi già per gennaio 2021 che porterà il conto della crisi ai 200 tondi.
In sostanza se da una parte si allevierebbe l'onere per le casse dello Stato, dall'altra si pregiudicherebbe la capacità di attuare finalmente le riforme e gli investimenti attesi da qualche decennio. Vanno fatte salve naturalmente tutte quelle riforme che sono a costo zero per le quali però serve soprattutto volontà politica (es.burocrazia).
Country Specific Recommendations
Se le raccomandazioni 2019 erano tutte orientate a rendere più dinamica e più competitiva l'economia italia (burocrazia, PA, politiche attive del lavoro, istruzione, spesa pensionistica), quelle 2020 tendono soprattutto a sostenere forme di protezione sociale (Racc. 2) e liquidità nell'economia reale (Racc. 3). Un'altra parte mira a tenere sotto controllo nel medio termine il debito pubblico incrementando gli investimenti invece della spesa corrente (Racc. 1), e riformare giustizia e pubblica amministrazione (Racc. 4).
Nell'ambito della raccomandazione 2 si giustifica la sostituzione del debito.
Contrariamente alla narrazione antieuropeista, non vengono indicati nelle raccomandazioni criteri quantitativi; in altre parole l'Europa non ci dice quanto spendere, di quanto aumentare gli investimenti e dove impiegarli. Ci dice solo che vanno genericamente aumentati. E' la politica dunque, e in specie il governo pro tempore, a scegliere quanto e come spendere. Le responsabilità del successo o dell'insuccesso delle misure adottate ricadono tutte sulla politica italiana. Se l'impatto sul PIL del NGEU non sarà quello atteso perché si saranno preferite le coperture alle spese al posto degli investimenti (il MEF del Documento Programmatico di Bilancio stimava uno stimolo al PIL dell' 0,4% nel 2021) la responsabilità sarà della politica.
Ripresa economica
L'impatto del Covid sull'economia italiana ed europea è pesantissimo. La perdita di PIL è due volte quanto fu perso nel 2009 dopo la grande crisi finanziaria e quasi 4 volte quanto fu perso con la crisi dei debiti sovrani del 2011. La recrudescenza dell'epidemia nell'ultima parte del 2020, il suo proseguire nel primo trimestre 2021, i tempi tutto sommato lunghi per una immunità da vaccino nella popolazione sono fattori che non fanno ben sperare neanche per l'anno che sta per iniziare. Tuttavia il senso del NGEU è fornire alle economie europee, in particolare a quelle italiana e spagnola che durante la prima ondata furono le più colpite, le risorse necessarie a tornare in tempi rapidi a livelli di ricchezza e occupazione pre covid. Anche qui non vengono forniti parametri quantitativi, almeno per ora, bensì generiche raccomandazioni affinchè i 209 miliardi (196 dal RFF) siano utilizzati per la ripresa.
Quando, presumibilmente a febbraio, saranno presentati i 52 progetti a cui il governo italiano sta lavorando, per ogni progetto dovranno essere indicati fabbisogno finanziario, tempi di realizzazione e ritorni economici di breve, medio e lungo periodo. La selezione dei progetti finanziabili sarà competitiva. Detto in altri termini non sarà suffciente presentare un'idea di intervento di spesa, pena la non eleggibilità del progetto stesso. Personalemente dubito che questa prima fase di selezione sarà particolarmente rigida perché l'impatto della crisi è stato profondo e la volontà di aiutare le economie più in difficoltà c'è anche nei cosiddetti governi frugali.
Per l'Italia il momento della verità (amara) potrebbe venire allorquando scatteranno le due principali condizionalità previste dal PRR: il sentiero temporale strettissimo all'interno del quale le risorse devono essere impiegate, 70% entro il 2023; coerenza degli obiettivi raggiunti rispetto a quelli programmati. In quel caso, poiché nelle riunioni di luglio è stato deciso che la verifica sulla bontà degli interventi segue i criteri previsti dal Consiglio europeo, ovvero unaninimità dei membri, basterà che un solo membro della Commissione ritenga non soddisfatte le condizionalità perché venga portata nella sede del Consiglio la richiesta di sospensione delle erogazioni. Nella peggiore delle ipotesi potrebbero essere interrotti i trasferimenti; nella migliore si aprirà una pesante battaglia politica fatta di infinite negoziazioni e nuove promesse.
Si capisce bene che, dato il poco lusinghiero risultato storico nella gestione dei fondi europei e data la ben nota e strutturale incapacità italiana di chiudere nei tempi attesi i cantieri, questo rappresenta il principale pericolo cui andiamo incontro.
Un'ultima considerazione non può che riguardare alcune delle più bizzarre misure adottate da questo governo in questo periodo di crisi. Non tutti i bonus potranno essere considerati coerenti con il NGEU. Se lo possono essere, con qualche forzatura, il bonus mobilità che finanzia bici e monopattini elettrici, è difficile pensare (e sarebbe surreale accadesse) che potranno essere finanziati bonus come quello per le spese veterinarie o la lotteria degli scontrini. Qualora a qualcuno venisse in mente di farlo potremo considerare il Recovery Fund l'ennesima occasione persa.
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Vi ricordate di quando il nostro PDC Giuseppe Conte, in occasione della vicenda Open Arms nell’agosto del 2019, scrisse due lettere aperte contro Salvini per le quali ricevette un plauso generale?
Qui la sostanza non cambia, l’uomo è quello che è; gli uomini sono quelli che sono.
Renzi fa esattamente lo stesso: si trincera dietro parole validissime, per carità, ma se poi manchi di ogni forma di coerenza allora sei out o almeno dovresti esserlo. Certo, dal punto di vista pragmatico e magari anche un po’ cinico, si potrebbe dire che in fondo, in politica, un po’ di ipocrisia potrebbe essere accettabile.
Sinceramente invece, oggi, credo sia assolutamente indispensabile per tutti noi smettere di avvallare dal basso (fosse anche solo implicitamente) comportamenti simili che non lasciano spazio a validi processi di accountability di cui invece, mai come nel presente, il Paese ha un disperato bisogno.
Alla fine, tutte le situazioni che stiamo vivendo ora sono anche figlie di un’omertà caratterizzata da comportamenti da piede in “due scarpe” .
Coerenza prima di tutto e non dopo tutto; dovrebbe essere proprio questo il vero biglietto da visita di un politico e non le sue parole (che magari neanche scrive lui).
Non si possono giudicare le singole azioni separandole da quelle generali soprattutto se ci sentiamo di dover dare un giudizio sull’uomo politico.
Quest'ultimo si misura sulla distanza: come fu per Conte quando uscì con la sua lettera, anche per Renzi potremmo giudicare le sue parole un’azione positiva ma visti i precedenti il tutto non si può che perdere nel nulla del contesto generale.
In definitiva, se non possiamo credere che quanto scritto risponda nei fatti al reale pensiero dell’uomo allora tutto diventa una falsità e come tale perde di qualsiasi significato.
Chi si aspettava qualcosa che somigliasse a progetti di utilizzo delle risorse resterà ancora una volta deluso. Il documento altro non è che una bozza di linee guida redatta in modo più analitico della precedente in cui al di là di definire più puntualmente le aree di intervento non c’è molto.
Vengono più che altro individuate le priorità e gli ambiti d’intervento che recepiscono, come era necessario, le Country Specific Recommendations della Commissione.
Il piano destina le risorse, ridefinite in agosto per un ammontare di 193 miliardi (elevabili di 3) per il RFF e 13,5 per React EU, a digitalizzazione (48,7) transizione verde (74,3) infrastrutture (27,7) istruzione e ricerca (19,2) parità di genere (17,1) salute (9).
Come detto mancano i progetti, ma ci sono le strutture governative di presentazione, intermediazione e monitoraggio dei piani che passano da Mef, Mise, Ministero delle politiche europee e Presidenza del consiglio cui fanno capo gli esperti e i commissari speciali. La sovrastruttura burocratica quest’ultima che avrà il compito principale di snellire la burocrazia.
La prima e forse più importante sfida sarà proprio sull’efficienza di questa struttura che dovrà garantire non soltanto la coerenza dei progetti con gli obiettivi fissati dalla Commissione UE, ma anche l’attuazione dei programmi di spesa nei ristretti tempi stabiliti. Ricordiamo che uno dei vincoli imposti è quello che prevede una spesa per il primo biennio pieno del RF del 70% del totale delle risorse assegnate. Per un Paese che ha un track record negativo come il nostro nell’utilizzo dei fondi europei è senza dubbio la scommessa più difficile.
Il Piano dovrà essere coerente anche con gli obiettivi di crescita individuati dal governo. Qui emergono alcuni fattori di dubbio. Il differenziale di crescita che dovrebbe essere generato dal Piano va dallo 0,3 del 2021 al 2,3 del 2026. A livello macroregionale il governo intende dare attuazione al Piano per il Sud presentato a febbraio 2020, quando la pandemia non era ancora arrivata, che prevedeva la destinazione al mezzogiorno del 34% delle risorse. Il RF secondo il modello del MEF dovrebbe assicurare una crescita aggiuntiva del PIL del mezzogiorno del 4,1 già nel 2021 con una crescita dell’occupazione del 3%.
Obiettivi ambiziosi e a nostro giudizio molto sovrastimati. Prima di tutto nella bozza manca una descrizione dello scenario base; in secondo luogo è difficile pensare che i 100 miliardi aggiuntivi dell’intervento per il mezzogiorno possano produrre in tempi così rapidi un aumento della crescita di queste dimensioni.
Sempre a proposito di Mezzogiorno un capitolo a parte va dedicato all’intenzione del governo di utilizzare i fondi di React EU (che sono una implementazione dei fondi strutturali e di coesione) a copertura degli sgravi fiscali, contributivi e alla creazione di ZES (zone economiche speciali). In altre parole con soldi europei si pensa di fare misure fiscali per una determinata zona. L’accettazione di una tale misura da parte della Commissione non è impossibile ma neanche scontata. Prima di tutto potrebbe non essere gradita ai partner europei perché si tratta di norme fiscali di solito sotto la sfera di competenza nazionale; poi perché gli effetti sulla crescita (vero obiettivo di tutti gli aiuti europei) sono difficilmente verificabili ex ante. Infine, partendo l’Italia da un piano di debolezza negoziale per via delle divisioni all’interno del governo e degli appetiti del suo personale politico espressi nelle forme più sciatte (es. cancellazione del debito), non sarà facile far digerire questo trasferimento fiscale dai Paesi del Nord Europa ad un’area regionale.
Un altro focus va aperto sulla sanità.
Il governo confida di utilizzare 9 miliardi per la salute, equamente divisi fra sanità di prossimità e digitalizzazione. Nulla sull’emergenza Covid, che resta sfumata sullo sfondo, e nulla sul potenziamento di un sistema che, si legge nella premessa del documento, è intrinsecamente debole rispetto alla media europea sia per quanto riguarda il personale medico e paramedico che per quanto riguarda la sua spesa su PIL.
L’ostinato e stupido ostracismo del Movimento 5 Stelle verso il MES ha sin qui prodotto che il Sistema Sanitario Nazionale non verrà potenziato, che i livelli e la qualità di assistenza resteranno sostanzialmente inalterati e che non saranno coperte, come potevano essere, le spese aggiuntive dovute al contenimento degli effetti della pandemia. Ricordiamocene quando fra un paio d’anni qualche politico lamenterà i tagli alla sanità. Questa volta quei tagli hanno un nome e un cognome.
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L’operazione ha avuto un esito sorprendentemente positivo: su una popolazione totale di 536.667 abitanti della Provincia autonoma di Bolzano [dal sito dell’Azienda Sanitaria, mentre per Istat sono 532.060 al 31/12/2019] in tre soli giorni sono stati effettuati 361.781 tamponi antigenici rapidi, pari a una copertura del 67,4% della popolazione provinciale. In altre parole: più di due terzi della popolazione ha partecipato al test
Ma il risultato è ancora più sorprendente perché dal test erano escluse, per ovvie ragioni, nove categorie di cittadini: "chiunque abbia sintomi che indichino un’infezione da Covid-19 [...], chiunque sia attualmente in malattia per qualsiasi altro motivo, chiunque sia stato in isolamento per test positivo negli ultimi tre mesi, chiunque sia stato testato recentemente risultando positivo [11.511 persone al 20 novembre ndr], chiunque sia attualmente in quarantena o in isolamento domestico, chiunque abbia già programmato una data per un tampone PCR, chiunque esegua regolarmente il test per motivi professionali [circa 11.000-12.000 persone ndr], i bambini sotto i 5 anni [circa 32.000 ndr] e coloro che sono ricoverati in ospedali, case di riposo e case di cura”. [Fonte: Azienda sanitaria dell'Alto Adige, data: 16.11.2020].
Nel complesso erano quindi circa 94.000 gli altoatesini che per una o più di queste ragioni non sono stati ammessi al test. Escludendo questi 94.000 individui, la popolazione ammissibile al test scende a circa 442.667 abitanti il che porterebbe la copertura all’ 81,7%. Per la precisione va tenuto in considerazione che al test era ammesso anche chi soggiornava in Alto Adige per motivi di lavoro o di studio (valutato a seconda delle fonti in 10 mila oppure in poco più di 13 mila unità) il che ridurrebbe la copertura sui soli residenti a un comunque validissimo 78-79%. Inoltre va considerato che nei conteggi sono stati ritenuti validi anche i tamponi rapidi effettuati anche al di fuori dell’operazione purché la data non fosse distante più di tre giorni da quelle dell’inizio o della fine del test.
L’operazione, decisa in pochi giorni a fronte di un’impennata di ricoveri che stava mettendo a dura prova le strutture sanitarie locali ha avuto due ricadute principali: da un lato ha scattato una fotografia quando più precisa della situazione, dall’altro ha permesso l’identificazione, la presa in gestione (e la neutralizzazione dal punto di vista epidemiologico, con la messa in quarantena) di 3.615 individui positivi, pari a una percentuale dell’1% (per la precisione lo 0,9992%) delle persone che si sono sottoposte a test (che fossero residenti o solo soggiornanti in Alto Adige).
Molti si chiederanno, come si concilia un dato così apparentemente basso (1,00%) con una percentuale di tamponi positiva che nei giorni precedenti allo screening era attorno al 22% (ad es. in provincia di Bolzano, il 20 novembre, su 3.286 tamponi sono risultati positivi 736 individui, pari al 22,40%).
La risposta è semplice: questi secondi tamponi (molecolari) risultati positivi al 22,40% in larga parte, sono fatti proprio su una limitata popolazione di malati di Covid-19 oppure di individui fortemente sospettati di esserlo a causa di sintomi o di contatti con persone positive.
Quelli di cui stiamo parlando invece (test rapidi, antigenici) e che sono stati usati nello screening (e che hanno sortito un tasso di positività dell’1,00%) sono stati effettuati su una vasta popolazione di asintomatici, da cui sono stati esclusi (come abbiamo spiegato) proprio i maggiormente sospettati di positività (e quelli attualmente positivi) insieme con altre categorie di persone.
Inoltre, va aggiunto, questi test rapidi antigenici usati per lo screening, essendo relativamente sensibili, producono un certo numero di falsi negativi (cito dal sito del San Raffaele: "Purtroppo [...] la velocità ha un costo in termini di sensibilità: se la carica virale è bassa, il test potrebbe risultare erroneamente negativo e non riuscire a rilevare l’infezione anche se è presente").
Sui dettagli di questo specifico punto rimandiamo all’ottimo articolo (sia pure meno possibilista rispetto a noi sulla replicabilità dello screening) del ricercatore Lorenzo Ruffino, uscito su youtrend, che ci ricorda che da un lato i due test antigenici utilizzati per lo screening hanno una sensibilità dichiarata del 93,3% e del 96,5%, ma che dall'altro il biostatistico Markus Falk, consulente dell’operazione, riteneva ragionevole immaginare che i test identificassero il 70% dei positivi.
Tra il 93-97% dei produttori e il 70% del biostatistico la differenza è molto ampia e da nostre fonti indipendenti in ambito virologico abbiamo avuto una conferma che dai test antigenici attualmente disponibili è ragionevole attendersi una sensibilità pari all’85%, come stima di massima.
Abbiamo chiesto anche al dottor Bertoli se potesse stimare attorno all’85% la percentuale dei positivi che i test rapidi riescono ad identificare e lui ci ha risposto che occorrerebbero test incrociati più approfonditi, ma che si tratta di una stima ragionevole. Se così fosse, un più affidabile test molecolare (e non un test antigenico) avrebbe identificato non 3.615, ma 4.295 positivi (680 in più) riscontrando una percentuale attorno all’1,18% di positivi.
Ci rendiamo conto che molti, a questo punto, si saranno persi nei numeri, e allora vale la pena di fare un riepilogo.
Potremmo dividere la popolazione altoatesina in tre gruppi:
1) Chi ha fatto il test (circa 348.000 residenti asintomatici): tra loro circa l’1,0 (che sale all'1,18% tenendo conto di una sensibilità attorno all’85% del test antigenico) è positivo
2) Circa 94.000 residenti che non hanno fatto il test, ma avrebbero potuto farlo (e anche tra questi la percentuale di positivi dovrebbe essere analogamente vicina all’1,0 (1,18%));
3) Altre circa 94.000 persone che non erano state ammesse al test e su questo gruppo è più difficile fare una stima.
Su questo terzo gruppo è difficile fare una stima dei positivi perché il gruppo va diviso in nove sottogruppi di alcuni dei quali non conosciamo la consistenza numerica, né il tasso di positività:
- 3a circa 32.000 bambini (fonte lo stesso Bertoli) sotto i cinque anni (qui assumiamo una positività media pari a quella del resto della popolazione ovvero 1,00-1,18%)
- 3b circa 12.500 persone (fonte lo stesso dr. Bertoli: 12-13mila) già soggetti a screening per motivi professionali (operatori sanitari ecc.) e qui non l’hanno ripetuto (1,0-1,18%).
Su questi due gruppi assumiamo che il tasso di positività possa essere simile a quello del resto della popolazione asintomatica (1,18%) anche se forse potrebbe essere leggermente più basso (andrebbe calcolato quanti dei bambini frequentano il nido o la scuola d’infanzia, quanto frequentemente vengono testati gli operatori sanitari, ma prudenzialmente teniamo la media complessiva).
- 3c 11.511 individui ufficialmente “attualmente positivi” (nel momento in cui è iniziato il test, il 20 novembre, e qui ovviamente il tasso è del 100%.
Tutti gli altri (sono circa 37.989):
- 3d1 i guariti (8.160 totali secondo il bollettino della Protezione civile, anche se il test non escludeva proprio tutti loro, ma solo chi era stato positivo (poi guarito) negli ultimi 3 mesi, mentre i positivi prima di agosto avrebbero potuto ripetere il test) in ogni caso assumiamo che tra questi non dovrebbe esserci nessun attualmente positivo, nonostante qualche caso di persone che ritornano ad essere positive sia stato registrato;
- 3d2 le persone attualmente in quarantena (e qui ci aspettiamo invece una percentuale più alta rispetto alla media perché chi è in quarantena almeno un contatto con un positivo deve averlo avuto);
- 3d3 chiunque abbia sintomi che indichino un’infezione da Covid-19 e qui ovviamente la percentuale sarà ancora più alta, ma non sappiamo di questo sottogruppo il numero assoluto,
- 3d4 chi è attualmente in malattia per qualsiasi altro motivo e anche qui forse siamo sopra la media;
- 3d5 chi ha già programmato un tampone molecolare (anche qui sopra la media: chi prenota ha un sospetto e infatti i tamponi molecolari in Alto Adige stavano sopra il 20% di positività);
- 3d6 i ricoverati in ospedali, case di riposo e case di cura (dove notoriamente la positività è più alta).
Abbiamo quindi fatto tre stime: una prima stima estremamente minimalista quindi sommerebbe i circa 4.098 residenti positivi usciti dal test (rivalutati in base alla scarsa sensibilità del test), altri circa di 1.106 dal resto della popolazione ammessa al test, ma non testata, più gli 11.511 ufficialmente positivi e “soltanto” 970 da tutte le altre categorie del gruppo 3 (non ammessi) per un totale di 17.685 pari un 3,3% di positivi.
Una seconda stima estremamente massimalista che consideri positivi tutti quelli del terzo gruppo (esclusi solo i bambini e gli operatori professionali, su cui si applicherebbe la media standard) porterebbe a una percentuale oltre il 10,38%.
Una terza stima più educata somma i circa 4.098 residenti positivi usciti dal test (rivalutati in base alla scarsa sensibilità del test), altri circa di 1.106 dal resto della popolazione ammessa al test, ma non testata, più gli 11.511 ufficialmente positivi, 0 positivi tra i guariti, la media standard (1,18% tra i bambini e i testati professionalmente), mentre un 22,4% (pari al tasso di positività dei tamponi molecolari effettuati nella provincia di Bolzano il giorno di inizio del test) per le restanti categorie dei non ammessi al test, una percentuale prudenzialmente alta, visto che si tratta di categorie particolarmente suscettibili di positività. Pur mantenendo questo 22,4% “alto”, arriviamo alla stima 4,48% di positivi (24.032 individui).
Ora, tenendo conto del fatto che in Alto Adige si sono accertati più casi rispetto alla media pro capite nazionale: un tasso pari a circa il 169% della media del paese, possiamo ipotizzare che in Italia un test su tutta la popolazione porterebbe a circa un 2,65% di attualmente positivi, cioè oltre ai 787.893 accertati al 27 novembre 2020 (pari all’1,31% dei cittadini), un numero quasi analogo 805.936 (pari all’1,34%) di altri positivi non ancora identificati (soprattutto tra gli asintomatici) e che porterebbe il totale dei positivi vicinissimo ai 1,6 milioni di italiani.
Ma tralasciamo gli aspetti numerici e cerchiamo di capire se un’operazione di questa portata potrebbe essere replicata su scala nazionale.
La popolazione della provincia di Bolzano, l’Alto Adige, dicevamo, è di 536.667 abitanti: questo significa che per rifare questa operazione su scala nazionale dovremmo ripetere questa operazione altre 112 volte (anche in contemporanea, ovviamente).
Quali potrebbero essere i problemi?
a) l’enorme organizzazione richiesta;
b) il tasso di adesione in altre aree potrebbe non essere pari a quello della notoriamente ordinatissima popolazione altoatesina, ma se poi andiamo a vedere il dato sull’affluenza elettorale (si tratta anche in quel caso di rispondere a una chiamata delle istituzioni e la dislocazione dei centri per fare i tamponi coincideva con quella dei seggi elettorali) ci rendiamo conto che il Trentino-Alto Adige (in questo caso il dato accorpa province autonome di Trento e Bolzano) alle ultime elezioni ha avuto una percentuale del 74,34%, non molto diversa dall’affluenza dell’Italia nel suo complesso alle ultime elezioni alla Camera nel 2018 (72,94%);
c) la disponibilità di tamponi rapidi e di personale per processarli potrebbe non essere sufficiente (si lega al punto a che però era più centrato sulla logistica);
d) l’affidabilità dei test rapidi: come ricordato necessitano di una forte carica virale e producono un certo numero di falsi negativi;
e) i costi: l’operazione in Alto Adige è costata circa 3,5 milioni di euro, 2/3 dei quali per l’acquisto dei kit diagnostici (tra i 6-7 euro a persona), 1/3 per il personale impiegato (circa 7.000 persone). Su scala nazionale il test costerebbe circa 400 milioni, una spesa affrontabile.
Da qualsiasi parte la si guardi non si può non considerare positivamente questa ipotesi.
Abbiamo chiesto al dottor Bertoli se fossero arrivate richieste di informazioni per ripetere il test da altre parti e lui ci ha citato i casi dell’Abruzzo e dell’Austria. In Abruzzo, in effetti, nel weekend successivo sono iniziati i test a partire dalla provincia dell’Aquila. Attendiamo con grande interesse i risultati: dopo i primi tre giorni sono stati effettuati 16.531 tamponi rapidi (pari al 5,58% della popolazione provinciale) con l'identificazione di 88 positivi (pari allo 0,53% dei testati, che noi possiamo rivalutare a 0,63% per il sopra citato problema della sensibilità dei test rapidi). Un dato che conferma la nostra stima precedente: il numero dei casi pro-capite dell'Abruzzo è leggermente inferiore alla media nazionale e questo dato è in linea con i calcoli precedenti.
In ogni caso, ovviamente persino screening così approfonditi non comporterebbero il “liberi tutti”, le misure di protezione individuale dovrebbero essere mantenute per diverso tempo, ma andare a identificare i potenziali positivi proprio tra la popolazione asintomatica potrebbe ridurre drasticamente le occasioni di contagio. Attendiamo dati confortanti dall’Alto Adige nelle prossime settimane e se il test avrà una copertura analoga, anche dall'Abruzzo.
Inoltre dopo una scrematura così è ovvio che si potrebbero ristabilire procedure di tracking decenti (visto che in molte regioni sono saltate del tutto).
Forse, per maggior cura ancora, si sarebbe potuto far precedere questo screening da dieci giorni di lockdown feroce, in modo da avere una popolazione ancora più sicura. E magari si sarebbe potuto effettuare, contestualmente anche un test sierologico per verificare il passato. Ma anche così l’operazione condotta in Alto Adige ci sembra un formidabile strumento di contrasto alla pandemia su base territoriale.
Un’ultima nota estremamente positiva viene dalla trasparenza, dalla disaggregazione e dalla rapidità con cui sono stati rilasciati i dati in tempo quasi reale (a distanza di pochi minuti con tra aggiornamenti al giorno) sul sito della Azienda Sanitaria dove sono tuttora disponibili all’indirizzo: https://coronatest.sabes.it/it.
Ringraziamo il dr. Pierpaolo Bertoli per la disponibilità, il direttore Alberto Faustini e Valeria Frangipane di Alto Adige per i contatti.
Come sappiamo una delle prime risposte delle istituzioni europee alla crisi pandemica è stata la definizione del Piano di acquisti straordinario denominato PEPP (Pandemic Emergency Purchase Program). Nell’ambito di questo programma la BCE ha acquistato finora 95,2 miliardi (ultimo dato di settembre) di titoli italiani, mentre il totale del debito pubblico detenuto da banca d’Italia è pari al 24,1% del totale.
A questa somma si può aggiungere l’indebitamento aggiuntivo consentito dalla sospensione del Patto di stabilità a crescita pari (per ora) a circa 122 miliardi.
Il sogno bagnato della cancellazione del debito si è concretizzato con l’intervista rilasciata a repubblica dal presidente del Parlamento Europeo David Sassoli, seguito a ruota dagli entusiasmi di Emanuele Felice, di Giuseppe Provenzano e, ca va sanse dire, di pentastellati e leghisti alla Borghi che da anni raccontano la storia della cancellazione con un click.
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Rt ha un range di variabilità molto alto, ad esempio per le marche al 15 novembre varia da 1,2 a 2. Non è per nulla utile come strumento decisionale, avendo in se un ritardo non inferiore a 10 giorni sui casi reali (e spesso supera anche i 15). Sottostima inoltre la velocità di diffusione, perché calcolato solo sui sintomatici, che sono 1/3 delle persone testate.
Il problema nasce dalla gestione dei dati sui tamponi:
Dal contagio alla notifica il ritardo medio è di 15 giorni, tant'è che lo stesso Presidente delle Regione Acquaroli, nel raccontare la telefonata con Speranza, cita il periodo del 26ott-1nov come riferimento (RdC del 14.nov).
Già i dati forniti sono errati e in difetto, perché se il numero dei tamponi annuncianti corrispondo al giorno prima, di certo non lo è il numero dei casi postivi considerato che occorro dai 2 ai 5gg per il referto. Da notare che il 56% dei referti arriva tra il 3 e 5 giorno dal prelievo.
Inoltre su questi dati si aggiungono numerosi errori di valutazione, ad esempio invece di utilizzare il rapporto positivi/casi testati, si utilizza quello positivi/tamponi, che includono anche i controlli, per cui il numero non solo è più basso, ma perde di 'vista' la reale tendenza della positività.
Infine va aggiunta anche l'eterogeneità della raccolta, infatti non tutti i tamponi raccolti nella giornata in una regione vengono processati lo stesso giorno, soprattutto quelle che provengono dalle periferie o da paesini dell'entro terra, quindi il reale andamento della diffusione e velocità del covid è molto alterata dalla raccolta dati.
Nelle Marche alla data del 15 novembre, i decessi per covid sono arrivati a 1.119. Ci sono 483 ricoverati e nelle terapie intensive sono occupati per covid 77 posti, (+3 rispetto a ieri). Inoltre dati delle TI non riportano i flussi di entra e uscita, per cui sono errati in difetto.
Già al 12 novembre nelle Marche il tasso di occupazione dei posti letto in area medica per covid era del 56%, quindi già molto superiore alla soglia di allerta individuata nel 40%.
Anche le terapie intensive hanno superato da tempo la soglia di attenzione che è del 30%; oggi, con 77 posti occupati, siamo al 43%. I contagi tra i sanitari sono in continua crescita.
Se guardiamo oltre la problematica covid con questi numeri, significa che sta rallentando e di molto, l'assistenza verso gli altri pazienti ricoverati in primis nei pronto soccorso.
Lo stesso Gores certifica picchi mai toccati prima, tanto in termini di contagi nelle Marche in un solo giorno (ben 779, con un indice di positivi rispetto ai tamponi al 32.8%, praticamente uno su tre), quanto di diffusione del Covid nella provincia di Ancona dove si è addirittura arrivati a quota 272, ovvero 12 in più del primato di giovedì scorso che sembrava pressoché inattaccabile.
Questi i motivi per cui è giusto che le Marche siano considerate Arancioni anche perché il rischio di aggravamento (che riguarda anche il permanere di questi numeri) della situazione è già piuttosto alto.
La cosa che preoccupa di più però sta nella gestione dei tamponi e dei dati raccolti: quanti casi di infezione sono avvenuti nelle scuole? quanti nei ristoranti? nei cinema? nei centri città o lungomare dovuti alle passeggiati? quanti in periferia?
Se i dati fossero raccolti con attenzione, invece di chiudere le regioni si poteva pensare a limitare le chiusure per provincia, ad esempio escludendo Pesaro che ha numeri molto più bassi del resto della regione, o addirittura zone di città. Invece ovunque regna sovrana la confusione e l'inesattezza delle raccolta dati, e questo è il motivo principale per cui già dal 2 ottobre il Test&Tracing è completamente saltato. Di questa gestione la sola responsabilità è del Ministro della Salute e del suo alter ego Arcuri.
Per nascondere questa incapacità per molto tempo, e in parte ancora oggi, vige il 'segreto' anche sui dati anonimi raccolti.
VENIAMO AL METODO E ALLE FINTE SORPRESE
L'indecenza del Ministro Speranza, che nella sua acclamata incapacità nel gestire questa pandemia si mostra sempre più agitato, è ormai conclamata. Non si può avvisare un'intera regione dell'imminente chiusa con un solo giorno di anticipo, soprattutto basandosi su queste metodologie di calcolo.
Questo gesto incosciente ha creato danni economici rilevanti a ristoratori e gestori di locali che si erano già riforniti di derrate per il pranzo domenicale (pesce, tartufo, etc) e che ora non potranno più essere consumate.
Acquaroli potrà essere sì sorpreso dal modo di operare di Speranza, ma non può mostrare sorpresa nei dati, ammesso che sia lui che Saltamartini li abbiano studiati con attenzione, perché i segnali c'erano già tutti, bastava guardare quello che stava e sta accadendo negli ospedali, sempre più in affanno e con operatori sempre più stanchi.
Questo comunque non cancella le pesanti e gravi responsabilità della giunta Ceriscioli che ha lasciato sprecare tutti i mesi estivi invece di preparare al meglio le Marche per la seconda ondata, le cui conseguenze le pagano proprio i cittadini.
Non serve illudere di continuo le persone: le parole “rallentamento”, “raffreddamento”, “frenata” generano solo falsa interpretazione della realtà. Il rallentamento della crescita delle curve è conseguenza delle misure introdotte e della maggiore attenzione che la maggior parte delle persone pone nell'indossare mascherine e adottare distanziamento sociale. Tutte misure che dovranno essere mantenute attive per tenere sotto controllo la diffusione del covid; quindi bene che vana le aree gialle perdureranno.
Con il Covid non possiamo abbassare la guardia almeno fino ad aprile. I benefici di vaccini, terapie monoclonali, etc, li vedremo solo da maggio in poi.
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Stiamo parlando di quella che doveva essere la più grande quotazione iniziale (IPO) della storia per un controvalore tra i 35 e i 40 miliardi attribuendo all’azienda un valore teorico superiore ai 300 miliardi e assimilabile a quello di JP Morgan Chase ed equivalente a quattro volte la capitalizzazione di mercato di Goldman Sachs.
Le motivazioni addotte per la sospensione riguardano il venir meno di alcuni requisiti informativi nei confronti dei sottoscrittori in merito a recenti modifiche della normativa sui microfinanziamenti concessi on line.
Questo evento lontano che sembra coinvolgere realtà esoteriche e meccanismi complicati può fornirci almeno tre lezioni utili per il futuro prossimo delle nostre banche.
Prima di parlare delle lezioni, facciamo un breve riassunto delle puntate precedenti. Alibaba è una specie di versione cinese di Amazon, un colosso del commercio elettronico che vende merci on line, ma si trova di fronte un paese dove pochi possiedono una carta di credito e la modalità di pagamento preferita è il contante. Per poter vendere le proprie merci, Jack Ma, il fondatore della società si rende conto di dover creare una piattaforma per i pagamenti elettronici che inizialmente si chiama Alipay e poi diventa Ant Financial e Ant Group.
L’iniziativa ha un successo strepitoso al punto da acquisire una propria autonomia ed espandersi dai pagamenti alla concessione di finanziamenti, alla distribuzione di prodotti di risparmio gestito ed assicurazioni.
Quella che di fatto è una banca digitale si scontra già una volta con le autorità di vigilanza che gli chiedono di accantonare una quantità maggiore di fondi a fronte di finanziamenti. Ant risponde aggirando la norma e configurandosi come distributore dei prodotti di altre banche tradizionali alle quali applica una commissione per l’attività di istruttoria che realizza in modo automatizzato grazie alle informazioni di cui dispone (in larga parte derivante dalle transazioni di Alibaba) e ai modelli di intelligenza artificiale basati su queste informazioni.
Tre giorni prima della quotazione arriva una nuova norma, mirata ai micro finanziamenti distribuiti on line che sembra scritta appositamente per arrestare la corsa di quello che è diventato un concorrente temibile per le banche tradizionali di cui il governo cinese è socio e sulle quali esercita un’ingerenza molto forte.
Qual è la morale della favola e le lezioni da tenere a mente?
La prima che è che non si può avere libertà economica senza libertà politica. Il governo cinese, che per certi versi sembra lasciare ampi spazi al libero mercato, ha come priorità la difesa della proprio potere politico e all’occorrenza non ha alcuna remora nel far saltare una operazione di queste dimensioni, pur di mandare un chiaro segnale in merito al proprio primato.
La seconda riguarda la dialettica tra regolatori e operatori che caratterizza l’intermediazione finanziaria: a ben guardare le restrizioni che il governo cinese vuole imporre ad Ant, sono ben poca cosa rispetto alle normative alle quali sono soggette banche e assicurazioni in Europa e negli Stati Uniti. Dunque per quanti benefici ed efficienze possa portare la tecnologia la gestione dell’interesse pubblico dei cittadini, dalla gestioni dei dati personali (che fanno gola al governo cinese) alla tutela del risparmio rimane un elemento di criticità fondamentale.
Dulcis in fundo la terza lezione riguarda le nostre banche e i nostri politici: il vento dell’innovazione digitale ha una forza inarrestabile. Lo ha dimostrato prima consentendo a centinaia di milioni di persone di passare in pochi anni dai pagamenti contanti alle transazioni con riconoscimento biometrico e poi riuscendo ad aggirare prima e contenere poi le pretese del governo cinese che rallentando la quotazione ha vinto una battaglia temporanea, ma rimane diversi passi indietro all’impresa che cerca di controllare.
Nel nostro paese al centro delle discussioni sul sistema bancario c’è la banca più antica del mondo che è stata nazionalizzate e che ha bisogno di aumenti di capitale miliardari per essere resa presentabile, mentre la Popolare di Bari spalma le sue perdite su tutto il sistema: che prospettive possono esserci nel futuro prossimo in cui gli italiani gestiranno sempre più i propri pagamenti, risparmi e finanziamenti con smartphone e pc?
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Le scelte di finanza personale devono essere orientate alla costituzione di un portafoglio equilibrato che contenga titoli con caratteristiche diversificate di rischio, rendimento e liquidità. In particolare è fondamentale che questo portafoglio rifletta le preferenze del singolo risparmiatore e tenga conto delle possibili necessità individuali che spaziano dalla cassa per far fronte ai minori introiti legati a un lockdown al costo di mantenere un figlio all’università in futuro. Il tutto senza trascurare una corretta pianificazione per il momento in cui si smetterà di lavorare e potrebbe essere necessario disporre di risorse integrative rispetto alla pensione maturata.
Fatte le usuali e doverose precisazioni, conviene puntare sui BTP futura? Al solito dipende dalla propria posizione personale. I fattori da considerare sono che
Dunque ognuno può fare le sue considerazioni, ricordiamo che al collocamento di una recente emissione di BTP Italia, visto che i rendimenti offerti erano superiori a quelli di titoli comparabili è stato possibile realizzare un guadagno del 1,6-1,7% nel giro di poche settimane. E’ possibile che questa opportunità si ripeta anche con i BTP Futura?
In teoria si, tuttavia va considerato che le cedole sono più basse e di conseguenza il guadagno sarebbe verosimilmente inferiore. I rischi di breve termine sono legati a un rialzo dei tassi sul mercato secondario che al momento non sembra probabile anche se le oscillazioni di breve termine non mancano mai: ad esempio la notizia positiva sul vaccino Pfizer diffusa questa settimana ha spinto molti operatori a spostare fondi verso i mercati azionari causando un temporaneo rialzo dei rendimenti sull’obbligazionario.
La morale della favola rimane quella di gestire i propri risparmi in modo equilibrato, con un’ottica di lungo termine e, nel caso si voglia tentare qualche operazione di breve, tenere ben presenti i rischi ai quali si va incontro.
]]>Questa osservazione di senso comune sembra essere alla base delle scelte poltiche effettuate non solo in Italia, ma anche in altri paesi europei e in particolare in Gran Bretegna, scelta oggetto di critiche in un numero recente de l’Economist.
Cercando di ragionare con lucidità e senza pregiudizi ideologici la questione appare in realtà più complessa e le decisioni da prendere meno ovvie.
Le prime criticità da valutare sono:
Posto che la sospensione dei licenziamenti può essere una misura solo temporanea, un punto di partenza per ragionare sulla questione è distinguere misure emergenziali di breve e brevissimo termine e risposte strutturali.
Nella fase più acuta della crisi la scelta della risposta dipende dalla cultura del paese e dall’atteggiamento più o meno propenso a forme di mobilità e flessibilità: negli Stati Uniti ad esempio, si è preferito tutelare i lavoratori rispetto ai posti di lavoro garantendo dei sussidi tanto generosi da risultare, per sette americani disoccupati su dieci, più elevati rispetto ai salari percepiti in precedenza. Nella lettura del fenomeno data dall’Economist questo ha contribuito a infondere un senso di sicurezza nelle persone che hanno perduto il lavoro inducendole a sperimentare forme di impiego autonomo, dando luogo ad una forte crescita di micro-imprese non appena le misure di lockdown sono state allentate.
In Europa si è fatta una scelta diversa, sussidiando in larga misura i salari in modo da indurre le imprese a non ridurre il numero di occupati e in qualche caso, come in Italia, vietando espressamente il licenziamento. Questo riflette in una certa misura un tessuto economico e sociale meno dinamico e meno propenso al cambiamento ed ha l’effetto di rinviare nel tempo gli aggiustamenti strutturali resi necessari dalla crisi economica.
Quindi la risposta più immediata all’emergenza può legittimamente declinarsi secondo le preferenze e sensibilità dei diversi paesi. Il nodo più importante da sciogliere riguarda quello che avviene in seguito:
Le misure di tutela dei posti di lavoro e di sostegno alla sopravvivenza delle imprese possono ostacolare in modo rilevante il necessario processo di trasformazione dell’economia e rallentare significativamente il percorso di ritorno a livelli di crescita economica precedenti all’emergenza sanitaria.
Come evidenziato da Carlo Stagnaro su Huffington Post:
Cassa integrazione, divieto di licenziamento e ingresso dello Stato nel capitale delle imprese trovano giustificazione nella medesima ipotesi: che, cioè, stiamo attraversando una crisi passeggera.
Una volta superata, tutto tornerà come prima.
Quindi, la cosa migliore da fare è mandare l’economia in letargo, sprangare le porte, rimboccarsi le coperte e attendere la fine della tempesta.
Se mai questa convinzione è apparsa ragionevole, oggi non lo è più: sia per la durata della recessione (che è a sua volta dettata dai tempi della pandemia), sia per l’evidenza che abbiamo raccolto nel frattempo.
Un modo plastico per visualizzare questo concetto è fornito nell’editoriale nel quale l’Economist critica la recente scelta del governo britannico di mantenere il furlough scheme che al momento copre l”80% del salario dei lavoratori:
Immaginate se, 20 anni fa, il governo britannico avesse fatto voto di proteggere ogni lavoro nel paese. Oggi avremmo, tra gli altri, 30.000 persone che lavorano come agenti di viaggio , 30.000 che si guadagnano da videre riparando i fax, mentre altri 40.000 sistemerebbero merci sugli scaffali di Woolworths, una catena di negozi che è fallita nel 2009.
Permettere che i posti di lavoro obsoleti “appassiscano” e che ne sboccino di nuovi è uno dei principali modi in cui le economie capitalistiche si arricchiscono e diventano più produttive. I governi interferiscono con questo processo di distruzione creativa lo fanno a loro rischio e pericolo.
Le più ovvie obiezioni per il sistema italiano riguardano la possibilità di reimpiego per i lavoratori, prospettiva culturalmente molto difficile da accettare nel nostro paese al punto da indurre un noto politico, non troppo tempo fa, a bollarla come una cazzata liberista.
Eppure disponiamo di veri e prorpi “giacimenti occupazionali“, espressione tratta dall’ultimo libro di Pietro Ichino, ovvero di una quantità rilevante di posti di lavoro che le imprese italiane non riescono a coprire per mancanza di candidati con le necessarie competenze tecniche e professionali. Sul tema avevo proposto su questo blog di assegnare come massima priorità per le risorse del Recovery Fund quella di finanziare la formazione necessaria a consentire di svolgere questi lavori in modo coordinato con le imprese che avrebbero dovuto realizzare le assunzioni.
L’obiezione più frequente a questo proposito è che non si può agevolmente trasformare un operaio in un ingegnere informatico: la carenza di competenze che separa i lavoratori che verosimilmente oggi potrebbero perdere il loro impiego dai posti di lavoro attualmente scoperti è così grande da non potersi colmare non solo in tempi brevi , ma in certi casi è tale da risultare di fatto insanabile.
Si tratta molto probabilmente di una estremizzazione retorica volta a supportare il pregiudizio ideologico nei confronti del cambiamento e a nascondere il disprezzo “politicamente scorretto” nei confronti di certe attività ritenute non abbastanza dignitose: come possiamo chiedere a un direttore di banca di 50 anni, con una casa al mare e una barca da mantenere, di mettersi a fare le pulizie per un quarto dello stipendio a cui era abituato? Quale impiegato amministrativo, abituato a percepire uno stipendio a prescindere dai risultati conseguiti, potrebbe accettare di mettersi a fare consegne in bicicletta?
La realtà al solito è meno colorata di quanto le distorsioni ideologiche non vorrebbero lasciar credere. Per rimanere sui due esempi, se non è più sostenibile per una banca pagare un direttore di cui non ha più bisogno, quest’ultimo potrebbe mettere a frutto le competenze maturate negli anni offrendosi come consulente indipendente per la gestione finanziaria di imprese e i privati. L’impiegato amministrativo, lasciando perdere i processi che ormai sono stati automatizzati, potrebbe concentrarsi sull’assistenza alla clientela e la gestione dei reclami, attività che vedranno una forte crescita man mano che i canali digitali diventano più diffusi.
Più in generale, a prescindere dalle accelerazioni impresse dalla pandemia, esiste una tendenza di fondo a collegare le retribuzioni più ai risultati raggiunti che alle ore passate al terminale (che si trovi in ufficio o a casa).
Dunque cambiare lavoro, o modo di lavorare, lungi dall’essere una bestemmia esecrabile, diventerà nel tempo una necessità sempre più impellente: cercare di opporsi a questo processo ineluttabile constituisce uno sforzo vano e un inutile spreco di risorse.
Per questi motivi, la recente proroga del divieto di licenziamento può ben annoverarsi tra le buone intenzioni che, secondo il noto adagio, lastricano la strada per l’inferno.
Le risorse che al momento vengono destinate al “congelamento dello status quo” in tema di occupazione, andrebbero opportunamente destinate a sostenere i lavoratori per consentirgli di ricercare o, in molti casi, di inventarsi e creare un’occupazione alternativa rispetto alle precedenti.
Con riferimento alle imprese, al posto dell’accanimento terapeutico indirizzato a mantenere in vita attività non più utili, andrebbe incoraggiato un processo di ordinata liquidazione delle realtà che non hanno più una ragione di esistere e di incentivo alla trasformazione per quelle che possono seguire strade alternative.
Come avevo provato a spiegare anche nel mio ultimo post la trasformazione del nostro sistema economico che era già imminente prima della pandemia, diventerà ancora più urgente e rapida nella delicata fase di ripartenza che ci attende nei prossimi mesi.
Per adattarsi a questo processo inesorabile e governarne in modo efficace le ricadute sul tessuto sociale la classe dirigente del nostro paese dovrebbe dimostrare una apertura al cambiamento che purtroppo al momento sembra mancare del tutto.
]]>Cotticelli
Messo nel tritacarne mediatico ha rivelato tutto il peggio di sé anche ieri. Non è tollerabile che un manager pubblico non sappia, o vada in bambola per l'emozione come uno studente al primo esame universitario, quanti posti in TI ci siano nella sanità da lui amministrata. Non è tollerabile che dica che non era in sé e la famiglia non lo ha riconosciuto o che evochi l'esagerazione del caffè avvelenato (su cui ca va sans dire i "giornalisti da buco della serratura" Giletti e Merlino si sono fiondati). Non è tollerabile che dimentichi di aver presentato un piano Covid il 18 giugno 2020 e affermi di non averlo fatto perché non competeva a lui. Il piano Covid c'è, non si trovano, almeno sui canali ufficiali, gli allegati.
Misteriosa la figura del sub commissario Maria Crocco che è lì da una vita e sa sicuramente molto di più di quanto emerge dalla figura segretariale quando il generale la chiama Mariaaaaa.
Cotticelli fu messo lì dalla grillina Giulia Grillo che ora si è data alla macchia. Ennesima prova del fatto che i 5 Stelle sono incapaci di gestire con un minimo di decenza la macchina pubblica.
Speranza + Conte
La staff comunicazione-social può pure bannare me (pesce piccolo che non dovrebbe far paura a nessuno) ma non potrà in eterno non rispondere della incredibile collezione di errori commessi. Il 7 dicembre 2018 Cotticelli veniva nominato commissario, il 4 aprile 2019 al tavolo presso il Ministero venivano rilevati i ritardi nella gestione della sanità calabrese, ancora in ottobre 2019 e maggio 2020 venivano riscontrati parametri non raggiunti nel Piano di Rientro, un disavanzo di 116,7 milioni e 217 milioni di ritardati pagamenti, oltre al famigerato piano Covid non ancora presentato.
Il 4 novembre il consiglio dei ministri n. 71 non rilevava alcuna obiezione al commissario Cotticelli e ne ampliava i poteri.
Conte e Speranza erano ignari o sapevano e facevano finta di niente che i malati Covid facevano attese di ore davanti alla porta del pronto soccorso?
Scoppiato il bubbone Speranza nomina Zuccatelli, già responsabile della gestione del presidio di Cosenza e di altre poco onorevoli realtà sanitarie.
Il Movimento lo ritiene impresentabile (e forse ha ragione) e avrebbe voluto Gino Strada. Ma al di là di un nome evocativo dimentica che esiste un albo di manager cui la PA deve attingere per le nomine. Albo raramente rispettato è vero, ché la politica fa e disfa come vuole quando c'è da nominare amici e congiunti.
Conte e Speranza, se avessero un minimo di dignità, si dimetterebbero e sparirebbero dai radar.
"The giornalisti"
Che ad un certo punto il conduttore de L'arena iniziasse a parteggiare per la vittima in quanto caso umano lo davo per scontato. Un volto paonazzo con gli occhi gonfi di lacrime fa sempre audience; la narrazione del servitore dello Stato (meglio ancora se generale della beneamata) abbandonato nel covo di squali pronti a ficcargli i denti nella schiena è un cliché.
Quello che non sopporto, proprio non sopporto, è che la storia dei 100 milioni di ulteriore buco sia stata fatta passare come un debito gravante sul portafogli del povero generale. Conoscenza di bilanci pubblici e scienza delle finanze zero.
Quando da una unità controllata emerge un debito quel debito si iscrive a bilancio della controllante, nella fattispecie la struttura commissariale. Nessuno scandalo.
Semmai, se fossero capaci di fare il loro mestiere, avrebbero dovuto chiedersi perché un debito cumulato in più gestioni d'esercizio emerge tutto insieme solo ora.
Troppa fatica però per chi pensa solo a cercare lo scandalo che fa lacrimare la signora Pina.
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Il fondo, istituito nel 2014, va a coprire un cluster di clientela svantaggiato: hanno accesso prioritario persone e famiglie che non hanno requisiti economici e patrimoniali solidi: giovani coppie, famiglie monogenitoriali, giovani con contratti di lavoro atipici, affittuari di case popolari. Il Fondo permette di erogare il 100% dell'importo di acquisto a giovani che in assenza dunque non sarebbero stati mutuabili. Per stessa ammissione di Consap era quasi esaurito a fine 2019 poiché non coperto dall'ultima legge di Bilancio 2019 ma è stato rifinanziato la scorsa estate grazie all'Art. 19 del Decreto Crescita. Per 100 milioni di euro abbassando la percentuale di accantonamento dal 10% all'8%.
I "dati certi" riguardano il Bilancio del fondo Consap aggiornato al momento al 31/12/2018*. Nel corso del 2018 il fondo ha coperto 46784 finanziamenti per un totale erogato di 5229 milioni di euro, portando il totale garantito a 8700 milioni di euro sottoforma di mutui concessi dal 2014. Evidentemente nel corso del 2018 c'è stata una forte accelerazione e la sensazione è che nel corso del 2019 e 2020 sia ancora incrementata. Sensazioni poiché i dati certi disponibili non molto aggiornati, ma sufficienti al nostro ragionamento: nonostante il cluster di clientela che va a coprire sia tra quelli più rischiosi, hanno dei parametri di ponderazione per l'insolvenza adeguati? Al momento sembra di si: 8 episodi di escussione nel corso del 2018. Sappiamo però che i modelli di valutazione basati sul'andamentale storico non sono in grado di gestire crisi future.
Non finisce qui.
La tendenza del mercato bancario è quello di puntare il più possibile sulla garanzia Consap quando applicabile poiché da una lato permette di erogare fino al 100% del costo di acquisto e dall'altro permette di abbattere sensibilmente il costo del credito in termini di assorbimenti patrimoniali. I mutui infatti che copre il Fondo sono tra i più costosi in termini di Patrimonio poiché non rientrano nella fondiarietà (80% di LTV - assorbimento dell'8%) ma sono "soltanto" ipotecari per via dell'erogazione al 100%. Costo che si riduce sensibilmente per effetto della Garanzia.
Il mercato dei mutui ipotecari al momento si mantiene piuttosto solido, inoltre nessuna Banca ha ancora erogato un solo euro della già famosa "misura del 110%" che certamente contribuirà a sostenere il settore (addirittura l'efficientamento energetico rientra anche tra le casistiche garantibili con il Fondo Consap). E poi: la Banca potrebbe forse cartolarizzare i mutui concessi e quindi di trasferire a soggetti terzi il rischio? E magari i soggetti terzi, i cui asset a quel punto sarebbero Costituiti da prodotti Garantiti dallo Stato, potrebbero controassicurarsi da eventuali escussioni per la parte rimanente?
Un attimo. Abbiamo già visto e sentito queste dinamiche: i mutui subprime e mercato dei CDS.
Tutto dipenderà dal futuro e dalla capacità dei clienti di questa fascia di rimborsare i mutui concessi. Certamente il disastro economico del Covid-19 si deve ancora abbattere sulla realtà e questo ne aggrava sensibilmente il rischio.
*Cfr. Bilancio Consuntivo Consap 2018 Relazioni e Bilancio pag. 53.
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L’approccio del governo a questa sfida non è stata tuttavia delle migliori. La UE ha regole di funzionamento ben precise con appuntamenti calendarizzati che ne fissano gli obiettivi.
Quando, a cavallo tra il 17 ed il 20 luglio scorso, si tenne il Consiglio Europeo che avrebbe dovuto determinare condizioni, entità e distribuzione degli interventi economici straordinari previsti dal Recovery Fund, l’Italia, unico fra i 28, si presentò senza il Piano di Riforme Nazionali. Il documento, allegato a quello di economia e finanza di aprile, fissa gli obiettivi nazionali per l’anno in corso in funzione delle Country Specific Recommendations rilasciate dalla Commissione. Esponenti del Governo e della maggioranza si giustificarono sostenendo che quel PNR era superato, quindi inutile, per effetto delle mutate condizioni economiche e dell’appuntamento previsto dal Consiglio. Ma il documento esisteva, approvato nel Consiglio dei Ministri del 6 luglio (quindi in ritardo di oltre 2 mesi) e allegato al DEF (sezione III) che già teneva conto dell’impatto della pandemia sull’economia italiana ed europea. Le prime raccomandazioni erano state indicate dalla Commissione nello Spring Forecast e gli interventi di SURE, BEI e MES deliberati. Si trattava quindi di eccesso di prudenza o piuttosto di confusione tutta dovuta alle tensioni all’interno della maggioranza di governo?
Delineato l’intervento europeo con il macroprogramma Nex Generation EU, un pacchetto composto da sette capitoli di destinazione delle risorse e con le priorità rivolte a sviluppo sostenibile, interventi a favore dei settori più colpiti dalla crisi e modernizzazione infrastrutturale, si sarebbero dovute fare immediatamente due cose: individuare gli interventi volti a mettere in sicurezza i conti pubblici nel più breve tempo possibile e raccogliere progetti credibili da presentare alla Commissione per il confronto che avrebbe poi portato nel 2021-2023 all’erogazione dei fondi. L’accordo su NGEU prevedeva infatti anche la possibilità di anticipare il 10% delle dotazioni assegnate a ciascun Paese sin dalla prossima legge di bilancio a copertura delle maggiori spese per il contrasto alla crisi. Per l’Italia si sarebbe trattato di circa 20 miliardi, da inserire nel pacchetto di misure di fine anno e spendere a cavallo del primo e secondo trimestre 2021.
In ordine ai progetti infrastrutturali - finanziabili secondo l’agenda 10% anticipato, 35% 2021, 35% 2022, saldo 20% 2023 - non risulta nulla sia stato fatto. Ci sono state generiche dichiarazioni del premier in occasione della presentazione stampa del decreto semplificazioni; si è parlato di oltre 400 progetti presentati; si è vaneggiato per bocca di ministri ed esponenti più o meno illustri della maggioranza di misure non finanziabili come la riduzione delle imposte e il taglio del cuneo fiscale. Chiacchiere.
Lunedì molte testate hanno pubblicato un documento contenente 557 progetti-obiettivo pervenuti al Ministero per gli Affari Europei. Al netto della rilevanza del documento e al netto di alcune idee che in quel documento si leggono che sembrano scaturite da una mente burlona o alla meglio non pienamente consapevole della realtà, quel pdf dà la misura plastica della confusione concettuale con cui le massime istituzioni del Paese stanno affrontando la sfida. Fra quei progetti, ad esempio, ci sono ben 64,2 miliardi di spese per messa in sicurezza e implementazione del Servizio Sanitario Nazionale che non possono essere finanziate se non col quel MES che uno dei due partiti di governo continua a rifiutare sdegnosamente.
Il Ministro Amendola si è affrettato a dichiararlo superato (non falso) annunciando che quello definitivo sarà presentato a fine gennaio dopo la conclusione delle interlocuzioni con la Commissione. Ma allora, a ottobre, cosa verrà presentato alla Commissione? Quale idea di Paese ha in mente il governo che non sia l’implementazione di “foreste urbane resilienti (sigh) per il benessere di cittadini” o “costellazione satellitare per il monitoraggio ad elevata risoluzione temporale e spaziale per l’Osservazione della Terra”?
Conte, nel riferire alla Camera, ha affermato di puntare ad un obiettivo di raddoppio del tasso di crescita del PIL che da almeno 25 anni è stagnante. Parole che sentiamo da un lustro e che lo stesso premier ha già pronunciato in numerosi interventi pubblici. Manca il come o, meglio, mancano il come e il quando giacché non bastano alcune centinaia di miliardi di spesa pubblica aggiuntiva (ai circa 230 in arrivo dall’Europa vanno aggiunti i circa 150 di maggior indebitamento domestico) per rimettere in moto una macchina ferma per problemi strutturali.
Ascoltando Conte non si può non ripensare ad altre parole, oramai entrate nella memoria storica dell’Italia di questi tempi, ovvero a quell’”anno bellissimo” annunciato per il 2019 che poi abbiamo visto come è andato a finire.
]]>Si tratta anche di un importante fattore abilitante lo svolgimento di qualunque attività economica e di una condizione fondamentale per conseguire gli incrementi di produttività necessari al nostro paese per tornare a crescere.
Non sorprende allora che questo ambizioso obiettivo figuri in cima alle priorità del piano italiano di ripresa e resilienza per accedere ai fondi previsti dal Recovery Fund anche in considerazione del fatto che le linee guida pubblicate dalla Commissione Europea prevedono che non meno del 20% delle risorse siano destinate alla “Transizione Digitale”.
Insomma la necessità da parte dell’utenza è evidente, i benefici per l’intero sistema indubbi e c’è anche la benedizione da parte della Commissione con tanto di risorse messe a disposizione dal Recovery Fund, che cosa potrebbe andare storto?
]]>Come spiegato in diverse occasioni, al fine di ottenere le risorse messe a disposizione dal nuovo meccanismo europeo di sostegno alla ripresa è necessario che il governo presenti un programma
Sebbene le linee guida siano ancora troppo generiche per esprimere un giudizio definitivo sulla strategia proposta dal governo è tuttavia possibile formulare almeno 3 considerazioni sull’impianto teorico al quale fanno riferimento:
La visione sottostante alla strategia del governo, nonostante i riferimenti a concetti alla moda come “innovazione digitale” e “rivoluzione verde” appare non solo saldamente radicata nel passato, ma anche convintamente intenzionata a guardare nella direzione opposta a quella dove si dirige il resto del mondo.
L’Italia è una grande “manifattura” che può prefiggersi obiettivi apparentemente ambiziosi come raddoppiare il tasso di crescita del PIL (che vuol dire raggiungere a malapena la media degli altri paesi dell’unione) grazie alla taumaturgica combinazione una PA Digitale, di una non meglio specificata rivoluzione green e delle intramontabili infrastrutture su cui far circolare cose e persone come se la pandemia attualmente in corso non ci avesse insegnato nulla.
La produttività stagnante, tra le principali determinanti della scarsa crescita economica degli ultimi decenni, sarà recuperata nazionalizzando imprese industriali incapaci di competere con concorrenti esteri su prodotti tradizionali, mentre nel resto del mondo la partita si gioca sempre più sui servizi immateriali veicolati attraverso canali digitali e anche la circolazione fisica delle cose e delle persone è sempre più orientata all’efficienza e alla ottimizzazione di tempi e costi.
Visto che con le ricette della nonna tornerà la crescita è il caso di pensare a come ripartire i frutti del nuovo miracolo italiano perseguendo una maggiore equità sociale, di genere e territoriale, che fuori dalle etichette di circostanza vuol dire nuovi sussidi in cambio di consenso.
Del tutto non pervenuta la dimensione della concorrenza, con la complicità del momento storico nel quale il desiderio di protezione da parte dello stato sembra prevalere sulle aspirazioni a porter svolgere liberamente l’attività di impresa inseguendo nuove sfide e nuovi mercati.
Il tutto senza neanche menzionare che uno stato che si presenta come imprenditore (e innovatore) difficilmente potrebbe svolgere un ruolo credibile come arbitro nei confronti dei propri concorrenti diretti.
Per riepilogare non abbiamo ancora abbastanza informazioni, per bocciare il programma del governo, ma esistono sufficienti elementi per qualificare la strategia come
Non si tratta di un bel segnale e il riscontro da parte degli organi che dovranno valutare le proposte è tutto da vedere, ma il controllo dell’Europa potrà essere solo di alto livello e si limiterà ad evitare gli abusi più macroscopici: l’Italia si trova davanti a una nuova fondamentale opportunità, come quelle sperimentate con l’adesione all’euro e con la risposta BCE alle crisi dei debiti sovrani, sta a noi cercare di non sprecarla ancora una volta perché non esiste alcun vincolo esterno che possa salvarci da noi stessi.
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Visto che ci sono le misure di sicurezza per via della pandemia ti premuri di verificare via internet se occorre prenotare o se ci sono accorgimenti particolari. Con una ricerca rapida capisci che non c’è un obbligo di fascia oraria, ma solo un limite al numero massimo di persone che possono visitare contemporaneamente il museo (scelta logica e funzionale), l’obbligo di portare la mascherina, igienizzare le mani e verificare la temperatura prima dell’ingresso, per il resto il biglietto vale 3 giorni e include anche le rovine di Velia (molto bella ma un po’ fuori traiettoria).
A questo punto dovrebbe esser comprensibile un po’ di sorpresa quando all’ingresso subisci lo stalking del personale, che sostiene non si possa sostare più di 3 minuti davanti a un reperto soprattutto dopo che ne hai impiegati 4 per capire che il touch screen nella prima sala funzionava male. Sentendoti in colpa perché ti convincono in modo subdolo del fatto che stai causando facendo attendere troppo altri visitatori in coda , attraversi le prime sale senza vedere nulla.
Come concessione del burocrate al suddito ti dicono anche che, se qualcosa proprio ti interessa, fanno passare avanti quelli sono arrivati dopo e ti consentono in via eccezionale di sostare un po’ di più.
Questo avrebbe senso se le disposizioni di sicurezza prevedessero qualcosa tipo “il personale gestisce l’afflusso dei visitatori e la loro permanenza nelle sale, si prega di seguire le loro indicazioni”
Ma le disposizioni prevedono solo un limite al numero totale dei visitatori presenti in contemporanea, che indossino mascherina e abbiano igienizzato le mani. Considerando che il rapporto tra dimensione della struttura e numero dei visitatori ammessi consente un distanziamento nell’ordine dei 15-20m l’atteggiamento dei dipendenti del museo può ben qualificarsi come eccesso di zelo.
Però è estate, ci sono i bambini e non ti pare il caso di perderti in discussioni inutili. Quindi passi avanti prendendo nota mentale di come nel paese di pulcinella (definizione estendibile all’intero stivale)i tuoi diritti vengano descritti come concessioni del burocrate di turno.
Però ci sono davvero poche persone, i bambini volevano vedere una cosa che hanno studiato a scuola e, ti illudi che civilmente si possa far passare avanti gli altri visitatori mentendo distanze abbondanti e cercando di goderti la vista per cui hai pagato il biglietto.
Pessima scelta.
Il cerbero di turno arriva stizzito dicendoti che non puoi tornare indietro, che ci sono gli altri che devono passare e stai causando code.
Secondo esercizio di pazienza, fai civilmente notare che nel contratto che hai sottoscritto per visitare il museo non c’è scritto da nessuna parte che devi subire l’arbitrio del burocrate di turno, che stai rispettando tutte le regole e che per il numero di persone che ci sono si riesce a mantenere una distanza piuttosto abbondante, a occhio anche di 20 metri. Se questo è lo stato in un momento di così scarsa affluenza se il numero dei visitatori aumenta la visita del museo diventa finisce per diventare una presa in giro.
A quel punto parte la difesa di ufficio, le regole mica le fanno loro; loro subiscono reprimende se si formano assembramenti. Mica sono pagati per comprendere le regole delle istituzioni in cui lavorano e per cercare di applicarle in modo ragionevole senza vanificare le finalità ultime di quelle istituzioni.
A loro interessa evitare noie e “cazziate”, che tanto non rischiano nulla più di questo e, se la difesa di questo loro interesse, rende indecente il servizio offerto ai visitatori ci tocca farcene una ragione. Il loro problema è che le sale vicino all’ingresso siano sufficientemente sgombre da evitare lamentele, per cui devono cacciare in avanti i visitatori. Quel che succede dopo non conta.
Fosse stata una storia americana ci sarebbe stato un reclamo, un intervento del direttore del museo o qualcosa di questo genere. Ma nella tradizione più classica della commedia all’italiana tutto finisce a tarallucci e vino. C’è una turista olandese seduta su divanetto a cui nessuno dice niente. Fatti 30 passi dall’ingresso, là dove si finisce l’interesse illegittimo del burocrate illicenziabile termina lo stalking.
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Cosa bisogna studiare per trovare lavoro?
Considerato che viviamo in un paese con una quota tanto elevata di soggetti che, non solo non studiano e non lavorano, ma un lavoro hanno anche smesso di cercarlo, si tratta di un interrogativo piuttosto logico da porsi. Proviamo a capovolgere la prospettiva delle discussioni tradizionali, per intenderci quelle che finiscono degenerano nella diatriba tra lauree utili e inutili, con una risposta solo apparentemente provocatoria:
Studiate quello che vi piace.
Certo, la prima e ovvia obiezione sarà che si fa fatica a lavorare per Google o per Apple con una laurea in Archeologia (il che non è del tutto vero).
]]>La logica del provvedimento è in apparenza inoppugnabile: in un momento di elevata difficoltà, nel quale è possibile ottenere deroghe alle normative sull'aiuto di stato ai paesi dell'Unione Europea, dovrebbe risultare particolarmente utile offrire sostegno alle imprese delle regioni con occupazione e ricchezza pro capite inferiore alla media nazionale.
«abbiamo previsto incentivi per chi assume a tempo indeterminato fino a dicembre e introdotto una misura storica come la fiscalità di vantaggio per le aziende del Mezzogiorno, con un taglio del 30% sui contributi per tutti i lavoratori dipendenti. Una misura che renderemo strutturale e che, accompagnandosi a un piano di riforme e investimenti, punta a ridurre il divario storico di crescita, occupazione e produttività tra il Sud e il resto del Paese». (Gualtieri al Sole 24 Ore)
Cosa non funziona in questo ragionamento?
In tempi normali, mentre il nord corre avanti e il sud rimane indietro può sussistere un argomento (molto debole in verità) per introdurre misure mirate ad alcune aree del paese particolarmente disagiate.
Di fronte a una crisi globale, che ha colpito duramente tutto il paese, discriminare le aree che prima della pandemia presentavano un tessuto economico più vitale è miope e autolesionista oltre che palesemente ingiusto.
Proporre soluzioni semplici a problemi complessi è una strategia che spesso porta consenso in politica e produce misure inutili quando non palesemente dannose.
I problemi che caratterizzano lo svolgimento dell'attività d'impresa nel nostro paese (al netto di ovvie e note criticità locali) sono gli stessi da Bolzano a Lampedusa e spaziano da un apparato normativo disfunzionale (specie con riferimento ai contratti di lavoro e al fisco) alla lotta impari contro una burocrazia soffocante e la mancanza di infrastrutture (sia istituzionali che fisiche) e, spesso, di personale qualificato.
Per quale motivo nel momento di maggior bisogno il governo centrale vuole intervenire su un unico profilo (quello più costoso per i contribuenti) e limitatamente ad alcune regioni?
Quanto sarebbe stato più utile (e meno oneroso per le casse dello stato) un insieme di misure di semplificazione e flessibilità su scala nazione, che avesse consentito alle imprese di reagire al momento di difficoltà?
Quanto è probabile che l'ennesima scommessa a nostre spese del governo centrale finisca con portare beneficio a una minoranza di soggetti particolarmente utili in campagna elettorale?
Posto che gli individui rispondono agli incentivi, che le sorti del paese sono particolarmente incerte e gli operatori razionali in questo contesto risparmiano e non prendono rischi, cosa credete che faranno le imprese del sud con questo inaspettato regalo? Si metteranno ad assumere o investire, cosa che non facevano prima che una pandemia si abbattesse sull'economia globale? Cercheranno di regolarizzare i lavoratori per i quali oggi esiste un divieto di licenziamento e domani chissà?
Un aforisma attribuito ad Einstein recita che “Stupidità è fare sempre la stessa cosa e aspettare risultati diversi.”
Da decenni si è visto che
La fiscalità di vantaggio per il sud contiene tutti gli ingredienti per risultare una iniziativa fallimentare che ci riproporrà un film già visto con pochi fortunati che riceveranno un bonus, alcuni politici che raccatteranno qualche punto di consenso e il resto del paese condannato a pagare come sempre il conto.
]]>
Trattandosi di un argomento piuttosto delicato non sono mancati gli attacchi di carattere politico e i fraintendimenti basati sulla scarsa conoscenza dell’economia del lavoro.
Quello che l’economista critica non sono i provvedimenti ma la mancanza di condizioni: sarebbe più logico limitare il divieto alle sole imprese che approfittano gratuitamente della cassa integrazione, come avviene in altri paesi europei e vincolare il beneficio contributivo alle aziende che assumono onde evitare di fare un “regalo inaspettato” a chi avrebbero comunque smesso di usare la cassa.
]]>In questo breve post proverò a fornire delle proposte su un tema abbastanza caldo come quello del corretto impiego delle risorse derivanti dal Recovery Fund. Immaginiamo di scrivere una lettera al presidente di una immaginaria task force istituita per individuare le modalità ottimali di impiego delle risorse ottenute grazie al programma Next Generation EU (a proposito, avete letto di qualche gruppo di lavoro che si stia occupando del tema?)
Gentile Presidente,
faccio seguito alla sua richiesta di un contributo scritto, per il documento che riepiloga le attività della task force da lei presieduta, riassumendo brevemente di seguito i suggerimenti che ho già espresso durante le riunioni tenutesi fino ad oggi.
In primo luogo è mia convinzione che l’allocazione ottimale dei fondi vada ricercata applicando un criterio abbastanza semplice :
- le risorse ottenute a titolo di finanziamento, dovrebbero essere impiegate per aumentare la produttività e la crescita economica del paese, in modo da contribuire positivamente alla sostenibilità nel tempo degli equilibri di finanza pubblica
- le risorse ottenute a titolo di trasferimento, andrebbero impiegate per colmare i GAP e le mancanze del nostro sistema economico sia con riferimento alla componente danneggiata dalle misure di contenimento per la recente pandemia, sia per quella storicamente erosa da una gestione miope della cosa pubblica
Come premessa generale mi preme sottolineare la diversità della mia posizione rispetto ai colleghi che suggeriscono investimenti in infrastrutture fisiche come autostrade, porti e altre misure qualificate come “sblocco cantieri”.
Il motivo del mio dissenso è presto detto: un paese in via di sviluppo ha bisogno di strade, reti elettriche e idriche e in genere la creazione di queste opere pubbliche contribuisce alla crescita economica e all’aumento del benessere dei cittadini.
L’Italia si trova in una posizione diversa ed è afflitta da problemi che non si risolvono costruendo ponti o potenziando le linee ferroviarie: la ricchezza delle nazioni moderne è oggi in larga parte costituita dal capitale umano dei cittadini che le abitano e dal grado di integrazione con la rete globale di relazioni commerciali che necessita di uno scambio costante di informazioni e dunque quella è a mio modesto avviso la direttrice lungo la quale è opportuno intervenire.
Se la ricchezza è dunque sempre più immateriale è altresì fondamentale che siano potenziate ed aggiornate le infrastrutture tecnologiche che consentono alle informazioni di circolare: una connessione ad internet sufficientemente veloce può consentire di portare il lavoro e le lezioni universitarie in ogni angolo del paese nel quale dal quale i nostri giovani sono spesso costretti a trasferirsi per studiare o per cercare un impiego.
Chiarito questo punto, come utilizzare nel dettaglio i fondi?
Un primo investimento dal rendimento garantito e veloce è la riqualificazione del personale e il ricollocamento geografico dei lavoratori finalizzato alla copertura dei posti di lavoro attualmente vacanti.
Come più volte evidenziato dal prof. Pietro Ichino (da ultimo nel libro l’intelligenza del lavoro) esistono immani giacimenti occupazionali che al momento non sono sfruttati perché non si trovano lavoratori con le competenze adeguate. Un modo virtuoso per agire in quella direzione è avviare una formula di collaborazione tra le imprese private che necessitano di questi profili, le istituzioni che possono utilmente contribuire alla selezione e alla formazione dei candidati (che si tratti di università o di società di consulenza) e lo stato che può coprire i costi della formazione e dell’eventuale trasferimento geografico.
Al fine di evitare conflitti d’interesse e abusi occorre un impegno concreto delle aziende ad assumere i candidati e la limitazione del ruolo del governo alla mera copertura dei costi di formazione e trasferimento. Considerato che le nazioni più ricche sono quelle capaci di spogliarsi del proprio nazionalismo, l’accesso a questi posti qualificati deve essere aperto anche a soggetti non residenti disponibili a trasferirsi in Italia per un periodo predeterminato.
Quest’ultimo punto potrebbe destare qualche perplessità, perché implica per lo stato italiano un investimento nella formazione di individui che non hanno nazionalità italiana: a ben vedere, nella misura in cui la formazione è finalizzata alla copertura di esigenze lavorative di imprese operanti sul territorio nazionale, si tratta di comunque il capitale umano del paese e, per una volta, di controbilanciare il trend di cervelli in uscita dal nostro paese.
Dunque la finalità prima è fare in modo che questi ruoli altamente qualificati che nel nostro paese non trovano copertura siano finalmente occupati. Un secondo livello potrebbe attuarsi abbassando l’asticella e contribuendo anche alla copertura di ruoli meno qualificati con incentivi al trasferimento delle risorse umane.
Se un calabrese emigra Londra a sue spese per fare il pizzaiolo (o resta a casa a prendere per sempre redditi di cittadinanza e altri sussidi) il nostro paese perde una risorsa che avrebbe potuto utilmente contribuire al PIL. Se grazie ad un incentivo al trasferimento sul territorio nazionale, si ferma a Milano o a Venezia per svolgere lo stesso ruolo vuol dire che contribuirà positivamente alle entrate dello stato centrale che a sua volta trasferisce risorse alla regione di origine in un circolo virtuoso. Onde evitare distorsioni il contributo al trasferimento deve essere temporaneo e subordinato alla presenza di un contratto di lavoro stipulato in anticipo.
Un ultimo più delicato profilo potrebbe riguardare la riqualificazione del personale che attualmente svolge attività poco produttive o addirittura ridondanti nelle grandi imprese e nella pubblica amministrazione e più in generale dei percorsi di formazione che consentano alle persone attualmente disoccupate di avere maggiori opportunità di trovare lavoro.
A questo proposito la criticità principale risiede nella valutazione della effettiva utilità dei percorsi formativi e la difficoltà “politica” di riconoscere che alcune mansioni sono al momento poco produttive o ridondanti. A tal proposito sarebbe opportuno un progetto preliminare che coinvolgesse i datori di lavoro, le imprese dedite alla selezione del personale e le università per individuare un percorso di “trasformazione” che sia orientato a concreti obiettivi di carattere occupazionale.
Al fine di rendere massimamente efficaci queste misure di riqualificazione e di incentivo alla mobilità del personale sarebbe opportuna l’introduzione di misure di semplificazione dei contratti di lavoro al fine di eliminare le complicazioni di carattere burocratico e taluni oneri fiscali e previdenziali che al momento impediscono la sottoscrizione di contratti di lavoro anche là dove esiste un accordo tra le parti sui termini della collaborazione.
Per il bene della prossima generazione di cittadini dell’unione europea (Next Generation Eu è il nome del programma) sarebbe opportuno che al di sotto di un certo compenso lordo annuo, fermi restanti i normali e ovvi vincoli in termini di sicurezza sul lavoro e di numero massimo di ore lavorate nell’unità di tempo, si lasciasse all’accordo delle parti la definizione di termini e modalità senza interferire nei “rapporti economici tra adulti consenzienti”.
Se l’investimento migliore è dato dalla formazione e riqualificazione, in che modo si possono impiegare i trasferimenti volti a reintegrare il tessuto economico? Una intervento semplice, efficace e di agevole implementazione riguarda l’offerta formativa sia scolastica che universitaria.
A questo proposito vorrei prendere le distanze dai colleghi che sembrano convinti che tutto si possa risolvere pagando di più i professori o assumendone di nuovi (chi volesse pensar male potrebbe intravedere forme di captatio benevolentiae, ma non è questa la sede opportuna). Non è mia intenzione avventurarmi lungo difficili considerazioni in merito alla valutazione dell’operato dei docenti o di una qualche misurazione a vario titolo del rapporto tra la quantità e qualità del lavoro attualmente svolto e i risultati conseguiti poiché si tratta di un terreno spinoso e denso di valutazioni di carattere politico.
Molto più modestamente, in un’ottica aziendale per la quale è necessario dar conto di come vengono impiegate le risorse e di quali risultati ci si prefigge, suggerisco la mera introduzione di test standardizzati da farsi obbligatoriamente all’inizio e al termine di ogni anno scolastico e i cui risultati saranno comunicati solo agli studenti, mentre sintesi statistiche per ogni istituto o università saranno rese pubbliche solo a livello aggregato. Aggiungerei altresì la possibilità di ripetere facoltativamente i test a scadenze infra-annuali prestabilite e aprirli anche alla popolazione in età non scolastica. La misura si completa con la fornitura di strumenti di autoapprendimento gratuitamente disponibili per tutta la popolazione.
Dunque chi termina il liceo X o l’università Y riceverà il tradizionale titolo di studio, ma anche una attestazione dei risultati dei test standardizzati per ogni anno frequentato e per ogni volta che si è richiesto lo svolgimento del test facoltativo. Lasciamo al mercato del lavoro stabilire quali titoli riterrà più utili per la selezione del personale. Lasciamo anche alla valutazione di ognuno constatare se per caso la scuola Z in media fornisce voti elevati a chi ha scarsi risultati nei test standardizzati o viceversa.
Parimenti, chi osservando un risultato insoddisfacente volesse migliorare la propria preparazione potrà farlo grazie agli strumenti di autoapprendimento gratuito e potrà a scadenze prestabilite ripetere il test ottenendo la certificazione del miglioramento ottenuto. Mi rendo conto che questo tipo di impostazione va contro la cultura paternalista oggi prevalente tuttavia questa soluzione ha il pregio di non intaccare alcun equilibrio politico, di concentrarsi su competenze obbiettivamente misurabili e su quanto queste ultime sono diffuse nella popolazione in età scolastica.
In perfetta coerenza con l’investimento precedente in formazione, i test saranno accessibili a tutta la popolazione e dunque chi lo vorrà potrà “recuperare gli anni perduti” o “rinfrescarsi la memoria” ottenendo una certificazione dello sforzo effettuato. A completamento di queste misure potrebbe tornare utile un ampiamento degli incentivi fiscali per le spese destinate alla formazione e all’istruzione.
Una parte dei fondi potrebbe inoltre essere destinata a finanziare periodi di studio all’estero per studenti meritevoli, esperienze formative in ambiti lavorativi per gli studenti universitari e degli ultimi anni delle superiori, ma anche per finanziare periodi di soggiorno in Italia di docenti provenienti da altri paesi. Onde evitare abusi, a questo proposito sarebbe opportuno individuare in via preliminare dei criteri di selezione per evitare che venga sussidiato lo studio o l’insegnamento di materie pseudoscientifiche o di dubbio contributo alla possibilità di trovare lavoro.
Per concludere, gentile presidente, si tratta di poche idee semplici e concrete volte a declinare in modo dettagliato la mia risposta di fondo al problema che la sua task force è chiamato a risolvere: il modo migliore di impiegare il denaro ricevuto a titolo di prestito o di trasferimento è di impiegarlo per fornire ai cittadini competenze e incentivi per contribuire attivamente alla creazione di valore all’interno del proprio sistema economico.
Cordialmente,
Massimo Famularo
PS di seguito un plausibile/probabile set di domande risposte
D: Ma veramente stiamo dicendo di non dare una lira alle imprese?
R: Le imprese sane potranno beneficiare di personale formato dallo stato e impiegare lavoratori che si trasferiscono grazie agli incentivi. Per imprese che non sono sane le complessità e i rischi legati alle formule di ristrutturazione e risanamento sono tali da rendere sconsigliabile l’impiego di fondi derivanti dal Recovery Fund.
D: Perché limitarsi ai test standardizzati e agli strumenti di autoapprendimento?
R: Per restare nell’ambito di quello che è obiettivamente misurabile ed evitare le discussioni politiche su qualità ed efficacia del lavoro svolto dai docenti. Se esiste un punto di riferimento standardizzato ciascuno può trarre le sue conclusioni.
D: Ma neanche un’autostrada o un ponticello piccolo piccolo?
R: Bisogna farsi una ragione del fatto che l’Italia è un paese sviluppato e che ci troviamo nel 2020. Ricette valide per l’800 o per i paesi arretrati difficilmente torneranno utili per noi, per tacere di questioni legate ai tempi di realizzazione delle opere pubbliche etc.
]]>Si tratta di un meccanismo culturale molto importante, che ha avuto un ruolo cruciale nel declino degli ultimi decenni e dalla cui rimozione dipendono le possibilità di riscatto per il nostro paese nei prossimi anni.
Siamo in Norvegia e un pianista molto famoso a causa di un incidente perde una mano.
Agli occhi del paternalismo italico non c’è dubbio che si tratti di una tragedia irrimediabile, buona per alimentare talk show ed editoriali melensi. Ovvio che gli si debba garantire una pensione a vita, poiché lo sfortunato null’altro potrà fare se non struggersi fino alla fine dei suoi giorni. Sul quanto corrispondergli e come finanziare questa erogazione è sconveniente interrogarsi e che ci pensino pure i vili ragionieri deputati alla poco nobile incombenza di far quadrare i conti della serva.
Gli scandinavi però la pensano diversamente.
]]>Non è un caso che l’economia, che studia come gestire al meglio queste risorse, sia anche nota come “scienza triste” e che, periodicamente, venga additata come capro espiatorio per tutti i mali del mondo.
In tempi più recenti, considerando che i miracoli e la magia, pur restando abbastanza in alto nella classifica dei best seller, hanno perso parte del loro appeal tradizionale, il diavolo tentatore dell’abbondanza senza limiti ha scoperto l’efficacia mediatica di un binomio accattivante: “creazione” e “moneta”.
A ben guardare, si tratta del delitto perfetto, il primo termine evoca meraviglie ancestrali e la possibilità di superare le leggi di conservazione dell’energia, il secondo rientra tra i simboli più diffusi ed efficaci del valore materiale, della concretezza e dei “piedi per terra”.
Passando dai concetti astratti alle persone, stiamo dicendo che l’aspirazione umana a trascendere i limiti del mondo materiale incontra il pragmatismo criminale dello schema Ponzi e partorisce un mostro a due teste: l’opportunista tattico fa credere agli altri (talvolta anche a se stesso) che sia possibile ottenere risorse dal nulla, ma al tempo stesso è consapevole che i vantaggi immediati saranno ottenuti a spese di qualcun altro, che si tratti delle generazioni future, dei cittadini di un altro paese o di un altro gruppo di persone all’interno della stessa nazione.
Per smentire i racconti miracolosi sulla creazione di ricchezza dal nulla, dovrebbe essere sufficiente una veloce rilettura di Pinocchio, in particolare del capitolo riguardante il campo dei miracoli. Le brevi spiegazioni di questo post saranno dunque indirizzate a combattere l’argomento mostruoso appena descritto, concentrandosi sulla seconda testa, quella più insidiosa e pericolosa, perché invece di inseguire l’ideale di un pasto gratis che non può esistere, persegue per vie traverse l’obiettivo deprecabile di scaricare il conto su qualcun altro.
]]>Sulle forme dell’indebitamento si è già scritto molto; i pro ed i contro delle opzioni sul terreno sono chiare e la scelta, ora, rimane alla politica. Per quanto riguarda, invece, la possibilità di effettuare una temporanea redistribuzione del reddito a sostegno della domanda aggregata la discussione s’è incentrata sull’eterna torta in cielo: la tassa sui “grandi patrimoni”. Data la particolare composizione della ricchezza privata italiana (tanti immobili e tanto debito pubblico) la patrimoniale costituisce, da sempre, una pessima idea. Nelle attuali circostanze sarebbe puro suicidio: anche tralasciando l’esodo delle poche grandi ricchezze residue, tassare il patrimonio quando è sottovalutato conduce a realizzi tanto improvvidi quanto dannosi. Distruzione di ricchezza immobiliare privata a parte, l’effetto più probabile sarebbe una fuga dal debito pubblico proprio nel momento in cui le casse dello stato abbisognano dell’opposto!
Concentriamoci quindi sull’ipotesi di un trasferimento temporaneo di reddito da chi lo vede rimanere costante o aumentare verso chi deve forzosamente accettarne una riduzione. Tale trasferimento è implementabile, quasi totalmente, attraverso un’imposta addizionale straordinaria collegata ad un credito d’imposta, altrettanto temporaneo. Imposta e credito vanno collegati da un vincolo di destinazione: il gettito dell’imposta addizionale dovrebbe andare tutto e solo a copertura del credito d’imposta.
Ogni persona che dichiari un reddito pari o maggiore alla media dei due anni precedenti sarà soggetta ad una imposta addizionale straordinaria. Tale imposta varierà in modo progressivo al crescere dello scaglione di reddito, essendo uguale a zero sui redditi uguali o inferiori ad un valore minimo che stimerei attorno ai 15mila euro. Viceversa, ogni persona che dichiari un reddito inferiore alla media dei due anni precedenti avrà a disposizione un credito d’imposta da determinarsi in funzione della media ponderata di due variabili: lo scaglione di reddito (fino ad un massimo) e la diminuzione di reddito sofferta (sino ad un minimo). Quando quel massimo o quel minimo vengono superati il credito d’imposta si azzera.
Ho azzardato solo il limite inferiore di reddito sotto il quale non andrebbe applicata alcuna imposta addizionale perché, in questa sede, ritengo cruciale stabilire anzitutto i principi socio-economici su cui questa proposta si fonda. I dettagli numerici possono esser ragionevolmente formulati solo dopo aver preso in debito conto sia variabili di sostenibilità politica sia quale possa essere l’indebitamento addizionale massimo possibile che eviti tensioni sui tassi d’interesse.
Ho voluto indicare un limite sotto il quale l’addizionale non andrebbe applicata sia per evitare l’iniquità di tassare i milioni di pensionati e lavoratori precari che stan sotto quella soglia sia per sottolineare che anche una piccola addizionale (nell’ordine del 5%-8%) che parta da redditi medio-bassi manderebbe un forte segnale di solidarietà sociale verso le categorie più colpite. Vale la pena sottolineare, inoltre, che lo schema proposto non avvantaggia il lavoro nero e l’evasione ma, anzi, li punisce. Chi negli anni scorsi avesse lavorato in nero o dichiarato redditi ridicolmente bassi avrebbe gravi difficoltà a provare una ulteriore caduta del proprio reddito al fine d’ottenere il credito d’imposta.
È fuor di dubbio che il gruppo di maggior consistenza numerica fra coloro che dovrebbero sopportare l’imposta addizionale sia composto da pensionati e dipendenti pubblici con redditi superiori alla soglia minima, anche se non mancherebbero svariati milioni di lavoratori del settore privato. Il gruppo che dovrebbe pagare l’addizionale include, dunque, gli operatori sanitari e della protezione civile ed altri impegnati in prima linea a combattere l’epidemia: tassarli ulteriormente sembra una pessima idea. Questo danno collaterale è però facilmente evitabile attraverso degli adeguati bonus a carico delle amministrazioni pubbliche da cui questi lavoratori dipendono. Tali bonus dovrebbero, in sede di conguaglio fiscale, compensare per la tassazione addizionale o, se del caso, aggiungere un premio di produzione laddove appaia giustificato.
Riassumendo: addizionale e credito d’imposta dovrebbero essere squisitamente temporanee (anno fiscale 2020 e 2021) ed avere un impatto netto pari a zero sul bilancio pubblico in forza di un vincolo di destinazione. Il combinato disposto agirebbe sia di sostegno alla domanda aggregata, sia come fattore di contenimento del debito pubblico, sia come ammortizzatore sociale a fronte dei drammatici effetti redistributivi (aumentata disuguaglianza) che il virus e le misure prese per combatterlo stanno avendo ed ancor più avranno.
Questo e le altre misure di sostegno finanziario ad imprese e famiglie che in questi giorni si vanno discutendo sarebbe però del tutto inutile in assenza della mossa zero di politica economica: mettere pubblicamente ed esplicitamente in marcia il processo di graduale ritorno alla normalità. In assenza di questa fondamentale scelta strategica non vi è misura fiscale o finanziaria che tenga.
[fonte: ilsole24ore]
]]>Vorrei chiarire la profonda differenza (che potrebbe essere alterità, ma non dipende da me) fra la proposta che, a nome di un gruppo di lavoro interdisciplinare, ho iniziato ad avanzare in varie sedi (qui e qui due esempi) e le recenti affermazioni secondo cui "Bisogna consentire che la vita riprenda. E bisogna consentirlo ora. […]". Faccio questo per una semplice ragione: confondere il grano con il loglio rovina il grano e fa crescere il loglio. Se il loglio vuole aiutare il grano (come sarebbe auspicabile) lo faccia usando il potere politico e governativo di cui dispone ed eviti le uscite promozionali prive di appropriato supporto tecnico. Queste uscite non sono solo innecessarie, sono anche dannose.
La mia affermazione intende essere precisa e vale per Renzi come per qualsiasi altro esponente politico, al governo o all’opposizione. Oggi il Paese ha bisogno di un piano di convivenza pluriannuale con questa infezione e questo piano – per essere elaborato, verificato, testato ed implementato – ha bisogno di enormi risorse intellettuali ed operative. Ha bisogno di specialisti veri e di risorse ad essi dedicate. Ha bisogno di una burocrazia efficiente, trasparente, disponibile e cooperante, non di quella cosa che abbiamo visto ancora una volta in azione dalle prime settimane di gennaio. Ha bisogno di personale governativo che eviti i proclami e lavori su complesse questioni tecniche o che, se non è in grado di farlo, si dimetta e lasci posto a chi conosce le materie necessarie per gestire un’emergenza di questo genere. Ha bisogno di dati, coordinamento nazionale, volontà politica ferrea e cooperazione fra ogni parte politica e sociale con una messa non in secondo ma in decimo piano degli incompetenti e delle bandierine di partito da piantare su questa o quell’altra iniziativa. Il paese avrebbe avuto bisogno che tutto questo accadesse in gennaio e che allora venisse richiesto e fatto. Non è successo, amen. Facciamolo ora evitando i proclami ma agendo nei luoghi del potere politico (se si è al governo, come nel caso di Italia Viva, ma anche se si è all’opposizione, come nel caso di Lega e Fratelli d’Italia) perché questa iniziativa venga avviata e venga affidata a persone competenti.
Approfitto per chiarire alcuni punti essenziali che caratterizzano la proposta di convivenza con il virus di cui mi sono fatto portavoce e che un recente articolo – senza intenderlo – può aver dato l’impressione d’associare all’uscita alquanto propagandistica ed imprecisa di Matteo Renzi.
La periodizzazione proposta da Renzi è ridicola e basta da sola a provare che non ha le competenze per anche solo comprendere il problema. Se vuole essere utile trovi le risorse e lasci fare ad altri. Io ho parlato di un processo che potrebbe iniziare, se i dati evolvono positivamente, in due o tre settimane, non il 4 aprile. Scuole, chiese e similia devono ragionevolmente rimanere chiuse sino al prossimo autunno. Il problema vero è di garantirsi che quelli ed altri servizi vengano comunque forniti con altri metodi.
La parte centrale dell’articolo elenca, correttamente, le aree di maggior crisi attuale. Omette però di menzionare che in altre zone dell’Italia, dell’Europa e del mondo le cose vanno diversamente. Occorre dire chiaramente – per doloroso che possa essere – quali errori (vedremo dopo se dovuti alla mala sorte o alla cattiva amministrazione) siano stati fatti in alcune aree e come le esperienze positive possano essere imitate. Questo è quanto si chiede ma né il mondo politico né, duole dirlo, quello mediatico, sembrano interessati a questo controverso ma necessario lavoro.
Viene poi l’errore più pericoloso. Come, sino al 22 febbraio, non si è pensato/discusso di come gestire la pandemia che si sarebbe certamente manifestata – oscillando fra narrative di tragedie (che si sognava avenissero solo altrove) e dibattiti televisivi sul nulla – oggi dobbiamo anche pensare e pianificare il futuro mentre gestiamo il presente. Razionalmente, freddamente e con una rigida divisone dei compiti fra le differenti competenze tecniche ed operative capaci di fare una cosa o l’altra.
Ed infine, dispiace dirlo, la retorica secondo cui non siamo “meri ingranaggi produttivi, sacrificabili se necessario …” va gettata alle ortiche per sempre. Questa dicotomia è sia falsa che dannosa: la nostra salute, la nostra sicurezza, il nostro vivere bene o anche solo decentemente dipende strettamente dalla nostra capacità di produrre in modo efficiente e sicuro. La nostra civiltà si regge sulla capacità, sviluppata negli ultimi cinque secoli, di rendere compatibili – meglio: supportanti l’una con l’altra – queste due finalità. Vivere bene e in salute sono la stessa cosa e di questo dobbiamo oggi discutere scientificamente e pubblicamente per elaborare nuove maniere di farlo in un contesto epidemiologico radicalmente mutato. Hic rodus hic salta.
[fonte: Fanpage.it]
]]>Il piatto della sanità è molto ricco, ma lo è per pochi. L’unica cosa certa è che a pagare sono sempre i cittadini e gli operatori sanitari più prossimi al paziente.
Con una atto scritto in agosto, la Giunta Ceriscoli ha attribuito una consistente quantità di denaro a otto case di cura e tra queste, alcune beneficeranno di cifre considerevoli. Vediamo le cifre:
Descrizione | Importo |
---|---|
Budget per prestazioni rivolte ai residenti della regione | |
Attività ordinaria | 161.573.534,70 |
Lotta a tempi di attesa e mobilità passiva | 24.430.000,00 |
Liste di garanzia | 18.660.768,00 |
Budget per prestazioni inerenti la mobilia attiva | |
Mobilità attiva interregionale | 105.744.363,00 |
Totale erogato dalla Regione alle Case di cura private per gli anni 2019, 2020, 2021 | 310.408.665,70 |
I beneficiari sono le Case di cura Villa Igea (AN), Villa Serena(AN), Villa dei Pini (MC), Villa Alba (AN), Marchetti (MC), Villa Verde (FE),Villa San Marco (AP), Stella Maris di San Benedetto (AP).
Che dire, facile fare impresa quando si parte da un fatturato assicurato ogni anno e sei anche garantito dal fallimento; ma qui la garanzia sono i soldi dei cittadini che versano con le tasse.
Ma le ‘curiosità’ trovate nei documenti della regione vanno bel oltre.
Alla ‘Casa di Cura Stella Maris di San Benedetto” è stato riservato un ulteriore trattamento speciale molto vantaggioso. Questa società, come riporta lo stesso DRG quasi con sfacciata arroganza, è soggetta a procedura fallimentare. Ma la Giunta Regionale ha deciso di salvarla da questa procedura destinandogli ulteriori soldi pubblici:
Risorse destinate alla Casa di Cura Stella Maris di San Benedetto 2019-2021 per salvarla dal fallimento | Importo |
---|---|
Risorse recuperate dalle altre Case di Cura della Rete Aree Vaste 4 e 5 | 1.000.000 |
Contributo regionale per l’anno 2019 | 600.000 |
Contributo regionale per l’anno 2020 | 1.100.000 |
Contributo regionale per l’anno 2021 | 1.100.000 |
Totale | 3.800.000 |
Perché Ceriscoli ha deciso di deviare denaro riservato alla sanità pubblica, per salvare dalla procedura fallimentare la società gestore della ‘Casa di Cura Stella Maris di San Benedetto’?
Per salvaguardare i livelli occupazionali come scritto nello stesso DRG? E’ allora perché non offrire analogo sostegno a tutte le aziende private che si trovano nella stesse condizione, se è questa la prassi decisa dalla Giunta guidata da Ceriscoli? E perché non destinare questi soldi alle strutture sanitari e pubbliche?
Va anche sottolineato un’ulteriore disparità di trattamenti tra le varie Case della Salute, perché quelle facenti parte delle Aree Vaste (AV) 4 e 5, beneficiano di molte più risorse finanziarie per oltre 16milioni di Euro.
Ma perche l’AV 4 e 5 sembra avere più appeal su Ceriscoli? Un po’ di pazienza, prima occorre introdurre un altro tassello.
L’Ospedale di Sassocorvaro (in Provincia di Pesaro e Urbino) è stato trasformato anni fa in ospedale di Comunità. Il Governatore Ceriscoli, nella stessa struttura, ha poi però autorizzato la nascita della Casa di Cura ‘Villa Montefeltro’ affidandogli in convezione 12 posti letto di day surgery. In seguito iniziano una serie di documenti regionali che, a piccoli passi, fanno crescere i numero di posti accreditati. Con il DGR 602/2019, i 12 posti vengono trasformati in posti letto di Chirurgia Generale, poi con un altro decreto dirigenziale del 10 giugno alla stessa si aggiungono altri 42 posti letto posti letto per acuti.
Tutte queste operazioni sono decisamente anomale ai sensi del DN 70/2015, che prevede che le case di cura abbiano almeno 60 posti letto.
La gestione Casa di Cura Villa Montefeltro, che si trova nell’entroterra della provincia di Pesaro, è in mano a un imprenditore, lo stesso che gestisce, in varie forme anche le case di Casa di cura San Benedetto s.p.a, che si trova nell’AV 4 e la Casa di cura villa san Marco che si trova nell’ AV 5 tutte beneficiarie dei generosi contributi regionali.
Ma perché Ceriscioli invece di perdere tempo in questi artifici non si dedica maggiormente alla corretta gestione della sanità regionale?
Perché questi artifici non sono stati utilizzati anche per gli ex ospedali di Fossombrone, Cagli, Chiaravalle, Cingoli, tutti chiusi da Ceriscioli?
La risposta in parte si trova nelle righe del DM 70/2015 che prevede che non siano più accreditabili nuove strutture con meno di 60 posti letto per acuti, ed ecco trovata la soluzione: Villa Montefeltro fa parte della Rete d’Impresa AAVV 4/5 nonostante una distanza stradale che varia da 170 ai 230 km, cosi facendo la ‘rete’ può vantare oltre 60 posti letto e continuare a beneficiare di soldi dalla regione.
E per concludere arriviamo a Fano (PU) dove si vorrebbe far nascere una clinica privata con 50 posti letto accreditati, ancora una volta al di sotto del numero di posti letto previsti dalla normativa nazionale.
Scommettiamo che ci saranno altri artifici?
]]>
Questo avviene essenzialmente per due motivi:
Sulla base di questi due presupposti vengono costruite una serie di narrazioni ingannevoli quali:
Per il debunking logico di questi punti rimando ad un articolo dal titolo “L’ossessione dell’evasione”
Per chiarirsi le idee su questo argomento tanto frainteso suggerisco di partire dalla “Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva – anno 2019” e in particolare dalla tabella 1.C.1: GAP DELLE ENTRATE TRIBUTARIE E CONTRIBUTIVE (MILIONI DI EURO)
]]>
Iniziò Karl Marx, approssimativamente 150 anni fa. Non fu il primo a sostenere che il sistema economico-sociale esistente potesse essere ridisegnato a tavolino da qualche illuminato pensatore, ma fu il primo a formulare l’approccio adottato ancor oggi da Financial Times, novella mosca cocchiera della réforme sociale. Esso si fonda su tre, fantasiosi, ipotesi: (i) esiste una forma di organizzazione sociale, omogenea e monolitica, chiamata “capitalismo”; (ii) essa è guidata da leggi e princìpi disfunzionali che impediscono il raggiungimento di un benessere sociale altrimenti possibile; (iii) esiste un modello alternativo e superiore, raggiungibile attraverso l’azione collettiva, guidata dalla politica ed illuminata dai cultori delle scienze sociali che hanno elaborato in salotto il modello alternativo.
Che, in conseguenza della natura fantasiosa dei suoi assiomi, tale approccio non abbia mai, ma davvero mai, funzionato – e abbia anzi, se perseguito, condotto orrendi fallimenti e immani tragedie – non sembra aver scalfito la certezza dei credenti nella palingenesi sociale. L’ultima esperienza saliente è di circa dieci anni fa, ai tempi della crisi finanziaria: un’armata di pensatori proclamò la fine del capitalismo e l’avvento d’una nuova èra. L’unico risultato tangibile di tanto predicare fu (nella migliore tradizione capitalistica) l’arricchimento di un certo numero di cultori del doom & gloom, a simbolo del quale ricordiamo tutti una sfarzosa jacuzzi su di una terrazza in Tribeca, NYC. Fatti alcuni aggiustamenti tecnici e ripulito il mercato degli zombie, lo stesso sistema ci ha regalato l’espansione più lunga della storia.
Va dunque tutto bene, madama la marchesa? Assolutamente no, ci mancherebbe. Moltissime cose non funzionano e in molti angoli del mondo, Italia in primis il meccanismo della crescita si è andato inceppando, in molteplici punti, oramai da parecchi anni. In altri paesi, invece, esso ha iniziato a funzionare come mai aveva fatto prima. Un esempio fra i cento possibili: a causa del “capitalismo”, in quel disperato paese chiamato Etiopia il reddito reale per-capita cresce al 5 per cento all’anno da più di un decennio. Il mondo è interessante perché è sia vario che complesso. Qualsiasi analisi socio-economica che prescinda dalla varietà e complessità del mondo in cui viviamo, cercando d’inscatolarlo in categorie dicotomiche vecchie di decenni, è di scarso aiuto sia alla comprensione che alla riforma, del medesimo.
Non ha senso parlare di “capitalismo” come se fosse un’organizzazione sociale monolitica. Non vuol dire che tutto va bene, molte cose non funzionano. Ma se si indaga sulle origini storiche e le determinanti dei fenomeni monopolistici denunciati, si scopre che il ruolo dello “stato” è più importante del “mercato”
Il programma intellettuale e politico che l’Ft propone soddisfa perfettamente il modello delle tre ipotesi fantasiose menzionato sopra. Se va bene esso produrrà lustro e fama per i suoi teorici. Se va male potremmo dover sperimentare alcune varianti contemporanee della Novaja Ekonomičeskaja Politika tinta di un apocalittico verde ... quindi facciamo i debiti scongiuri e riflettiamo su quel che ci viene proposto.
Come anche l’Ft implicitamente riconosce, la parola “capitalismo” (quando ha un senso compiuto) indica l’esistenza della proprietà economica privata e la contrattabilità delle prestazioni lavorative. L’Italia di oggi e quella di 2000 anni orsono soddisfano questi requisiti, i quali valgono anche per la Russia di oggi e quella del secolo XVIII o per la Cina dei Ming e quella di Xi Jinping. Capitalismo, quindi, indica quasi tutto e, di conseguenza, quasi niente: discuterne in questi termini è una perfetta perdita di tempo. Infatti, i poteri di monopolio esistono oggi in certi settori e non in certi altri e in certi paesi e non in certi altri. Se questo ci preoccupa – chi scrive lo è da tempo – l’unica cosa utile da fare è focalizzarsi non su una supposta crisi del sistema capitalistico ma su patologie specifiche che, frequentemente, hanno origini politiche e non economiche.
Così facendo si arriva a scoprire che la crescita del potere di mercato di alcune aziende e la conseguente concentrazione monopolistica di alcuni settori è solo molto vagamente dovuta a delle leggi generali del sistema “capitalista”. Basti pensare al trasporto aereo ed alle telecomunicazioni negli Stati Uniti, alla rete autostradale e al servizio ferroviario in buona parte dell’Europa, alla fornitura dei servizi energetici da entrambi i lati dell’Atlantico o, per cambiare continente, al sistema bancario giapponese. O, per rimanere vicini a casa, ai servizi privati di trasporto urbano nelle città italiane, ovvero ai taxi. O alla proprietà immobiliare ad Hong Kong ...
Se si indaga sulle origini storiche e le determinanti attuali di questi fenomeni monopolistici si scopre che il ruolo dello “stato”, delle sue concessioni e del suo intervento in qualità di regolatore è probabilmente più importante di quello del “mercato”. La qual cosa non implica, ovviamente, che si tratti ora d’iniziare a scrivere ampollosi saggi sulla “crisi dello stato” (che magari c’è, ma non certo a causa delle concessioni di Atlantia) ma di sedersi, invece, sobriamente al tavolo per capire la sequenza di scelte politiche e l’intreccio di gruppi d’interesse economico, sociale ed elettorale che hanno condotto a questo o quell’altro fenomeno di monopolio socialmente dannoso.
Un esempio rilevante – a cui ho dedicato una certa attenzione negli ultimi due decenni e che considero, alla luce di dati e fatti, come il fattore principale (non l’unico) della visibile crescita nella concentrazione monopolistica in alcuni settori – è quello della legislazione sulla proprietà intellettuale: brevetti, copyright e trademark. Essi generano vaste rendite monopolistiche e impediscono concorrenza, innovazione ed entrata di nuove imprese. Nessuno di essi costituisce, di per sé, una caratteristica essenziale del “capitalismo”. Essi sono, invece, il prodotto dell’interazione fra gruppi d’interesse economico e la discrezionalità del potere politico nel concedere o togliere privilegi in funzione della costruzione del consenso ad esso necessario. Se si ha davvero a cuore l’adozione di concrete misure che riducano il potere di monopolio e le nocive rendite ad esse conseguenti, molto meglio concentrarsi, per esempio, sui dettagli tecnici di WIPO e brevetto europeo che non dedicarsi alla retorica del capitalismo in crisi.
Anche perché, venendo alla terza fantasiosa ipotesi, non esiste alcun sistema alternativo disegnabile a tavolino da sostituire a quello esistente. Quest’ultimo, da sempre, evolve endogeneamente per effetto di milioni di sollecitazioni sociali, innovazioni tecnologiche, cambiamenti demografici e politici, modificazioni nei parametri culturali e valoriali delle persone. Il caso dell’impresa che massimizza il profitto ignorando tutto il resto, l’altro asse su cui Ft ci chiede di concentrarci, ne costituisce un perfetto esempio. Non vi è nulla di prescrittivo nella “teoria” dell’impresa che massimizza la ricchezza dei propri azionisti sotto i vincoli imposti dal mercato e dall’ambiente regolatorio in cui opera. Si tratta di una (francamente banale) osservazione che descrive il comportamento delle imprese che durano nel tempo. Sotto quali vincoli tale massimizzazione avvenga dipende, appunto, da migliaia di fattori fra i quali vi sono, non per caso, i sistemi valoriali dei consumatori (se inquini non compro), dei lavoratori (se devo lavorare ad un fine che disapprovo richiedo un salario maggiore) e degli azionisti stessi (se censuri non mi piego e rinuncio al tuo mercato).
Anche in questo tema, come nei precedenti, il capitalismo c’entra come i cavoli a merenda. C’entra l’analisi, caso per caso, dei sistemi di incentivi all’interno dei quali le imprese operano e degli effetti concreti che tali incentivi hanno sulle loro scelte. Effetti che a volte possono essere anche dannosi – i pasti gratis non esistono – ma che occorre comprendere per mezzo d’una analisi non ideologica del funzionamento delle imprese esistenti nel capitalismo di qui ed ora, non in quello immaginato dalle mosche cocchiere della réforme sociale.
[Fonte: ilFoglio]
]]>Il consenso politicamente corretto di questi giorni dice che:
Tutto sbagliato, tutto da ripensare. La nostra opinione di Salvini è pessima, quindi non valutiamo positivamente il suo arrivo al potere. Ma l’accordo con il pensiero comune politicamente corretto finisce qui. Tutto il resto è puro wishful thinking che, se trasformato in pratica politica, causerebbe danni ancora maggiori di quelli di cui già soffriamo.
Salvini è tante cose sgradevoli ma non è né scemo né suicida: sa benissimo che uno scontro diretto con i mercati finanziari per l’uscita dall’Euro provocherebbe una catastrofe
Ci permettiamo quindi di sottomettere alla vostra attenzione le seguenti cinque proposizioni alternative, forse politicamente scorrette ma decisamente più realistiche. Oltre all’accettazione della realtà attuale e dei fatti storici, esse si fondano su due semplici presupposti. Che Matteo Salvini è tante cose sgradevoli ma non è né scemo né suicida: sa benissimo che uno scontro diretto con i mercati finanziari per l’uscita dall’Euro provocherebbe una catastrofe simile a quella greca. Che un governo PD-Cinque Stelle applicherebbe passivamente l’aumento Iva senza contrattare nulla con la Ue e non riuscirebbe a far nulla di concreto perché diviso su tutto il resto. Permetterebbe inoltre a Salvini di scatenare le piazze contro la truffa del palazzo, e in questo caso il leader della Lega non avrebbe nemmeno torto.
Se si sta cercando di fare il possibile perché il paese entri in una situazione di conflitto socio-politico simile a quello degli anni ’70, questa è senz’altro un’opzione da considerare.
Dunque, a nostro modo di vedere le cinque proposizione alternative sono le seguenti.
1) Un governo Salvini Berlusconi Meloni sarebbe dannoso, ma non necessariamente più dannoso di quello che sta tirando le cuoia. La sua dannosità dipenderà sia dalla sua forza parlamentare sia dai contenuti alternativi che le eventuali opposizioni saranno in grado di esprimere.
2) Salvini ha staccato ora la spina perché l’ignavia del Presidente della Repubblica, dell’opposizione e dei suoi ex-alleati gli hanno consegnato tutto quello che attendeva per farlo. Nell’ordine: una legge sulla “sicurezza” che corrisponde ai suoi desiderata e rispetta la sua più importante promessa elettorale; un totale dominio del dibattito politico ed il controllo dell’80% del sistema mediatico; un casus belli (TAV) che dimostra come gli ex-alleati siano contro gli investimenti e la crescita economica che il Nord produttivo chiede mentre lui è dal lato opposto. Salvini vuole fare la legge di bilancio per il 2020 (e 2021 e 2022, eccetera) solo che intende farla nei suoi termini e senza dover scendere a patti con idiozie assistenziali e pseudo-ecologiche derivate dall’ideologia tutt’ora dominante a sinistra.
3) Salvini non ha mai avuto alcuna intenzione di uscire dal sistema Euro. Ha utilizzato gli scemotti no-euro, fra gli altri, per compattare dietro a se le frange più estreme del mondo sovranista e togliere voti al partito della Casaleggio Associati che li aveva inizialmente attratti. Salvini intende, forse, logorare nel tempo l’Unione Europea (se è vera l’ipotesi secondo cui coopera con Putin) e certamente vuole tenere aperto un conflitto di variabile intensità con la medesima per poter soddisfare il nazionalismo vittimista di una parte molto consistente del suo elettorato. Ma non intende provocare l’uscita dall’Euro. Egli dirà agli altri paesi UE: “ho bisogno di una eccezione biennale o triennale al sentiero di rientro dall’eccesso di debito/deficit, come altri paesi hanno avuto in circostanze particolari. Ne ho bisogno per fare riforme e investimenti pubblici, poi convergeremo sul sentiero inizialmente concordato”. E troveranno una maniera di patteggiare.
Il “pericolo” leghista non si batte con le furbizie di uno stile di far politica che la rivoluzione populista ha oramai sepolto
4) La coalizione in difesa dell’euro diventerebbe un’armata Brancaleone in marcia contro un nemico inesistente. Priva di alcuna altra proposta positiva (perché divisa su ogni tema altro dall’Euro) a fronte di un Salvini che parlerebbe (come ha cominciato a fare, senza che molti se ne siano resi conto) di riformare la giustizia, la scuola, le infrastrutture, l’autonomia regionale, il fisco e così via. L’uomo dei “Sì per gli italiani” contro l’armata dei politicanti che sanno solo dire no ed obbedire ai diktat di Bruxelles! Un invito a nozze migliore non si può immaginare.
5) Il “pericolo” leghista non si batte né con le furbizie di uno stile di far politica che la rivoluzione populista ha oramai sepolto né con il terrorismo psicologico dell’Italexit. Si batte con una proposta positiva di futuro per l’Italia – una proposta che sia più convincente, credibile ed attraente di quella salviniana, soprattutto per quell’enorme fetta di elettorato che ora sta seduto in panchina a guardare. Questa proposta oggi non esiste nemmeno lontanamente e di questo merita preoccuparsi, non dei trucchi di palazzo e di uno spauracchio che non esiste. Hic rodus hic salta.
[fonte: Linkiesta]
]]>Non solo perché sono pura spazzatura ma perché – guardandoli praticamente solo per disgustarvi delle panzane che vengono dette e poi criticarli velenosamente sui social (cosa che fate TUTTI continuamente) – senza volerlo li favorite. Siete i donatori di sangue di quelle bestie immonde ed in parte anche i loro involontari untori.
Mi spiego.
Anche se siete relativamente pochi siete cruciali e molto più importanti di quelli che si bevono ogni panzana trasmessa nei talk show. Perché? Basta non essere ipocriti: perché siete il “bulk” di quelli che spendono! Non tutti hanno la stessa capacità di spesa e, guarda caso, capacità di spesa, status socio-economico, livello di educazione e capacità cognitive sono altamente correlati. Sorpresi? Io no! Quelle pattumiere vivono di pubblicità e la pubblicità non conta tutti gli spettatori come uguali. Per la pubblicità uno non vale uno. Uno vale la sua capacità di spesa ed il suo essere o non essere un influencer nel suo ambiente sociale e di lavoro.
Quindi voi che la capacità di spesa sopra la media ce l’avete, spegnete le maledette televisioni e boicottate i talk show. Solo cosi’ finiranno di esistere: per asfissia da scarsi proventi pubblicitari. Questa è l’unica arma oggi disponibile: il boicottaggio. Vale per i talk-show come per i quotidiani: boicottare i diffusori di spazzatura, non guardarli, non leggerli, ignorarli.
E non parlarne sui social, assolutamente mai. Parlarne, anche in negativo, è quello che vogliono da noi. Così facendo ne siamo inconsapevoli untori perché il link gira, altri lo vedono, la curiosità porta a guardare, i click si accumulano ed i soldi della pubblicità arrivano. Questo vale anche per me che – qualche rara volta – cito direttamente questo o quel generatore di bufale. Fare copia e incolla, niente più link!
Boicottiamo i media che diffondono cattiva informazione. È urgente farlo.
[fonte: neXt]
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