La scuola bloccata: una recensione

La scuola bloccata, di Andrea Gavosto. Laterza, 2022

Nota: Un incontro live con l’autore è previsto sul nostro canale youtube Mercoledi’ 25 alle ore 21 per la rubrica “La mala educaciòn”.

"La scuola bloccata" di Andrea Gavosto fornisce una breve ma efficace analisi critica della situazione attuale della scuola italiana. Il libro esplora i problemi che affliggono il sistema educativo del nostro paese, affrontando in un limitato numero di pagine un notevole numero di argomenti: i problemi curriculari, la struttura dei cicli, il reclutamento e la formazione degli insegnanti, le risorse e i tempi della scuola, e così via. Gavosto fornisce una panoramica dettagliata della situazione attuale e propone possibili soluzioni per migliorare la scuola italiana. Il libro è scritto in modo chiaro e accessibile, è breve (l’ho letto in tre o quattro ore durante il mio ultimo viaggio) e rappresenta una lettura importante per chiunque sia interessato al futuro dell'istruzione in Italia e voglia comprendere le sue problematiche. È consigliabile in particolare a tutti i genitori con figli in età scolare. 

Mi soffermerò in questa recensione su alcune (poche) criticità che ho potuto riscontrare, ma spero si capisca anche che a me il libro è piaciuto molto: non credo lo avrei scritto tanto diversamente, considerando che è rivolto ad un pubblico di non specialisti. 

L’autore è ricercatore e direttore della Fondazione Giovanni Agnelli, che da anni si occupa di politiche educative tramite varie iniziative a tutti i livelli: ricerca pura, conferenze, divulgazione e informazione per le famiglie (per esempio l’eduscopio, uno strumento per orientare la scelta della scuola superiore basato sui risultati post-diploma ottenuti dagli studenti). Gavosto è per sua stessa ammissione un economista. La scienza economica negli ultimi 30 anni è entrata di prepotenza nell’analisi delle politiche educative, un po’ per interesse specifico (lo studio dell’acquisizione del capitale umano, cioè dell’insieme delle conoscenze e abilità che gli individui portano sul mercato del lavoro, è di diretto interesse), un po’ per la capacità (qualcuno potrebbe dire pretesa) delle metodologie dell’economia di analizzare anche temi di competenza meno specifica. Oggigiorno si trovano ricercatori di formazione economica in praticamente tutti i dipartimenti dove si studiano scienze dell’educazione, così come ricercatori interessati a politiche educative si trovano nei dipartimenti di economia, ma non solo: si trovano anche nei gruppi di ricerca delle banche centrali e delle varie istituzioni internazionali. Gavosto appartenendo a questa cultura tiene a supportare le proprie argomentazioni con l’evidenza scientifica esistente, ma lo fa con tatto, accompagnando con tatto il lettore fra i meandri della ricerca accademica, con le dovute citazioni, senza divagare in tecnicismi. 

Il primo capitolo inquadra le problematiche della scuola italiana confrontando i risultati riportati dalle rilevazioni internazionali con quelli ottenuti in altri paesi. Ho affrontato in passato il tema anche in numerosi articoli facilmente rintracciabili sul sito noisefromamerika, dunque ai miei venti lettori (o erano trenta?) la sostanza è nota: i risultati della scuola italiana sono mediamente scarsi a tutti i livelli (un po’ migliori alle elementari), e sono tragici in gran parte delle regioni del sud. Siccome la media è fatta da tutte le regioni, questo implica che in alcune regioni del nord i risultati sono più che decenti, il che fa sorgere la domanda: ma se vivo a Vicenza o ad Udine, devo davvero preoccuparmi dei problemi della scuola italiana? Devo farlo per spirito di solidarietà nazionale e semmai rimpiangere i premi Nobel mancati se al nord la scuola fosse migliore di quel che già è? 

Domande retoriche, ma più seriamente, le disparità interregionali sono un mistero: a parità di risorse (almeno in teoria), di regole di reclutamento e formazione degli insegnanti, e tenendo conto dell’accentramento sicuramente estremo dei curricula (uno dei problemi, ma ne parlerò sotto), come sono possibili tali divari? Purtroppo, a scapito di una ventina d’anni di raccolta di dati Invalsi, le cause sono ancora misteriose. Rimangono spiegazioni residuali: la ricerca sui “peer effects” (e cioè: studio di più perché, e solo se, incentivato a farlo da chi mi sta attorno) rivela che questi effetti esistono ma secondo Gavosto “non sono trascendentali.” Io tendo a credere che siano importanti. Di spiegazioni "culturali", o di riferimenti (sempre di moda) al capitale sociale, l’autore non fa menzione, forse per political correctness, forse perché si tratta spesso di concetti definiti piuttosto vagamente, pertanto difficili da misurare. 

Fatte le dovute premesse sullo stato dell’istruzione, il capitolo 2 affronta la problematica dei contenuti dell’insegnamento. Il 90% dei lettori sarà probabilmente sorpreso nell'apprendere che i programmi scolastici ministeriali non esistono, essendo stati aboliti addirittura da piu’ di 20 anni: dalla riforma Berlinguer del 2000 esistono solo “indicazioni” piu’ o meno generiche (a seconda della materia e dell’ordine di scuola): un professore creativo è libero di insegnare quel che vuole, con pochi limiti. L’autonomia scolastica, almeno sulla carta, per quanto riguarda i programmi non è un concetto astratto, così come la possibilità di realizzare traiettorie di apprendimento più o meno personalizzate. Il problema è quello di avere insegnanti preparati e motivati a farlo. È molto più semplice farsi guidare nella definizione dei contenuti del corso dall’indice del libro di testo, che ricalca con ogni probabilità le indicazioni ministeriali, o che comunque si rifà, magari per pigrizia degli autori stessi, ai programmi ministeriali pre-riforma. Il problema è che nelle scuole che funzionano (almeno quelle che ho potuto conoscere io per esperienza diretta, ma non in Italia), i libri non si usano più, e da parecchio tempo (e non sono sostituiti dai tablet, magari in modo approssimativo e inefficace, come invece ho potuto conoscere, sempre per esperienza diretta, in Italia). Quindi, continuiamo ad adottare i soliti libri, contenenti le solite nozioni, che ci conducono per esempio a spendere un anno cruciale allo scientifico ad insegnare trigonometria e ad ignorare la statistica (i lettori mi scusino, mia fissa personale). 

Ovviamente una differenziazione dei programmi richiederebbe docenti competenti, tema che viene affrontato in un capitolo successivo. Qui invece Gavosto sottolinea la frammentazione dei curricula: troppe materie insegnate, soprattutto nella media inferiore, ma anche in quella superiore, e al contempo nessuna possibilità di scelta di materie opzionali, alla quale si fa fronte tramite una quantità enorme di sotto-indirizzi e “curvature” che però vengono scelte prima di poter imparare le proprie attitudini e in modo praticamente definitivo ad un’età troppo giovane. 

La riduzione delle materie curricolari è stata sperimentata di recente in altri paesi, ma andrebbe accompagnata ad una riforma dei cicli scolastici, altro tema cruciale in ogni proposta di riforma, che io trovo essere la criticità più marcata dell’attuale sistema. Gavosto sostiene che i cicli andrebbero rivisti, possibilmente allungando la scuola elementare accorpando le medie, e al contempo riformando la durata degli studi e l’obbligo scolastico. Tuttavia non sembra preferire uno schema preciso, vuoi perché sa benissimo che ogni ministro di turno avrà idee personali a riguardo che rendono inutile anche la fatica di pensarci, vuoi perché non sembra avere un’idea precisa di quale sia la struttura migliore: due cicli da 6/7 anni? 7+5? 4+4+4? Nel libro vengono descritti vari modelli basati sulle esperienze francese, tedesca, e scandinava. 

Gavosto è cauto, forse persino timido, anche nei confronti dell’idea di uniformare l’istruzione superiore e introdurre ability tracking (cioè offrire corsi di diversa difficoltà nella stessa scuola) che ritiene irrealizzabile sia per lo stigma che comporterebbe la frequenza dei corsi di livello inferiore, sia perché contrasterebbe con l’equità della scuola italiana. Sembra dimenticare che il tracking già esiste, ma si fa a livello di scelta di scuola, non di classe, amplificando lo stigma, e rendendo enormemente più difficile e costoso il passaggio ad un track superiore (o inferiore, quando serve). Accenna anche alla possibilità di istituire percorsi flessibili, in cui uno studente brillante possa in una materia seguire i corsi dell’anno successivo (o precedente), a seconda delle sue attitudini. Fantascienza? Queste cose succedono davvero, in quelle
"scuole che funzionano” di cui parlavo sopra, ma richiedono un’organizzazione diversa dei curricoli (non da fantascienza).

Meno timido è il suggerimento di sottolineare e incrementare il ruolo orientativo della scuola media. Io non ne sono tanto sicuro. Davvero vogliamo spendere più tempo e risorse durante la scuola media, il ciclo di studi più deficitario nei confronti internazionali, per convincere un tredicenne a diventare perito industriale o ragioniere o a vincolarsi irrevocabilmente a studiare il greco antico per cinque anni? L’orientamento puo’ essere utile per l’università, ma oso dire dovrebbe venire naturalmente nel corso degli studi; l’idea di obbligare tutti gli studenti a spendere una settimana o più l’anno ad orientarsi per le scuole superiori (come da recentissima linea guida ministeriale) quando, come documentato nel primo capitolo, in molte regioni il 70% non sa nemmeno leggere e far di conto in modo soddisfacente, mi sembra assurda. La domanda di orientamento scomparirebbe se i cicli fossero riformati come dovrebbero. A nessun genitore entusiasma l’idea di far scegliere la scuola ai figli a 12-13 anni, e credo questa sia una delle poche riforme su cui sia possibile formare una coalizione con una maggioranza solida. 

Il capitolo 3 si focalizza sugli insegnanti e sul loro percorso professionale: la formazione, il reclutamento, e la progressione di carriera. In poche pagine riassume la travagliata storia del modo bizzarro in cui la scuola recluta il proprio capitale umano e le sostanziali carenze con cui viene formato (ad eccezione degli insegnanti della scuola primaria, che ricevono una formazione pedagogica specifica nel loro percorso universitario). Gavosto propende per una riforma del reclutamento che preveda un’abilitazione preventiva delle competenze (tramite una laurea abilitante oppure tramite commissioni permanenti, similmente a come avviene a livello universitario), cui faccia seguito una chiamata diretta da parte delle istituzioni, che trova preferibile a concorsi nazionali o locali. Al che il mio cervello ha intonato: You may say, I’m a dreamer, but I’m not the only one …

C’è poi la questione della carriera degli insegnanti. Sia Gavosto che molti addetti ai lavori che ho avuto modo di ascoltare sottolineano la necessità di istituire un percorso professionale che incentivi i docenti a mantenere e sviluppare le proprie capacità, e riconoscere livelli crescenti di responsabilità che premino chi si assume responsabilità organizzative, prevedendo figure intermedie tra gli insegnanti e il dirigente. Idea condivisibile, ma trovo strana l’assenza, sia nel libro che nel dibattito, dell’idea che la progressione di carriera, o anche solo il livello stipendiale, possano anche essere previste per chi insegna meglio degli altri, senza dover assumere incarichi amministrativi. Una possibile “scusa” viene dal fatto che l’insegnamento dovrebbe essere (vogliamo sognare? facciamolo!) un lavoro collaborativo fatto da un team di docenti, e che quindi il ruolo pedagogico del singolo è difficile da valutare; e che sarebbe poco incentivante all’interno di questi team innescare rivalità derivanti da una competizione salariale. Sarà, ma ancora, avendo conosciuto almeno una scuola dove la coordinazione di team di insegnanti domina sulle iniziative dei singoli, posso garantire che anche in quei corridoi dove scorre il latte e miele tutti sanno quali siano, fra i componenti del team, gli insegnanti bravi, quelli medi, e quelli scadenti. Lo sanno gli studenti, lo sanno i genitori, lo sanno i colleghi; oso ritenere che a un dirigente che non voglia chiudere occhi e orecchie, e sia meno occupato a firmare circolari, possa arrivare la notizia.

Il quarto capitolo si focalizza sulle strategie di insegnamento. L’autore prende per mano il lettore probabilmente inconsapevole dei passi da gigante fatti negli ultimi anni (diciamo trenta, ma probabilmente le origini sono anche precedenti) nei metodi di insegnamento o, almeno, in quelli che quasi universalmente la comunità educativa ritiene efficaci. Dico che il lettore è inconsapevole perché probabilmente, anche se giovane, è stato formato con metodi e tecniche tradizionali, che si basano principalmente sulla ripetizione di nozioni comunicate tramite lezione frontale. Esiste credo la quasi unanime opinione fra gli esperti che questa sia la peggiore forma di insegnamento, nel senso che non produce un efficace apprendimento concettuale che consenta allo studente di imparare ad applicare le nozioni apprese in ambiti diversi (acquisendo  capacità di astrazione), o anche più semplicemente di ritenere mnemonicamente le informazioni acquisite (la lezione di storia appresa dal professore in cattedra, ripetuta a casa, e rigurgitata a memoria la settimana successiva si dimentica dopo tre mesi). 

Piu’ efficaci risultano invece tecniche ove lo studente partecipa attivamente all’apprendimento, con modalità che lo coinvolgono direttamente attraverso dimostrazioni, discussioni, lavori di gruppo in una scala di qualità che vede al suo apice l’insegnamento ai propri pari come lo strumento piu’ efficace. Era l’idea sottostante le famose “sedie con le ruote” che dovevano facilitare la “didattica innovativa” che, effettivamente, può essere facilitata da un agile spostamento degli studenti nell’aula. Il principio non era secondo me sbagliato; sbagliata era l’idea che la rimozione di una molto specifica barriera ad una molto specifica forma di didattica potesse essere imposta dall’alto per decreto ministeriale. L’idea di far decidere agli insegnanti quali siano i tipi di strumenti di cui abbisognano i loro metodi fa fatica ad entrare nella testa di qualsiasi ministro, accentratore per natura. Nelle “scuole che funzionano”, gli insegnanti hanno la propria aula, che arredano secondo le proprie esigenze, sia con i banchi adatti, con o senza ruote, sia con gli altri strumenti specifici che la propria materia necessita. Questo in Italia non succede, sia per le carenze della formazione in corso di servizio, sia perché sembra mancare la consapevolezza anche fra gli esperti della utilità di disporre degli spazi adeguati. Gavosto sottolinea le carenze per esempio del PNRR il quale, pur destinando risorse all’edilizia scolastica, non è guidato da un preciso modello didattico che dovrebbe orientare le ristrutturazioni. Io non sono certo che tale modello debba essere imposto dall’alto.

I capitoli conclusivi si soffermano sulle motivazioni per cui le riforme sono bloccate, che sostanzialmente sono riconducibili alla scarsa capacità di coordinazione dei beneficiari (genitori, opinione pubblica), corredata anche da un’altrettanto scarsa informazione sulle problematiche, cui questo libro certamente potrebbe sopperire, se venisse letto ogni domenica dai pulpiti delle chiese al posto della prima lettura. Nella conclusione, Gavosto riassume le sue principali proposte: 1) accorpamento di scuole elementari e medie in un unico ciclo accompagnato a 2) una riduzione delle materie che preveda un passaggio più graduale ai cicli superiori con l'introduzione di materie opzionali in modo crescente; 3) introduzione di una didattica dell’orientamento alla fine delle medie e delle superiori; 4) reclutamento basato su procedure di abilitazione, e successiva assunzione, che non avrebbe bisogno di una barriera selettiva; 5) scatti di carriera che accompagnino la progressiva assunzione di responsabilità; 6) allungamento dei tempi di scuola (una criticità soprattutto al Sud). Il tutto dovrebbe essere accompagnato da 7) una costante valutazione dell’operato delle scuole, che andrebbe pubblicizzato in modo trasparente per migliorare la consapevolezza dell’opinione pubblica e le scelte dei genitori. 

Questo riassunto non rende giustizia al modo articolato, sia pure sintetico, in cui l’autore descrive le sue proposte, motivate dall’evidenza presentata nel resto del libro. Tuttavia, mi si consenta un’opinione personale, probabilmente dettata da una discreta dose di idealismo. Le proposte accennate sono tutte più che ragionevoli e desiderabili, ma mi stupisce che non si faccia un passo ulteriore: prevedere la possibilità di creare istituti che scelgano i loro cicli scolastici, la quantità di materie che vogliono imporre o lasciare opzionali, i metodi con cui insegnarle, oltre che i contenuti (che, come ora sappiamo, sono liberi dal 2000) e così via per arrivare al reclutamento e alla remunerazione e incentivazione dei propri insegnanti. E lasciare ai genitori la possibilità di decidere, tramite la scelta della scuola, quale sia il modello educativo appropriato alle caratteristiche dei propri figli. 

Questi istituti potrebbero essere realizzati sul modello delle “charter schools” e potrebbero essere gestiti da cooperative di genitori e/o insegnanti, senza scopo di lucro, finanziati dallo stato attraverso un trasferimento in funzione del numero di studenti ammessi, ma altrimenti liberi di gestire la durata degli studi, i percorsi formativi, i programmi, il reclutamento e l’incentivazione del personale (che comunque potrebbe essere soggetto all’abilitazione nelle modalita’ proposte da Gavosto), e la logistica degli edifici e degli ambienti adeguata a realizzare gli obiettivi desiderati. Non sto dicendo che tutte le scuole dovrebbero essere organizzate così, solo che il sistema dovrebbe prevederle. 

Proposta troppo idealista? Forse, ma non tanto più delle altre presentate. Sarebbe importante avanzarla, perché credo oggigiorno non esista un modello educativo perfetto, sia per quanto riguarda la struttura dei cicli scolastici, sia per quanto riguarda i metodi di insegnamento, le materie e i programmi. Come dimostrato da numerosi studi citati nel libro, non esiste un accordo sull'efficacia di molti aspetti o politiche dell'educazione. Questa varietà di giudizi non dovrebbe sorprendere, poiché ogni studente è unico e ha esigenze diverse in termini di insegnamento. Alcuni hanno bisogno di un insegnamento strutturato e diretto, mentre altri necessitano di maggiore libertà per esplorare materie, argomenti e metodi diversi. 

Uno dei difetti della scuola italiana attuale è proprio la sua eccessiva rigidità e la scarsa possibilità di scelta per i genitori nella sostanza dei fattori che contano, mascherata dalle decine di percorsi curricolari offerti dopo la scuola media inferiore. 

Concludo con una precisazione metodoologica. Questo libro sarebbe potuto facilmente scadere in un elenco delle politiche preferite dall’autore supportate con l’ultimo studio sfornato dall’NBER, “nel quale si dimostra credibilmente che… (sostituire a piacere)”. Invece, pur citando spesso vari studi a supporto delle sue affermazioni, Gavosto lo fa con cautela, senza esagerare la rilevanza dei risultati (ma senza coinvolgere il lettore divagando sui loro limiti teorici ed empirici). Aggiungo questa precisazione perché credo che la crescente attenzione all’evidence-based policy tenda a prendere come oro colato l’ultimo articolo sfornato dall’economista famoso di turno, magari non ancora passato al vaglio della peer-review, dimenticando che il consenso su questi temi arriva, se arriva, spesso dopo decenni di ricerche, dibattiti, e conferme tra gli studiosi. Si dimentica pure la tendenza, che viene dalla natura stessa delle metodologie di ricerca la cui adozione si è diffusa negli ultimi 20-30 anni, ad adottare spiegazioni monocausali dei vari fenomeni, e ad ignorare complessità, non linearità, fenomeni di equilibrio generale, etc… che nell’analisi di un sistema come quello educativo non possono che essere dominanti e che mal si prestano ad essere studiate con tecniche di causal identification, diffuse dal fenomeno che è stato denominato con una geniale operazione di marketing la “credibility revolution”. Gavosto pur presentando al lettore l’evidenza scientifica sulle diverse proposte, si fa guidare prima di tutto dal buon senso, e a mio parere questo è un grosso pregio del suo libro.  

In sintesi, "La scuola bloccata" è un libro estremamente informativo che offre una panoramica dettagliata sulla struttura e sui problemi della scuola italiana, e contiene proposte interessanti e condivisibili per migliorarla. Lo consiglio vivamente a chiunque sia interessato a questo argomento.­
 


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