Liberali italiani e fascismo, un rapporto complicato

Il 15 maggio 1921 si tennero in Italia le elezioni politiche nelle quali il fascismo entrò nelle istituzioni. Trentacinque esponenti fascisti, fra cui Benito Mussolini, furono eletti al Parlamento. Il PNF ancora non esisteva (verrà creato solo nel novembre successivo) e l’elezione dei rappresentanti di quello che fino ad allora era stato non un partito ma un movimento variegato e affatto coeso composto da reduci della prima guerra mondiale, Arditi e delusi dall’esito della guerra mondiale (la vittoria mutilata) e dalla questione fiumana, fu un tentativo di Giolitti di controllare la violenza squadrista e convogliarne le energie all’interno di quadro di contrapposizione all’avanzata della sinistra rivoluzionaria.

Lo statista piemontese, basandosi sull’esperimento avvenuto alle precedenti amministrative, aveva costituito i Blocchi Nazionali, non una vera e propria lista di partiti, bensì un raggruppamento di forze accomunate dall’intento di arginare il pericolo che una rivoluzione anticapitalista si sviluppasse prendesse forma sulla base dell’esperienza bolscevica.

I partiti politici come li intendiamo oggi ancora non esistevano e la politica nell’Italia liberale post unitaria era stata per lo più coagulata intorno alle figure più o meno carismatiche dei leader, quali appunto Giolitti, Salandra, Amendola. A sinistra invece, sulla spinta di una richiesta di partecipazione dal basso, anche questa veicolata da una forma di elitismo intellettuale, andavano formandosi i primi partiti di massa. Il principale di questi era il Partito Socialista, diviso al suo interno fra una corrente massimalista favorevole alla rivoluzione e alla dittatura del proletariato, e una riformista, incarnata da Turati, favorevole ad una transizione non violenta e progressiva.

Le difficili condizioni economiche post guerra e l’avanzare di istanze socialiste in vasti strati dell’industria e della campagna, unite alla crescente forza del Partito Socialista di ispirazione marxiana, generarono quello che verrà ricordato come il biennio rosso 1919-1921. Seppur all’inizio disorganizzate, le squadre fasciste iniziarono una serie di azioni violente contro il disordine generalizzato, soprattutto nelle regioni del nord. Due fra le più emblematiche furono l’assalto di squadracce fasciste alla sede dell’organizzazione nazionale slovena Narodni Dom del luglio 2020 e la l’attacco di palazzo Accursio, governato dai socialisti, a Bologna del novembre successivo.

Difficile dire quanto l’Italia fosse ad un passo dalla guerra civile ma è indubbio che gli industriali, i proprietari terrieri, elementi dell’esercito e della polizia e persino esponenti del governo, vedessero il movimento fascista-sansepolcrista più come un argine al pericolo di una bolscevizzazione del Paese che come una minaccia. Questa fu anche la responsabilità dei liberali e della corona Savoia: l’illusione che il fenomeno squadrista fosse controllabile e passeggero e la non comprensione che insieme al tessuto sociale stesse cambiando il modo in cui le aspirazioni politiche dovessero essere convogliate.

Per altri versi prevalse il timore di un nemico comune, la rivoluzione bolscevica, al timore che il regime liberale potesse cadere sotto i colpi di un movimento si violento ma ancora disorganizzato quale il fascismo.

Molto si è scritto se questa fu responsabilità diretta o semplice sottovalutazione. D’altra parte i liberali non furono in grado di “leggere” nel fascismo quella componente antisistema, eppure esplicitata, che aveva come nemico tanto il disordine “rosso” quanto la “mollezza” democratica e parlamentare.

Con la marcia su Roma del 28 ottobre 1922, organizzata in modo approssimativo da Mussolini, Grandi e un manipolo di camicie nere sconclusionato e dalla capacità organizzativa improvvisata (il PNF era nato appena un anno prima) crollò non soltanto il regime liberale ma anche una corrente di pensiero e un’idea di democrazia che non aveva mai saputo, o voluto, diventare moderna.

Di quegli anni tragici sono rimasti in coloro che in Italia si definiscono liberali alcuni vizi che sono in parte dovuti all’incapacità di avere una visione organica e definita del liberalismo democratico e in parte alla generale tendenza alla polarizzazione degli schieramenti, eredità dovuta in parte anche agli anni della guerra fredda.

In altre parole i liberali italiani, almeno quelli che hanno tentato di organizzare visione della società e offerta politica all’interno del quadro organizzativo partitico disegnato dalla Costituzione del 1948, non hanno mai risolto il conflitto fra una sorta di matrice elitista e la necessità di dotarsi di organizzazioni politica diffusa e autonoma. Anche durante gli anni del centrosinistra e del pentapartito non sono mai andati oltre la partecipazione passiva a dinamiche che riflettevano la contrapposizione al pericolo comunista prima e socialdemocratico poi.

Quando nel 1994 Berlusconi scese in campo, illudendo i pochi liberali che fosse giunta finalmente l’epoca di un partito liberale di massa che era mancato per tutto il secolo, questi non si resero conto che quell’iniziativa era niente altro che un tentativo, riuscito, di conservare in altre forme un sistema di potere che era stato spazzato via dagli scandali corruttivi e dai referendum elettorali. La responsabilità di questa cecità va attribuita decisamente a quei liberali, come Antonio Martino, che erano rimasti al margine del PLI e che prestarono invece sé stessi a Berlusconi nella (ri)costruzione dell’incubo comunista anche al prezzo di accogliere chiunque non fosse a sinistra, neofascisti compresi. Così facendo gli permisero di occupare uno spazio politico tendenzialmente sguarnito impedendo la costruzione di una vera offerta liberale, progressista e democratica.

Tutta l’epoca del berlusconismo, che continua fino ad oggi, è stata caratterizzata dalla polarizzazione contro un nemico a prescindere dai sistemi elettorali adottati. Il “fare contro” e non il “fare per” ha gettato le basi per la stagnazione politica, morale ed economica. In questo modo l’Italia ha continuato a galleggiare fra il bisogno di autoconservazione della classe politica, anche quella emersa dopo il 1992, e un continuo guardare al passato e ad una grandezza che in realtà non c’è mai stata.

Oggi un partito liberale non c’è; e non è detto che ciò sia un male. C’è invece un elettorato fluido e mutevole che, consapevole di vivere in un Paese culturalmente arretrato ma non disposto a riconoscere i propri errori e le proprie responsabilità, si affida di volta in volta a quel leader politico (anche il leaderismo è un lascito della storia) che promette un riscatto basato su fondamenta fragili o inesistenti. Ora è la volta di Meloni e della sua destra organizzata ma ignorante.

Una parte dei liberali (veri o presunti) sta dalla sua parte e ne difende le incoerenze e le aspirazioni vagamente autoritarie perché dalla parte opposta, altrettanto polarizzata in una visione della geografia politica novecentesca; è preferibile e più comodo stare al potere a gestire asset come la spesa pubblica che organizzare un’offerta politica che manca. Un’altra parte è disponibile a consumare energie per qualunque leader che non appaia completamente socialista (nonostante le sue azioni politiche lo rivelino inequivocabilmente).

A questo meccanismo non si sottrae la stampa che è in media schierata per affezione partitica non meno di quanto siano schierati gli stessi attori politici. Ragion per cui si assiste ad un totale asservimento partigiano di giornalisti che in uno schieramento o nell’altro preferiscono, in un’ordalia di populismo diffuso, essere giocatori in campo invece che osservatori e, magari, censori delle policies.

Qualche giorno fa uno di questi giornalisti con la divisa addosso, Nicola Porro, che conosco perché entrambi frequentammo il PLI e prima ancora la Gioventù Liberale Italiana, ha fatto questo tweet su Matteotti.

“È morto il pellegrino del nulla” disse Gramsci all’indomani dell’assassinio di Matteotti. Così tanto per ricordare. #matteotti

- Tweet di Nicola Porro, 31/05/2024

Il giudizio di Gramsci sul leader socialista rapito ed ucciso dalle squadre fasciste il 10 giugno 1924 è già stato oggetto di nota della collettività, quindi contestualizzato e, nelle forme del tweet di Porro, debunkato. Aggiungo soltanto che la corrente riformista del Partito Socialista uscita sconfitta al congresso del 1922 e che andò a comporre il Partito Socialista Unitario, era per i fondatori del PCdI di Livorno, Gramsci Terracini e Bordiga, un avversario politico e come tale andrebbero lette le parole di Gramsci.
Avversario politico ancor più insidioso perché Matteotti, come Gramsci, apparteneva a quel milieu culturale che metteva il riscatto della classe operaia al centro dell’agire politico ma che dei massimalisti e rivoluzionari, non ne condivideva i mezzi. Gramsci, fatta questa premessa, riconosceva a Matteotti la statura dell’eroe e alla sua morte il carattere del sacrificio. Giudizio affatto negativo come Porro, forse limitatosi a leggere il titolo di un articolo pubblicato su Il Giornale a firma Walter Galbusera quello stesso giorno ma di tenore e contenuti completamente differenti, vuole far credere.

Ecco l’operazione ipocrita, mistificatoria e di parte di cui si rende protagonista quasi quotidianamente il giornalismo italiano: prendere delle parole senza conoscerne il significato e usarle per fini di propaganda a dimostrare che le responsabilità dell’assassinio Matteotti non sono solo della parte politica a cui per sentimento o per convenienza si appartiene, ma anche della parte politica di cui la propria è nemica.  

Ora, se ha un senso definirsi liberali, questa condotta, questa partigianeria, questa inclinazione al compromesso e alla complicità con chi i valori propri del liberalismo non li riconosce va non solo criticata ma denunciata.

Io non credo che oggi ci sia un pericolo fascista inteso come ritorno al totalitarismo, credo invece che ci sia un pericolo più subdolo e infido che è la marginalizzazione dei princìpi di rispetto delle libertà individuali, della dignità di tutti i cittadini, della separazione dei poteri, dei fatti storici; non vedo all’orizzonte il fascismo ma il salazarismo come collante, temporaneo, della società.

L’individuazione continua di un nemico esterno, l’evocazione di un grande complotto contro il Paese con attori diversi - ora le multinazionali, ora l’Unione Europea, ora la World Health Organization, ora i migranti ma mai, mai, gli autocrati e i dittatori - mi fa pensare che il 1922 non fu un semplice errore e che la democrazia italiana forse è non fragile ma di sicuro non è neanche compiuta. La liberaldemocrazia funziona se e solo se è interiorizzata e acquisita nella cultura di un Paese.

L’Italia non lo ha ancora fatto e i liberali ne hanno una grande responsabilità.

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