Sostituzione etnica, differenzialismo culturale e razzismo contemporaneo: alcune keywords per capire la filosofia di Dugin, le derive della cultura woke e le sparate della destra populista.
Secondo alcune dichiarazioni del 2018 del politico socialista Gérard Collomb, ex ministro dell’Interno francese nel Governo Philippe ed ex sindaco di Lione, le diverse comunità in Francia starebbero combattendo sempre di più le une contro le altre. L’ex ministro arrivò addirittura a paventare una guerra civile tra la comunità islamica residente lì (cresciuta a dismisura) e il popolo francese autoctono, seguita da una vera e propria secessione all’interno del Paese: le comunità islamiche, nelle previsioni di Collomb, sarebbero andate via via separandosi dallo Stato per adottare nuove leggi fondate sul diritto islamico, il tutto per cercare di limitare la dilagante violenza scaturita dallo scontro con le altre culture. Il problema della convivenza tra etnie in Francia è da sempre molto sentito e il tema riemerge costantemente nel dibattito pubblico ancora oggi.
Analogamente, nel 2022 il ministro dell’agricoltura e della sovranità alimentare Lollobrigida ha paventato il rischio di una sostituzione etnica in Italia dovuta a fenomeno migratorio. Dopo la conferenza stampa e le prese di posizione antiscientifiche sulla carne sintetica, il timore espresso dal ministro è in parte risuonato nella stampa italiana, ma non prima che il ministro rincarasse la dose: «Credo che sia evidente a tutti che non esiste una razza italiana, è un falso problema quello di immaginare un concetto di questa natura. Esiste però una cultura, un’etnia italiana, che la Treccani definisce raggruppamento linguistico-culturale […]». Ci pare il momento di sfatare punto per punto questa falsa idea complottista, che tende a circolare negli ambienti delle destre occidentali, che hanno basato la propria brand identity anche su posizioni e affermazioni xenofobe e razziste per lunghi periodi. Perché, se da un lato i deliri del piano Kalergi parrebbero la risposta più immediata, dall’altro è utile riproporre alcune analisi antropologiche e sociologiche capaci di cogliere in modo più scientifico e analitico le cause e le caratteristiche di processi sociali così interessanti per una contemporaneità così complessa.
Nell’ambito degli studi etno-antropologici e sociali esistono numerose teorie circa la convivenza di diverse strutture culturali in una stessa porzione di spazio: alcune di queste promuovono una futura e completa ibridazione culturale, mentre altre, più pessimiste, considerano queste stesse strutture come estremamente chiuse e in conflitto tra loro. In particolare, nel suo saggio “Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale“ il politologo statunitense Samuel P. Huntington definiva quest’ultimo punto di vista con la colorita metafora di «palle da biliardo che si scontrano sul tavolo di gioco». Huntington distingueva otto civiltà mondiali (identificando come civiltà il livello più ampio di identità culturale). Alcune di queste sarebbero storicamente in conflitto tra loro, in particolare quella occidentale, che dal 1500 domina il mondo, quella islamica e quella cinese.
Proprio questa dominazione, secondo Huntington, sarebbe destinata al declino, per via di due differenti fattori sintomatici:
Per Huntington, l’immigrazione costituirebbe un elemento importantissimo per la nascita di un vero e proprio scontro armato tra le diverse civiltà. In primis, esso ha consentito una propagazione della cultura emigrante in pressoché tutti i Paesi ad influenza occidentale che, nell’ottica di Huntington, rappresenterebbero il nemico da combattere. In secondo luogo, la presenza di “soldati” in terra straniera sarebbe un vantaggio inestimabile per la civiltà islamica, in grado di monitorare e in qualche modo cercare di veicolare dall’interno il nemico occidentale. Tutto questo in modo molto simile al piano di imperialismo culturale di cui l’Occidente si è fatto portavoce negli anni e che, per il politologo americano, è causa della ferita lasciata nella civiltà islamica che tenterà in tutti i modi di sovvertire le gerarchie del dominio mondiale.
Il giurista tedesco Carl Schmitt sosteneva che la distinzione Freund/Feind, amico-nemico, fosse costitutiva delle categorie del politico. Nella dicotomia schmittiana, su cui si fonda ogni possibile dimensione dell’agire politico, il nemico non deve essere necessariamente moralmente cattivo, esteticamente brutto o economicamente dannoso. Egli è semplicemente der Fremde, l’”altro”, qualcosa di esistenzialmente diverso da noi, l’outgrup. E, se in psicologia sociale l’outgroup è sempre considerato una massa omogenea anche al netto della variabilità interna effettiva, il nemico schmittiano – inteso come hostis (lo straniero da combattere) e non come adversarius o inimicus (nemico personale) – è sempre un nemico pubblico. La cosa non è casuale e il populismo ce lo ha mostrato chiaramente: individuare un nemico comune, specialmente facendo leva su paura, diffidenza e minacce esogene di sorta, è tra i metodi migliori per unificare e compattare l’ingroup. Schmitt riteneva che l’unica soluzione per sconfiggere il nemico fosse abbatterlo, annientarlo, distruggerlo, cancellarlo dall’esistenza, e solo in quel caso la distinzione assumeva un senso.
Schmitt fu per alcuni anni il teorico del diritto del regime nazista, scelto dal Führer in persona per le sue dottrine giuridiche largamente compatibili con la missione sociale del Terzo Reich e con la visione razziale del nazionalsocialismo tedesco. Il razzismo nazista si fondava sull’idea che l’umanità fosse divisa in razze diverse e su teorie che affermavano l’esistenza di tratti intellettivi, comportamentali e culturali innati, ovvero trasmissibili ereditariamente. Si tratta di dicerie pseudoscientifiche ormai smentite da decenni (soprattutto coi lavori di Cavalli-Sforza in ambito genetico e biologico e di Taylor con il saggio “Primitive Culture” del 1871), al punto che l’antropologo italiano Marco Aime parla del presente piuttosto come di un’epoca post-razziale. Lo stesso Aime che, commentando le infelici uscite di Lollobrigida, ha detto che «Grattando la vernice delle parole di Lollobrigida viene fuori di nuovo l’idea di razza».
Il progresso scientifico ha massicciamente mutato la prospettiva su questi argomenti: nell’antropologia culturale e nella biologia contemporanee, ad esempio, è largamente supportata l’evidenza che la specie umana non possa definirsi divisa in razze, ma solo in etnie, società e popolazioni, ovvero in diverse culture che non possono essere giudicate al di fuori del proprio contesto. Fra il 1918 e il 1920, il sociologo americano William Isaac Thomas pubblicava, insieme al collaboratore Florian Znaniecki, “Il contadino polacco in Europa e in America“, uno scritto sulle condizioni degli immigrati polacchi a Chicago. La principale caratteristica era che il comportamento degli immigrati non è comprensibile senza far riferimento alla loro storia, al Paese dal quale provengono e alle motivazioni dietro l’emigrazione.
Per tornare alla Francia, nel suo saggio “Dei cannibali”, il filosofo rinascimentale Michel de Montaigne denunciava la tendenza degli uomini a considerare barbaro quanto non è nei propri costumi («Ciascuno chiama barbarie ciò che non fa parte delle proprie usanze»), con un giudizio dettato più che altro dalla forza della consuetudine, che l’autore definiva «una maestra di scuola prepotente e traditrice» (Saggi I, 23) per il peso della sua autorità. In questo primo assaggio di antropologia comparata e metaetica, il lucido confronto tra il cannibalismo dei nativi americani e gli omicidi, i supplizi e le torture all’ordine del giorno nella Francia insanguinata dalle guerre di religione rovesciava la tradizionale prospettiva eurocentrica e conduceva lo scetticismo di Montaigne a far ricadere proprio sugli europei le maggiori accuse di crudeltà e bestialità.
La specifica genesi e formazione di sistemi di credenze, etiche, costumi, simbolismi, ritualità e visioni del mondo è un lungo processo spontaneo di trasmissione intergenerazionale di consuetudini e pratiche per path-dependence ed è giustificata sempre nel (e dal) contesto spazio-temporale e socioculturale di riferimento. Sicché risulta antiscientifico e non raccomandabile, almeno metodologicamente, valutare altre culture (soprattutto tribali) senza tentare un distacco dalla propria prospettiva etica e socio-culturale, pena ricadere in analisi di carattere etnocentrico: il sociologo americano William Graham Sumner definì infatti l’etnocentrismo come l’esaltazione dei propri costumi e linguaggi da parte dell’ingroup, con la relativa svalutazione di quelli altrui. Per dirla con Montaigne, insomma, possiamo chiamare “barbari” gli antropofagi e le popolazioni selvagge solo a patto di formulare una valutazione guidata «dalle regole della ragione» e non sulla base dell’improprio confronto «con noi stessi, che li superiamo in ogni sorta di barbarie» (Saggi I, 31). Dentro o fuori dal relativismo culturale, le prassi di alcuni popoli non possono essere giudicate abominevoli o immorali, ma vanno considerate nella cultura in cui sono inserite, anche se questo non vuol dire giustificarle.
Nulla di nuovo sotto il sole, diremmo oggi: un gruppo tiene in considerazione solo i propri valori e le proprie connotazioni socio-culturali, diffidando da chi non le condivide, generalmente per motivi storici, linguistici od etnici (cioè chi è socialmente, etnicamente, linguisticamente o culturalmente distante dal gruppo di appartenenza). Di conseguenza, come riassume ottimamente Treccani, l’etnocentrismo è anche «la tendenza a giudicare i membri, la struttura, la cultura e la storia di gruppi diversi dal proprio, con riferimento ai valori, alle norme e ai costumi ai quali si è stati educati», finendo per non comprenderli, come diceva Thomas, poiché si ragiona con categorie differenti e incompatibili con quelle del gruppo analizzato.
Nel corso del Novecento, la crescente diffusione di movimenti per i diritti civili negli USA e delle tensioni razziali tra americani neri e bianchi spinse Gordon Allport e altri psicologi a studiare la formazione degli stereotipi e del razzismo, suggerendo che i pregiudizi (il fondamento psicosociale dei bias) sarebbero il risultato di un errore percettivo non meno naturale e inevitabile di un’illusione ottica. Secondo Allport, gli stessi processi percettivi che ci consentono di categorizzare in maniera efficiente gli elementi del nostro mondo sociale e fisico ci inducono anche a categorizzare in modo erroneo interi gruppi di persone e questo vale per tutti i giudizi aprioristici o parziali, da chi discrimina negativamente a chi incensa o favoreggia acriticamente un gruppo sociale o una categoria (discriminazione positiva o affermative action).
Per questi motivi, il razzismo contemporaneo si basa più che altro sulle nozioni di pluralismo e di relativismo culturale e somiglia o coincide sovente col fondamentalismo culturale. Il razzismo differenzialista emerge infatti quando si rileggono le acquisizioni dei culture studies in chiave essenzialista, ovvero considerando la combinazione tra popolo, cultura e territorio come un’essenza dotata di consistenza ontologica (l’italianità degli italiani o, nel caso di Dugin e filosofi del genere, la russità dei russi). La categorizzazione essenzialistica è solo il primo step della discriminazione razziale, seguita da stigmatizzazione e – per riprendere Montaigne – barbarizzazione: l’ovvia implicazione è che, poiché ogni popolazione è distinta essenzialmente dalle altre (confondendo i motivi storici con i motivi culturali), è necessario che esse non si mischino, che rimangano ognuna nel proprio territorio o nel proprio confine culturale. Una cosa che antropologi e sociologi come Bauman definirebbero mixofobia.
È certamente qualcosa di impossibile da sostenere sia eticamente che scientificamente, ed è una logica che sfocia nel razzismo poiché assume il presupposto che ogni popolazione nel tempo rimanga uguale e immutabile nella propria essenza e che tutti i membri che appartengono a quella “regione essenziale” siano identici. In parole povere, se siete italiani, siete uguali a tutti gli italiani e ne condividete le stesse identiche tradizioni, linguaggio, valori e mentalità. Necessariamente. Anche se credete di non condividerle. Per questo motivo non dovreste venire in contatto con altre nazionalità.
Per aprire una breve parentesi, è possibile registrare un approccio non troppo dissimile anche dall’altra parte del mondo e dello spettro politico. Il composito panorama della cultura woke e del "progressismo magico" - come lo definisce lucidamente il presidente di MENSA Italia Immanuel Casto - americani sostengono infatti da anni la Critical Race Theory che, a partire dalla teoria critica della Scuola di Francoforte, ridefinisce il razzismo come biologicamente e geneticamente fondato sulla propria appartenenza etnica. Spostando il focus dalla nazione al colore della pelle, il progressismo magico riconduce le discriminazioni sessuali e razziali non tanto a una mentalità, a una cultura che si misura sulla peculiare storia americana, ma a qualcosa di codificato nel DNA. In America sei razzista in quanto bianco, sei sessista in quanto maschio cis, sei privilegiato in quanto uomo.
In particolare, per alcune frange della woke culture il razzismo è un carattere “innato” nelle persone bianche a causa di variabili socio-culturali e psicopedagogiche: essendo nati, vissuti e cresciuti in un contesto già erede di decenni di razzismo, xenofobia e discriminazioni varie ed eventuali (oltre a una storia schiavista), i bianchi introiettano dall’educazione e dall’ambiente comportamenti, idee, credenze e tendenze definibili razziste. La grande differenza sta nel credersi o meno tali: un bianco che si definisce anti-razzista non può sfuggire a questo tratto culturale, ma può sicuramente evitare di esprimerlo e opporvisi con una condotta virtuosa.
Altre frange, più estreme e assolutamente antiscientifiche, determinano invece una vera e propria correlazione diretta e manichea tra genotipo, cultura e comportamento, riconducendo l’ineludibile razzismo dei bianchi a un tratto culturale che è stato incorporato talmente tanto nelle prassi e nella quotidianità da diventare un carattere genetico. Il tutto con la giustificazione di creare consapevolezza (da cui l’espressione wokeism) nelle persone per superare comportamenti ormai stigmatizzati, ma anche per avere un capro espiatorio da combattere o da imputare moralmente. L’unica differenza rispetto al fondamentalismo culturale di cui sopra è che viene a mancare la conseguenza mixofobica, ma per il resto fin troppe sono le somiglianze anche solo strutturali: entrambi, non a caso, mirano ad etichettare e discriminare su basi antiscientifiche e irrazionali.
Il tema del conflitto etnico, per come fu teorizzato da Huntington, non ha connessioni dirette con il razzismo differenzialista, ma visti in prospettiva parrebbero l’uno ancella dell’altro. Seppur apparentemente plausibile, tuttavia, l’ipotesi che certi politici occidentali abbiano preso spunto dalle teorie di Huntington per le loro tesi elettorali è assai improbabile: pur rispecchiando l’idea che le diverse culture “si rimbalzino tra loro”, il politologo statunitense suggeriva un massiccio intervento non tanto nell’espulsione degli immigrati, quanto nella valorizzazione della propria cultura, eventualmente assimilando i cittadini stranieri di diverse civiltà.
Lo stesso Thomas, d’altronde, individuava la chiave per evitare processi di disgregazione sociale e conflitti tra le etnie nella formazione di istituzioni capaci di permettere l’integrazione progressiva degli immigrati, come si è sempre fatto naturalmente da quando l’umanità si sposta in flussi migratori più o meno grandi. Insomma, annientare il nemico, sì, ma per renderlo amico; renderlo inoffensivo non togliendogli il fucile, ma privandolo della voglia d’imbracciarlo.