Referendum Cittadinanza: una prospettiva critica

Il Referendum Cittadinanza mira a ridurre il periodo di residenza richiesto per la cittadinanza italiana da 10 a 5 anni. Sebbene affronti l'importantissimo tema dello status degli stranieri nel nostro Paese, l'uso dello strumento referendario solleva criticità giuridiche, metodologiche e politiche che non possono essere ignorate, soprattutto nelle modalità proposte da questa specifica iniziativa.

Fonte: https://www.flickr.com/photos/andolfato/5589100445

Lo scorso 24 settembre la proposta di referendum abrogativo sul tema della cittadinanza ha raggiunto le 500mila firme necessarie, ai sensi dell’art. 75 della Costituzione, per procedere verso le successive fasi: essere sottoposta al controllo di legittimità della Corte di Cassazione, al vaglio di ammissibilità della Corte costituzionale e, eventualmente, alla sua celebrazione. La raccolta firme è stata facilitata dal nuovo metodo digitale sperimentato nel periodo del Covid-19 e utilizzato anche in occasione della proposta di referendum sull’eutanasia. Il quesito, depositato in Cassazione da +Europa, PSI, Radicali Italiani, Possibile e Rifondazione Comunista, ha ancora tempo fino a domani, 30 settembre 2024, per essere sottoscritto

Sul sito dei promotori si legge che lo scopo del referendum è quello di ridurre da 10 a 5 anni il tempo di residenza legale in Italia richiesto per poter avanzare la domanda di cittadinanza italiana. Attualmente, infatti, la legge sulla cittadinanza dispone: lo straniero, per ottenere la cittadinanza italiana, deve risiedere legalmente in Italia per almeno 10 anni. Lo status degli stranieri residenti in Italia è un tema rilevante da diversi anni, che pone delle problematiche relative ai loro diritti e alle loro opportunità all’interno del tessuto sociale e culturale del Paese.

Il legislatore non è mai intervenuto per rivedere l’attuale disciplina normativa nell’ottica di una “velocizzazione” dei tempi per ottenere la cittadinanza. L’attuale maggioranza, in particolare, si è mostrata insofferente, per non dire del tutto contraria, all’ipotesi di una revisione della legge. Ecco che, per sopperire allo scetticismo e alla inattività dei rappresentanti, le realtà extraparlamentari di opposizione stanno tentando di mettere mano alla legge per vie traverse.

Tuttavia, la scelta di utilizzare la via referendaria per proporre una soluzione e dare risposte ai cittadini italiani de facto (ma non de jure) presenta dei vizi non indifferenti da analizzare. Vizi sul piano giuridico, metodologico e politico.

 

1. Questione giuridica: i referendum innovativi non sono ammissibili

Per affrontare la questione giuridica, è opportuna una premessa. Come detto, l’art. 75 della Costituzione istituisce l’istituto referendario di tipo abrogativo: il corpo elettorale può “cancellare” dall’ordinamento una legge o una parte di essa. Nei fatti è l’unico strumento legislativo di democrazia diretta presente nel nostro ordinamento di carattere prevalentemente rappresentativo: il popolo esercita un potere legislativo “negativo”, cioè cancella una disposizione di legge vigente. La natura di tale istituto, come il suo stesso nome suggerisce, è dunque ablativa, abolitiva di norme o principi. Da tale premessa, è possibile, a contrario, affermare che l’art. 75 Cost. non ha previsto uno strumento di partecipazione popolare volto a innovare l’ordinamento o a proporre una nuova norma. In altre parole: non esiste nel nostro sistema costituzionale il referendum “propositivo”, volto a concedere al corpo elettorale la facoltà di esprimere una volontà “creatrice” di nuovo diritto.

Da ciò deriva un’altra conseguenza: l’abrogazione non deve avvenire soltanto in via formale, vale a dire attraverso la mera cancellazione di parti testuali di una disposizione di legge, bensì deve avvenire sostanzialmente. Dalla deliberazione popolare deve, cioè, derivarne un effetto abrogativo. Se, invece, la formale cancellazione di un testo normativo produce, nei fatti, una nuova norma siamo davanti ad una deliberazione incompatibile rispetto all’istituto referendario previsto ex art. 75 Cost.

La Corte costituzionale, nell’esercizio del suo compito di controllare “a valle” l’ammissibilità dei quesiti referendari proposti dai cittadini, ha prodotto una copiosa giurisprudenza sul tema. È sufficiente analizzare il caso del “quesito RAI”, presentato negli anni Novanta e dichiarato inammissibile dalla Corte con la sentenza 36 del 1997. Il quesito proponeva di abrogare solo alcune frasi di certi articoli della legge sulla RAI, al fine di "ridurre al massimo la pubblicità televisiva e radiofonica dalle reti". La Corte disse che “il fine oggettivato nella domanda referendaria appare perseguito in modo inammissibile” in quantol'abrogazione parziale chiesta…si risolve sostanzialmente in una proposta all'elettore, attraverso l'operazione di ritaglio sulle parole e il conseguente stravolgimento dell'originaria ratio e struttura della disposizione, di introdurre una nuova statuizione.”.

Nella sentenza si demonizza a chiare lettere la pratica del “taglia e cuci” o della “saldatura”, vale a dire la formulazione di quesiti referendari proponenti la cancellazione di singoli frammenti lessicali del testo normativo. Il motivo è semplice: in questo modo i proponenti intendono ricavare una nuova disposizione normativa derivante dalla saldatura dei frammenti lessicali non abrogati. I giudici della Consulta in quella occasione, inoltre, arrivarono ad affermare che la proposta di abrogare “mere locuzioni verbali…inespressive di qualsiasi significato normativo” è contraria alla ratio dell’istituto referendario, il quale, ex art. 75 Cost. è volta alla “abrogazione, totale o parziale, di una legge”, cioè di un testo normativo a tutti gli effetti e non di mere parole o frasi.

La posizione della Corte sul punto è assai consolidata. La prima sentenza che afferma l’inammissibilità di referendum fintamente abrogativi è la n. 16 del 1978. Tale giurisprudenza è stata confermata nelle sentenze nn. 28/1987, 38/2000, 40/2000, 50/2000, 43/2003 e 26/2017 (quest’ultima boccio la richiesta di referendum sul Jobs Act).

Ora, andando ad analizzare il quesito referendario sulla cittadinanza qui in esame, pare proprio di riscontrare nel testo della proposta tutti i vizi sopra evidenziati dalla Corte. I proponenti chiedono di cancellare mere frasi che, lette da sole, non hanno senso compiuto, al fine di creare l’effetto “saldatura” delle altre frasi della norma, così da creare una nuova disciplina: “La cittadinanza italiana può essere concessa…allo straniero maggiorenne che risiede legalmente nel territorio della Repubblica da almeno cinque anni; […]”. Possiamo allora affermare che tale proposta referendaria, per la sua formulazione e per il suo scopo, presenta gravi vizi di compatibilità con l’art. 75 Cost.

Oltre a tale problematica giuridica, che potremmo definire “genetica”, di questo proposito referendario, è presente una ulteriore e differente problematica legata agli effetti normativi sui diretti interessati (cioè gli stranieri in Italia) che deriverebbe dalla disposizione post-abrogazione, che potremmo far rientrare tra le questioni giuridiche. L’attuale art. 9 (interessato dal quesito referendario) della legge sulla cittadinanza, prevede due distinte discipline per la concessione della cittadinanza italiana:

  • il comma 1, lett. b), relativo agli stranieri maggiorenni adottati; si prescrive che per ottenere la cittadinanza è necessario essere maggiorenni e aver risieduto in Italia per almeno 5 anni;
  • il comma 1, lett. f), relativo agli stranieri in generale, dove si prescrive che per ottenere la cittadinanza è sufficiente risiedere in Italia da almeno 10 anni.

Il quesito referendario, a detta dei proponenti, dovrebbe accorciare i tempi per ottenere la cittadinanza. Tuttavia, analizzando la norma che si avrebbe in caso di buona riuscita del referendum, il nuovo art. 9, comma 1, lett. b) prescriverebbe due condizioni per ottenere la cittadinanza: la maggiore età dello straniero e la sua permanenza nel territorio nazionale per almeno 5 anni. In questo modo, però, verrebbe meno una facoltà oggi permessa dall’art. 9 vigente, vale a dire quella di un minore straniero di ottenere la cittadinanza ben prima della maggiore età.

Giusto per fare un esempio concreto: oggi un minore straniero giunto in Italia all’età di due anni potrebbe ottenere la cittadinanza dopo dieci anni di residenza, vale a dire già a dodici anni. Dopo l’abrogazione tale possibilità non sarebbe più prevista. Pertanto, l’effetto giuridico concreto del referendum si discosta, almeno in parte, dai propositi dei suoi promotori.

 

2. Questione metodologica: il referendum come “corpo contundente”

Analizzando questa proposta referendaria da un’altra angolazione, urge riflettere sulla sua reale efficacia e sugli effetti del metodo scelto dalle opposizioni per risolvere la questione della cittadinanza.

Se, come premesso, la Corte costituzionale dovesse (come è assai plausibile) ribadire la sua giurisprudenza e rigettare la proposta abrogativa-innovativa in esame, occorre interrogarsi sulla utilità di aver intrapreso tale modus operandi. Forse sarebbe stata una scelta più avveduta quella di raccogliere tutte le realtà sociali extraparlamentari e parlamentari attorno ad un progetto di lungo termine? Per fare un esempio, una ulteriore via “attivista” per trattare il tema della cittadinanza poteva essere quello di lavorare all’interno delle realtà politiche già esistenti, al fine di rendere prioritaria una riforma della legge sulla cittadinanza.

O ancora, volendo intraprendere la via referendaria, si sarebbe potuto costituire un tavolo di esperti volto alla strutturazione di un quesito rispettoso dell’art. 75 Cost. Tuttavia, analizzando la disciplina sulla cittadinanza con occhio distante dalle ideologie politiche e dalla spasmodica necessità di agire attraverso strumenti obliqui rispetto alla via legislativa parlamentare, appare assai difficile riuscire a ipotizzare un quesito referendario costituzionalmente ammissibile.

Nel corso della storia repubblicana una dinamica del genere è avvenuta più volte: si presenta un quesito imperfetto, purché idoneo a raccogliere un’istanza abbandonata dalla classe politica, con l’intento di raccogliere un consenso meramente numerico in grado di dimostrare che la società è sensibile a quel dato tema. In altre parole, non interessa l’obiettivo finale, vale a dire la celebrazione del referendum, ma l’aver fatto opposizione alla “casta politica”.

Non bisogna mai dimenticare lo spirito con cui i costituenti inserirono nella Carta costituzionale l’istituto referendario. Benché vi fossero diversi orientamenti (alcuni più permissivi, altri più reticenti verso la democrazia diretta) il filo rosso che accomunò tutte le posizioni fu quello di ridurre al minimo la contrapposizione tra l’elemento plebiscitario insito nelle consultazioni popolari dirette e le istituzioni rappresentative. Il Partito Radicale ha sempre usato i comitati referendari per mettere attivisti e Parlamento “muro contro muro”. Anche l’attuale proposta sulla riforma della cittadinanza, infatti, ha come primi firmatari l’ala politica radicale. Si è poi accodato il cosiddetto “centro-sinistra”; quale migliore occasione per spalleggiare l’attuale maggioranza?

Il referendum, da correttivo prezioso di democrazia diretta, diventa un corpo contundente contro “le istituzioni”, “il sistema”, “la casta”. Una lama a doppio taglio, che ferisce per lo più l’ordinamento e la sua credibilità agli occhi dell’elettore. Qui, si innestano ulteriori criticità di tipo politico.

 

3. Questione politica: l’effetto “boomerang”

Tale strategia politica non è indolore. Al contrario, porta con sé conseguenze poco salutari per l’ordinamento costituzionale e per la sua credibilità. Prima di tutto, pone il cittadino dinanzi ad un quesito “geneticamente” viziato e, dopo averlo illuso su una futura attuazione della iniziativa, lo abbandona davanti al rigetto della Corte costituzionale. E da qui, deriverà un altro grave passaggio: il cittadino si sentirà tradito dalla politica e “schiacciato” da un organo lontano e ameno come quello della Corte costituzionale (non eletta direttamente).

La politica, oltretutto, fa male a sé stessa. Se l’obiettivo primario è quello di usare la raccolta firme per aprire un dibattito con l’opinione pubblica su un dato tema, il risultato è quello di chiuderlo. Lo testimoniano i numerosi precedenti. Giusto per enumerarne un paio, possiamo ricordare il caso del quesito sul Jobs Act del 2017 e quello più recente sull’eutanasia del 2022. In entrambe le occasioni, la Corte bocciò le iniziative referendarie per gravi inammissibilità. Ne seguì un totale abbandono delle due lotte: sul Jobs Act abbiamo dovuto aspettare circa sei anni per vedere riproposto il tema all’interno del panorama politico (oggi abbiamo anche nuove proposte referendarie) e sul fronte dell’eutanasia non esiste più un pregante dibattito nazionale (per non parlare della sconfitta elettorale nel 2023 del leader del movimento pro-eutanasia, Marco Cappato).

L’utilizzo della raccolta firme per quesiti abroganti improponibili può, dunque, avere un effetto “boomerang” sulla causa politica: invece di costruire un punto di partenza sul quale far crescere una forte spinta “dal basso” destinata a raggiungere la meta, disillude anche i più fedeli attivisti e disperde energie. La “mannaia” della Consulta rischia di essere una pietra tombale sul dibattito. Non solo, questo utilizzo plebiscitario del referendum erode la legittimità del Parlamento e, come conseguenza, disincentiva la partecipazione alle urne. Dopo di che, questa continua e fisiologica lotta tra republic e democracy, cioè tra sistema rappresentativo e democrazia diretta, ha una conseguenza di carattere costituzionale.

Quella di scardinare il bilanciamento dell’art. 75 Cost., considerato sufficiente per i costituenti del ’48; ma forse oggi superato dinanzi alle esigenze di partecipazione popolare, di fronte ad un sempre maggiore verticismo del sistema istituzionale? È, in ogni caso, lapalissiana la crisi dell’istituto referendario abrogativo: da strumento “complementare” al processo legislativo parlamentare, a strumento “alternativo” (e oppositivo) ad esso.

In conclusione, la volontà e l’urgenza di porre la questione della cittadinanza al centro del dibattito pubblico è indubbia. Ed è anche rispettabile, se non auspicabile. Tuttavia, la via del referendum “a tutti i costi” rischia oggi, come in passato, di vanificare e sperperare energie, risorse attorno ad una chimera (il quorum delle 500mila firme) fittizia, perché disillusa dalla quasi scontata tagliola della Consulta. Inoltre, tale pratica ha corroso le fondamenta dell’ordinamento e la credibilità delle istituzioni di garanzia costituzionale.

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