Linguaggio inclusivo, cognizione e realtà: perché lo schwa non è la soluzione

Salve a tuttə, a tuttu, a tutt3 e a tuttx! In questo articolo entreremo nel merito del linguaggio inclusivo e cercheremo di capire, da un punto di vista strettamente scientifico, perché lo schwa e le altre opzioni proposte sono una soluzione irricevibile che crea più problemi di quanti voglia risolverne.

Ringrazio gentilmente la linguista e insegnante di lettere Yasmina Pani, vera esperta dell'argomento, per aver letto con professionalità l’articolo, dandomi dei feedback preziosi e fondamentali.

Come la società e le sue varie sensibilità mutano costantemente, mutano anche le loro esigenze e le loro istanze, ed è possibile che qualcosa che ha funzionato fino a un certo punto non funzioni più e venga messa in discussione, il che è la base del progresso. Un esempio facile è il modello famigliare, o la distinzione sociale dei ruoli di genere. La stessa cosa sta accadendo nel mondo occidentale con il linguaggio, che oggi pretende maggiore inclusività.

È impossibile, infatti, non registrare l'accelerazione che il movimento transfemminista e l’area progressista, complice l’avvento dell’era digitale, hanno vissuto negli ultimi decenni e negli ultimi anni in particolare. Dagli Stati Uniti soprattutto, la cultura dell'inclusività, della rappresentanza e della diversità, tesa non solo a difendere ma a riaffermare le minoranze in ogni ambito, è cresciuta e si è diffusa progressivamente anche in Europa, producendo effetti molto vari, tra cui politiche sociali e aziendali di parità, integrazione e inclusione nei confronti di donnecomunità LGBTQIA+ e minoranze etnico-religiose. A queste battaglie fondamentali, tuttavia, la sinistra ha affiancato un'impalcatura filosofica antiscientifica e problematica, che sostiene una correlazione forte tra linguaggio, pensiero e mondo - in soldoni: il linguaggio informa il pensiero, che produce (non percepisce) la realtà, determinando così un atteggiamento diverso rispetto al mondo).

In tal senso, le istanze legate all'inclusività linguistica sono sollevate da chi sostiene di non sentirsi rappresentato dal linguaggio ordinario: si tratti dei femminili di mestiere (ministro/ministra, sindaco/sindaca, avvocato/avvocata) o del tipo di lessico usato per indicare certe categorie professionali e sociali (prostituta/sex worker). Se in un primo momento si è tentata la “femminilizzazione” di termini maschili (gestore/gestrice), in un secondo momento si è posto il problema di chi non si identifica nel binarismo di genere o è fluido rispetto ad esso (cioè le persone non-binary e gender fluid). Per accomodare in particolare le istanze della comunità genderqueer, mentre in USA l'accento è stato posto sui pronomi da usare (un capitolo enorme su cui non ci soffermeremo) e su alcuni sostantivi plurali (come "latinx" in luogo di "latinos/latinas"), in Italia il focus è stato posto sul plurale che, essendo grammaticalmente declinato al maschile, è considerato esclusivo, sessista e non rappresentativo, accusato quindi di invisibilizzare persone non binarie e donne.

Linguaggio inclusivo, plurale maschile e genere neutro

Per affrontare il “problema” del genere neutro in italiano, la prima soluzione proposta fu l'asterisco ("tutt*"), soluzione mutuata dall’informatica (l’asterisco si usa per indicare qualsiasi stringa) e adottata da anni in diverse aziende per comunicare istituzionalmente a gruppi di persone di genere sconosciuto. Varie sono le opzioni considerate dai gruppi di sinistra (come 3, x, u, @, / e addirittura l'elisione della desinenza), ma quella in assoluto di maggior successo e dibattito fu introdotta nell’aprile 2016 da Luca Boschetto, autore del sito www.italianoinclusivo.it e appassionato di questioni di genere, e rilanciato nel 2019 dalla sociolinguista Vera Gheno nel libro "Femminili singolari", in cui l'autrice si domandava provocatoriamente perché non prendere in prestito un fonema ad hoc per qualificare un plurale autenticamente gender-neutral.

La proposta era proprio il celeberrimo schwa (ə, dall’ebraico scevà), un fonema dell’Alfabeto Fonetico Internazionale che in glottologia e in indoeuropeistica è inquadrato come vocale intermedia o vocale indistinta all’interno del trapezio vocalico (figura). Presente nella fonetica di molte lingue del mondo e in alcuni dialetti del sud Italia, ma non appartenente all’inventario fonologico dell’italiano standard, è erroneamente considerato neutro. In linguistica, tuttavia, la denominazione di neutro è impropria per la questione inclusiva perché il neutro non serve per le persone e nell’italiano standard non esistono suoni neutri: i suoni non hanno valore semantico, non essendo immediatamente associati alla realtà extralinguistica.

Per chi ignora deliberatamente la linguistica in favore di battaglie ideologiche, però, l'idea è di risolvere il problema di genere introducendo una vocale estranea (e ottenendo una sorta di "terzo genere") attraverso una desinenza che non fornisce un'informazione grammaticale e morfologica ai madrelingua italiani. Questo anche in virtù del fatto che il problema è presto transitato dal solo plurale al singolare declinato al maschile o al femminile: il mondo progressista e genderqueer, infatti, richiede ora che si eviti sia la forma “amico” che la forma “amica”, in favore di una più inclusiva forma “amicə” (almeno per riferirsi alle persone non-binary o a persone di cui non si conosce l’identità di genere).

L'autrice di "Femminili singolari" (e della sua incoerente riedizione del 2022 “Femminili singolari +”, definita schwaizzata dalla stessa Gheno) inizialmente sosteneva che si trattasse di una proposta goliardica, ribadendo che una sociolinguista seria sa bene come funzioni il linguaggio e quanto sia inefficace una scelta del genere. Almeno finché lo schwa non ha finito per convincere molta parte della sinistra radicale, inducendo la stessa Gheno a negare la valenza provocatoria della sua proposta e a diventare de facto la maître à penser italiana delle battaglie per il linguaggio inclusivo.

Ma i motivi per cui lo schwa non solo non è la soluzione, ma potrebbe addirittura creare una serie di problemi, sono molteplici e di diversi ordini.

1. Genere grammaticale e genere biologico

In prima istanza, in linguistica la desinenza non marca necessariamente il genere perché il genere grammaticale nasce da un'esigenza morfologica di categorizzazione e classificazione (accordo sintattico) e non ha, come funzione principale, quella di marcare il genere biologico dei referenti: per fare un esempio, la parola "persona" è di genere femminile, ma non tutti i referenti ai quali è associata sono di genere femminile, né ha senso pensare di introdurre il sostantivo "persono" per includere anche i maschi; o ancora, il genere accordato agli oggetti non ha alcuna base semantica: il tavolo non presenta connotati maschili, nonostante il suo nome italiano sia di genere maschile. Infine, per spingere l’esempio al limite, se vi chiedo di pensare alla parola "umani", è probabile che non vi verranno in mente solo degli uomini.

C’è poi la scuola di pensiero di chi sostiene che il genere grammaticale delle parole dovrebbe accordarsi con quello biologico a cui è legato: come osserva Roberto Mercadini, alcune femministe hanno rivendicato la natura femminile della parola “clitoride”, in quanto riferita a una parte del corpo femminile, sostenendo che dovrebbe essere di genere femminile e non maschile (“la clitoride”). Ora, le parti del corpo non sono sicuramente né maschi né femmine, controbatte giustamente lo scrittore e teatrante, sottolineando come molte strutture somatiche abbiano un genere grammaticale che non corrisponde a quello biologico dei possessori (l’uretra è presente nel pene, eppure è di genere femminile), così come in molti casi il genere grammaticale sembra privo di ratio (e in realtà la ratio e l’etimo hanno ragioni storiche), come il maschile dei nomi degli alberi e il femminile dei nomi dei frutti (l’arancio e l’arancia). Qualcuno potrebbe addirittura evidenziare l’assurdo, dacché tendenzialmente è l’apparato riproduttivo femminile a produrre “il frutto” e avrebbe più senso il contrario, se ci fosse interdipendenza tra genere grammaticale e genere biologico.

O ancora, prosegue Mercadini, la stessa parola declinata nei due generi indica cose diverse (il tasso/la tassa, l’orecchio/l’orecchia, il cerchio/la cerchia), per non parlare dell’assurdo degli assurdi (si ironizza): “la mano” e il suo plurale “le mani”) – articolo femminile e sostantivo di genere femminile, ma terminante in o (stereotipicamente associata al genere maschile). La realtà è che diverse lingue codificano secondo diversi generi lo stesso referente e addirittura molte lingue non hanno una marca morfologica per maschile e femminile: basta questo per capire quanto il genere grammaticale non correli con il genere sessuale.

Per convenzione, quando diciamo “Ciao a tutti” ci rivolgiamo generalmente a tutti i referenti possibili, senza distinzioni di sesso – senza contare che i referenti che si vogliono includere in simili formule dipendono moltissimo dalle intenzioni del parlante, cosa che vale in generale per l’uso pragmatico e comunicativo del linguaggio. Nell’italiano standard, la desinenza o è tendenzialmente il singolare maschile, la desinenza a il singolare femminile, la desinenza e il plurale femminile e la desinenza i il plurale generalizzato. Per questo si parla di maschile sovraesteso (o non marcato), una forma che, benché sembri un plurale maschile, è in realtà non genderizzata, e pertanto non esclude niente o nessuno per definizione.

Un caso simile, se volete, è l'inglese "guys" che, originariamente designante solo i maschi, è oggi considerato plurale sovraesteso e nessuno se ne lamenta perché tutti si sentono inclusi da esso. Analogamente, il plurale italiano è declinato al maschile per una mera questione di economia linguistica: siccome non c'è nessuna base per aggiungere un diverso fonema o una diversa desinenza, la “scelta” è ricaduta su uno dei due plurali possibili, in accordo col suddetto principio di parsimonia (o convenienza). Con "scelta", ovviamente, non mi riferisco a una selezione o decisione deliberata dall'oggi al domani, ma semplicemente all'utilizzo della lingua per come è venuto nel tempo.

2. Lessico, morfologia e sintassi

In secondo luogo, la lingua è in continua e inarrestabile evoluzione, al punto che in diversi momenti storici una stessa lingua può assumere sembianze e tratti significativamente diversi (lo vediamo già studiando letteratura a scuola). Infatti è difficile parlare di una lingua come di un oggetto unico, ma la sua consistenza è giustificata dalla continuità di utilizzo (consuetudine) e dalla sua rielaborazione da parte dei parlanti. In Italia, l’istituzione che traccia (ma non crea e non impone) i mutamenti della lingua parlata e scritta è l'Accademia della Crusca, che ha l’obiettivo di rilevare le innovazioni e integrarle coerentemente nel framework di regole e prassi esistenti, talvolta disfacendosi di strutture desuete. Ciò garantisce comunque che si possa inquadrare, secolo per secolo, un insieme di regole morfosintattiche corrette e scorrette, con alcune eccezioni e casi limite accettati in quanto già oggetto di diffuso utilizzo (come l'inedita transitività dei verbi entrare e uscire).

Per fare un esempio, si pensi a come costruzioni del tipo "esco il cane" o agli anglismi, che l'Accademia della Crusca rileva quando hanno una significativa diffusione e presenza nella comunità linguistica. Si tratta di strutture che si fissano nel tessuto sociolinguistico nonostante siano considerate errori e il compito della linguistica è proprio di recepire, e non dettare, tutti gli usi adoperati e categorizzare le prassi emergenti come casi limite accettati, ben conscia che potrebbero diventare regola in futuro se dovessero essere accolti dai parlanti: sinteticamente, dunque, si impone nel tempo solo ciò che viene frequentato maggiormente, al punto che da eccezione o caso limite diventa regola (pensate al caso del lessema "petaloso").

Ora, bisogna distinguere chiaramente i mutamenti del lessico dai mutamenti della morfosintassi.

  • Il mutamento lessicale consiste nell’importazione di parole straniere, nei neologismi, nei prestiti e nei calchi, che non alterano l’assetto o il funzionamento della lingua. Per capire meglio, pensate all'aggettivo "perplesso", che intuitivamente sembrerebbe il participio passato di un inesistente verbo perplimere. Sarebbe molto comodo poter dire "Questa cosa mi perplime", piuttosto che "Questa cosa mi lascia perplesso", ma la lingua italiana non contempla una simile forma verbale. O almeno non la contemplava fino agli anni ‘90, quando Corrado Guzzanti ha introdotto ironicamente il verbo "perplimere", dando il via alla sua diffusione: oggi questo verbo, benché non completamente riconosciuto, ha uno statuto linguistico che lo rende utilizzabile.
  • Il mutamento morfosintattico, invece, è un mutamento strutturale che pertiene all’evoluzione linguistica vera e propria e riguarda le aree della linguistica interessate a grammatica e sintassi. Il principale bisogno a cui il mutamento morfosintattico risponde è la necessità di veicolare più informazioni possibili con il minore sforzo cognitivo e articolatorio possibile. La lingua, dunque, tende alle soluzioni più semplici e per questo è cognitivamente economica (secondo un principio di economia o convenienza).

Se la morfologia studia le parole non in relazione al significato, ma alla loro struttura, composizione, derivazione e funzione, il genere grammaticale è una categoria morfologica (l’informazione di genere proviene dalla desinenza e, in alcuni casi, dal suffisso) che ha ripercussioni sulla sintassi, interessata alla disposizione delle parole e ai loro rapporti all’interno di una frase (soggetto singolare – verbo singolare). In tal senso, lo schwa è un fonema che finirebbe inevitabilmente per configurarsi come un morfema, impattando a cascata sull’intera impalcatura morfosintattica della lingua in modo imprevedibile e insostenibile.

In definitiva, il tentativo di dipingere l’italiano come una lingua “genderizzata” solo perché in certi casi il genere grammaticale si accorda con il genere sessuale è antiscientifico e suggerisce di rivedere la propria istruzione, più che la propria identità. Impegnarsi ad abbandonare termini ed espressioni discriminatorie è cosa ben diversa dal proporre l’eliminazione del genere (linguisticamente impossibile in italiano, per il suddetto accordo sintattico) o l’aggiunta di un genere nuovo, che, contrariamente alle innovazioni lessicali, costringerebbe a rivedere completamente l’impalcatura morfosintattica della lingua.

3. Mutamento linguistico, evoluzionismo e complessità

Il mutamento linguistico (di cui la linguistica storica può osservare il prodotto solo a distanza di secoli) è dovuto a tendenze strutturali interne alla lingua stessa che rispondono a criteri di convenienza o di economia, ma, soprattutto, obbedisce primariamente a dei bisogni linguistici e solo eventualmente a dei bisogni sociali. Il motivo per cui nella lingua italiana si è fissato questo plurale e non altri trova facile spiegazione nel funzionamento intrinseco dell'evoluzione linguistica, fatta di una costante competizione (inconsapevole ai parlanti) tra i molti usi possibili di una lingua in cui solo alcune consuetudini vincono e sopravvivono per la loro funzionalità: certamente è più immediato utilizzare la fonetica già esistente piuttosto che, ad esempio, inventare nuovi suoni (che non è proprio possibile, perché l’acquisizione linguistica è un processo spontaneo che segue dinamiche che noi non possiamo violare) o importarli da altre lingue, e l'uso reiterato di certe strutture nel corso dei secoli ne determina il consolidamento a svantaggio di altre.

Negli approcci evoluzionistici delle scienze sociali, il linguaggio è considerato come la principale istituzione sociale, nel senso di fenomeno socioculturale emerso organicamente, spontaneamente e in maniera irriflessa dal continuo trial & error delle interazioni umane. Come ogni altra istituzione spontanea (tra cui si annoverano costume, religione, Stato, mercato, moneta ecc.), il linguaggio tende a mutare in maniera lenta e bottom-up, così come è sorto, nell'arco di secoli: piccoli cambiamenti impercettibili step-by-step diventano lingue diverse in lunghi periodi di tempo per path-dependence (la trasmissione intergenerazionale implicita e inconsapevole di strutture culturali).

Per gli stessi motivi, il linguaggio è tendenzialmente resiliente a tentativi di imposizione o modifica top-down (come accade nelle dittature): ciò è dovuto alla necessità delle istituzioni spontanee come il linguaggio di "testare" la loro efficacia e consolidarsi nel tessuto socioculturale di una certa comunità. Ne consegue che i mutamenti che si attuano di fatto sono quelli che hanno funzionato in un paniere di migliaia di mutamenti che non sono sopravvissuti pur essendo stati sperimentati. In questo rientrano anche le parole imposte da regimi autoritari e che sono di fatto state conservate nella lingua corrente, come “rotocalco”, “retroterra”, “pallacanestro” e “autorimessa”: rimane ciò che funziona. Ma questo è possibile, come detto prima, solo nel caso di un mutamento lessicale, dove un ruolo chiave è giocato dalla mentalità prevalente. Nel caso dei mutamenti fonetici e morfosintattici, la sensibilità sociale è un fattore irrilevante, dacché essi avvengono in maniera inconsapevole. Ma, soprattutto, il mutamento morfosintattico è lento e impercettibile perché la lingua è un codice condiviso da una comunità, che la acquisisce senza accorgersene: se venisse mutata in modo improvviso e repentino sarebbe impossibile continuare a padroneggiarla e la comunicazione non potrebbe avere luogo.

Dal momento che la lingua tende a modificarsi usando ciò che ha a disposizione, senza aggiungere o inventare dal nulla categorie morfosintattiche, la forma del maschile sovraesteso si è imposta perché derivante da uno stato di cose presente nel protoindoeuropeo, in cui il femminile è stato un’acquisizione successiva ed è rimasto come marcato. Anche per questo non ha ragione d’esistere il femminile sovraesteso, una sgrammaticatura consistente nell’uso del femminile plurale per connotare tutte le categorie e recentemente riproposta dall’Università di Trento, ma inesistente nella morfosintassi dell’italiano standard. Tra l’altro, secondo queste logiche storte, se il plurale maschile è considerato offensivo e sessista, non si capisce perché il femminile plurale non debba esserlo altrettanto, dato che entrambi escluderebbero qualcuno.

Da un punto di vista scientifico, in definitiva, se la lingua mutasse di pari passo con la sensibilità sociale, non potrebbe più essere un codicecondiviso: per questo ha bisogno di tempi lunghi, che consentono ai piccoli cambiamenti l’adozione necessaria a fissarsi nel tessuto sociolinguistico, e di gradualità, per avere il tempo di consolidarsi ed essere accolta e usata dalla maggioranza dei parlanti. Nel framework evoluzionista e istituzionalista di cui sopra, l'introduzione di una o più soluzioni linguistiche per ovviare a una supposta non-inclusività o discriminazione di una certa lingua è di per sé inefficace in quanto, benché proposta da un piccolo sottoinsieme di parlanti (e quindi apparentemente bottom-up), pretende di sostituire una prassi consolidata nel corso di secoli in poco tempo, contravvenendo al meccanismo evolutivo del linguaggio.

Se qualcuno dovesse replicare che “se tutti sono d’accordo, il cambiamento si fa”, non solo si tratterebbe di tautologia, ma bisogna scendere a patti con l’evidenza che

  1. non tutti sono d’accordo, ed è per questo che se ne discute;
  2. neanche se tutti ci accordassimo all’improvviso il cambiamento sarebbe assicurato ed effettivo, perché il mutamento linguistico è fuori dal controllo consapevole dei singoli parlanti e non avviene nelle veloci tempistiche pretese dall’universo progressista.

Nel caso in cui, poi, quella soluzione venga addirittura imposta (da gruppi di persone, da enti pubblici o da aziende), ricade addirittura in ben due casistiche, perché i mutamenti top-down raramente sopravvivono e sopravvivono solo se risultano più funzionali o comodi della regola precedente.

4. Linguaggio, pensiero e realtà: il relativismo linguistico

La New Leftpost-sessantottina, madre della sinistra moderna, è germinata sul retroterra filosofico del decostruzionismo, del postmodernismo e del post-strutturalismo delle Butler, dei Derrida, delle Harding, dei Foucault (alcuni fra i tanti esponenti della cosiddetta French Theory), concentrati sulla performatività del linguaggio e sulla sua capacità di deformare e riformare il mondo, sulla sessualità, sulla necessità di decostruire i concetti per ricostruire il pensiero sociale, sul biopotere e sulla biopolitica, sul costruttivismo come misura della realtà (cioè l'assunto per cui la realtà dipende da come la si pensa) e sul relativismo (o determinismo) linguistico (per cui il linguaggio costruisce la realtà). Quest'ultimo punto si basa sull'ipotesi Sapir-Whorf, per cui il linguaggio e il vocabolario posseduti condizionerebbero il modo in cui percepiamo il mondo e informerebbero il livello di complessità del pensiero, con un impatto diretto sul comportamento. Tale posizione non è mai stata dimostrata dalla comunità scientifica e i risultati degli studi non sono mai stati replicati. Nelle scienze cognitive non ci sono risposte conclusive sulla correlazione tra linguaggio e pensiero, ma è certo che la percezione della realtà (che influenza le azioni degli individui) dipenda prima di tutto dall'esperienza soggettiva e sensomotoria che si ha della stessa, prima che dal linguaggio.  

Nonostante ciò, il determinismo linguistico e la convinzione pseudoscientifica che la connessione tra linguaggio, pensiero e realtà sia top-down e unidirezionale (dal linguaggio alla realtà) è sopravvissuta alle confutazioni scientifiche, trovando terreno fertile in tutto quel mondo progressista che, degenerato in parte nella woke culture (ne abbiamo parlato qua), ha sempre cercato soluzioni per livellare le discriminazioni in modo rapido e massimalista. Tant'è che nel tempo, per una serie di ragioni che è impossibile riassumere qui, l'ala progressista ha dato sempre maggiore priorità e importanza all'aspetto linguistico come principale misura da adottare per imprimere un mutamento sociale e culturale bottom-up. Mentre nel mondo le donne e le minoranze sono ancora vessate da problemi molto reali (la considerazione sociale, l'accesso al mondo del lavoro, la possibilità di guidare, di vestirsi come gli pare, di essere libere), il principale problema della sinistra nel mondo occidentale è stato di modificare il linguaggio per indurre cambiamenti surrettizi nel pensiero.

Se leggendo la parola “muratori” pensiamo a un gruppo di uomini, non è a causa di un sessismo latente o del fatto che il maschile sovraesteso altera la percezione del sostantivo, ma è normale: probabilmente nella nostra esperienza non ci sono muratrici e, qualora dovessero diffondersi anche le donne in questo settore, il linguaggio muterà di conseguenza per mera esigenza classificatoria. Già con termini come "dottori" o "filosofi", il risultato sembra variare molto in base al contesto di appartenenza dei soggetti (estrazione sociale, livello culturale, ceto, classe, professione, tipo di formazione, provenienza e domicilio, se città o provincia, ecc.).

Stesso discorso vale per le asimmetrie semantiche di una stessa parola (passeggiatore/passeggiatrice, cortigiano/cortigiana, peripatetico/peripatetica) o le controparti di uno stesso concetto tra maschile e femminile (come "il Casanova"/"quella facile"), che innanzitutto sono diversificate per motivi pratici e statistici – se in passato il passeggiatore era solo un uomo che passeggiava, la passeggiatrice effettivamente soleva essere una donna dedita anche ad altri svaghi, e per questo i due significati si sono imposti in questo modo nel tempo; ma soprattutto, quella delle asimmetrie semantiche è al più una genderizzazione semantica, dovuta all'utilizzo di quel lessico e non intrinseca alla lingua. Se l’adozione di nuove forme e strutture linguistiche obbedisce alle stesse esigenze del mutamento strutturale sopra esposte, il relativismo linguistico è doppiamente smentito: non è, in definitiva, un mutamento linguistico a monte a produrre cambiamenti nella realtà a valle, ma sono i cambiamenti nella realtà a monte a indurre il mutamento linguistico a valle.

5. Il peso cognitivo del linguaggio

Dalla psicologia cognitiva e dall’economia comportamentale sappiamo che gli agenti tendono naturalmente a minimizzare l'effort cognitivoin ogni loro interazione con l'ambiente (o, in termini biochimici, tendono al minor consumo energetico). Questo vale anche per il linguaggio che, lungi dall'essere solo un codice condiviso, ha comunque tra i suoi scopi principali favorire la comunicazione tramite convenzioni e accordi taciti. Come detto, non sono chiari i rapporti tra linguaggio e cognizione, ma è certo che l'uno incide sull'altro, dacché

  1. la rivoluzione cognitiva, in accordo con Harari,è storicamente ascrivibile all’avvento del linguaggio (che pare correlare con un significativo incremento di complessità dei processi cognitivi umani);
  2. la linguistica cognitiva e la neurolinguistica studiano le correlazioni e le determinazioni neurocognitive del linguaggio (da come viene prodotto a che peso scarica sull'attività cognitiva e neurobiologica). Ogni lingua tende a seguire il suddetto principio di economia cognitiva: i parlanti, praticandola nel tempo, ne economizzano le strutture in modo da raggiungere il minor sforzo cognitivo durante le interazioni linguistiche.

Quando leggiamo delle frasi nella nostra lingua madre, impieghiamo una modalità cognitiva veloce, immediata, irriflessa, intuitiva e automatica (che Kahneman chiama System 1), che funziona bene in quanto è incorporata ed è a basso sforzo cognitivo. Nel momento in cui dobbiamo leggere frasi con strutture inedite o non comuni nella nostra lingua, S1 delega il compito a S2 (System 2, una modalità cognitiva lenta, analitica, deliberata e mediata), in quanto non le riconosciamo immediatamente, non abbiamo confidenza con esse e non appartengono naturalmente alla nostra lingua. Dunque, l'introduzione di strutture nuove e non praticate precedentemente (come l'apprendimento di nuovi termini) non solo comporta un impiego di maggiori risorse cognitive (e quindi un affaticamento neuronale), ma rende tali strutture antieconomiche e ne disincentiva l'adozione. Se la struttura che viene introdotta è sia inutilizzata che non appartenente alla lingua oggetto, l'effort aumenta (accade con calchi e prestiti, ma persino con modi e tempi verbali poco frequentati). Pertanto, l’adozione di una nuova struttura pervasiva rende innaturale e respingente il suo utilizzo.

Non a caso, avendo l’italiano cinque fonemi vocalici, tutte le realizzazioni di questi fonemi vengono classificate necessariamente in riferimento agli stessi: siccome lo schwa è alieno al nostro inventario fonematico, ognuno tenderà a collocarlo in uno dei cinque slot vocalici conosciuti, appiattendolo sui fonemi preesistenti, sia a livello uditivo, sia a livello testuale. È probabile che a molti di voi, infatti, il segno grafico ə ricordi una a, una e, o addirittura una o: pensate a come vi vien da leggere, se vi capitasse di sfuggita e di primo acchito, formule come “Carə studentə, benvenutə a tuttə!” o “unə autorə” in luogo di “un autore” o “un’autrice”: per pensare o leggere queste espressioni con la fonetica giusta, state passando necessariamente da S2, per quanto veloci possiate diventare nello switch dall’una all’altra modalità. Per leggere nella vostra lingua, invece, il cervello si adagia comodamente su S1, senza ulteriori impicci.

Oppure pensate a che vocale vi richiama l’ascolto di parole con lo schwa. Ciò genera ovviamente incomprensioni e problemi comunicativi che vanificano uno degli obiettivi stessi della lingua (codice condiviso) e, in tal senso, ha veramente più senso ricorrere a fonemi esistenti, come la u.

La lingua nativa è pertanto una comfort-zone, perché garantisce una relativa pigrizia cognitiva e un certo rilassamento delle funzioni correlate. Per quanto le finalità della proposta possano essere ben accolte dai parlanti, risulta neurobiologicamente difficile importare tale innovazione, che viene così relegata a poche occasioni. L'impegno nell'uso definitivo dello schwa, pur socialmente ed eticamente motivato, se nel testo scritto è fattibile solo tornando più volte sul testo o rischiando refusi, nel parlato è quasi impossibile da assicurare, risultando così una proposta inefficace e irricevibile.

6. Quando l’inclusivo esclude

In ultima istanza, non possiamo non notare quanto la pretesa di simili implementazioni e sofisticherie vada in direzione contraria all’inclusività di cui si fregia: se, infatti, soluzioni come lo schwa e le altre nascono con l’obiettivo di riconoscere il problema dell’identità di generee includere anche le persone non-binary e gender fluid, si portano dietro talmente tanta complessità morfosintattica, cognitiva e socioculturale da finire per escludere tutti gli altri. Ci riferiamo al famoso Paese reale, quella fetta maggioritaria di popolazione che segue la politica, sì, ma perlopiù tramite la TV e Facebook, senza essere così addentro al dibattito online; quel pezzo di cittadinanza che non vive sui social e non recepisce le innovazioni del mondo genderqueer alla stessa velocità degli utenti di Instagram e TikTok, o non le recepisce affatto.

Dobbiamo guardarci negli occhi ed essere onesti: le sacrosante istanze dell’inclusività arrivano perlopiù agli utenti dei social media e tramite i comunicati istituzionali (come le università e la pubblica amministrazione), ma c’è un intero pezzo di opinione pubblica là fuori che non ha neanche idea dell’esistenza di questo tema, benché vivissimo e presente da anni. Figuriamoci trovarsi a leggere all’improvviso testi con segni grafici estranei o dissonanti rispetto all’italiano che hanno sempre parlato. La difficoltà di comprendere e digerire simili innovazioni, sconosciute a chi è fuori da questa bolla di filtraggio, rende di fatto queste soluzioni linguistiche esclusive e fa pensare a uno sbilanciamento tra una minoranza rumorosa e una maggioranza ignara.

Per non parlare poi delle persone con disabilità o neurodivergenze, la cui fatica nella lettura non può che essere aggravata da una modifica così radicale nella struttura morfologica della lingua madre. Un linguaggio veramente inclusivo, in definitiva, è quello che trova il punto di ottimo in nuovi usi delle strutture esistenti, e non in nuove strutture importate dall’oggi al domani nell’impalcatura linguistica. Viene a questo punto da chiedersi se, al netto di motivazioni valide e condivise (come la pretesa di sentirsi rappresentati tutti), non ci siano soluzioni migliori che non impattino così tanto le strutture neurocognitive alla base del linguaggio, o se addirittura ci sia veramente bisogno di “soluzioni” a una lingua che, come abbiamo visto, non presenta realmente simili problemi.

Infosfera e mutamento sociale: ma quindi?

Da un punto di vista filosofico, il linguaggio esclude per la sua natura intrinseca: le parole delimitano i concetti, la conoscenza e la comprensione del mondo, definendo la realtà, cioè ponendo alle porzioni di essa dei confini ben precisi per coglierla modularmente. Il lessico etichetta e le etichette servono a categorizzare il mondo: in sostanza, il linguaggio taglia la realtà, ne discrimina le varie parti. Per riprendere il celebre paradosso di Borges, il linguaggio è la mappa, non il territorio, e la mappa comporta inevitabilmente una perdita di informazione sul territorio, tale che il linguaggio non possa mai catturare completamente ogni sfaccettatura della realtà. Senza questa funzione, l’utilità cognitiva del linguaggio verrebbe meno.

Come sottolineato a più riprese da Yasmina Pani, quella contro lo schwa non è una battaglia politica o ideologica, ma una battaglia scientifica. Viviamo senza dubbio un momento storico in cui molte istituzioni e prassi sono messe in discussione in maniera massiccia, soprattutto grazie a Internet, che globalizza la comunicazione, la circolazione della conoscenza, la diffusione delle informazioni e le connessioni sociali. L'infosfera accelera la consueta lentezza del cambiamento istituzionale e sociale e massimizza la quantità di informazioni sul mondo in maniera iperstorica, il che implica che nel lungo termine nessun mutamento sia da escludere di principio.

Tuttavia, stando alle considerazioni sopra esposte, si direbbe che non è lo schwa la soluzione da battere, o che addirittura, citando sempre Pani, lo schwa è “una soluzione senza problema”. Per innescare il progresso che desideriamo nel mondo, bisogna partire dalla realtà, prima che dal linguaggio. Ci vorrà molto tempo, ma sarà effettivo. Perché, se pensiamo che cambiando il linguaggio cambia il pensiero e dunque la realtà, siamo davanti a un'inversione logica dei predicati: al contrario, è cambiando la realtà che i cambiamenti linguistici vengono eventualmente da sé. E può persino darsi che, pur cambiando costumi, abitudini e comportamenti, la lingua non cambi affatto: la correlazione, in definitiva, risulta del tutto falsa.

Come sempre, il problema è nella realtà dell'esperienza e nell'esperienza della realtà: non è il linguaggio a determinare lo stato di cose, ma il contrario. Se vogliamo un linguaggio più inclusivo, allora, bisogna agire sullo stato di cose: essere più inclusivi nelle azioni e nei fatti, come individui autonomi e consapevoli, renderà insignificante battibeccare sul resto.

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