Marco Travaglio e il confine sottile tra semplificare e banalizzare

Qualche spunto di riflessione immoderata sull'ultima grande comparsata di Travaglio.

Screenshot dell'episodio del Breaking Italy Night (Breaking Italy) Fonte

L’intervista di Marco Travaglio al Breaking Italy Night si è aperta con una specie di manifesto intellettuale. «Il parlar chiaro divide», dice il direttore del Fatto, e questo lo rende una figura controversa del giornalismo italiano, perché a differenza degli altri «quando parlo si capisce». La vocazione del giornalista ideale, continua Travaglio, è prima di tutto quella di rompere i coglioni, e il suo compito è rendere semplici e fruibili le cose difficili. «Credo che valga per il nostro mestiere il precetto evangelico: il tuo dire sia ‘sisi’ ‘nono’, il resto viene dal maligno», conclude.

Il dispiegarsi di questo piccolo manifesto avviene tutto nella prima mezz’ora. Nel resto dell’intervista, Travaglio si esprime sui temi della guerra e della politica internazionale seguendo i precetti della sua dottrina. Lo sentiamo parlare di Medioriente e Ucraina per dire che «non ci sono buoni e cattivi fra israeliani e palestinesi, né fra il governo ucraino e il governo russo» (29.30), che non è la favola di cappuccetto rosso perché in entrambe le guerre ci sono solo lupi. Lo sentiamo poi dire che «tutte le guerre sono uguali» (37.15): dal Kosovo all’Afghanistan, passando per Iraq e Libia. Sono tutti imperialismi, come quello di Putin. Lo sentiamo dire che quello occidentale è un «sistema criminale fatto dalle democrazie» (38.02), in uno scimmiottamento un po’ goffo di Noam Chomsky, che almeno ha il pregio di calare certe affermazioni radicali in un contesto di descrizione puntuale dei fatti.

Lo sentiamo infine dire che la cultura americana non esiste (44.05), se non come sottoprodotto di quella europea, che i valori occidentali sono «un’impostura e una bugia» per nascondere i nostri crimini (42.20) e che Biden vuole continuare ad «annettere» nuovi territori con la Nato per «provocare i russi» (52.00). Sì, dopo due anni di dibattito siamo ancora fermi all’equazione ‘Nato = USA’ e alla libera adesione alla Nato come forma di annessione imperialista. Ma non sono davvero questi i problemi dell’intervista di Marco Travaglio.

Il punto è che una lista di buoni propositi – il parlar chiaro, il semplificare le cose difficili – può facilmente rovesciarsi nel suo contrario. Se il Breaking Italy Night di fine 2023 ha qualcosa da insegnarci forse è proprio questo: si può banalizzare nel tentativo di semplificare, e si può mistificare sforzandosi di essere chiari. I discorsi super semplificati di Travaglio sono infatti lo specchio di tutto ciò che non funziona nel dibattito italiano su Ucraina e Medioriente. Quando ad esempio Travaglio parla di entità collettive – come Stati e organismi internazionali – le tratta sempre come individui: le antropomorfizza e le attribuisce una forma di intenzionalità che non hanno, o se ce l’hanno non è quella che pensiamo (qui per uno spunto). Perciò nei ragionamenti di Travaglio gli Stati Uniti, la Nato e la Cina vogliono qualche cosa, cercano qualche cos’altro e «si fanno i propri affari». Naturalmente non funziona né può funzionare così. I processi di aggregazione di credenze, giudizi e intenzioni per gruppi di agenti, specie se tanto grossi, sono una roba piuttosto complicata.

Parlare di Nato e Russia come di entità che hanno scopi tanto semplici trascura tutti i vincoli interni a quell’entità, gli interessi contrastanti di gruppi sociali e classi dirigenti che inevitabilmente pesano nel computo finale. Questo non ci impedisce, di tanto in tanto, di parlare di Stati e alleanze militari come di singoli individui. Rientra nella natura di un contesto informale e poco impegnato concederci un po’ di approssimazione. Ma Travaglio è il direttore di uno dei quotidiani più famosi in Italia. Fa informazione, divulga e scrive libri di successo. Non sarà un’aula universitaria del MIT, ma il contesto delle sue affermazioni non è nemmeno il bar di Guerre Stellari. Anche perché le semplificazioni non si limitano a questo.

Dopo aver assegnato a gruppi e istituzioni degli stati mentali tanto semplici, Travaglio attribuisce loro anche categorie morali – sempre allo scopo di semplificare. Ci sono perciò Stati buoni e cattivi, oppure solo cattivi. Ci sono sistemi, cioè insiemi di valori e istituzioni, ipocriti e bugiardi; i lupi e i meno lupi. È probabile che né Travaglio né il suo pubblico vedano grosse conseguenze in queste semplificazioni. In fondo sono comode: sapere che una cosa è ‘cattiva’ ci permette di posizionarci subito all’interno di un dibattito, senza conoscere i fatti. Il parlar chiaro divide, come si diceva. Ma le conseguenze di queste semplificazioni ci sono e sono enormi. Basta notare l’andamento della discussione fra il giornalista e il suo intervistatore. La live è una sequela interminabile di affermazioni drastiche (Travaglio) seguite da faticosi tentativi di arginamento (Shy), tutta giocata sul piano dei giudizi morali e in assenza quasi completa di contenuti. È il prezzo che si paga per l’ipersemplificazione.

Nei ragionamenti di Travaglio sulla guerra c’è poi un uso reiterato della metafora del servo e del padrone, dal sapore un po’ populista. Nella visione di Travaglio Zelensky è un «fantoccio», mentre l’Europa e l’Italia sono sempre le serve del «padrone» americano. Intendiamoci: le metafore di per sé non sono né giuste né sbagliate. Sono un espediente comunicativo che serve a contestualizzare o a rendere più comprensibile un’idea astratta, e vengono usate molto anche nella divulgazione della scienza. Diventano però un problema quando sono l’unico strumento di indagine, quando si sostituiscono interamente all’analisi approfondita dei fatti. Sostenere ad esempio che Zelensky non è più filorusso, come lo si accusava un tempo, perché ora «ha cambiato padrone» (50.16) non è utilizzare efficacemente una metafora. Significa invece piegare la realtà alle esigenze populiste che si nascondono dietro quella metafora.

Non si sta spiegando un rapporto di causa-effetto come farebbe uno scienziato sociale; si sta tessendo una narrazione che serve altri scopi. Travaglio potrebbe rispondere che è una metafora che funziona, perché spiega le cose in maniera chiara e semplice, come da manifesto. Ma si torna ancora una volta al punto di partenza: non è detto che la semplificazione sia un bene, perché a volte semplificare produce danni. È un danno infatti convincere il proprio pubblico che si possano spiegare fenomeni sociali complessi usando solo la metafora del servo e del padrone. Così come è un danno fargli credere che nella storia esistano rapporti di causalità diretta e che si possano quindi costruire facili controfattuali («se Zelenksy rispettava gli accordi di Minsk la guerra non ci sarebbe stata»). Il confine con il maligno, forse, è molto più sfumato di quello che pensa Travaglio.

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