L'aborto è un diritto?

Esiste il diritto all'aborto? E cos'è un diritto? Qualche spunto di riflessione sulla libertà di scelta e sul dibattito bioetico di un tema tanto complesso e sfaccettato.

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L’aborto è probabilmente il tema più complesso e con le ragioni più valide e significative da ambo le parti del dibattito bioetico. L’interruzione volontaria di gravidanza è infatti un argomento controverso perché il problema sorge nel dover determinare un criterio di demarcazione condiviso tra semplice vita biologica e vita umana, individuare un momento preciso in cui quella forma di vita può essere considerata persona, e conseguentemente soggetto di diritto, con tutti i diritti e doveri, con tutte le tutele e i riconoscimenti morali che ciò implica. L’inizio della vita, d’altronde, è un momento fondamentale della riflessione bioetica: le discussioni vertono innanzitutto su quando si possa dire che abbia effettivamente inizio la vita di un individuo, e cioè sullo statuto degli embrioni. Può l’embrione (cioè il prodotto del concepimento umano, prima che diventi un vero e proprio feto) essere già considerato una forma individuale di vita?

La bioetica di ispirazione cattolica e, più in generale, tutti coloro che si schierano per la sacralità e/o indisponibilità della vita propendono decisamente per una risposta affermativa: una persona è tale (e dunque un soggetto unico e irripetibile) fin dal momento del concepimento. La bioetica laica (che sostiene invece la disponibilità della vita) replica tuttavia che almeno fino al quattordicesimo giorno la divisione gemellare è sempre possibile e che dunque l’embrione non può ancora essere considerato come dotato di una sua propria assoluta e intangibile individualità (che è la ragione per cui, nella legislazione di alcuni Paesi, il limite dei quattordici giorni è stato adottato per distinguere una fase pre-embrionale da quella propriamente embrionale).

D’altra parte, la stessa tradizione cattolica (già con Tommaso d’Aquino) aveva a lungo ritenuto che la cosiddetta “anima razionale” fosse infusa da Dio solo al momento della formazione effettiva del feto, e non prima. Tuttavia, le posizioni più recenti della bioetica cattolica tendono a spostare più indietro questo limite: la vita dev’essere considerata inviolabile fin dal momento del concepimento, sia perché esiste una continuità biologica tra il prodotto del concepimento e la persona che da esso si sviluppa, sia perché la persona è già potenzialmente contenuta nell’embrione. Altre prospettive considerano definibile lo statuto personale dell’embrione solo dal momento in cui sembra possibile che esso sviluppi delle forme di sensibilità (la capacità di provare piacere o dolore, che precede evidentemente la razionalità vera e propria) al di là del livello di vita puramente fisiologico – un evento che viene usualmente collocato tra la diciottesima e la ventiduesima settimana di sviluppo.

La posta teorica ed etica di queste discussioni non concerne soltanto la possibilità di considerare in modo diverso l’aborto – un tema che peraltro chiama in causa, accanto alla questione relativa all’intervento su una vita umana in formazione, altri aspetti etici rilevanti, come quello dell’autodeterminazione delle donne – ma la disponibilità stessa degli embrioni in quanto tali. Non credo che l’aborto come pratica o idea piaccia a qualcuno: per la donna è una scelta difficile, perché è un’operazione invasiva, dolorosa e rischiosa; per molti altri è proprio orrendo il concetto, che non si configura necessariamente come infanticidio/figlicidio, ma è comunque la stroncatura di una vita biologica in atto e di una vita umana in potenza. Ed è anche per questa complessità, oltre che per criteri di liberalità etica, che la dialettica si è spostata dallo scontro manicheistico pro/contro l’aborto a quello liberale pro/contro la libera scelta della donna di disporre del proprio corpo in autonomia.

La natura del diritto

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Prima di invocare slogan come “My body, my choice” o “Abortion is right” con leggerezza e approssimazione, è fondamentale chiedersi cosa voglia dire veramente “diritto”. Nella sua accezione principale, il diritto è un insieme di regole che un gruppo si dà per organizzare la vita associata, le quali vanno poi a configurare l’ordinamento giuridico. Gli ordinamenti giuridici variano secondo i tempi, i luoghi e le circostanze, ponendo complessi problemi di coerenza e di armonizzazione. Tuttavia, espressioni come “non hai il diritto di” o “è mio diritto” rilevano che il diritto non è solo un complesso di leggi (diritto oggettivo), ma anche un potere o una qualità della persona, la facoltà di fare alcunché riconosciuta dall’ordinamento giuridico ai soggetti (diritto soggettivo).

Se proviamo a estendere ulteriormente il concetto, il diritto indica anche le esigenze rivendicate dai soggetti che vogliono essere riconosciute in un ordinamento che non le prevede (si pensi al diritto all’eguaglianza tra gli uomini, ai diritti delle donne, ai diritti fondamentali dell’uomo, ai diritti dei bambini): qui i soggetti si appellano a norme morali superiori a quelle sancite dalle leggi vigenti o a necessità maturate nell’evoluzione della società. La sfera dei diritti rivendicati tende ad allargarsi sempre in direzioni impensabili fino ai tempi precedenti e ciò, come ben sappiamo, apre una dialettica complessa fra morale, politica e giurisprudenza.

Alla base della filosofia del diritto e delle dottrine giuridiche, storicamente, si pone infatti la fondamentale distinzione tra due scuole di pensiero, correnti e approcci: il giusnaturalismo e il giuspositivismo. Il primo sostiene che alla base del diritto prodotto dagli Stati e dalle comunità politiche vi sia un diritto naturale, anzi dei diritti naturali, a fondamento di ogni altra legge umana, scritta e non. Nel pensiero greco e latino il diritto naturale era fondato su un ordine cosmico (giusnaturalismo antico), nel pensiero medievale sulla volontà di Dio, che stabiliva tale ordine (giusnaturalismo medievale). Ma è con la modernità che il diritto naturale si riconfigura come un’ideale razionale da cui dedurre le norme e ritrova il proprio fondamento nella ragione umana, comune a tutti gli individui (giusnaturalismo moderno o giusrazionalismo). Per i giusnaturalisti di ogni specie, le norme sono derivabili razionalmente dall’osservazione della natura e della condizione umana (i diritti umani, ad esempio, sono di stampo giusnaturalista) e le norme di diritto naturale non sono solo superiori e più fondamentali delle leggi poste nei codici, ma sono proprio il fondamento di ogni altro possibile diritto e la norma immutabile alla base dei diversi ordinamenti giuridici, che variano nel tempo.

A partire dalla prima metà del Novecento, però, il positivismo giuridico (o giuspositivismo) ha scalzato le tesi del giusnaturalismo e rappresenta la prospettiva giusfilosofica dominante negli ordinamenti giuridici contemporanei. Secondo il giuspositivismo, il diritto non ha un fondamento naturale, ma è valido in quanto posto (“diritto positivo” vuol dire infatti “diritto posto” dal legislatore) con una serie di norme giuridiche formulate e determinate secondo un metodo e sancite esplicitamente (“positivamente”) da un’autorità legittimata. In quest’ottica, il diritto diviene uno strumento per raggiungere scopi e non più la realizzazione di un ideale, dato che il positivismo giuridico ritiene possibile una trattazione scientificamente neutrale del diritto, ora considerato come un fatto e non come un valore. La sfera del diritto viene così separata da quella della riflessione etica e il diritto viene ridefinito come ciò che è prescritto, non ciò che è sentito come giusto.

Il diritto positivo ha fatto propri molti principi e valori morali tipici del giusnaturalismo: per questo, quando una norma di diritto naturale viene codificata e formalizzata in una norma positiva, cioè si traduce in legge scritta, allora si dice che un certo diritto naturale è stato positivizzato.

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Diritti, pretese e libertà

Nella sua effettività, ogni ordinamento giuridico vive grazie a una negoziazione sociale, in cui ognuno di noi avanza pretese sul comportamento altrui (come il non voler essere aggredito) e questo intrecciarsi di pretese produce l’emergere di norme, in maniera non dissimile da quanto avviene sul mercato quando l’incontro di domanda e offerta produce il manifestarsi di prezzi. Nel saggio “Il diritto come pretesa” del 1964, il giurista e politologo Bruno Leoni definisce il diritto come il risultato, il prodotto o l’esito dell’incontro tra le pretese degli individui, i quali, con i loro valori, con le loro pratiche, con le loro azioni quotidiane, delineano il quadro giuridico di fondo, al punto che le stesse leggi promulgate dai parlamenti sono efficaci se sanno mettersi in sintonia con questa rete di relazioni sociali (meccanismo alla base dei sistemi di Common Law, peraltro).

Sicché, come accennato prima, l’assunzione che alcune cose siano dei diritti e non delle semplici richieste politiche o pretese sociali è sintomo di un approccio giusnaturalistico all’etica normativa, tale per cui si chiede al legislatore o al decisore politico di “concedere” dei diritti, che si credono esistenti e giusti a prescindere da ciò che dicono i codici giuridici prodotti dall’uomo. Il problema è che, dopo essere state recepite determinate istanze dal basso, il diritto è infine qualcosa di inevitabilmente costruito. Si può derivare razionalmente, certo, ma alla fine, per avere validità ed efficacia, deve essere posto. E capire cosa significhi “derivare razionalmente il diritto”, dal momento che la legge di Hume vieta di derivare il prescrittivo (la norma) dal descrittivo (lo stato delle cose) perché sarebbe un salto logico insensato, è un problema. Così come è un problema capire se questo o quel diritto sia effettivamente “scoperto dalla ragione” o solo “inventato e creato ad hoc” sulla base di problemi concreti.

Alla luce di questa lunga disamina, dunque, la vera domanda è: l’aborto è effettivamente un diritto? La risposta più diplomatica, ma comunque brutale, è "probabilmente no":

  • se consideriamo diritto il diritto naturale, l’aborto non è qualcosa di inscritto nella natura umana, ma appartiene a un più ampio range di libertà che possediamo, quindi non è un diritto naturale e non è un diritto in sé;
  • se consideriamo diritto il diritto posto dall’autorità, allora l’aborto è considerato un diritto unicamente nei Paesi che lo hanno legalizzato;
  • se consideriamo diritto una pretesa legittima che noi avanziamo nei confronti dell’autorità o del sistema sociale, allora l’aborto non è un diritto strictu sensu, sia per la complessità della riflessione bioetica (che mette in dubbio, in alcuni frangenti, la legittimità di questa pretesa), sia per il suo ambiguo inquadramento etico-giuridico.

Guardando infine alle implicazioni dell’aborto sulla salute o sulla libertà della donna da una parte e sulla vita del futuro nascituro dall’altra, non si può ritenere a cuor leggero l’aborto come un diritto legittimo e pacifico, ma serve comprendere meglio le ragioni delle diverse posizioni. Aldilà che sia giusto fissare dei limiti, come fanno le legislazioni esistenti in materia, in base alle conoscenze biologiche sull’argomento, diritto è proprio una categoria concettuale sbagliata in cui inquadrarlo: disponendo delle competenze e delle tecnologie per praticarlo e immaginandoci in uno stato di completa anarchia o libertà, uno “stato di natura” evoluto, diciamo, possiamo desumere che la libera facoltà di praticare l’aborto sia nelle nostre possibilità e facoltà aldilà dei vincoli e delle responsabilità morali imposte dall’alto o da noi stessi.

In un’interessante intervista sul tema, lo storico delle idee Alberto Mingardi, presidente e fondatore dell’Istituto Bruno Leoni, ha affermato: «Non da liberale ma da essere umano, posso solo dirle che si tratta di questioni che a me fanno tremare i polsi. Chi rivendica la libertà di scelta della donna sopra ogni altra cosa finge di non vedere che c’è comunque un’altra vita in ballo. Chi sventola manifesti “pro vita” finge di non capire che si tratta di decisioni prese spesso in momenti difficilissimi e in contesti sociali altrettanto difficili, da persone magari giovanissime che vedono franare ogni piano di vita… Mi sembra che l’aborto legale sia nettamente meno peggio del contrario, in ragione delle conseguenze che la sua criminalizzazione potrebbe avere. Ma mi spaventa la retorica dell’aborto come diritto, quella dei meme e delle t-shirt di questi giorni, perché prelude a una sorta di routinizzazione dell’interruzione di gravidanza. La libertà è anche il dolore di certe scelte, non vanno banalizzate».

In quanto pretesa difficile da sbrogliare sul piano morale, giuridico e politico, l’aborto non può essere considerato un diritto (e alcuni argomenti degli anti-abortisti supportano dignitosamente questa tesi), anche perché porta con sé implicazioni problematiche e contraddittorie, ma deve essere riaffermato vigorosamente come una libertà individuale e inalienabile: se è vero e pacifico ritenerlo moralmente ambiguo e complicato da risolvere, e la discussione qui va su altri lidi, è altresì indubitabile che quella di voler praticare l’aborto sia una libertà fattuale, che non si può negare o misconoscere alle donne, in quanto proprietarie del loro corpo, responsabili dello stesso e delle implicazioni di questa scelta. Soprattutto non conviene farlo: non solo per la pace sociale, ma anche perché, se è verò che l’autonomia dell’agire e la libertà si portano dietro la responsabilità morale delle proprie azioni, la pro-choice è l’unica prospettiva utile alla causa sia dei pro che degli anti-aborto, l’unica garanzia che la scelta sia oculata e fatta con ponderazione, l’unico presidio per evitare eccessi da una parte e dall’altra, nei confronti della donna o del feto. E finché una libertà non danneggia la vita altrui (relazione madre-figlio a parte), è illiberale vietarla o disconoscerla.

«La libertà mi sembra sia solo quella della donna, perché essere vivo e in qualche misura in grado di compiere scelte autonome è una precondizione della libertà. E questa il feto non ce l’ha. – prosegue il professor Mingardi – Ma c’è il conflitto fra la libertà di usare il proprio corpo nel modo in cui si ritiene e una vita “in potenza”. Nel caso degli adulti, in alcune condizioni noi dichiariamo la “morte cerebrale” e sosteniamo che la vita umana in qualche modo degeneri a vita meramente biologica. Succede il contrario col feto: ma quando? In che momento preciso? Sono tutti dibattiti nei quali, alla fine, si arriva a qualche soluzione imperfetta, perché non ve ne sono altre. Il fatto che un comportamento non sia “proibito” non significa che debba piacere a tutti e a tutte. Prendiamo atto della drammaticità delle scelte e riconosciamole come difficili. È proprio per questo che debbono essere libere».

Per dirla con Kant, è giunto il momento di riconoscere l'autonomia morale del soggetto. Questo discorso, beninteso, vale tanto per il diritto all’aborto, quanto per quelli alla riproduzione e alla nascita, quanto per tutta una serie di altri supposti diritti fondamentali. Basta con questa retorica dei diritti per ogni cosa, a tutti i costi, sempre e ovunque. Smettiamola di ragionare in termini di diritti da pretendere, lasciando sempre all’autorità pubblica il potere e l’arbitrio di decidere per la nostra vita, di dosare col misurino le cose che ci permette di fare e tenendo sempre la briglia serrata, e ricominciamo piuttosto a ragionare in termini di libertà da riconquistare e ripristinare. Perché se c’è una differenza tra diritto libertà, è che il primo deve essere sempre pensato e costruito su misura, la seconda solamente restituita: laddove il diritto è necessariamente concesso, la libertà va solo riconosciuta.

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