La costola intollerante delle università

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Approfitto del più recente avvenimento accaduto alla mia università, l’occupazione del rettorato della Federico II di Napoli, per provare almeno a sfiorare un problema più ampio: l’estremizzazione fanatica e intollerante di una parte del mondo studentesco, in particolar modo all’interno delle facoltà umanistiche.

Qualche settimana fa, sempre alla Federico II, al grido delle solite rimasticate parole d’ordine – accuse a destra e manca di «sionismo», diventato oggigiorno epiteto infame, e di «genocidio» – una barricadera minoranza di miei colleghi o sedicenti tali era riuscita ad imporre la propria volontà su quella di tutti gli altri, rettore incluso, facendo annullare un dibattito sul “Ruolo della cultura nel contesto del Mediterraneo conteso. Trovando inaccettabile che personaggi come Maurizio Molinari, direttore di “Repubblica”, «possano parlare», questi colleghi o sedicenti tali avevano deciso di farli tacere a modo loro, defraudando i restanti colleghi di un altro sacrosanto diritto: quello di ascoltare e di farsi un’opinione. Ma l’intolleranza che con sempre maggiore frequenza sfocia in tali gesti eclatanti è soltanto una parte, la componente più evidente e rumorosa di una generale cappa che intossica certi ambienti universitari.

Basta ad esempio una passeggiata alla sede di Porta di Massa della Federico II – restando, quindi, in ambienti di cui ho esperienza diretta – per trovare, tra le tante bandiere palestinesi e i soliti slogan «Free Palestine», sulla porta dell’ascensore della scala A,la data «7/10» affiancata da una stella di David. Non servono particolari competenze ermeneutiche per cogliere il messaggio dell’autore: la rivendicazione del massacro del 7 ottobre, un massacro qualificato dai suoi sostenitori come atto di resistenza. È dunque certamente vero che il termine «antisemitismo» è troppo spesso utilizzato a sproposito per delegittimare ogni critica al governo israeliano, ma, sinceramente, in tempi in cui la stella a sei punte è tornata ingiuriosamente a tappezzare le mura delle nostre strade e addirittura delle nostre università, in tempi in cui una studentessa può essere discriminata soltanto perché ebrea, e dunque sionista, e dunque sostenitrice di Netanyahu, e dunque criminale e genocida – a causa di quei cortocircuiti che caratterizzano il pensiero veloce studiato dal compianto Kahneman – davvero non saprei quale altra espressione utilizzare.

Del problema si sono occupati, tra gli altri, con due recenti editoriali Giovanni Orsina su “La Stampa” e Angelo Panebianco sul “Corriere della Sera”, evidenziando i rischi di un’università che al pluralismo dei punti di vista sostituisce il moralismo censorio di studenti, e spesso anche professori, ubriachi di umori intolleranti e antioccidentali. Ed essere ubriachi, sia chiaro, è completamente legittimo: il problema insorge quando però l’ubriachezza pretende di dettare legge, e ancor di più quando tale pretesa non trova nessun altro a contrapporvisi. È per questo che oggi è quanto mai importante che chiunque, studente o professore, batta i piedi e dica basta. Altrimenti, per chi guardasse dall’esterno, l’università potrebbe sembrare tutta così: un bivacco di teppisti ed esaltati.

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