Il progressismo woke ha premiato Trump?

Il fallimento del Partito Democratico alle ultime elezioni americane sancisce forse un fatto già rilevato da molti analisti, e cioè che l'agenda woke sembra stia perdendo il suo fascino, casomai l’abbia avuto al di fuori di specifiche cerchie privilegiate. In quest'articolo esaminiamo alcuni dati per capire se il progressismo statunitense abbia indirettamente nutrito il trumpismo uscito trionfante dalla tornata elettorale.

Fonte Pixabay

Era il 2022 quando il miliardario Elon Musk, fino a pochi anni prima finanziatore di spicco dei democratici americani, per spiegare la sua decisione di ricollocarsi verso destra condivise una vignetta del biologo evoluzionista Colin Wright, autore presso la rivista “Quillette”.

Il messaggio era chiaro. Musk non riteneva di essere cambiato, bensì sosteneva che fosse la sinistra ad essersi così estremizzata su alcune tematiche da spingere i moderati verso l’altra parte. Una visione prontamente oggetto di critiche, anche comprensibili, poiché ignorava la radicalizzazione parallela che ha pervaso l’establishment del Partito Repubblicano dal 2016, oltre che negazionismi assoluti a cui Wright ha voluto rispondere raccontando la sua storia personale.

Eppure, al netto delle semplificazioni, le prime analisi pubblicate dopo la seconda vittoria di Trump (vittoria ben più netta di quella di otto anni fa e in cui l’amministratore di SpaceX ha avuto un ruolo non secondario) sembrano portare in quella direzione: la working class e le principali minoranze etnico-religiose stanno abbandonando la sinistra americana a cui erano storicamente associati. Uno dei gruppi dove lo spostamento è stato più sensibile è quello dei latinos: alle elezioni del 2012 Barack Obama ottenne circa il 70% del loro consenso, quattro anni dopo Hillary Clinton ne convinse il 66% e nel 2020 Joe Biden si mantenne più o meno su quella linea con un buon 60%. Kamala Harris, invece, è scivolata al 52% rispetto al 46% di Trump, che così ha ottenuto il miglior risultato mai registrato da un presidente repubblicano in quella specifica fascia, superando anche la sua sfidante tra gli uomini.

Ciò potrebbe sorprendere alcuni, dal momento che proprio gli immigrati messicani erano stati bersaglio di alcuni degli attacchi più controversi del tycoon, ma non si tratta di una svolta inaspettata. Per anni, infatti, l’analista politico Ruy Teixeira ha riportato studi che segnalavano la disaffezione crescente degli ispanici con cittadinanza americana verso i politici di area liberal, i quali stavano venendo percepiti come eccessivamente focalizzati su battaglie culturali di scarsa importanza o deleterie dal punto di vista dei primi. Teixeira pubblicò nel 2002 il suo libro più famoso intitolato “The Emerging Democratic Majority, in cui prevedeva che il calo percentuale della popolazione di etnia caucasica (base elettorale del GOP) dovuto all’immigrazione avrebbe potuto trasformare gli Stati Uniti sostanzialmente in una repubblica monopartitica a guida democratica. Oggi lui stesso riconosce che la direzione intrapresa e tutt’altra ed è stata confermata anche da Matteo Muzio in un’intervista qui su “Liberi Oltre: «Le minoranze etniche stanno cominciando ad allinearsi ai bianchi: si vota per convinzione ideologica e non più per appartenenza o gratitudine per quanto fatto dai dem durante l'epoca dei diritti civili».

Anche i musulmani d’America sembrano aver perso la sintonia con l’unico partito ad aver fatto eleggere membri della loro fede nel Congresso. Nonostante a livello nazionale Harris abbia staccato Trump con un ampio margine, in decine di migliaia hanno disertato le urne mentre a Deaborn, che con i suoi 93.000 abitanti è la prima città a maggioranza araba del Michigan, The Donald ha scavalcato Kamala di otto punti percentuali (in un luogo dove Biden aveva trionfato con quasi tre quarti dei consensi). Alla fine, il Michigan, che poteva essere determinante, è passato ai repubblicani per un soffio. Avranno pesato gli echi di Gaza e la volontà di punire l’amministrazione in carica per la sua supposta ignavia verso Netanyahu, ma neanche si deve dimenticare come i programmi pro-LGBT+ e pro-aborto stiano sempre più stretti a gruppi così fortemente religiosi.

In generale è l’agendawoke che sembra stia perdendo il suo fascino, casomai l’abbia avuto al di fuori di specifiche cerchie privilegiate. Uno studio condotto da “Blueprint” sui cittadini degli swing states, ovvero gli “stati in bilico”, ha rilevato che tra le ragioni principali per il mancato sostegno a Harris ci fossero, dietro l’inflazione e l’immigrazione clandestina, la percezione che preferisse concentrarsi su questioni che interessavano una minoranza della popolazione, data dal suo passato attivismo (si fa l’esempio dei diritti per i transgender), piuttosto che proporre misure concrete a vantaggio dei lavoratori. Già nel pieno della campagna elettorale, l’ex-procuratrice aveva cercato di correre ai ripari, arrivando anche a ritrattare in modo imbarazzante il suo conclamato supporto per il movimento “defund the police.

Uscendo dalla narrazione comune che presenterebbe il Partito Democratico come il polo incentrato sui diritti civili e il GOP come “il partito della prosperità”, la presidenza Biden non è stata affatto inefficace o inadempiente sul fronte dell’economia e i beneficiari principali delle sue manovre sono stati ironicamente proprio quei “colletti blu” che hanno riconsegnato a Trump le chiavi della Casa Bianca. Insomma, è mancata nei Dem l’abilità di saper promuovere i traguardi raggiunti e rimodernare la propria immagine, anche a causa del poco carisma e dello scarso coraggio dimostrati in tal senso da ambo i candidati uscenti. Il ritiro precipitoso e “spontaneo” di Biden a meno di quattro mesi dal voto, dopo che per mesi si era cercato di minimizzare la gravità delle sue condizioni, seguito dall’investitura della sua vice senza passare per nessuno spoglio ha finito per consolidare solo la rappresentazione satirica del DP come una lega elitaria che ritiene di poter mentire al suo popolo e passarla liscia in virtù della giustezza della propria causa.

Restringiamo di nuovo il campo, stavolta sulla Florida. Quella che è oggi ritenuta una roccaforte rossa MAGA fino a non troppo tempo fa era giudicata anch’essa uno swing state, ovvero un territorio contendibile dai due principali partiti. Cosa è cambiato? Stando a Steve Schale, stratega politico che ha svolto un ruolo centrale nel tingere di blu il “Sunshine State” alle presidenziali del 2008, l’errore più grave della base democratica dopo è consistito nel non aver voluto frenare l’influenza delle lobby progressiste esterne che hanno condannato la sezione locale del partito a una semi-disintegrazione, dando centralità a temi e candidati non sentiti dalla gente comune.

Evitare che quello scenario si replichi su scala nazionale porta la classe dirigente Dem a un bivio. Possono raccogliere l’invito di Bernie Sanders a ridosso della sconfitta e trasformare definitivamente il loro schieramento in un partito socialista old style (vale la pena sottolineare come già il programma di Kamala Harris presentasse un incremento notevole della tassazione sulle classi benestanti, finanziamenti corposi alla sanità pubblica e varie forme di sussidi che gli avevano fatto guadagnare il supporto dei più importanti sindacati americani). Oppure, possono provare a ripetere, adattandola ai tempi moderni, l’avventura dei “New Democrats”, che negli anni ‘90, quando il partito dell’asinello usciva dalla sequenza di disfatte dell’era reaganiana, rivoluzionarono gli assetti abbracciando una linea pragmatica, patriottica, securitaria ed economicamente anti-populista che aveva in Bill Clinton il suo volto di riferimento.

Con il trumpismo che si appresta a un ritorno roboante, i prossimi mesi ci daranno già degli indizi circa il livello raggiunto dal processo di polarizzazione negli USA, e se esso abbia già raggiunto il punto di non ritorno o meno.

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