Il problema giuridico del diritto all'aborto

Dal 2022 l'aborto non è più un diritto federale negli USA. Nonostante le condivisibili rimostranze da parte della fazione pro-choice, tuttavia, la sentenza della Corte Suprema è valida e non necessariamente ingiusta, e il motivo è strettamente giusfilosofico.

Nel giugno 2022, la Corte Suprema americana si è pronunciata sul caso Roe v. Wade, una sentenza della Corte Suprema del 1973 (riaffermata dalla sentenza del 1992 Planned Parenthood v. Casey) che inquadrava l’aborto come un diritto costituzionale da ritrovarsi nel 9° emendamento sotto forma di diritto non enumerato, o nel 14° emendamento. Roe v. Wade aveva fino ad allora garantito «la possibilità di abortire fino alla cosiddetta "viability", ovvero la capacità del feto di sopravvivere fuori dal grembo materno, che all’epoca avveniva alla 28esima settimana di gravidanza, mentre ora può avvenire anche alla 23esima, grazie ai progressi tecnici. La Corte Suprema, in quelle occasioni, sancì l’aborto fino a tale limite come diritto costituzionale. Dunque, non era concesso ai legislatori imporre limiti inferiori a quello delle 23-28 settimane, mentre era possibile concedere termini più blandi», come ha spiegato Filippo Massari.

La sentenza della Corte Suprema ha però ribaltato Roe v. Wade e Planned Parenthood v. Casey, stabilendo che l’aborto non è più un diritto garantito dalla Costituzione e che la decisione sulla legalità dell’aborto spetta ai cittadini e ai loro rappresentanti politici. «La sentenza non rende giuridicamente illegale l’aborto – prosegue Massari – ma trasforma quello che finora era un diritto garantito dalla Costituzione in una questione politica. L’effetto immediato o prossimo sarà però quello di limitare fortemente, e in certi casi impedire totalmente, l’accesso all’aborto in diversi Stati del Paese».

Il diritto e i diritti

Tralasciando gli argomenti puramente bioetici pro-choice o anti-abortisti (a cui abbiamo dedicato un articolo apposito), prima di invocare slogan come “My body, my choice” o “Abortion is right” con leggerezza e approssimazione, è fondamentale chiedersi cosa voglia dire veramente “diritto”. Nella sua accezione principale, il diritto è un insieme di regole che un gruppo si dà per organizzare la vita associata, le quali vanno poi a configurare l’ordinamento giuridico. Gli ordinamenti giuridici variano secondo i tempi, i luoghi e le circostanze, ponendo complessi problemi di coerenza e di armonizzazione. Tuttavia, espressioni come “non hai il diritto di” o “è mio diritto” rilevano che il diritto non è solo un complesso di leggi (diritto oggettivo), ma anche un potere o una qualità della persona, la facoltà di fare alcunché riconosciuta dall’ordinamento giuridico ai soggetti (diritto soggettivo).

Se proviamo a estendere ulteriormente il concetto, il diritto indica anche le esigenze rivendicate dai soggetti che vogliono essere riconosciute in un ordinamento che non le prevede (si pensi al diritto all’eguaglianza tra gli uomini, ai diritti delle donne, ai diritti fondamentali dell’uomo, ai diritti dei bambini): qui i soggetti si appellano a norme morali superiori a quelle sancite dalle leggi vigenti o a necessità maturate nell’evoluzione della società. La sfera dei diritti rivendicati tende ad allargarsi sempre in direzioni impensabili fino ai tempi precedenti e ciò, come ben sappiamo, apre una dialettica complessa fra morale, politica e giurisprudenza.

Alla base della filosofia del diritto e delle dottrine giuridiche, storicamente, si pone infatti la fondamentale distinzione tra due scuole di pensiero, correnti e approcci: il giusnaturalismo e il giuspositivismo. Il primo sostiene che alla base del diritto prodotto dagli Stati e dalle comunità politiche vi sia un diritto naturale, anzi dei diritti naturali, a fondamento di ogni altra legge umana, scritta e non. Nel pensiero greco e latino il diritto naturale era fondato su un ordine cosmico (giusnaturalismo antico), nel pensiero medievale sulla volontà di Dio, che stabiliva tale ordine (giusnaturalismo medievale). Ma è con la modernità che il diritto naturale si riconfigura come un’ideale razionale da cui dedurre le norme e ritrova il proprio fondamento nella ragione umana, comune a tutti gli individui (giusnaturalismo moderno o giusrazionalismo). Per i giusnaturalisti di ogni specie, le norme sono derivabili razionalmente dall’osservazione della natura e della condizione umana (i diritti umani, ad esempio, sono di stampo giusnaturalista) e le norme di diritto naturale non sono solo superiori e più fondamentali delle leggi poste nei codici, ma sono proprio il fondamento di ogni altro possibile diritto e la norma immutabile alla base dei diversi ordinamenti giuridici, che variano nel tempo.

A partire dalla prima metà del Novecento, però, il positivismo giuridico (o giuspositivismo) ha scalzato le tesi del giusnaturalismo e rappresenta la prospettiva giusfilosofica dominante negli ordinamenti giuridici contemporanei. Secondo il giuspositivismo, il diritto non ha un fondamento naturale, ma è valido in quanto posto (“diritto positivo” vuol dire infatti “diritto posto” dal legislatore) con una serie di norme giuridiche formulate e determinate secondo un metodo e sancite esplicitamente (“positivamente”) da un’autorità legittimata. In quest’ottica, il diritto diviene uno strumento per raggiungere scopi e non più la realizzazione di un ideale, dato che il positivismo giuridico ritiene possibile una trattazione scientificamente neutrale del diritto, ora considerato come un fatto e non come un valore. La sfera del diritto viene così separata da quella della riflessione etica e il diritto viene ridefinito come ciò che è prescritto, non ciò che è sentito come giusto.

Il diritto positivo ha fatto propri molti principi e valori morali tipici del giusnaturalismo: per questo, quando una norma di diritto naturale viene codificata e formalizzata in una norma positiva, cioè si traduce in legge scritta, allora si dice che un certo diritto naturale è stato positivizzato.

Giusto, legale o entrambi?

Alle norme di diritto naturale si fa appello nei casi in cui manchino leggi scritte e riconosciute, poiché nel giusnaturalismo, ma anche in molta altra filosofia del diritto, giustizia legalità sono due cose molto diverse: una norma può essere legale e legittima ma non giusta (l’esempio classico è il processo di Norimberga), perché solo adottando una prospettiva giusnaturalistica è possibile identificare la giustezza di una norma, che evidentemente trascende la semplice correttezza formale della stessa. Assumere che le leggi razziali non siano giuste, nonostante a validarle sia il legittimo e indiscutibile Terzo Reich, vuol dire affermare che la giustizia è qualcosa che non si trova nella bontà o nella razionalità della legge in sé, ma si rintraccia aldilà di essa, alla luce di uno spettro di valori morali considerati universali (come i diritti naturali alla vita, alla libertà e alla proprietà o i valori della Rivoluzione francese di fratellanza, uguaglianza e libertà). Parlare di leggi giuste e ingiuste, insomma, vuol dire affermare che la giustizia non coincide con la legalità di una legge e che è possibile svelare l’ingiusto anche in una legge valida presente o, in altri casi, solo col passare del tempo e col mutare delle concezioni etiche nella storia.

Come scrive il professor Fabrizio Di Marzio, «Legalità e giustizia, una volta affiancate, si mostrano nella loro alterità. La carica problematica che si sprigiona dalla congiunzione tra legalità e giustizia può ricomporsi in un senso sotteso ma evidente: "legalità e giustizia" varrebbe a dire "legalità per la giustizia". Questa espressione può poi essere letta in un duplice senso: legalità quale scelta metodologica per raggiungere il traguardo della giustizia; legalità quale conseguenza di una scelta di giustizia (animata dal sentimento di giustizia che deve guidare così gli uomini come pure le istituzioni).» Nel momento in cui si trova una quadra, un punto di ottimo, una congiunzione tra giustizia e legalità, la prima è sovraordinata alla seconda, che si subordina alla giustizia.

Tre problemi del diritto

Ora, in battaglie come quella pro-aborto/pro-choice accade esattamente questo: la richiesta di riconoscimento del diritto all’aborto o al legittimo libero controllo del proprio corpo da parte della donna produce una positivizzazione di questo diritto, che diventa legge a seconda di criteri e parametri stabiliti per ragioni medico-sanitarie, chirurgiche, bioetiche ecc. Essendo tutto questo oggetto di regolamentazione giuridica, e quindi anche politica, il momento legislativo non ha nulla a che fare con la scienza medica, capace di individuare correttamente problemi, criticità, vantaggi e implicazioni dell’aborto sulla donna e sul feto. Ha senza dubbio a che fare con la bioetica e con le sue tesi, ma resta il fatto che finché un tema di natura scientifica viene preso dalla politica per tradurlo in qualche tipo di legge, quella legge non ha più nulla a che spartire con la scienza, e viene anzi valutata secondo altri criteri.

Non è un mistero, infatti, che la celebre sentenza della Corte Suprema sia da molti considerata ingiusta (rispetto a un’ideale Giustizia che riusciamo a scorgere aldilà delle leggi umane), pur rimanendo valida. Purtroppo non ha problemi di incostituzionalità o illegittimità che consentirebbero a molti di darle contro: è una sentenza accettabile e non particolarmente contestabile dal punto di vista del rigore giuridico e della prassi. E questo per una serie di ragioni.

Innanzitutto, una sentenza negli Stati Uniti ha più peso, per esempio, di una sentenza in Italia per la differenza tra i rispettivi sistemi giuridici. Diversamente dalla nostra struttura di Civil Law, in cui il potere legislativo è completamente in mano ai Parlamenti (che possono arbitrariamente ascoltare i tribunali per legiferare su problemi emergenti), il diritto inglese, statunitense, australiano, neozelandese e di altri paesi angofoni è di Common Law: un sistema, cioè, in cui anc­he i tribunali sono produttori indiretti di diritto perché la legge si fonda in buona parte sui precedenti giuridici. Nei Paesi di Common Law, oltre a un ruolo legislativo del Parlamento come base, a produrre e costituire la norma sono anche i giudici e le loro sentenze, che si aggiornano nel tempo con maggior frequenza e sono molto più ricettive dei mutamenti bottom-up della sensibilità sociale e della comple­­­ssità socio-culturale (in pratica, “ascoltano” molto meglio le istanze popolari, presentate sotto forma di casi giudiziari che altrimenti sarebbero stati imprevedibili per un legislatore top-down data la loro incredibile specificità e contestualità storico-sociale).

In secondo luogo, secondo il giurista e politologo Norberto Bobbio, per stabilire una teoria della norma giuridica, è necessario che ogni norma sia sottoposta un triplice ordine di valutazioni, distinte e indipendenti tra loro e con le quali tutti i giuristi giuspositivisti, normativisti e realisti si sono dovuti confrontare: giustiziavalidità ed efficacia.

  • Il problema deontologico del diritto riguarda la giustizia, ossia corrispondenza o meno della norma ai valori di un ordinamento giuridico ed equivale a domandarsi se quella norma sia atta o meno a realizzare i valori storici che ispirano quel concreto e storicamente determinato ordinamento. Stabilire se una norma sia giusta o meno è un aspetto del contrasto tra mondo reale e mondo ideale accennato prima, cioè tra ciò che dovrebbe essere (prescrizione, Sollen) e ciò che è (descrizione, Sein), giusto per richiamare la fallacia naturalistica di Moore.
  • Il problema ontologico del diritto riguarda la validità, ossia l’esistenza della regola in quanto tale, che viene risolta con un giudizio di fatto. Per decidere se una norma sia valida (cioè esista come norma giuridica appartenente ad un determinato sistema), bisogna accertare che 1) l’autorità che l’ha emanata avesse il potere legittimo di emanare norme giuridiche; 2) che non sia stata abrogata; 3) che non sia incompatibile con altre norme del sistema, in particolare con una gerarchicamente superiore o con una successiva. Tutto questo perché la validità è una qualità intrinseca del diritto.
  • Il problema fenomenologico del diritto riguarda l’efficacia, ossia se una norma sia o no rispettata dalle persone a cui è diretta e, nel caso in cui sia violata, se sia fatta valere dall’autorità che l’ha posta. La ricerca per accertare l’efficacia o l’inefficacia di una norma, che dipende dalla condotta umana, è una ricerca storico-sociologica che si rivolge allo studio del comportamento dei membri di un certo gruppo sociale (sociologia del diritto).

Una norma può dunque essere giusta ma non valida, valida ma non giusta, valida ma non efficace, efficace ma non valida (come nel caso delle consuetudini, della buona educazione, del diritto consuetudinario: nessuna consuetudine è norma solo per il fatto di essere efficace, essa lo diventa solo se viene riconosciuta dall’autorità come valida), efficace ma non giusta (la giustizia è indipendente dalla validità, ma anche dall’efficacia) e infine giusta senza essere valida. Questi tre problemi del diritto sono riconducibili a un unico problema centrale, che è poi lo scopo di tutta l’esperienza giuridica: organizzare al meglio la vita degli uomini in società.

Molti teorici si sono interrogati su questi tre problemi/criteri, proponendo delle tesi riduzionistiche per comprenderli meglio:

  • se si riduce la validità alla giustizia, per cui una norma è valida solo se è giusta, si ricade nel giusnaturalismo;
  • se si riduce la giustizia alla validità, per cui una norma è giusta in quanto è valida, si ricade nel giuspositivismo;
  • se si riduce la validità all’efficacia, per cui il diritto reale è solo quello applicato effettivamente dagli uomini durante la loro esistenza, e non quello scritto, ma rimasto inapplicato, nelle carte e nelle costituzioni, si ricade in una terza corrente, nota come realismo giuridico (giusrealismo), che fonda la validità del diritto sulla sua effettività ed efficacia e di cui gli USA hanno prodotto una specifica sottocorrente, il realismo americano.

La sentenza della Corte Suprema, dunque, è accettabile normativamente perché è sicuramente legale (siccome ha valore di legge nel sistema di Common Law americano), è senz’altro valida (in quanto validata dalla stessa autorità giuridica e federale che l’ha emanata) ed è sicuramente efficace (la sua ricezione ed attuazione da parte degli Stati federali non ha tardato ad arrivare). Alla domanda se sia anche giusta, il dibattito è ancora aperto e si torna sulla bioetica, ma una cosa è certa: che la pratica abortiva sia declassata dal rango di diritto federale e sia rimessa nelle mani degli Stati, delle legislazioni locali, non è necessariamente una tragedia, almeno nella misura in cui si lascia a ogni Stato la facoltà di normare e disciplinare il fenomeno, “ascoltando” la volontà popolare e legiferando ad hoc. Se poi in futuro ciò porterà a un divieto generalizzato o a un riconoscimento generalizzato dell’aborto in altri Stati, solo il tempo potrà dircelo.

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