L'opinione pubblica sa bene che la Repubblica italiana è dichiaratamente antifascista e che in passato sono state approvate delle leggi per vietare la ricostituzione del Partito fascista. Ma la presenza di numerose associazioni politiche e culturali di matrice dichiaratamente fascista (Forza Nuova, CasaPound, eccetera) legittima alcuni dubbi. Per questa ragione, forniamo nelle righe che seguono una breve disamina delle norme, ordinarie e costituzionali, di contrasto al fascismo in Italia, rispondendo alla domanda delle domande: il fascismo è legale in Italia?
È il 7 gennaio 2023. Un nugolo di militanti nerovestiti si raduna ad Acca Larentia e compie una commemorazione di tre ragazzi fascisti uccisi il 7 gennaio 1978. Seguono braccia tese, cori littori ed esibizione di comportamenti inneggianti al fascismo. Dopo i fatti – ad onor del vero non inediti – gran parte dell’opinione pubblica ha focalizzato la sua attenzione sul rapporto tra il fascismo del XXI secolo e la democrazia italiana, riaprendo un dibattito che dura dall’inizio della Repubblica. La domanda delle domande interroga sulla legalità dell’organizzazione di manifestazioni in cui si seguono rituali fascisti e si fanno saluti romani, richiamando con una certa evidenza i costumi, i motti e le canzoni del Ventennio littorio. Il lettore si chiede dunque: «il fascismo in Italia è legale?».
Quali sono le norme da interpretare per un lavoro di questo genere? Le norme di contrasto al fascismo vigenti in Italia sono da ritrovare nella XII disposizione transitoria e finale della Costituzione, nella l. 654/1953 (legge Scelba) e nella l. 205/1993 (legge Mancino). Esse, com'è ovvio, è bene concepirle in maniera sistematica e simbiotica rispetto alla giurisprudenza che le applica quotidianamente. L'ordinamento senza la giurisprudenza è carta straccia, la giurisprudenza senza l'ordinamento - almeno nei sistemi di civil law - è arbitrio; entrambe, legate da un rapporto simbiotico, fanno il diritto vigente.
La prima norma, in ordine di tempo e in ordine gerarchico, la troviamo nella XII disposizione transitorie e finali della Costituzione: è vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista. In deroga all'articolo 48, sono stabilite con legge, per non oltre un quinquennio dall'entrata in vigore della Costituzione, limitazioni temporanee al diritto di voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista.
Già da qui occorre richiamare l’attenzione del lettore sul divieto indirizzato espressamente al «disciolto partito fascista». Perciò la norma non è indirizzata a qualunque partito che si richiami all’ideologia fascista, ammesso che essa possa essere definita in termini univoci, ma a quel partito fascista disciolto a seguito della guerra civile italiana. Precisato ciò, vale la pena fare qui una brevissima precisazione sulla costituzione in generale. L’entrata in vigore della nuova costituzione italiana il 1° gennaio 1948 ha comportato l’affermazione di un nuovo regime politico. Per questo non si può dire che la costituzione repubblicana ha «abrogato» lo Statuto albertino, dal momento che esso era il fondamento costituzionale di un regime politico, quello monarchico-parlamentare, che ha cessato di affermarsi come «vigente». Lo scenario è quello delle forze materiali, del potere nudo, e l’occhio del lettore non deve essere attratto dalla forma giuridica che esso acquisisce prima di averne colto la sostanza.
La differenza tra potere costituito e potere costituente è qui fondamentale: il primo è l’equilibrio di forze egemone, il «potere» nel suo significato più intimo, che è in grado di produrre diritto; mentre il secondo è l’equilibrio di nuove forze che tenta di scalzare l’egemonia dello status quo. Il potere costituente è sempre rivoluzionario e, in una certa misura, antisistema e fuorilegge sino a quando non si afferma come egemone, diventando così il nuovo potere costituito e producendo nuovo diritto. Il passaggio dallo Statuto albertino alla costituzione repubblicana è quindi la dimensione formale dell’affermazione di un nuovo equilibrio di forze che da potere costituente si fa potere costituito.
Il diritto non è un fenomeno naturale che gode di vita propria, è piuttosto la dimensione legale (della legge) che un equilibrio di forze divenuto egemone impone, con l’obiettivo di raggiungere una stabilità. Imposto il nuovo regime, è infatti necessario garantire una stabilità di amministrazione del territorio e della popolazione. È necessario, in versi più semplici, avere una gerarchia di norme che stabilisca i principi fondamentali a cui tutte le istituzioni dovranno rifarsi. L’atto giuridico che gerarchizza i poteri e gli atti di un regime è, da oltre due secoli, ciò che nel secolo scorso Hans Kelsen definiva «Grundnorm»: la norma di grado gerarchico maggiore, la costituzione.
La costituzione è il fondamento del diritto pubblico, e che sia rigida e che sia flessibile. Proprio perché il diritto è proiezione tendenzialmente statica di un intreccio di potenze dinamico, esso deve tenere conto di una realtà politica che non muta al mutar della norma, e deve imporsi e tratteggiarsi in modo che sia in grado di influenzarla. Questa condizione rende comprensibile perché nelle costituzioni si distinguano due categorie di norme: precettive (che impongono un precetto) e programmatiche (che delineano un fine, un obiettivo). Le prime devono dare solida vigenza a ciò che è (il precetto), assicurandosi che rimanga tale; mentre le seconde devono orientare l’azione delle istituzioni per ciò che sarà (il programma).
Sulla scorta di questa dicotomia e con il medesimo proposito di disciplinare la dinamica successione politica degli equilibri di forza, all’interno di ogni costituzione si collocano delle disposizioni transitorie e finali. Norme che avranno un’efficacia limitata nel tempo e che serviranno a garantire il passaggio dal regime precedente (nel nostro caso quello monarchico-parlamentare) a quello successivo. La XII disposizione transitoria e finale è chiaramente parte di questa categoria, e perciò aveva una efficacia limitata, con l’esclusione del primo comma. Il divieto della ricostituzione del disciolto partito fascista è da considerare un norma «finale» e non transitoria.
Il problema di applicazione alla realtà attuale riguarda piuttosto la stretta tipizzazione adottata. Un eminente giurista come Piero Calamandrei era appunto contrario all’adozione del nome specifico, perché credeva bisognasse stabilire soprattutto «che cosa c’è sotto quel nome, quali sono i caratteri che un partito deve avere per non cadere sotto quella denominazione e per corrispondere invece ai requisiti che i partiti devono avere in una Costituzione democratica»1. La protezione della democrazia italiana non può ridursi ad una questione nominativa, dal momento che «evidentemente può essere transitorio il nome “fascismo”, ma voi capite che non si troveranno certamente partiti che siano così ingenui da adottare di nuovo pubblicamente il nome fascista per farsi sciogliere dalla polizia» .
L’incompatibilità del fascismo – sempre volendo, con un certo ardimento, dargli un fine fisso e una forma ideologica ben definita – con la Costituzione è da ritrovare allora in altri articoli. Spostando così l’interpretazione costituzionale da un divieto formale e nominalistico alla sostanza giuridica delle norme vigenti, è possibile notare che la Costituzione stessa, per la forma di Stato che essa delinea e per i principi che tutela, si dimostra incompatibile con qualunque regime totalitario o dittatura. E il fascismo, almeno quello del secolo scorso, è certamente totalitario e dittatoriale. Ma ciò ha a che vedere con lo Stato fascista e non con le manifestazioni commemorative come l’Acca Larentia: quelle sono tutelate dagli articoli 18 e 21, a patto che non violino diritti fondamentali ugualmente garantiti dalla Costituzione.
Da questo veloce sguardo alla Costituzione deduciamo che il divieto alle manifestazioni simili a quelle di Acca Larentia, e più in generale della costituzione di un partito “fascista”, non è da ritrovare qui.
Veniamo dunque alla seconda fonte di riferimento: la legge 20 giugno 1952, n. 654 (anche detta legge Scelba). Questo atto normativo attua il primo comma della XII disposizione transitoria e finale, perché le norme precettive Costituzione necessitano di una attuazione attraverso le leggi ordinarie per poter essere applicate nei tribunali ordinari.
Eloquente è l’articolo 1: «Ai fini della XII disposizione transitoria e finale (comma primo) della Costituzione, si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione o un movimento persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politico o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principii, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista».
Quasi pare che il legislatore qui abbia inteso dare risposta all’obiezione che mosse qualche anno prima Calamandrei. Con la legge Scelba da questione meramente nominalistica la lotta al fascismo si trasforma in qualcosa di più concreto e sostanziale. Le pene previste sono delle più severe (articolo 2): chiunque promuove od organizza sotto qualsiasi forma la ricostituzione del disciolto partito fascista a norma dell'articolo precedente è punito con la reclusione da tre a dieci anni. Se invece l’organizzazione ha carattere paramilitare la reclusione per gli organizzatori è da «cinque a dodici anni» e per i partecipanti da «uno a tre anni». Poi con l’articolo 4 si cerca di estendere ancora il divieto, delineando il reato di apologia del fascismo: chiunque, fuori del caso preveduto dall'art. 1, pubblicamente esalta esponenti, principii, fatti o metodi del fascismo oppure le finalità antidemocratiche proprie del partito fascista e' punito con la reclusione fino a due anni e con la multa fino a lire 500.000 [oggi convertiti in euro]. E ancora all’articolo 5 si tipizza il reato di manifestazione fascista: chiunque con parole, gesti o in qualunque altro modo compie pubblicamente manifestazioni usuali al disciolto partito fascista è punito con l'arresto fino a tre mesi o con l'ammenda fino a lire cinquantamila [oggi convertiti in euro].
Come è agevole comprendere, le tre fattispecie di reato introdotte dalla legge Scelba (riorganizzazione del disciolto partito fascista, apologia del fascismo e manifestazione fascista) permettono di avere davanti uno scenario più chiaro. L’interpretazione letterale della legge porta a riconoscere che è illegale formare partiti, associazioni o gruppi che perseguano finalità antidemocratiche di matrice fascista e che usino la violenza come metodo di lotta politica. Quanto all’esaltazione apologetica pubblica, è da ritenere che sia anch’essa vietata, così come la manifestazione.
Sul tema è intervenuta sia la Corte Costituzionale che la Corte di Cassazione. La prima si è occupata di valutare la compatibilità dei divieti della legge Scelba con le garanzie della Costituzione, mentre la seconda ha stabilito la corretta applicazione delle norme. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 1 del 16 gennaio 1957, fu chiarificatrice: come risulta dal contesto stesso della legge 1952 (le cui norme, ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 10, cesseranno di avere vigore appena saranno state rivedute le disposizioni relative alla stessa materia del Codice penale), l'apologia del fascismo, per assumere carattere di reato, deve consistere non in una difesa elogiativa, ma in una esaltazione tale da potere condurre alla riorganizzazione del partito fascista. Ciò significa che deve essere considerata non già in sé e per sé, ma in rapporto a quella riorganizzazione, che è vietata dalla XII disposizione.
Secondo la Corte Costituzionale la legge Scelba non era incompatibile con la Costituzione, dal momento che doveva essere intesa in termini più restrittivi rispetto a quanto prospettato all’inizio sulla base di una mera interpretazione letterale.
La Corte di Cassazione si è pronunciata ripetutamente sulla questione negli ultimi anni. La prima sezione penale il 12 settembre 2014, con la sentenza n. 37577, ha ritenuto: (...) legittima l'incriminazione di condotte che risultino possibili e concreti antecedenti causali di ciò che resta costituzionalmente inibito, ossia la riorganizzazione del disciolto partito fascista, e ciò in relazione alle modalità di realizzazione delle stesse, posto che il fatto deve trovare nel momento e nell'ambiente in cui è compiuto circostanze tali da renderlo idoneo a provocare adesioni e consensi ed a concorrere alla diffusione di concezioni favorevoli alla ricostituzione di organizzazioni fasciste. Sebbene qui venga riconosciuto punibile il saluto romano e il ritualismo fascista in una manifestazione, la Corte puntualizza audacemente che: dunque non è la manifestazione esteriore in quanto tale ad essere oggetto di incriminazione, bensì il suo venire in essere in condizioni di “pubblicità” tali da rappresentare un concreto tentativo di raccogliere adesioni ad un progetto di ricostituzione (...).
Quindi non è la natura esteriore dell’atto elogiativo a concretizzare il reato, ma la sua natura pubblica e organizzata, nonché la sua idoneità a provocare adesioni e consensi funzionali alla ricostituzione del disciolto partito fascista (secondo la definizione allargata fornita dall’art. 1, l. 654/1952). Non l’atto in quanto tale, ma il contesto e la sua portata lesiva per l’ordinamento democratico. In questo senso la Corte di Cassazione si mantiene salda alla sentenza della Consulta del 1957 citata sopra.
Qualche anno dopo, la prima sezione penale della Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sulla questione, con la sentenza n. 8108 del 20 febbraio 2018. Nel riconoscere come non punibile l’adozione del saluto romano e del rituale fascista in una manifestazione commemorativa, rimarca che la legge Scelba non punisce tutte le manifestazioni usuali del disciolto partito fascista, ma solo quelle che possono determinare il pericolo di ricostituzione di organizzazioni fasciste e, di conseguenza, solo «i gesti idonei a provocare adesioni e consensi ed a concorrere alla diffusione di concezioni favorevoli alla ricostituzione di organizzazioni fasciste (...)». Ricordando inoltre che la Corte precedentemente ha affermato il principio secondo cui il delitto di cui all’art. 5 della legge 20 giugno 1952, n. 645 (...) è reato di pericolo concreto, che non sanziona le manifestazioni del pensiero e dell’ideologia fascista in sé, ma soltanto quelle che possano determinare il pericolo di ricostituzione di organizzazioni fasciste, in relazione al momento ed all’ambiente in cui sono compiute, attentando concretamente alla tenuta dell’ordine democratico e dei valori ad esso sottesi.
Secondo la Corte l’adozione del saluto romano e dei rituali fascisti non sono configurabili come reato quando sono compiuti con intenti commemorativi e privi della benché minima idoneità lesiva per l’ordine democratico. L’interpretazione delle leggi ordinarie attualmente vigenti ci permette di giungere ad una risposta alla domanda delle domande. Secondo l’ordinamento italiano e la giurisprudenza consolidata non costituisce reato l’organizzazione di manifestazioni fasciste, a patto che esse abbiano come fine la commemorazione. I fatti di Acca Larentia sono pienamente legali. Inoltre, l’esistenza di partiti, associazioni e gruppi dichiaratamente fascisti non è di per sé un elemento sufficiente a garantire la sussistenza del reato previsto dalla legge Scelba, perché è necessario che si presentino altri elementi di contesto in grado da configurare una idoneità a ledere l’ordinamento democratico attraverso una certa qual forma di riorganizzazione.
L’ultima fonte da interrogare è la legge 25 giugno 1993, n. 205 (anche detta legge Mancino). Il cenno qui sarà brevissimo, dato che l’atto normativo in questione non è indirizzato precipuamente a punire le organizzazioni fasciste, ma i crimini d’odio e la discriminazione razziale.
Nell’articolo 1 si individua la fattispecie di reato in maniera molto chiara: «(...) è punito con la reclusione sino a tre anni chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero incita a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.»
Chiaramente questo genere di azioni ed elogi sono propri della propaganda fascista, ma non si limitano solo ad essa. L’aspetto ai nostri fini interessante è dato dalla sua capacità di includere, in maniera molto meno settaria rispetto alla legge Scelba, il complesso di manifestazioni di questo genere, a prescindere dall’orientamento ideologico e dai fini politici.
Questa davvero breve disamina non può certamente mirare all’esaustività su una questione così intimamente complessa. Il grande dibattito intellettuale tra democrazie protette e democrazie «aperte» è attuale e ancora in corso di svolgimento. A rigore, questo nostro esile articolo non può ambire neanche alla più umile dottrina giuridica: i suoi fini sono esclusivamente divulgativi. Ciononostante, ci arroghiamo il diritto di esprimere una breve chiosa a margine.
Il fascismo è sempre stato un fenomeno volubile e dalla difficile definizione, quantomeno in termini ideologici. È stato socialista, rivoluzionario, statalista, corporativista, dittatoriale e infine di nuovo socialista. I fini che hanno abitato il fascismo sono variegati e agli antipodi tra loro. L’unico elemento comune è stato ed è l’utilizzo della violenza come metodo di lotta politica, e totale intolleranza nei confronti della diversità. Sino ai giorni nostri il fascismo ha ospitato così tanti fini da capovolgersi in metodo, condiviso e dalla sinistra e dalla destra. Ha sconfinato nell’intimo, nascosto tessuto della vita privata e ha informato di sé ogni aspetto, dai rapporti sentimentali alle relazioni politiche. Concepire oggi il fascismo significa fare un salto mentale ampio e trasversale, andando a scovarlo lì dove si è rifugiato: dentro ognuno di noi.
Se però il fascismo è metodo, necessitiamo anche di una riformulazione delle norme giuridiche precettive; magari giungendo a riconoscere la sua totale neutralità ideologica e il suo consolidamento strumentale nella prassi sociale. E madornale sarà l’errore del lettore se si persuaderà che il fascismo sociale possa essere contrastato con le sole armi del diritto (il nostro ordinamento persegue già ogni tipo d’azione violenta). Serve attribuire nuovo vigore ai fini delle nostre azioni, rompendo definitivamente la massima machiavellica del «fine che giustifica i mezzi». Perché sin quando l’importanza del fine giustifica i mezzi, il metodo fascista sarà di certo quello più utilizzato. Dobbiamo persuaderci che il fine non giustifica i mezzi, ma li prefigura. Sempre.
1. Discussione in Assemblea Costituente del 4 marzo 1947 sull’attribuzione alla Corte costituzionale del giudizio sulla democraticità dei partiti.