Perché per spendere dobbiamo indebitarci?

Sembra una domanda banale, abbastanza superficiale e priva di conseguenze, ma costituisce uno dei tasselli essenziali per mantenere vivo lo Stato sociale, quello che costruisce il sistema di welfare in cui viviamo. Se da una parte il dibattito sul debito e sui tassi di interesse è attivo giornalisticamente, benché privo di contenuti, il discorso cambia in materia di spesa, queste due grandezze però sono due facce della stessa medaglia. Esiste in aggiunta una via preferenziale, che consente di limare questo vincolo di sangue: la revisione della spesa. Attraverso una revisione attenta, a parità di risorse incamerate dall’amministrazione, la spesa può divenire più efficiente, meglio distribuita e sembrare addirittura incrementata.

Spesa per interessi: perché ci indebitiamo?

Lo Stato a volte sembra un’entità distaccata, una scatola nera incomprensibile, risulta pertanto quanto mai dovuto poterne fornire una chiave di lettura differente che sia in grado di darne una più attenta descrizione del funzionamento. Lo Stato è come un’azienda, con entrate ed uscite e quindi un bilancio in conto economico. Le entrate arrivano dalla tassazione, introiti diretti da aziende gestite dallo Stato o entrate derivanti dalla vendita di titoli di debito, dall’altro lato la PA spende per il welfare, quindi pensioni, sussidi di disoccupazione, sanità e istruzione, nonché difesa, ricerca di base, stipendi pubblici, rifinanziamento del debito e pagamento degli interessi sul medesimo,  etc. Se non si facesse debito la spesa dello Stato sociale dovrebbe essere sostenuta interamente dalla tassazione. Se però pensiamo ad uno Stato come l’Italia, con una pressione fiscale al 43% del Pil (ricchezza sottratta sotto forma di tassazione) notiamo che 821 miliardi non riescono a sostenere la spesa pubblica nella sua interezza che ammonta nel 2022 a 1.090 miliardi. Un Paese che non fa debito o non può perchè nessun investitore lo acquisterebbe, ha la possibilità di spendere fino ad un limite dettato dalle entrate fiscali che, nel caso specifico italiano, non riuscirebbero a sostenere lo Stato sociale se non con un taglio di 270 miliardi.

Considerato che il debito pubblico risulta in qualche modo vitale per la gestione del welfare ed allo stesso tempo comporta il pagamento di interessi, l’attenzione si sposta sulle metodologie con cui minimizzare questi costi che sottraggono risorse all'amministrazione centrale senza eliminare lo strumento del debito. Nel dettaglio, dal 1992 fino al 2022 la somma degli interessi sul debito pubblico pagati dall’Italia ammonta a 2.550 miliardi di euro, un'ingente quantità di risorse che non sono state utilizzate per strutturare un sistema di welfare efficiente o un impianto produttivo innovativo, ma sono stati incatenati al pagamento dei costi del benessere delle generazioni precedenti. 

Un ottimo punto di partenza per scardinare questo sistema è diventare buoni pagatori. Esattamente come ogni privato ha un rating in banca che determina l’erogazione di prestiti o mutui, anche gli Stati hanno un rating che determina le condizioni dei finanziamenti, nel caso specifico, il tasso di interesse. Questo meccanismo agisce attraverso un sistema di aste in cui si incontrano domanda (sottoscrittori) e offerta (Stato centrale) di titoli di debito. Per acquistare titoli italiani viene richiesto però un prezzo più elevato rispetto ad altri titoli come possono essere quelli tedeschi, in funzione della diversa affidabilità degli emittenti del debito. In questo senso lo Spread è la differenza di affidabilità del debito tra un emittente affidabile come la Germania e uno meno affidabile come l’Italia. Ad esempio nel 2024 lo Spread si aggira tra i 200 e i 130 punti, quindi il titolo di debito italiano, in questo caso il Buono del Tesoro Poliennale (Btp), richiede un tasso di interesse dal 2% all’1.3% in più del Bund tedesco a 10 anni. In conclusione un modo per ridurre l’ammontare della spesa per interessi è intraprendere un percorso che trasformi l’Italia in un Paese affidabile che per definizione ha la capacità di emettere debito a tassi più bassi accettabili dai sottoscrittori.

Ed ora la nuova domanda fondamentale diventa: “cosa vuol dire essere affidabile?” Uno Stato risulta buon pagatore od affidabile quando incorpora alcune caratteristiche chiave. Se dimostra una solida stabilità finanziaria attraverso un flusso costante di entrate sufficienti a coprire i propri impegni debitori. Tale stabilità finanziaria si riflette in una gestione oculata delle risorse ed in una pianificazione finanziaria attenta, atta a garantire la liquidità necessaria per far fronte agli obblighi e soprattutto agli imprevisti del ciclo economico. Inoltre, la puntualità nei pagamenti è un indicatore chiave di affidabilità finanziaria. Un soggetto che rispetta scrupolosamente le scadenze di pagamento stabilite consolida la propria reputazione di buon pagatore e così facendo contribuisce ad instaurare rapporti di fiducia reciproca con i sottoscrittori del debito. La trasparenza e la comunicazione sono altri elementi essenziali: parallelamente, il rispetto delle leggi finanziarie rappresenta un presupposto irrinunciabile. Di fatto, l’aderenza ai dettami normativi, accompagnata all'evitare comportamenti illeciti o fraudolenti, contribuisce a preservare l'integrità e la reputazione del Paese, garantendo un contesto finanziario sano e trasparente. Inoltre, elemento da non trascurare è la capacità di imposizione fiscale e quanto il singolo Stato abbia la capacità di modificarne l’assetto nel momento del bisogno. 

Un esempio interessante è quello del Giappone, con un rapporto debito/Pil del 246% ed un tasso di interesse sul debito dello 0.5%, mentre l’Italia ha un rapporto del 140% e un tasso di interesse del 5% nel 2022. Lo Stato nipponico ha alcune caratteristiche specifiche del sistema economico che rendono possibile questa asimmetria, e non si parla di quanto il Giappone stia più “simpatico” dell’Italia agli investitori. Oltre al fatto che secondo gli stessi criteri di bilancio europei il debito giapponese è circa il 170% del Pil (246% proviene da un diverso sistema di calcolo), uno dei fondamentali diversi è quello della pressione fiscale. Infatti, mentre in Italia si attesta al 43%, in Giappone si aggira sul 38% di conseguenza, se il governo centrale lo ritenesse necessario in caso di crisi, avrebbe spazio di manovra. Caratteristica di un Paese affidabile a livello finanziario che si aggiunge ad un sistema economico più stabile, in crescita maggiore di quella italiana, innovativo e di più grandi dimensioni. L’affidabilità creditizia comporta una revisione strutturale dell’economia, che potrebbe giovare sia a livello del pagamento degli interessi che del tessuto industriale. La PA ha inoltre l’opportunità di raccogliere informazioni dall’esperienza di altre realtà europee e non per concepire un percorso di riforma che, oltre ad alleggerire il carico del debito futuro, agisce retroattivamente migliorando le condizioni del debito già in essere.

La Spending Review in lotta con i mulini a vento.

Il Bel Paese non si è mai fatto mancare dibattiti ed analisi in proposito all’efficacia ed all'efficienza della spesa pubblica, infatti l’istituzione della Commissione Tecnica per la Spesa Pubblica (CTSP) presso il Ministero del Tesoro risale al 1981. Essa rimase operativa fino al 2003 con lo scopo di esaminare e valutare la spesa in vari settori sotto la lente dell'efficienza formulando raccomandazioni non vincolanti al ministero di riferimento. Dopo la soppressione nacque un’altra Commissione dalla vita relativamente breve di un anno, dal 2007 al 2008, per poi passare il testimone direttamente alla Ragioneria dello Stato nel 2009. Tramite l’introduzione della spending review nella legge di contabilità e finanza pubblica si obbligavano amministrazioni centrali e poi gradualmente anche quelle territoriali, a redigere una relazione triennale sull'efficienza della spesa, ancora oggi in vigore.

Colpito dalla crisi finanziaria dei debiti sovrani europei del 2010-11 lo Stato italiano inaugura un processo di risanamento del bilancio pubblico attraverso la determinazione di fabbisogni e costi standard dei programmi di spesa. Vengono perciò istituiti un Comitato interministeriale ed un Commissario straordinario: ruolo dal 2012 ricoperto da figure come Enrico Bondi, Mario Canzio, Carlo Cottarelli e Yoram Gutgeld, nonché da due viceministri quali Laura Castelli e Massimo Garavaglia, nominati dal governo Conte I.

Dopo gli anni di pandemia il tema della spending review torna in auge grazie alla Missione 1 del PNRR che prevede misure a favore della revisione di spesa e del potenziamento del ruolo del Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) con conseguente valutazione dei risultati. Il piano prevede di raggiungere una migliore allocazione delle risorse finanziarie al fine di incentivare manovre di crescita ed innovazione. Nel 2021, per perseguire questo obiettivo, viene costituito presso la Ragioneria Generale dello Stato il Comitato scientifico per le attività in merito alla spending review presieduto dal Ragioniere Generale e comprendente i dirigenti dei Ministeri coinvolti, nonché un componente della segreteria tecnica del MEF e rappresentanti di Corte dei Conti, Istat e Banca d’Italia.

Hanno vinto i mulini.

Dal 1981 al 2002 l’operato esterno della Commissione Tecnica per la Spesa Pubblica (CTSP) confluisce nell’elaborazione di studi mirati non sistematici su singole aree di spesa, formulando raccomandazioni non vincolanti per i singoli Ministeri. Prima della soppressione nel 2003 dal Governo Berlusconi alcune proposte entrarono a far parte di provvedimenti legislativi, tra queste una maggiore autonomia delle università e l’istituzione del Comitato di valutazione del sistema universitario. 

Nel periodo 2002-2008 la maggior parte del contenimento della spesa viene attuato attraverso riduzioni “lineari” e tagli delle dotazioni di spesa nel bilancio dello Stato, sia per consumi che per trasferimenti correnti alle amministrazioni pubbliche. Le uniche eccezioni a questo approccio furono: il limite percentuale all’incremento delle spese per le amministrazioni pubbliche e la diminuzione da 7 a 3 anni la possibilità di mantenere in bilancio i residui, ovvero le somme impegnate ma non ancora erogate. Niente ancora si focalizza su una revisione sistematica, finalizzata alla ricerca di una maggiore efficienza produttiva e organizzativa.

L’analisi sistemica della spesa viene introdotta per la prima volta, in via sperimentale, nel 2007 ed affidata al Ministero dell’Economia e delle Finanze, con a capo il Ministro Padoa- Schioppa. La CTFP e la RGS ridisegnano il bilancio dello Stato in 34 missioni e 168 programmi con l’obiettivo di fornire uno strumento di scelta più informata al legislatore e di valutazione trasparente al cittadino. Inoltre si applica un metodo innovativo per la formazione del bilancio con cui si evitano passaggi poco trasparenti di richieste di risorse e si realizza la revisione della spesa dei Ministeri partendo dalle priorità di ognuno di questi. Alle conclusioni della Commissione non viene dato alcun seguito perché viene soppressa con il cambio di Governo e di Ministro del 2008.

Dal 2009 al 2011 si susseguono le attività di Ragioneria Generale dello Stato e dei Nuclei di Valutazione atte all’individuazione e quantificazione dei principali fattori che ostacolano l’allocazione ottimale e l’utilizzo efficiente delle risorse. Entrambi i lavori sono da considerarsi da un lato preliminari ad una vera e propria revisione e dall’altro spunti di riflessione tra le strutture di Governo.

Nel 2012 il Commissario Enrico Bondi in pochi mesi, elabora un’analisi della spesa per consumi intermedi di Regioni, Province, Comuni, Università ed Enti di ricerca e su questa si fece riferimento per ridurre la spesa destinata ai consumi intermedi ed introdurre obblighi di riduzione delle spese. Il lavoro del Commissario, sostenuto da un forte mandato politico ed effettuato in collaborazione con la RGS, ha l’obiettivo di recuperare 20 miliardi in tre anni, utilizzando un metodo più fine dei tagli orizzontali che però sono quelli utilizzati nella pratica. Enrico Bondi si dimette dopo un anno per entrare come supervisore del partito Scelta Civica con riferimento a Mario Monti, lo stesso che lo aveva nominato Commissario.

Nel 2013 il Commissario Carlo Cottarelli vede ampliati i poteri dell’organismo e struttura un rapporto di sintesi esaustivo sia a livello centrale che locale. L’analisi svolta incontra non poche difficoltà sia per il mancato appoggio della politica che per la ristrettezza dei tempi di attuazione. Ciononostante, alcune delle proposte sono rientrate nei successivi decreti, tra cui la centralizzazione degli acquisti di beni e servizi, la riduzione degli stipendi dei dirigenti pubblici e la riforma delle aziende a partecipazione pubblica. Il Commissario si dimette dopo un anno (incarico di tre anni) poiché designato dal Governo Renzi ad un incarico al Fondo Monetario Internazionale.

Nel 2015 l’attività del Commissario Yoram Gutgeld si concentra su 3 macro-aree di spesa: sanità, enti locali e sicurezza, affiancato dall’economista consigliere del Presidente del Consiglio Matteo Renzi, Roberto Perotti, per circa sei mesi, fintanto che lo stesso si dimette dall'incarico dichiarando di non sentirsi utile. Il totale di riduzione della spesa per il 2017 ammonta a 30 miliardi di euro, utilizzati per ampliare le prestazioni previdenziali e assistenziali (per un totale di 12,7 miliardi), e per contribuire al risanamento dei conti pubblici ed alla diminuzione della pressione fiscale. I dati però risentono dell’assenza di trasparenza nel processo e nei risultati ottenuti.

In accordo ai dettami del PNRR, la Ragioneria ha esaminato l’operato dei Ministeri di Giustizia e Salute nel triennio 2018-20 sulla base dell’efficacia sia degli obiettivi che delle procedure. Se da una parte gli obiettivi di risparmio nel 2019 sono stati raggiunti nella quasi totalità dei centri di spesa, dall’altra le metodologie non fanno ben sperare: infatti, uno dei principali problemi emersi per entrambi i Ministeri è stato quello di adottare sistematici tagli.

Tagliare la spesa significa ridurre finanziamenti o stanziamenti, non riqualificare la spesa, ristrutturare il sistema decisionale e le sue metodologie in funzione di una migliore efficienza, in un certo senso si potrebbe dire che c’è stata spending review senza autentica revisione della spesa. Rimanevano ancora nell’ombra i presupposti su cui dovevano esser state formulate le proposte dei Ministeri, l’impianto decisionale utilizzato e se fossero state prese in considerazione eventuali opzioni alternative rispetto a quelle intraprese.

Le spending review non sono mai state paragonabili alle esperienze condotte in altri paesi, dove hanno prodotto significativi e permanenti tagli alla spesa. Nel Regno Unito si attua una revisione sistemica che coinvolge la totalità delle amministrazioni da anni, con risparmi solo dal 2004 al 2007 superiori ai 23 miliardi di sterline (circa il 3.7% del totale della spesa). Il Giappone invece, dal 2006 al 2009, ha registrato un risparmio di 42 miliardi di dollari (circa il 3% del totale della spesa), con grande attenzione alla trasparenza dei processi.

Nessuna è intervenuta sui processi produttivi per aumentare l’efficienza e la qualità dei servizi pubblici, a parte alcuni lavori della CTSP. Solo le revisioni di Bondi e di Gutgeld hanno prodotto importanti risparmi di spesa. Nel primo caso però, sono stati ottenuti con tagli quasi-lineari su tutti gli enti territoriali. Nel secondo, dai documenti pubblici è difficile individuare un legame diretto tra l’attività svolta ed i risparmi dichiarati. Nel caso della spending review realizzata singolarmente dai Ministeri sono stati realizzati risparmi molto contenuti imponendo tagli lineari a tutti i Ministeri. Questi tentativi di manovra non sono riusciti né a ridurre le risorse pubbliche a parità di servizi pubblici offerti, né a ridefinire il perimetro dell’azione pubblica, né ad aumentare l’efficienza.

Conclusione

La spesa non è (quasi) mai troppa o troppo poca, il discorso va contestualizzato a livello di area di interesse di ogni singola pubblica amministrazione. Nel momento in cui lo Stato italiano ha deciso di intraprendere un percorso di forte presenza nell’economia, da una parte per salvaguardare diritti alla salute ed al lavoro, dall’altra con una marcata pressione fiscale, risulta alquanto logico che la spesa ne debba essere commisurata. Il problema è un altro: in Italia si spende in maniera sconsiderata; se non prendiamo in considerazione pensioni e interessi sul debito, l’Italia spende meno della media dell’Eurozona ed una spesa strutturalmente inefficiente comporta minore capacità del sistema di crescere e sostenere la popolazione. Gli eccessi del passato appesantiscono le possibilità di spesa attraverso il macigno degli interessi sul debito pubblico che ammontano allo stesso valore nel bilancio di uscite dello Stato dell’intera spesa per l’istruzione. Si è cercato di risolvere questi problemi (ir)risolvibili attraverso attente valutazioni di esperti che però sono state del tutto o in parte, accantonate od ignorate. Il fardello della spesa ha a disposizione una miriade di soluzioni che ne alleggerirebbero una parte alla volta, un percorso di lungo periodo che però non sembra interessare abbastanza né le sedute di velluto, né i cittadini, le cui risorse però sono quelle che vengono sperperate.

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