Il Mar Cinese Meridionale è ormai uno dei settori più caldi nello scacchiere dell’Asia Pacifico. Si tratta di un mare che bagna Cina, Vietnam, Filippine, Malesia, Brunei e Indonesia, nonché sede di numerose dispute territoriali fra gli Stati costieri, che hanno causato spesso speronamenti fra barche e, in rari casi, addirittura affondamenti.
Il maggior fattore di attriti è indubbiamente la cosiddetta “linea dei 9 tratti”, o “lingua di mucca”, che demarca la porzione di acque reclamate dalla Cina (figura 1). Commissionata nel 1947, inizialmente prevedeva 11 tratti e si estendeva fino al golfo del Tonchino, ma è stata successivamente ridotta fino agli anni 2000, quando i confini marittimi del golfo sono stati definitivamente stabiliti di comune accordo fra Cina e Vietnam in un’ottica di normalizzazione dei rapporti. Nelle mappe a più ampio respiro, la lingua di mucca mostra però un tratto aggiuntivo rispetto ai 9 comunemente noti, che si estende oltre l’isola di Taiwan. Per questo, risulta evidente la volontà di Pechino rafforzare la validità delle proprie pretese su Formosa, le isole Senkaku e una parte dell’arcipelago di Ryukyu.
La linea dei 9 tratti pone un problema giuridico di fondo: oltre a non demarcare in maniera puntuale quelli che sono i confini dell’area reclamata dalla Cina, infatti, non chiarisce nemmeno quale sia lo status delle acque in essa comprese. Nella cosiddetta “mappa verticale”, pubblicata nel 2014, i tratti nel mar Cinese Meridionale vengono segnalati con lo stesso formato e gli stessi colori dei confini terrestri cinesi (figura 2), cosa che ha fatto sospettare alcuni analisti che in futuro Pechino possa considerare il mare alla stessa maniera delle acque interne, come “parte integrante del territorio cinese”
La cosa sarebbe dunque in contrasto con le norme internazionali, in particolare con la Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare di Montego Bay, piĂą comunemente nota come UNCLOS. Secondo la Convenzione, le acque sono, di norma, suddivise in acque interne, acque territoriali, acque contigue, zona economica esclusiva (ZEE) e acque internazionali (figura 3).
A) Le acque interne garantiscono a un paese la stessa sovranitĂ e tutti i diritti di cui godrebbe sulla terraferma.
B) Le acque territoriali si estendono per 12 miglia nautiche, poco meno di 25 chilometri, dalla linea di base, definita come limite della costa durante la bassa marea, e permettono al paese costiero di esercitare la propria giurisdizione sulle imbarcazioni in transito, fatto salvo il diritto dei navigli al passaggio inoffensivo. Per “passaggio inoffensivo” s’intende l’attraversamento delle acque senza intenzioni ostili da parte dell’equipaggio della nave e senza che vi siano ripercussioni sulla pace e sulla stabilità dello Stato costiero. A titolo di esempio, un sottomarino può attraversare tranquillamente le acque territoriali di un altro paese a patto che si limiti al transito, si renda visibile emergendo in superficie e battendo la propria bandiera, e rispetti la legislazione dello Stato costiero.
C) Le acque contigue, definite entro un massimo di 24 miglia nautiche, o quasi 50 chilometri, dalla linea di base, permettono allo Stato costiero di perseguire crimini commessi sul proprio territorio e di prevenire violazioni in materia doganale, fiscale, sanitaria e di immigrazione.
D) La ZEE, che ogni Stato può a propria discrezione attribuirsi, si estende al massimo fino a 200 miglia nautiche dalla linea di base, o 400 chilometri, e garantisce allo Stato costiero il diritto allo sfruttamento esclusivo delle risorse viventi e non sul fondale, sotto di esso e nella colonna d’acqua che lo sovrasta.
Vista la categorizzazione, è facile capire come la Cina potrebbe arrogarsi il diritto di esercitare, in acque internazionali, la stessa sovranità che avrebbe sulle proprie acque interne.
Sarebbe però un errore ritenere che la Cina sia l’unico attore a reclamare pezzi di mar Cinese Meridionale: quasi tutti gli Stati costieri, infatti, hanno ZEE confliggenti e hanno cercato di rafforzare le proprie pretese occupando e costruendo infrastrutture nelle vicine isole Paracelso e Spratly, sebbene Pechino si sia rivelata la più efficiente nel farlo.
In fondo, l’area fa gola per 3 motivi: le sue risorse ittiche, quelle energetiche, e la posizione strategica per il controllo del traffico mercantile marittimo da e verso l’Asia. Le Spratly, e la barriera corallina che le forma, garantiscono fra il 10% e il 15% del pesce pescato mondiale, e di cui la Cina sola rappresenta la metà del tonnellaggio. Per quanto riguarda l’energia, sul fondale marino sono numerosi i depositi di petrolio sfruttabili, e si stimano ingenti quantità di idrato di metano, gas cristallizzato la cui combustione rilascerebbe solo la metà dell’anidride carbonica rispetto al carbone e che potrebbe alimentare l’intera industria cinese per quasi 100 anni. Non stupisce quindi che la Cina, intenzionata a raggiungere l’autosufficienza energetica, abbia nel tempo cercato di occupare le Spratly e le Paracelso per ottenere un controllo capillare ed efficiente delle acque, anche ricorrendo alla costruzione di isole artificiali, specialmente a decorrere dal 2015, anno in cui Pechino ha visto decadere la legittimità legale alle sue pretese sull’area.
A causa dell’atteggiamento più assertivo cinese, infatti, le Filippine hanno portato la questione alla Corte Permanente d’Arbitrato nel 2013, che ha prodotto un arbitrato nel 2016. In questo, la Cina aveva dichiarato che non si sarebbe sottoposta all’arbitrato e non lo avrebbe rispettato, ma avrebbe mandato comunque per iscritto le proprie posizioni. Vietnam e Malesia si erano considerati parti interessate come osservatori. Una premessa che va fatta è che le Filippine non hanno chiesto alla Corte di esprimersi sulla sovranità sulle isole Spratly, dal momento che la CPA non avrebbe avuto l’autorità per deciderlo, ma sullo status giuridico delle stesse, ovvero se dovevano essere definite “isole” oppure “scogli”. Secondo l’UNCLOS, infatti, un’isola dà diritto alla creazione di una linea di base (e conseguente ZEE), mentre uno scoglio al massimo garantisce un’estensione delle acque territoriali se questo si trova già all’interno di acque territoriali chiaramente stabilite. Dal momento che le rivendicazioni cinesi si basavano sull’appartenenza storica dell’arcipelago alla Cina, in caso di esito favorevole alle Filippine da parte della CPA si andava, di fatto, a considerare l’attività di Pechino nell’area come illegittima.
Il criterio di distinzione fra isola e scoglio è dato dall’abitabilità dell’isola a condizioni naturali: se, allo stato naturale, il rilievo permette una vita e un’attività economica continuativa, allora è da considerarsi un’isola, al contrario, invece, uno scoglio non lo permette. La CPA ha preso in considerazione diverse isole dell’arcipelago e ha stabilito che nessuna di queste avrebbe permesso la sopravvivenza di una comunità stabile. Unico caso limite era Itu Aba, l’isola più grande, dove è stato però osservato che non ci sarebbe stata sufficiente acqua potabile senza l’impianto di desalinizzazione lì attivo, pertanto anche questa risultava essere uno scoglio. La Corte ha inoltre osservato che la costruzione di isole artificiali nell’area ha reso molto più difficile l’attività di stima della vivibilità dell’arcipelago allo stato naturale, e che le giustificazioni avanzate dalla Cina per reclamare il suo possesso, cioè che storicamente i pescatori cinesi lo hanno sempre utilizzato per il proprio sostentamento, non erano valide in quanto in contrasto con quanto stabilito dall’UNCLOS.
Nonostante ciò, Pechino ha continuato imperterrita la sua creazione di basi militari nell’area e più volte la sua guardia costiera ha minacciato i pescherecci di altre nazioni intimando loro di allontanarsi. Purtroppo, ancora una volta, non ci resta che assistere inermi al paradosso del Diritto Internazionale: regole formalmente condivise e accettate da tutti, che devono però sottostare a un altro principio, la legge del più forte.